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Cecioni Anna
Nonna, funzionario statale in pensione, decide di dedicarsi finalmente a quella che da sempre è stata la sua passione: scrivere! Per divertimento, per farsi ascoltare, per dare voce alle proprie fantasie e ai propri sogni, accantonati ma mai lasciati morire. Ha pubblicato alcuni libri senza scalare le vette delle classifiche di vendita e partecipato ad alcuni concorsi con buoni risultati.
Nencia da Barberino 1950




Si chiamava Nencia ed era nata a Montecarelli, una frazione di Barberino di Mugello: venti case attorcigliate su un cocuzzolo con i campi adagiati sul saliscendi delle colline e la chiesa in pietra con il campanile a punta.
Nencia era una donna particolare, non bella, ma nemmeno brutta; alta, molto alta, più di tutte le donne che conosceva e anche di qualche uomo. Aveva i piedi così grandi che non era mai riuscita a trovare scarpe femminili che le andassero bene, e perciò si era rassegnata a vivere con i mocassini, anche se moriva dalla voglia di un paio di sandali tacco 12. Amata e protetta in modo soffocante da genitori molto anziani, a scuola era andata poco, solo nei giorni in cui non pioveva, non nevicava e non tirava vento, sempre che non ci fossero in giro epidemie di morbillo o d’influenza. Malgrado quella sfilza di assenze, Nencia aveva imparato a leggere, a scrivere e a far di conto, anche se poi, da adulta, non avrebbe fatto un uso assiduo di quel bagaglio culturale.
Suo padre invece, che di nome faceva Dante, a scuola non era mai andato: destino comune per quei tempi, si potrebbe dire. Ma se i coetanei non ne avevano sofferto, in lui era rimasto il desiderio inappagato di imparare a muoversi bene tra le parole.
Per tutta l’esistenza aveva lavorato sodo ed era riuscito a raggranellare un po’ di soldi per la tranquillità della famiglia ma, quando la sera tornava a casa, ancora sporco di terra, radunava moglie e figlia e si metteva a declamare poesie.
Con il tempo le due donne avevano sviluppato una tecnica perfetta per fingere di starlo ad ascoltare mentre pensavano ai fatti propri.
Quel mancato poeta era morto abbastanza presto: Nencia aveva appena nove anni, anche se sua madre era ben oltre la cinquantina. La vedovanza aveva spinto la donna a rinchiudersi dentro le mura di casa.
Quando la figlia raggiunse l’età dei primi batticuori avrebbe voluto seguire le amiche che andavano a ballare, scambiare sguardi e promesse con i giovanotti del paese, ma si rassegnò alla volontà della mamma, adattandosi, senza protestare, a quella vita noiosa. Gli unici eventi che spezzavano il ritmo di giornate tutte uguali erano rappresentati dalle funzioni religiose e dagli incontri quindicinali con i braccianti che coltivavano le loro terre. I giorni del rendiconto, li definiva sua madre, con espressione quasi biblica e rappresentavano un momento assai discordante per lo stato d’animo delle due donne: mentre la madre si armava di rigore e puntigliosità, la figlia si apprestava a divertirsi moltissimo.
Proprio in occasione di uno di quei raduni, Nencia rimase trasognata a fissare la porta dalla quale il gruppo dei contadini era appena uscito. La vedova se ne accorse subito e fu assalita dal terrore che Nencia potesse essersi innamorata di qualcuno di quei bifolchi, di un livello tanto palesemente inferiore al loro.
- Cosa c’è, tesoro? A cosa stai pensando?
- A…niente, mamma.
- Non dire così! Confidati con me: aprimi il tuo cuore.
- È solo una stupidaggine!
- Dimmela, ti prego. Giudicherò io se è una stupidaggine.
- Va bene mamma, come vuoi. E’ stato il babbo a scegliere il mio nome, non è vero?
La donna rimase spiazzata da quella domanda che non si sarebbe aspettata.
- Sì.
- E perché l’ha fatto?
- Cosa c’è che non va nel tuo nome?
- Non lo so, ma tutti ridono di me, come se mi prendessero in giro!
La vedova, di carattere impetuoso, si alterò subito.
- Perché sono degli ignorantoni, ecco perché! Il tuo è un nome nobile, letterario.
- In quale libro si parla di una Nencia?- insistette la ragazzina.
- Ecco…io non lo so. Ma il babbo lo sapeva e tu devi andare fiera di chiamarti così!
- Fiera potrei anche esserlo, - convenne lei - però mi piacerebbe sapere da dove il babbo ha ricavato l’idea, giusto per rispondere a tono alle ragazze del calzolaio.
- E perché proprio a loro?
- Perché, per sfottermi, mi chiamano Mencia. Peccato che il segreto sia finito nella tomba con il babbo.
Così, fra un lavoro all’uncinetto e un ricamo a ‘punto in croce’, gli anni passarono e Nencia divenne una giovane donna e poi una zitella, mentre sua madre avanzava dalla maturità alla vecchiaia più cadente. Quando morì, la figlia pianse qualche lacrima, ma la cosa che più la faceva stare male era il pensiero di tutta quella libertà della quale non sapeva cosa fare. Aveva 40 anni e l’esperienza di una bambina.
Da qualche tempo in paese era arrivato un bracciante ‘straniero’: si chiamava Lorenzo Medici e veniva da Capolona, in provincia d’Arezzo. Era un uomo un po’ più maturo di lei, con la vigoria di un toro compressa in 167 centimetri di altezza. Aveva la faccia larga e il collo robusto; la camicia, sempre sbottonata, lasciava intravedere poderosi muscoli pettorali. Emanava un forte odore sul quale Nencia aveva meditato a lungo.
- Non è sudore, sarebbe più aspro. Non è saponetta, sarebbe più fresca. Non è acqua di colonia sarebbe più dolce. Ma cos’è?
I dubbi glieli tolse la vecchia Maria, una novantenne che era stata amica di sua madre.
- E’ odore di maschio, bella mia. E sarebbe ora che lo annusassi un po’.
Quasi nello stesso momento, anche Lorenzo stava trastullandosi con un pensiero che da alcuni giorni gli frullava per la testa.
- Donne ne ho avute tante, di ogni tipo, ma una come la Nencia non l’ho avuta mai: una giuggiola matura. E poi è così alta che la sua passera sarebbe proprio a portata della mia bocca! Me la vedo: pelosa, intricata, chiusa. Mia! Sì, deve essere mia!
Due giorni dopo il nuovo bracciante chiese un incontro al di fuori della scadenza quindicinale, necessario per risolvere i gravi problemi insorti nella coltivazione delle patate. Nencia acconsentì a incontrarlo da solo.
Per l’occasione, indossò una vestina celeste con il colletto rotondo, scelta fra gli abiti che si era cucita da sola, mentre lui mise una camicia pulita che, per essere più elegante, abbottonò fino al collo.
Quando furono l’uno di fronte all’altra, l’imbarazzo seccò loro la lingua.
A lei il cuore batteva all’impazzata, anche a causa delle mutandine che sentiva stranamente umide. Lorenzo invece, alle prese con una sconveniente erezione, per coprirsi rigirava il berretto fra le mani. Anni dopo nessuno dei due ricordava chi fosse stato il primo a prendere l’iniziativa, rammentavano solo di essersi ritrovati l’uno nelle braccia dell’altra. Si abbandonarono ai baci con una tale passione da stupire perfino se stessi.
- Lorenzo! - miagolò lei con la vocina sommessa.
- Bella! - tuonò lui col possente timbro baritonale.
Quello stesso giorno decisero di sposarsi, infischiandosene delle chiacchiere dei paesani che, senza mezzi termini, definirono lui un cacciatore di dote e lei una zitella rimbambita.
Don Giustino, il vecchio prete della chiesa del Santo Michele Arcangelo, li convocò in Sagrestia: voleva riportare un briciolo di ragione nella testa di quelle due avventate pecorelle, ma bastarono pochi minuti per fargli capire che niente avrebbe potuto dissuadere i due innamorati dall’unirsi per sempre.
- E poi perché? - si chiedeva - Non ho visto mai nessuno più innamorato di questi due anziani.
Così, presa confidenza con l’uno e rinnovato l’affiatamento con l’altra, cominciò a scherzare.
- Oh, mia Nencia da Barberino, tu non avresti mai potuto essere altro che di un Lorenzo de’ Medici, il Magnifico! Come vedete il destino si è compiuto!
Non appena uscirono, confusi e intimiditi da quel discorso, i due fidanzati si guardarono negli occhi.
- Magnifico a me? Ma che m’ha preso pe’ i’ culo quel prete?- rumoreggiò l’uomo.
- Non credo: è una persona tanto a modo! - sussurrò lei, facendosi il segno della croce - Forse sta male, povero vecchio! Mi ha chiamata Nencia da Barberino. A me? O non lo sa che sono di Montecarelli?
I due si sposarono alla fine del tempo minimo richiesto per le pubblicazioni. La cerimonia, semplicissima, fu seguita dagli occhi curiosi di tutto il paese al completo. Non fu fatta alcuna festa, né si pensò al viaggio di nozze, i neo sposi tornarono semplicemente a casa e diedero inizio alla vita in comune.
Gli anni passarono veloci e i capelli dei due coniugi si fecero bianchi.
In tutto quel periodo non festeggiarono mai un compleanno o un anniversario perché, di comune accordo, ritenevano che il denaro non dovesse essere speso con leggerezza. Tuttavia, quando cominciò ad avvicinarsi la ricorrenza delle nozze d’argento, Lorenzo si fece inquieto: voleva offrire qualcosa alla sua Nencia, qualcosa che testimoniasse quanto era stato felice di averla incontrata.
Pensa e ripensa, una sera tornò a casa tutto eccitato.
- Ho una sorpresa per te, bella - urlò stringendo una busta fra le mani callose.
- Cos’è, Lorenzo? Non farmi stare in ansia - miagolò lei.
- Guarda!
E le porse due tagliandi color seppia con un arzigogolato titolo in gotico dorato.
- Hotel Danieli - compitò Nencia nella sua stentata lettura - Cosa vuol dire, Lorenzo?
- E’ il viaggio di nozze, bella mia, quello che non abbiamo mai fatto: quattro giorni a Venezia, nell’albergo più elegante di tutti.
- Oh, Lorenzo!
Era sopraffatta dall’enormità di quella sorpresa.
La loro vita, tanto tranquilla, ebbe un improvviso scossone.
Nencia comprò dalla merciaia due scampoli di cotone colorato, cominciando a cucire, in lotta con il tempo, due vestine nuove per non sfigurare tra persone tanto eleganti. Per la verità si fece anche tentare da una camicia da notte nera che scopriva spalle e decolté, mentre in basso scendeva a sfiorare il pavimento: non sapeva se avrebbe mai avuto il coraggio di indossarla davanti a suo marito, ma non era riuscita a vincere la tentazione di possederla. Lorenzo fece una corsa a Barberino dove acquistò una valigia molto costosa in pelle marrone e un paio di sandali chiari con il tacco che, per fortuna, erano del numero giusto per la Nencia.
Il giorno della partenza arrivò.
La sera precedente, per non rischiare di perdere la corriera delle sei, Lorenzo aveva puntato la sveglia di camera sulle quattro e quarantacinque, mentre sua moglie, ancora più prudente, aveva fissato il cipollone di cucina sulle quattro e trenta. Tutto era pronto: la valigia, gli abiti, il fagotto dei panini.
All’alba, frastornati dal concertino delle due potenti suonerie, eccitati dall’avventura che all’improvviso sembrava così azzardata, marito e moglie erano nervosissimi. Quando salirono in autobus, sistemarono con cura la valigia nuova e si abbandonarono stremati sui seggiolini. La giornata si annunciava serena.
Arrivarono a Barberino alle 7 precise.
L’uomo scese per primo e tirò giù la moglie. Nencia era pallidissima.
- Bella, non ti senti bene?- urlò, richiamando l’attenzione degli avventori del Bar dello Sport che stavano sorseggiando il primo caffè della giornata. Qualcuno rise, forse non condivideva il giudizio sulle attrattive fisiche della spilungona.
- Ho la nausea - bisbigliò lei.
- Ora ti passa! Siediti qui, bella – vociò guidandola verso una panchina all’ombra  di un oleandro - Tanto abbiamo un’ora prima che arrivi la coincidenza per Firenze.
La Nencia stramazzò sul sedile cercando di non dare nell’occhio.
Lui intanto studiava le nuvole per indovinare se avrebbero portato la pioggia, criticava i giardinieri del comune che non avevano potato le siepi come avrebbero dovuto ed esaminava con attenzione il tabellone delle partenze.
Alla fine si avvicinò alla moglie.
- Bella, cosa hai messo nei panini?- s’informò fissando la capace borsa sulla panchina.
- Lorenzo, non avrai già fame? - mugolò lei inorridita.
- Ho fame certo! Perché tu no?
Nencia non rispose a una domanda così stupida.
- Frittata di patate o salame – mormorò, prima di precipitarsi dietro il cespuglio d’alloro dove, educatamente, vomitò lontana da occhi curiosi.
Quando tornò accanto al marito, lo trovò intento a divorare la pagnotta con la frittata.
- Ne vuoi? - chiese lui per essere gentile.
- No - esalò lei con una smorfia di disgusto.
Il tratto fino a Firenze fu invece meno problematico: l’autostrada del Sole, sebbene ingorgata di camion, era priva di quelle strette curve a gomito che avevano fatto tanto soffrire la povera donna. Arrivarono nel capoluogo toscano quando il grande orologio di Piazza Stazione segnava le 9 e 29.
Appena scesi li accolse un universo multicolore di passanti che Nencia avrebbe voluto osservare con calma, ma il marito la trascinò via.
- Andiamo, bella! Il treno non aspetta i nostri comodi.
Trovarono il binario, il vagone, il posto giusto e si sedettero: la donna accanto al finestrino e Lorenzo di fianco a lei. Mentre lui accomodava con ogni cura la valigia nuova, Nencia lo tirò per la giacca.
- Ora mangerei il mio panino - mormorò muovendo appena le labbra, per non farsi sentire dagli altri passeggeri.
- E’ rimasto soltanto un pezzettino di quello con il salame - ululò lui contrito.
- Come? Ti sei mangiato anche i panini miei?!?
Si voltò immusonita a guardare fuori e non si mosse per tutto il viaggio.
Arrivarono a Venezia alle 14 e 35. A quel punto Nencia volle cambiare le scarpe.
- Lorenzo, porgimi i sandali.
- Qui? Non potresti cambiarti in albergo?
- No. Voglio arrivare con le scarpe da donna.
Lui, brontolando, aprì la valigia, cercò la busta di velluto rosso, sorresse la moglie mentre faceva il cambio e rimise a posto i vecchi mocassini. Nencia s’incamminò barcollando sui tacchi alti con i quali non aveva dimestichezza.
- Sei cresciuta troppo! - borbottava lui contrariato - Io al confronto sembro un nano.
Seguendo le informazioni ricevute da una gentile signora tedesca, riuscirono ad arrivare alla fermata del vaporetto, dove salirono, insieme a frotte di turisti.
Nencia fissava a bocca aperta quei canali, pieni di strane barche nere. I palazzi lungo le rive erano traforati come trine.
- Oh! – disse la donna.
Arrivati alla fermata di San Zaccaria, scesero proprio davanti all’albergo Danieli.
Nencia aprì la bocca ed esalò un altro “Oh”!
Una volta entrati, entrambi persero la parola: nessuno dei due aveva mai nemmeno sospettato che potesse esistere un luogo simile.
Un’enorme scalinata in fondo a un lucidissimo pavimento di marmo a scacchi bianchi e nocciola s’inerpicava per almeno tre piani. Le rampe facevano capolino da arcate cariche di stucchi. Gigantesche paniere di rose color crema saturavano l’ambiente di un profumo dolciastro. Un banco intarsiato occupava il centro del salone dove un uomo in divisa li stava guardando curioso. Chiamarlo uomo però era non rendergli giustizia, sembrava un generale, anzi meglio un principe con le mostrine e gli alamari d’oro.
- Prego, signori.
Il principe aveva parlato.
Lorenzo si fece coraggiosamente avanti.
- Abbiamo una prenotazione.
- Loro sono i signori?
- Medici. Lorenzo e Nencia.
Il principe sorrise.
- Da Barberino?
- Beh! In effetti da Montecarelli, che è molto vicino a Barberino.
Il principe sorrise di nuovo.
- Ardo d’amore, e conviemme cantare per una dama che me strugge el cuore… come ha detto il vostro illustre conterraneo.
I due lo guardarono sbigottiti.
- La vostra camera, signori Medici, è la numero 216 e vi sta attendendo. Ragazzo! - si rivolse a un principino in un’attillata divisa rossa - accompagna i signori.
Poi si girò di nuovo verso i due coniugi.
- Vi auguro un meraviglioso soggiorno. E prometto di ricercare la vostra poesia.Sempre più confusi marito e moglie seguirono il principino che aprì loro la porta della camera. Era grandissima, divisa in due parti: nella prima c’erano poltrone di legno dorato, un tavolino tondo e tanti fiori, nella seconda un enorme letto a baldacchino ricoperto di una stoffa azzurra cosparsa di fiori gialli.
- Oh!
Nencia aveva ritrovato di colpo la parola.
I due per quel giorno non uscirono più. Ordinarono la cena per telefono e rimasero felici in quel mondo fatato. Va anche detto che la famosa camicia da notte nera restituì a Lorenzo tutto l’ardore della sua ormai lontana gioventù. Al terzo assalto amoroso ben riuscito, Nencia proruppe in un sincero “Oh!” di ammirazione.
I due giorni successivi volarono, regalando ai coniugi tante di quelle emozioni che sarebbero bastate per una vita intera. Ammirarono il tramonto davanti alla chiesa dei Frari, scoprirono i prezzi proibitivi dei negozi, s’incantarono sui colori magici dei vetri di Murano, sfamarono i piccioni di piazza San Marco, provarono l’emozione della lunga barca nera con i cuscini di velluto rosso.
Nencia ebbe anche una percezione in più rispetto al marito: il dolore lancinante dei piedi che, costretti in calzature tanto scomode, comunicarono chiaramente tutto il proprio malcontento. Lei però non cedette nemmeno di fronte a due vesciche grosse come una noce, spuntate su entrambi i talloni!
Quando, la mattina del quarto giorno, furono pronti per ripartire, salutarono il principe-portiere.
- Arrivederci e grazie - berciò Lorenzo - Il nostro è stato davvero un meraviglioso soggiorno!
- Ne sono veramente felice. Se permettete, ho portato un regalino alla signora - e porse a Nencia un foglio di carta intestata dell’Albergo.
Curiosa lei lo aprì e lesse, in alto, il titolo che precedeva due lunghe file di versi.
LA NENCIA DA BARBERINO di LORENZO DE’ MEDICI
detto il Magnifico.
- Oh!- mormorò emozionata.
- Ma è una poesia! – esclamò Lorenzo.
- Sì e parla di voi.
- Anche di Barberino parla, guarda - continuò Lorenzo a voce sempre più alta - Leggi qua:
più bel mercato ch’entro ‘l mondo sia
è Barberin, dov’è la Nencia mia.
- Oh! - ripeté sua moglie.
- Buon ritorno a casa signori Medici - li salutò sorridendo il principe in incognito.
La coppia partì facendo ritorno alla vita di sempre.
Nei giorni che seguirono la donna non mutò la sua aria trasognata, che il marito interpretò come sfinimento.
- Scusa, bella. Ho sbagliato regalo per le nozze d’argento: avresti preferito la macchina elettrica per fare la pasta, vero? Sono stato uno stupido - disse contrito.
Nencia spalancò gli occhi.
- Oh, Lorenzo! Come posso farti capire quanto sono contenta? Ho visto tanto e ho tanto da ricordare. Grazie amore.
- Davvero sei contenta?
- Sì, sì, però ti chiedo un altro regalo. Fai incorniciare la poesia del principe: voglio una cornice gialla e un bordo azzurrino, come la coperta della nostra camera all’Albergo.
Quando quel grande quadro colorato fu pronto, finì in salotto a occupare il posto d’onore fra la pendola della mamma e i piatti in peltro del nonno.
Pochi giorni dopo quella gran pettegola della sora Donatella fece alla Nencia una visita di cortesia: voleva sfotterla un po’. La spilungona la condusse subito davanti al grande quadro del salotto e sorridendo le disse:
- Ecco!
- Come ecco? Cosa sarebbe quell’aggeggio?
- Non lo vedi? E’ una poesia.
- E di chi?
- C’è scritto sopra.
- La Nencia da Barberino di Lorenzo Medici - compitò faticosamente la donna. – Ma tu non sei di Barberino.
- Beh! Montecarelli fa parte del comune di Barberino.
- Questo è vero. E cosa ha scritto Lorenzo Medici?
- Leggi, leggi da te.
- Leggimelo tu.
- Tutta è troppo lunga. Ti leggerò solo il punto che mi piace di più.
Staccò il quadro dal muro, inforcò gli occhiali e cominciò con voce lenta e cantilenante:
più bel mercato ch’entro ‘l mondo sia
è Barberin, dov’è la Nencia mia.
Non vidi mai fanciulla tanto onesta,
né tanto saviamente rilevata:
non vidi mai la più leggiadra testa,
né sì lucente, né sì ben quadrata;
con quelle ciglia che pare una festa,
quand’ella l’alza, che d’ ella me guata;
entro quel mezzo è ‘l naso tanto bello,
che par proprio bucato col succhiello.
Le labbra rosse paion di corallo,
ed avvi dentro due filar’ di denti
che son più bianchi di quei del cavallo.
A questo punto la Nencia si tolse gli occhiali e sorrise alla sora Donatella, rimasta senza parole. La donna, dopo solo dieci minuti, se ne tornò a casa propria immusonita. Rimase pensierosa per tutto il pomeriggio.
Quando la sera suo marito rincasò, dopo aver fatto una fermatina supplementare dal vinaio, lei gli sbatté davanti il piatto della minestra senza una parola. L’uomo che, sebbene brillo, conosceva  bene la moglie, chiese premuroso:
- Ci hai la luna storta stasera, Donatellina?
- Stai zitto e mangia.
- Perché mi tratti così? Cos’ho fatto di male?
- Tu…- cominciò la donna puntandogli contro un dito accusatore - non hai mai scritto una poesia per me. Eppure io sono meglio della Nencia. Sono onesta anch’io e le mie ciglia sono più lunghe. E ho anche le labbra più rosse!
- Eh? – chiese l’uomo, temendo che il vino gli stesse offuscando la mente più del dovuto.
- Sì, proprio così. Il marito della Nencia è molto meglio di te.
- In che senso?
- Lorenzo è un poeta e ama sua moglie!
E scappò a piangere in camera.
- Lorenzo un poeta? Questa poi! Chi l’avrebbe mai detto? - si chiese sbalordito l’uomo, una volta rimasto solo - Voglio raccontarlo agli amici: scommetto che non lo sanno nemmeno loro.
Fu da quel giorno che gli abitanti di Montecarelli smisero di colpo di ridere alle spalle della Nencia e di suo marito e li circondarono di un nuovo, inusuale senso di rispetto.
Chissà se i due coniugi, interessati soltanto ai fatti propri, se ne sono mai accorti?
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