Cremaschi Barbara
Sono nata a Savona il 12/04/1963, ma risiedo in Veneto sin da piccola. Da quando ho imparato a tenere in mano una penna, ho desiderato diventare una scrittrice. Per gli strani casi della vita, mi sono invece laureata in Chimica Industriale... Sono autrice di vari racconti, alcuni dei quali hanno ricevuto riconoscimenti, sotto uno pseudonimo che raccoglie un collettivo di scrittori, ho pubblicato due romanzi e una raccolta di racconti e... non smetto di sentirmi un chimico per sbaglio.
Santa Marta
Vi vorrei raccontare di una parte di Ca’ Foscari, un frammento, nella prestigiosa Università Veneziana.
L’aspetto che aveva quando l’ho conosciuta è profondamente cambiato. Il quartiere di veneziani veraci ha inglobato un po’ alla volta una sorta di cittadella universitaria. Pur mantenendo la caratteristica di zona popolare con case dipinte a colori vivaci, lenzuola stese ad asciugare al sole, gerani sui balconi, l’assenza del rumore delle automobili che lascia spazio ai passi sul selciato e al vociare della gente,… ha guadagnato un’atmosfera cosmopolita, che non aveva quando lo frequentavo negli anni ottanta.
Ca’ Foscari era stata fondata come “Scuola Superiore di Commercio” dove, per rispondere alle esigenze di formazione professionale della città, si insegnavano economia e lingue straniere. Più tardi era stata riconosciuta come Università, e man mano erano state aggiunte altre Facoltà: Lingue e Letterature Moderne, e poi Straniere, e ancora Orientali e Lettere e Filosofia. Non poteva però essere ignorato l’impulso dato dal Petrolchimico di Porto Marghera allo sviluppo della città e della vicina terraferma. Così nacque anche la Facoltà di Chimica Industriale.
Lo splendido palazzo gotico, che si affaccia sul Canal Grande, è il biglietto da visita dell’Ateneo. Invece, la Facoltà di Chimica Industriale si trovava, quasi per nasconderla, a Santa Marta. Ai margini della città, protesa verso Marghera e Mestre che di Venezia sono le sorellastre. Bastava andare alla Marittima e affacciarsi sul canale della Giudecca per osservare la panoramica del Petrolchimico visto dalla Laguna con i suoi camini, torri di raffreddamento e l’arco Bossi che ancora lo contraddistingue. Lo skyline ora è mutato, molti impianti sono stati abbattuti, però nel passato guardandolo di notte, al buio con le luci di segnalazione accese, sembrava quasi un paesaggio incantato. Per me, che per quasi venti anni ho lavorato lì, un po’ lo è stato, ma questa è un’altra storia. Torniamo a Santa Marta e alla Facoltà di Chimica Industriale. Un nome che porta alla mente tubi, acciaio, liquidi gorgoglianti, fumi e inquinamento. Quel microcosmo tuttavia aveva ben poco di simile a un’asettica catena di produzione. La familiarità tra le persone, gli dava invece una connotazione umana che non credo abbia avuto pari, in tempi relativamente recenti, a Ca’ Foscari.
Non avevo fatto in tempo a godermi la felicità del diploma e a proiettarmi verso gli studi universitari che mia madre si era ammalata. La scelta dell’indirizzo era passata in secondo piano. Persuasa da un professore dell’ITIS che mi esortava a studiare ingegneria o “almeno” chimica industriale, e dalla vicinanza a casa, mi ero orientata verso quest’ultima soluzione. Presi la decisione finale, dato che non amo la folla, all’idea di frequentare un’Università con pochi iscritti, e di non dover sgomitare per trovare un posto in aula, come capitava ad alcuni miei amici. Eravamo infatti solo una trentina di matricole, un numero destinato ad assottigliarsi nel corso degli anni. Le lezioni non erano tenute in anfiteatri ma in classi molto simili a quelle delle superiori.
L’area dell’Università era inserita tra le costruzioni dell’officina del gas, dell’ex cotonificio Veneziano, le case popolari, i Magazzini Generali e la Marittima. Di gente in giro se ne vedeva poca e di giovani ancor meno. Superato il portone che si apriva nel muro di mattoni rossi, si entrava in una cittadella a sé, con un minuscolo giardino prima dell’ingresso alla portineria. Dopo l’androne, si doveva uscire nuovamente e, subito di fronte, si trovava una costruzione a parallelepipedo che nulla aveva dello stile veneziano, il cosiddetto “cubo”. Al piano terra c’erano la biblioteca e gli studi di alcuni professori e altri uffici dovevano essere costruiti al primo piano, accanto ai laboratori. Nel frattempo qualcuno aveva avuto l’idea di piazzare, nello spazio vuoto, un tavolo da pingpong. Strumento indispensabile ad aumentare la concentrazione prima della lezione o per la distensione che la seguiva. A malincuore dovemmo abbandonarlo per lasciare il posto al completamento dei lavori.
Il rapporto tra studenti era quello tipico di una scuola. Una piccola scuola. Almeno di vista ci si conosceva tutti e si guardava ai pochi laureandi come a degli alieni che erano riusciti ad arrivare sulla terra. Li si ascoltava mentre ostentavano sicurezza parlando di questo o quel professore o davano consigli su come prepararsi per i primi esami. Il ritrovo era in una piccola stanza arredata con mobili di risulta, chiamata “nucleo di base”. Le mense studentesche erano troppo lontane per noi, soprattutto quando al pomeriggio dovevamo frequentare i laboratori e il tempo a disposizione non era molto. I pasti si consumavano lì o nella vicina osteria. Il locale vicino all’Università lo chiamavamo “bar da Gino” dal nome del gestore, che non aveva molti anni più di noi. Ricordo il suo sguardo spaesato la prima volta che gli chiesi un tè. Sgranò gli occhi, pensò un attimo, poi si allungò per prendere da uno scaffale in alto, una teiera piena di polvere. La pulì con uno strofinaccio e riuscì anche a recuperare una bustina. Credo sia stato uno dei peggiori tè bevuti nella mia vita, ma già era una grazia che non mi avesse versato un bicchiere di bianco, accompagnandolo con un “Bevi questo che te fa mejo!”. Bisogna dargli atto che, da bravo commerciante, nel tempo si adattò alla nuova clientela allargando l’offerta culinaria, rispetto alla tradizionale “ombra con cicheti”.
Frequentando le lezioni e superando gli esami, anche la nostra sicurezza cresceva. Si lasciava qualcuno per strada e arrivava qualche compagno nuovo da altre università o da qualche altro paese. Erano i primi contatti con studenti stranieri. Si creavano amicizie e confronti, anche se i tempi dell’Erasmus dovevano ancora arrivare.
Il giorno dello scritto di esercitazioni di matematica non mi presentai. Mia madre era morta nella notte. Da quel momento per me fu tutto più difficile, e studiare un peso enorme. Mi trovavo a cercare fuori la serenità che non riuscivo a trovare a casa. Cominciai a vivere le serate tra studenti e spesso cenavo in mensa, ero diventata anch’io un po’ straniera.
Nelle giornate di sole si poteva stare sulle panchine sotto agli alberi di acacia che costeggiavano il prato dietro al cubo. Anni dopo l’erba sparì per far posto alle aule di Scienze Ambientali. A quei tempi, percorrendo il vialetto fino ad arrivare al muro che separava la Facoltà dalla Marittima, c’erano le gabbie per i conigli del custode. Ben presto furono tolte anche quelle, il via vai di studenti diretti alle aule, mal si conciliava a un ambiente agreste. Tuttavia, aveva avuto il pregio di conferire ulteriore singolarità al posto. Al primo piano si trovavano un paio di studi mansardati: la piccionaia, così chiamata per lo spazio angusto sottotetto.
Un pomeriggio ci venne la curiosità di andare a visitare quel grande complesso in mattoni rossi che sorgeva lì vicino. Era abbandonato ma, nessun cartello indicava divieti e non c’erano porte sbarrate, erano altri tempi. Qualcuno scoprì che era stato un cotonificio. Era come fare un salto nel passato, percorrendo quei saloni enormi immaginavo operaie e operai indaffarati alle macchine. Una struttura in disuso come il Molino Stucky, che si trovava dall’altra parte del canale della Giudecca. Ci dicevamo che era un peccato non sfruttarli e ci interrogavamo su cosa sarebbero potuti diventare. Per fortuna non siamo stati i soli ad avere questo pensiero e questi affascinanti esempi di archeologia industriale ora hanno una nuova vita.
Le borse di studio portarono a Santa Marta laureati da altre Università. L’adesivo con il gonfalone in campo bianco e rosso e la scritta “Granducato di Toscana”, rimase per anni incollato all’esterno della porta di un laboratorio, segno tangibile della fuga di cervelli, per il momento, su scala regionale.
Gli studi proseguivano, le amicizie si consolidavano e si cominciava a sognare il lavoro di domani. Occuparsi di ufficio stampa in un’azienda chimica? Fare ricerca in un’industria farmaceutica? Il petrolchimico no, per carità! Che orrore lavorare in quel posto infernale! Non io, no di certo. Continuare con un dottorato? Impossibile, si guadagna troppo poco. Non si può farsi mantenere ancora. Basta studiare. Basta atomi, formule, molecole, leggi fisiche, equazioni matematiche. Basta ore sui libri. Bisogna trovare un lavoro e in fretta. Cominciare a guadagnare e avere finalmente del tempo libero. Iniziavamo le tesi, sperimentali, durata almeno un anno, e ci si disperdeva nei vari laboratori. Ritrovandosi magari per condividere pochi computer tenuti a guisa di reliquie, che si cominciavano a utilizzare per calcoli o per scrivere.
La coscienza ecologista si stava sviluppando e l’attenzione all’ambiente, impensabile negli anni sessanta quando la priorità erano lavoro e progresso economico, cominciava a prendere piede. Il Petrolchimico era ancora un grosso polmone di occupazione ma, accanto alle produzioni industriali, si stavano sviluppando professioni dedicate alla salvaguardia dall’inquinamento. Gli studi sul tema dovevano necessariamente essere approfonditi, la facoltà di Scienze Ambientali cominciò la sua storia, proprio mentre io stavo finendo il mio percorso universitario.
L’anno di lavoro per la tesi fu il coronamento dell’esperienza di crescita professionale, e umana allo stesso tempo. Tra poco mi sarei dovuta mettere in gioco totalmente, non c’erano più scuole a fare da cuscinetto con il mondo e mi sentivo pronta a uscire.
Arrivò anche il giorno della Laurea: 28 Febbraio 1990, quasi ad inaugurare il nuovo decennio, che finì in maniera splendida con la nascita di mio figlio. Leggevo terrorizzata il papiro appeso accanto al portone d’ingresso con il timore che lo vedesse mio padre. Mi rassicurarono dicendomi che lo aveva già visto e lo aveva trovato divertente. Eliminata anche l’ultima preoccupazione, riuscii a rilassarmi. Nelle foto sono raggiante. Era finita! Poi una supplenza, e tanti curricula preparati con la macchina da scrivere e i bolli da attaccare alle buste. Il caricamento on-line del curriculum in formato europeo era ancora lontano. Ne inviai solo un paio ad aziende del Petrolchimico e di malavoglia, ma furono le prime a rispondere. Non potevo rinunciare a un lavoro, pensavo “Intanto comincio qui, nel frattempo cerco qualcos’altro”.
Di anni ne sono passati tanti, prima che cambiassi professione. Nel nuovo ruolo avevo bisogno di approfondire temi che non conoscevo. Decisi di frequentare un corso singolo a Scienze Ambientali. Entrai così per la prima volta nel Campus Scientifico di via Torino. Lo trovai molto bello, moderno, quasi avveniristico. Si vedono circolare, tra corridoi, aule, bar e cortili, tanti giovani, la vera anima di questa struttura. Impiegai cinque minuti buoni a trovare la classe. Quando entrai, i ragazzi si alzarono in piedi. Salutai e presi posto in primo banco, voltando loro le spalle e mordendomi la lingua per non ridere. Meglio non sentire commenti. Devo però ammettere che mi era venuta la tentazione di improvvisare un inizio di lezione, ma non potevo rischiare di essere cacciata da un’aula alla mia età. Per l’esame scritto tornai un’ultima volta a Santa Marta, erano i giorni del trasloco della Facoltà nella nuova sede e pochi uffici erano ancora aperti in attesa di portar via le ultime attrezzature. Altri studenti affollavano quegli edifici che, un po’, erano stati miei. Il quartiere era notevolmente cambiato. Mi sembrava più “nuovo” di quando la frequentavo: intonaci, rinfrescati, locali con un aspetto più moderno, anche se meno caratteristico, e tanti giovani. Pulsava di vita.
Entrai timidamente nel laboratorio, ormai abbandonato, dove avevo svolto la tesi. Guardai l’angolo con la scrivania che era stata mia, l’armadio di sicurezza per i reagenti che, allora, era una novità. I banconi e le cappe aspiranti sembravano ottocenteschi. Dopo un ultimo sguardo, uscii senza voltarmi. Temevo che, altrimenti, sarei stata catturata dalla nostalgia.
Gli anni sono passati, le industrie continuano a essere in crisi così come l’occupazione. Una conversione “verde” fatica a decollare. La sensibilità ecologista non ha avuto lo sviluppo che si prospettava. Comprensibile quando la priorità per le persone è trovare un impiego o arrivare alla fine del mese. In Italia non si è ancora riusciti a fare il passo che permette di collegare ambiente a lavoro, facendo sì che il rispetto dell’habitat diventi una consuetudine.
Se ripenso agli anni passati a Santa Marta, alle mie vicende personali intrecciate agli avvenimenti che hanno caratterizzato quel periodo, ho la sensazione di essere stata la spettatrice della fine di un’epoca. Ci saranno altri nomi e altre storie da raccontare, ma di certo nucleo di base, conigliera, cubo, Granducato di Toscana, piccionaia, non saranno tra le parole usate per narrarle.