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Da Pra Giusi
Sposata, ho due figli, laureata in Medicina e Chirurgia a Padova, specializzata in Igiene e Medicina preventiva. Lavoro come dirigente medico in Cadore, presso il Distretto Socio Sanitario. Leggo e scrivo romanzi e racconti per passione.
Devo far presto




“Devo far presto!” si ripeteva Gerardo in mente, abbottonandosi la camicia e maledicendo la sua scarsa destrezza. “Non avresti dovuto bere tanto”, gli ripetè ancora una volta la sua coscienza, ancora una volta con la voce di sua madre. “Né finire a letto con la tua insegnante di teatro”, gli disse la parte migliore di lui, che a volte suonava come quella peggiore, e viceversa. “Ma ti è piaciuto”, conclusero insieme.
Finito di chiudersi i bottoni, prese il primo giaccone che aveva sottomano e si lanciò nel freddo, correndo a colpo sicuro verso la stazione del treno. L’aria fredda gli restituiva quel po’ di lucidità che non voleva, sembrava che tutti lo guardassero e che proprio su quei vestiti fosse scritto in grassetto il nome di lei, che poi era il nome di tutto quello che gli poteva accadere in quel giorno, ogni sguardo che incrociava lo spogliava, ogni odore che sentiva gli dava solo l’illusione di togliersi il profumo di lei di dosso. “Devo farmi un’altra doccia” pensava- “si, ma con lei” gli sussurrava la sua parte peggiore. Nel tentativo di controllarsi accese un po’ di musica. Quando partì: “Io vorrei, non vorrei ma se vuoi”, Lucio Battisti, un grande, Gerardo capì che lei gli era entrata dentro. “Tecnicamente, è successo l’inverso”, gli fece quella gran rompiscatole della sua coscienza. Maya!!!-pensò- proprio Maya si doveva chiamare? Maya. L’illusione, o la realtà, secondo i poeti romantici. Certo, giacchè faceva teatro, il nome le calzava a pennello. Ripensò al suo tirocinio londinese, dove gli spiegarono che il verbo to act poteva voler dire sia “agire” che “recitare” e solo chi capiva che la distinzione in realtà non c’era, era in grado di calcare le scene con sicurezza.
Maya sentiva il bisogno di uscire. In realtà ogni giorno percorreva lo stesso sentiero, proprio come l’anziano del paese, morto all'età di 103 anni, che migliaia di volte le aveva sorriso con la bocca sdentata, camminando ad occhi quasi chiusi, con il bastone della vecchiaia, sempre sugli stessi sassi, fino a contarli. Solo lei che l’aveva visto e si era rigirata, ogni volta, ad osservarlo, poteva non solo crederci, ma convincersi di aver scoperto l'elisir dell'eterna giovinezza. Quel sentiero partiva dal parco giochi e dopo una prima salita che scoraggiava i turisti si faceva falsamente pianeggiante, sembrava insediarsi nel bosco cupo, dove non sapevi se aver paura dei versi degli animali o se cercarli, ma facendo ancora due passi si apriva il primo scorcio: tutto il paese, ma non solo si metteva in posa per la fotografia.  In quel punto preciso Maya prendeva ogni volta il coraggio per andare avanti. Certo, se l’avessero saputo quelli della scuola di teatro, che di lei vedevano solo la parte professionale, ne avrebbero riso, quello che loro non sapevano, però, era che traesse forza dal dolore come dalla gioia, e che questo facesse di lei una donna completa. Lei stessa non lo sapeva, almeno non consciamente, ma aveva scelto il teatro per sentire e provare a controllare tutte le sensazioni, in modo da diventare saggia e carica d’anni come quel vecchietto. C’era qualcosa in lei che Gerardo quotidianamente avrebbe voluto scoprire, più passava il tempo e meno sentiva di conoscerla. La osservava recitare e non recitare e non vedeva alcuna differenza.  “Chissà se recita anche a letto” –si chiedeva. Il suo modo di vestire, il suo corpo, il volto, tutto sembrava semplice, apparentemente senza inganno, ma anche i capelli ondulati sulle spalle, gli occhi da tigre, le curve femminili non esagerate, che i suoi vestiti evidenziavano con subdola provocazione. Pur non indossando mai tacchi alti, i suoi piedi e le caviglie non mancavano di essere seducenti con quel leggero smalto sulle unghie, la cavigliera, l’infradito. Preferiva senza dubbio jeans, ma se l’umore era carico osava indossare gonna e maglietta attillate.
“Non vedo l’ora di tornare da lei!”. Rifece la strada ormai nota con la stessa fretta delle altre volte, con il pensiero smanioso di arrivare, il prima possibile.
La casa di Maya, stile austriaco, troppo imponente per una che viveva quasi sempre da sola, gli si ripresentò davanti, quasi familiare. Controllò l’ora: le sette e diciotto.  Uno sguardo attento alle auto parcheggiate e il dito tremante sul campanello.
Tra lo squillo del campanello e il tempo di aprire la porta, come un rituale, Maya si precipitava a riordinare la casa. Pensava fosse una fortuna avere tante scale per aver più tempo di nascondere i vestiti nell’armadio o nella lavatrice, di togliere la tovaglia cerata dal tavolo, di mettere le scarpe nella scarpiera, battendo ogni volta il record di un paio di minuti prima di aprire la porta dell’appartamento. Se avesse avuto un po’ più spesso ospiti la sua casa sarebbe stata molto più decente.
Gerardo entrò si sedette sul divano comodo e invece di saltarle addosso come avrebbe voluto, capitò che iniziò a parlare, a raccontare di sé come non aveva mai fatto, incanalando la sua eccitazione sulle parole che uscivano a ruota libera partendo da tempi lontani, quasi rimossi, senza riuscire più a fermarsi, in cerca di un difficile godimento. Fu così che incominciò a raccontare a Maya di loro, dei suoi genitori.
Poco fanciullo Gerardo perché di madri ne aveva avute almeno due e di padri non poteva contarli. Una delle due madri era quella vera, e quella vera non era la migliore. Dei padri nessuno fu quello che doveva essere. Milano, fine anni '70, vita che separava in due l'intera città: i ricchi e i risparmiatori. A volte, anche poveri. La madre rientrava tra i ricchi, un nome lungo come la scia che lasciava dietro di sé, Carla Maria Romano De Grandi. Da anni ormai Gerardo non rivolgeva più la parola alla madre, ma se la sentiva ancora addosso come un cattivo odore che non riusciva a lavare via. Gli capitava spesso di svegliarsi all’improvviso al mattino sudato con l’immagine di lei abbracciata a uno di quegli innumerevoli padri e il disgusto era così forte da non poter sopportare di fare colazione né di raddrizzare una giornata iniziata male. Quando gli incubi agitavano la notte la sua camera diventava una stanza piena di spettri o di mostri come in un cartone di Scooby Doo e proprio come quel cane Gerardo scappava, correva, precipitava nel vuoto e poi si svegliava di soprassalto.
Maya stava “lavorando” in cucina: i funghi, l’arrosto già sul fuoco. Il vento rubava aromi appetitosi. Sentiva il bisogno di cucinare per lui, di creare un ambiente accogliente, e Gerardo si sentiva come a casa di Lara, la balia, dove era cresciuto insieme a Luca e Paolo, con i quali non aveva condiviso il patrimonio genetico, ma tutto il resto si, compreso il padre Giulio. Erano i tre moschettieri, sempre insieme alla ricerca di nuove avventure, fatte di battaglie e di accampamenti sull’erba, nella loro isola verde alla periferia di Milano. Lara, una donna semplice, paziente e bella con il suo viso acqua e sapone, operosa con le mani consunte dal lavoro, la pelle come carta vetrata e le dita con i segni dell’artrosi: la mamma giusta, in antitesi a quella sbagliata, dei cibi surgelati, della pizza a domicilio o dei tanti ristoranti eleganti e freddi di una metropoli per soli adulti. Giulio, il papà giusto, uomo spiritoso, ma stanco, fisicamente più vecchio dell’età anagrafica, ma mentalmente senza filtri come un bambino.
La tavola di Maya era apparecchiata con cura. Al centro un vaso di violette, del vino bianco, pane fatto in casa caldo e profumato.  Lei poteva ora scorgere negli occhi di Gerardo questa parentesi d’infanzia fatta di tagliatelle al ragù, di pantaloncini strappati, di palloni e di biciclette, che dava luce temporanea al suo sorriso.
Ma il racconto arrivò al giorno del suo decimo compleanno quando si presentò in quella casa di campagna una donna, che aveva qualcosa di familiare ma al tempo stesso minaccioso. Gli portò in regalo un bellissimo modello di automobile. Luca e Paolo erano entusiasti a differenza di lui, ma non capivano il perché il regalo non fosse per loro. Era una donna molto elegante, con i capelli tinti di biondo, scarpe lucide con i tacchi a spillo, che a malapena la reggevano in piedi sul terreno sconnesso del loro giardino.  Indossava un tailleur grigio con una camicia bianca. Gioielli di ogni tipo brillavano sulle dita, polsi e decolletè. I bambini cercarono subito di far correre la macchinina, ma quella donna in casa discuteva a voce alta. Gerardo giocava distratto, cercando di capire cosa stesse succedendo. Solo qualche parola giungeva scandita alle sue orecchie: “Milano”, “scuola”. Quando uscirono, dopo un tempo che sembrò lunghissimo, la mamma piangeva e come in una lenta e drammatica sequenza di fotogrammi Gerardo si ritrovò nell’auto della signora, luccicante come la pelle della proprietaria. Si voltò, vide lacrime, sentì Giulio imprecare: “no, signora, no! così no!”.
Luca e Paolo osservarono la scena tenendo stretto il loro nuovo giocattolo.
La bocca di Maya si avvicinò dolcemente a quella di Gerardo, inducendo le labbra ad aprirsi, mentre le sue braccia lo stringevano, attirandolo verso di sé con delicatezza. La mano di lui la accarezzò, le dita affondarono nei suoi capelli tirandoli leggermente. Gli occhi lucidi, il torace che quasi scoppiava da tanto veloce batteva il cuore per una giornata intensa che concentrava anni ed emozioni.
Quella signora era la sua madre naturale, non Lara. Fu come assistere al proprio funerale e continuare malauguratamente a vivere. Morì quel 20 agosto del 1987 finendo direttamente all’inferno dello smarrimento, della mancanza d’amore, della assenza di aria e di colore. Perché quella donna avesse deciso di essere madre dopo 10 anni sembrava incomprensibile. Erano i sensi di colpa o un nuovo atto di estremo egoismo come il primo?
La rabbia di Gerardo: all’improvviso prese l’orlo della maglietta e la tirò su sfilandola dalla testa e gettandola sul pavimento. “Voglio sentire la tua pelle sulla mia”, disse avidamente contro la sua bocca, mentre le sue mani afferravano rapidamente il gancetto del reggiseno. Intanto Maya ascoltava e lui continuava a parlare della sua storia.
A Milano Gerardo si rifugiò nella lettura, iniziò a leggere giorno e notte. Con i libri superava il senso di abbandono, si immedesimava nei personaggi, che vivevano situazioni difficili, anche peggiori della sua, imparando di riflesso  molte cose di sé. Iniziò con ‘L’isola del tesoro’ di Stevenson, per passare a ‘Moby Dick’ di Melville, per cambiare completamente genere e affrontare ‘I dolori del giovane Werther’ di Goethe, il ritratto di Dorian Gray di Wilde, per passare poi a Kafka, a Calvino, a Pavese. Il suo mondo interiore si confondeva e si arricchiva dell’intimità dei personaggi di cui leggeva. Nelle pagine dei libri cercava di ritrovare la sua mamma e i suoi fratelli, di respirare l’aria di campagna, ma anche di diventare grande, vecchio, di morire suicida o assassinato. Avrebbe saltato anche la cena per continuare a leggere, di mangiare poi non sentiva affatto il bisogno.  Il suo corpo tornò ad essere fragile e pallido come all’origine.
“Sei così bella”. Corse con le mani lungo il braccio afferrando il polso sinistro. “Hai delle mani stupende” e prese in bocca il mignolo. Maya si perse, con il pensiero intrappolato in quel passato soffocante e il corpo in preda ad un presente impellente e smanioso.
La madre aveva spiegato a Gerardo di averlo lasciato a Lara per motivi di salute, ma la verità se la ricostruì nei dettagli piano piano. Iniziò presto le sue ricerche. Intervistò conoscenti della madre, in particolare un’amica che qualcosa parlò, cercò documentazione in casa, il resto fu spontaneo dedurlo.
Il parto non era stato facile, complicando ancora di più questa storia già sbagliata. Il 27 Marzo 1966 nacque Gerardo, dopo un travaglio insostenibile: ”sofferenza fetale”, questa la diagnosi prima delle ultime spinte, confermata da un indice di Apgar bassissimo del neonato. La prima culla di Gerardo fu l’incubatrice, al posto del seno materno un sondino nasogastrico per nutrirlo. Si dice che i primi mesi di vita segnino per sempre tutta la tua esistenza e certo i solchi che si formarono sul corpo e sull’esistenza di Gerardo furono ben profondi. Alla vista di quel corpicino fragile, minuto, che non sapeva neppure respirare da solo, la decisione da prendere si fece avanti da sola, senza scrupoli. Quella donna non lo voleva! Rivoleva la sua vita, il ritmo quotidiano milanese, senza preoccupazioni, rivoleva i suoi soldi, il suo agio. E Gerardo? Il denaro poteva risolvere anche questo problema: esistevano le balie e una balia ben pagata poteva anche tenerselo.
Fu così che la donna si liberò di suo figlio.
Guardò Maya distratto, concentrato sul “caso vergognoso di Gerardo”, senza mai smettere di parlare. Quel figlio non era stato concepito in nessun matrimonio. Lei, la madre, aveva una relazione con un industriale molto noto nella zona. Non erano sposati e lui viveva molto all'estero. Durante le sue assenze lei se la spassava anche con altri uomini, ma con nessuno seriamente. Appena si accorse di essere incinta, poiché oltre il ritardo mestruale le sopraggiunse presto un senso di nausea e di malessere, ebbe un istintivo rifiuto, tanto che insieme al vomito sperava uscisse anche la causa dello stesso. Come fare per abortire? Questo dubbio le durò settimane e settimane e intanto la gravidanza procedeva. Passate le nausee lei rimosse quel pensiero, non ci pensò fino a quando non potè più tenerlo nascosto. Allora partì. Ebbe buon gioco a sparire e più tardi far sparire anche il neonato. Si recò in una clinica privata in Svizzera.
Non era in grado di affrontare tutta la storia in modo adulto, e coraggioso. Per lei il bambino rappresentava l'espiazione di una colpa e sarebbe bastato liberarsene per espiarla. Ma non andò neppure così.
Il padre del bambino non era l'industriale con cui viveva. L'unica cosa che riuscì a conservare immutato fu il rapporto con questo uomo, ricco ma debole. A lui tenne nascosta la gravidanza, la fuga, il parto, inventando un anno all’estero per imparare una nuova lingua. L'industriale cornuto era troppo superficiale per capire qualcosa e troppo succube di quella donna per fare storie.  Classico figlio di papà, con un’impresa già avviata da portare avanti. A lei faceva comodo, pur non essendone innamorata, per vivere nel benessere senza faticare.
Solo dopo qualche anno dalla nascita di Gerardo lei gli parlò del bambino. La reazione fu quella di un uomo buono, che prima di voler comprendere le azioni diaboliche della compagna si preoccupò di come stesse quella creatura. Anzi di più. Convinse la compagna a riprenderselo. E in questa roulette per adulti Gerardo si ritrovò come una pedina in un appartamento lussuoso, con due bagni (questo è il particolare che lo colpì per primo). Il portone massiccio con uno spioncino per controllare chi bussasse. L'atrio enorme, con una statua di marmo che ti pietrificava solo a guardarla. Qualche pianta qua e là neppure ben curata. Il divano di velluto color oro e la prima impressione era che tutto fosse d'oro, le maniglie, i rubinetti, i pali delle tende, vasi e soprammobili. Le tende piene di polvere ed acari. Statue di legno africane provenienti forse da un viaggio forse da una bancarella del mercatino dell'antiquariato.
Sembrava una statua anche quel signore che poteva essere suo padre, seduto immobile sulla poltrona con la gazzetta dello sport in mano, con un volto simile ad una mozzarella. Era comunque molto gentile con lui, nonostante si fosse ritrovato in casa un bambino fino ad allora sconosciuto, probabilmente non si faceva troppe domande al riguardo. In quella casa non mancava nulla: stanze signorili con tappeti persiani, lampadari di Murano, camere da letto enormi e vuote. Ma una cosa lo colpì già il primo giorno più di ogni altra: quel pianoforte che se ne stava lì silenzioso con la sua imponenza e aspettava che qualcuno si prendesse cura di lui. Chiese a quella madre di poter imparare a suonarlo e lei si illuminò per la richiesta. Fu messo a disposizione un maestro solo per lui. La musica lo sollevò in un mondo invisibile e perfetto, dove null’altro serviva.  La sua alienazione fu quasi completa.
Gerardo chiuse gli occhi, sperimentando un nuovo tipo di alienazione, dissociandosi da quello che stava raccontando. Raccontò come di un film, una storia non sua e intanto tutto il suo corpo era preso da lei, da lei che stava baciando e desiderando. Riusciva a parlare e toccarla contemporaneamente eccitato e agitato, con l'adrenalina in corpo e chissà quanti altri ormoni.
Era il 30 maggio e Gerardo aveva il saggio finale del corso di pianoforte. Era raro sentire un bambino di quell’età suonare così e sua madre era talmente orgogliosa da pensare agli studi successivi e alla sua carriera da pianista. Al saggio erano invitate tutte le amiche e conoscenti altolocati. Gerardo si stava allenando da tempo, aveva scelto il suo pezzo preferito: le Variazioni Goldberg. Una musica insieme dolce e rasserenante, alternata a tempi veloci e coinvolgenti, ma anche inquietanti, interpretata con maturità e padronanza, per non far perdere la magia del capolavoro di Bach. Pensare di suonarla davanti alla madre e al suo compagno ricordava a Gerardo la scena del “Il silenzio degli Innocenti”, in cui Hannibal Lecter, nel suo biancore spettrale e rigoroso, rinchiuso in gabbia, seguiva con il dito le Variazioni, in attesa di massacrare i suoi carcerieri. Gerardo venerava Bach come il più grande “architetto del suono” e non gli interessava servirsene per fare bella figura con qualcuno. Così al momento della sua prova invece che le Variazioni si mise a suonare la marcia nuziale di Wagner, di fronte agli occhi sbalorditi del maestro e di sua madre, ponendo fine ad una splendida carriera di musicista mai iniziata.
Che l'industriale non fosse suo padre se lo sentiva dentro; nasceva nella pancia questo sapere, più che dai fatti che cercava di ricostruire, poiché nessuno mai gli disse la verità. La madre aveva intrapreso l'abito dell'omissione e della colpevolizzazione: lui era quello sempre inadatto, così lei arrivava a giustificare i suoi gesti, arrivava a giustificare tutto quello che faceva contro di lui.
Ma il dubbio che le cose andassero come diceva, compreso il pessimo rapporto con lei, gli fecero capire che la verità fosse altrove. E pensare che, per come era fatto Gerardo quel dolore lo avrebbe capito, cioè avrebbe capito che trovandosi in quelle circostanze non avrebbe potuto fare diversamente. Ma se una persona non accettava di entrare nella sfera del dialogo, voleva dire che poteva mentire su ogni cosa e su se stessa.
La verità la venne a sapere nel modo più semplice: un armadio, dove dentro c'era l'immancabile scheletro.
Gerardo aveva 18 anni. Che la maggior età portasse dei cambiamenti e delle responsabilità lo sapeva, che gli portasse ancora turbamento non lo avrebbe immaginato. Aiutava la madre in un trasloco; l'industriale era già morto. Nel liberare i 9 armadi (veramente 9) presenti in casa, gli capitò una scatola.
Una scatola da scarpe, con scritto fuori: SERPENTE. La madre aveva quantità indescrivibili di scarpe, e in ognuna scriveva esternamente il contenuto. Serpente, pensò, conterrà scarpe di serpente. L'aprì. Quel pomeriggio era solo in casa a fare l'operazione armadi.
La madre era fuori. Quindi, aprì la scatola di scarpe e… nessuna scarpa. Solo una fascio di lettere legate da un filo verde. Aprì il pacco; su ogni busta c'era un indirizzo a lui estraneo, una via di Milano nella quale non era mai stato ma che era quella nella quale viveva da giovane la madre. Aprì la prima busta e lesse. Si parlava di un figlio e di come gestire due cose: la sua malattia e... gli altri figli che lo scrivente aveva già regolarmente e che condivideva con sua moglie, regolare. Ebbe un'iniziale bagliore, la conferma, sentì dentro, del suo antico dubbio. E le altre lettere lo confermavano e ricostruivano tutto il fatto. A scrivere alla madre era lui, il vero padre, il quale diceva che proprio non poteva lasciare la sua famiglia per sua madre e tanto meno per quel figlio, anche se suo. Che non poteva per tante ragioni, una era che in corso aveva un fallimento. La sua industria stava andando a picco e figurarsi se poteva vieppiù fare una cosa del genere a sua moglie e ai suoi figli.
Alcune lettere erano romantiche: Non faccio che tornare con i pensieri al giorno in cui ti ho conosciuta, ai giorni che lo hanno preceduto e a tutti quelli che sono venuti dopo.
Penso anche a cose impossibili, soprattutto una: non averti conosciuta prima. Prima che il gioco del destino avesse già fatto la sua partita.
Poi penso a come vi sono mariti e mogli che intrattengono relazioni clandestine con amanti senza mai essere scoperti, ma io non ce la faccio, non me la sento.
I disegni divini non si discutono. Ma accettarli.
Alcune erano fredde e cattive.
L'ultima lettera liquidava - letteralmente liquidava - sua madre per dirle che doveva al più presto smetterla con richieste di vario tipo, denaro incluso. Si, perché lei ci provò in tutti i modi a prendersi quello là, il suo vero padre. Ci provò rimanendo incinta, per usare il possibile ricatto e ci provò dopo chiedendo soldi. Ci provò in un altro modo ancora, chiamando il bambino Gerardo.
Le lettere che leggeva, lettere scritte da suo padre vero, si firmavano tutte con lo stesso nome: GERARDO...nome custodito nella scatola “serpente”.
Ecco, c’era riuscito…Gerardo aveva finalmente raccontato la sua storia, prendendone in qualche modo coscienza, rendendola vera e tangibile, riuscendo in qualche modo a sfatarla, a esorcizzarla e l’aveva fatto con una donna, e solo per questo già l’amava,  Gerardo amava Maya, l’illusione o la realtà? Adesso finalmente poteva smettere di parlare e iniziare a baciarla davvero, con questo senso di leggerezza che mai aveva provato nella sua vita.
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