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De Gennaro Attilio
Nato e cresciuto a Bergamo, dopo la laurea in Ingegneria Elettronica mi sono trasferito a Milano dove vivo insieme a mia moglie, tre figli e tre gatti neri.
Ho sempre lavorato nel campo della progettazione elettronica ma non ho mai smesso di scrivere racconti a livello amatoriale. Musica, letteratura e viaggi continuano a riempire i pochi spazi liberi della mia vita.
La verità




Il lento sciabordio della risacca. Una sensazione di pace.
Il capo mollemente appoggiato al cuscino segue il ritmo cullante dell'onda in prossimità della riva mentre l'oscillazione dello scafo scandisce un tempo di marcia funebre: molto lento, grave, con mestizia.
Rumore di scambi.
Una mano che ti scuote.
L'immagine si dissolve mentre la coscienza emerge faticosamente dal sogno. Luca apre un occhio, poi l’altro: cerca di mettere a fuoco il paesaggio ma case, alberi e pali sfilano rapidi alla sua sinistra.
Con un sospiro si raddrizza sul sedile mentre gli occhi si abituano alla luce fredda dei tubi fluorescenti.
Fuori dal finestrino il cielo è grigio, le strade sono grigie, perfino i campi in lontananza sono grigi.
Guarda l’orologio: sono passate quasi tre ore da quando è salito sul treno. Ricorda confusamente la piazza immersa nella nebbia, la sagoma indistinta della Stazione Centrale dietro gli alberi, viavai di pendolari indaffarati, gli annunci scanditi con voce monotona dagli altoparlanti. Poi, al primo movimento sui binari, il sonno: pesante, senza sogni e senza il sollievo del riposo; un rapido cadere nell’oblio, come uno svenimento.
Per un attimo gli appare un volto nel finestrino: un vecchio con la barba non rasata e lo sguardo spento lo fissa da dietro il vetro. Strano, appena tre giorni fa aveva quarant’anni.
Il vagone rallenta e si inclina da un lato prima di imboccare il rettilineo del ponte: sulla destra appaiono i canneti poi, d'improvviso, si apre la laguna.
Da ovest filtra qualche raggio di sole e sulla superficie dell'acqua marezzata dalle onde si diffonde il riflesso cangiante del cielo nuvoloso.
Il respiro si distende, gli occhi si posano pigri su minuti dettagli del panorama mentre lo sguardo si sposta seguendo la linea costiera che dalla terraferma si protende verso le isole lagunari.
Un airone plana sul pelo dell'onda e ripiega le ali lungo il corpo. Sembra avere un'espressione soddisfatta: forse anche lui sta tornando a casa.
Nel campo visivo entra un convoglio che lentamente li sorpassa nella corsa di avvicinamento alla stazione. Dietro l’ultimo vagone appaiono i tetti di Cannaregio.
Quando il treno si ferma, Luca è già in piedi sul predellino.
All’apertura delle porte si lascia trasportare dal flusso dei turisti sino alla scalinata della stazione: qui osserva brevemente i negozi di Strada Nova, la rampa sbieca degli Scalzi, quindi si volta e scende in direzione del molo E.
Poco dopo è seduto a poppa del vaporetto sui sedili di plastica sferzati dal vento.
Chiude gli occhi e si lascia cullare dalle onde di Canal Grande mentre antiche sensazioni riemergono dalle profondità del suo passato: il ritmico brontolio del motore, l'odore acre della nafta bruciata, lo sciabordio dell'acqua contro lo scafo, spruzzi che lambiscono la mano appoggiata alla murata.
Il procedere a zig-zag del battello tra le due sponde delle fondamenta sembra riflettere fisicamente l’oscillazione pendolare dei pensieri tra le rive opposte della sua esistenza.
Dietro l'ansa del Canale appare il profilo di Mercato. Le eliche del vaporetto girano in senso contrario e la murata si appoggia pesantemente al molo.
Luca scende e attraversa la piazza dirigendosi sotto i portici, verso l'osteria.
È ancora presto per l’aperitivo: la vetrina dei cicheti aspetta di essere rifornita.
Avvicinatosi al banco ordina uno spritz col bitter e rimane in silenzio ad osservare il barista che prepara il drink con gesti meticolosi ed essenziali, come se stesse officiando un rito.
Il primo sorso è amaro, alcolico, frizzante. Luca chiude gli occhi e assapora la bevanda, attende che l’alcol entri in circolo e lo aiuti a schiarirsi le idee: ma oggi non funziona. La mente è un turbolento vortice di pensieri, un ciclone di emozioni che ruota caoticamente attorno ad un singolo interrogativo: perché è tornato a Venezia?
Non lo sa adesso né lo sapeva questa mattina quando ha lasciato Milano. Non sa dove andrà né dove dormirà questa notte. Non sa cosa sta cercando o da cosa sta scappando.
Forse voleva solo bere uno spritz al Bancogiro.
Lungo la Ruga i turisti cominciano ad addensarsi attorno ai chioschi del mercatino. Alcuni studenti si dirigono verso la piazza, altri sostano di fronte alla chiesa, sotto il quadrante dell’orologio, in attesa di essere raggiunti dalla compagnia o dall'ora dell'aperitivo.
Tra non molto Rialto brulicherà di gente che vuole trascorrere la serata in allegria: Luca ha bisogno di stare da solo. Si incammina frettolosamente verso il ponte, lo attraversa dalla scalinata nord per evitare i turisti, fende la folla di campo San Bartolomio aprendosi un varco sino al Sotoportego de la Bissa; dopo qualche svolta raggiunge una zona più tranquilla dove può camminare in linea retta.
Le mani nelle tasche del giubbotto, lo sguardo a terra, procede a passo spedito pungolato dal freddo e da un'urgenza che non sa spiegare.
È sempre stato così: nei momenti di crisi sente il bisogno di camminare per schiarirsi le idee. Anche a Milano ha trascorso lunghi pomeriggi girando senza meta, in cerchi concentrici; ha camminato per chilometri e chilometri senza riuscire ad avvicinarsi di un solo passo alla soluzione dei suoi problemi, sforzandosi di comprendere quel languore che sentiva crescere in sé, sempre più denso e ingombrante, un piccolo buco nero che minacciava di risucchiare l’intera vita.
Quasi senza rendersene conto sbuca su Fondamente Nove: di fronte a lui San Michele è una macchia di marmo e cipressi che spicca nel chiarore crepuscolare della laguna. Una piccola porzione di cielo traspare dall'ampio portale. Murano è già immersa nell'oscurità.
Per un breve istante è sul punto di cedere al potere ipnotico di questa città, alla sua capacità di illuderti che il passato possa tornare, anzi non sia mai trascorso.
Milano si trasforma in continuazione: sorgono nuovi palazzi, negozi appaiono e scompaiono, le vie cambiano di continuo come le vite di coloro che le abitano; Venezia, no: qui si può credere che il tempo sia solo un'illusione ottica, la permanenza ingannevole delle immagini della vita sulla retina dell'anima, istanti fissi nel tempo che la memoria trasforma in esistenze in movimento.
Ma, guardando meglio, si scopre che non è così: anche Venezia cambia, invecchia, muore.
Luca distoglie lo sguardo dal cimitero.
Ha bisogno di parlare con qualcuno, anche se probabilmente sarà inutile, anche se certamente sarà doloroso. Torna a immergersi nel dedalo delle calli dirigendosi verso Arsenale.
Quando attraversa Via Garibaldi è da poco passata l'ora di chiusura degli uffici e la strada è animata da persone indaffarate che rientrano alle loro case. In distanza la laguna risplende delle ultime luci del tramonto.
Dopo qualche istante scende le scale del ponte di legno e si ritrova al cospetto dei tre leoni.
Rivolge a ciascuno il suo speciale saluto chiamandoli con i nomi che aveva inventato per loro da bambino, poi si ferma brevemente accanto al profilo orientale di Azif e scambia con lui poche parole nell’aria scura della sera. Il leone china il capo in segno d’assenso.
Ancora pochi passi e si ritrova di fronte alla vetrina di un bar.
Anche qui tutto sembra uguale ma nulla è più lo stesso: nuove immagini sui cartelloni dei gelati, nuove facce riflesse negli specchi. Chiude gli occhi.
Claudio è seduto al suo solito posto, dietro la vetrina, lo sguardo posato sul tascabile aperto sul banco, il calice di vino nella mano destra.
Luca entra e gli si siede accanto; lui, rivolgendogli un sorriso sardonico, domanda a bruciapelo: «Ma non eri tornato a Milano?».
Claudio è un fisico, abituato a comprendere la realtà attraverso modelli matematici ma quale sistema di equazioni descrive analiticamente la parabola di un amore?
In quale spazio euclideo si riesce a rappresentare compiutamente il senso delle parole dette e taciute, la minuziosa contabilità delle ferite inferte e ricevute?
Quale matematica traduce in coordinate cartesiane la sensazione costante di andare alla deriva, i dubbi, i tentativi, i ripensamenti, le ripicche, i sotterfugi, i comportamenti meschini, tutto il veleno che suppura dai resti di una relazione in via di decomposizione?
Chissà se, date queste equazioni, è possibile identificare gli elementi apparentemente insignificanti che segnano le linee di frattura di un rapporto, gli attrattori che governano la dinamica caotica di una coppia destinata ad implodere sotto il peso dei rimpianti: uno scooter, una pipa, una vecchia fotografia.
Claudio conosce la risposta perché, in fondo, tutto questo l’aveva già immaginato.
«Un paio di settimane fa ho visto passare una Vespa nera: credevo di impazzire. Ho pensato che forse tornare qui mi avrebbe fatto bene, così ho proposto a Francesca di passare un weekend a Venezia»
«Come spegnere un incendio con un secchio di benzina», commenta Claudio.
«Quando siamo tornati a Milano, l’altra sera, abbiamo capito entrambi che era finita. Il vantaggio di lasciarsi alla fine di un viaggio: hai già le valigie pronte. Lei se ne è andata e io sono tornato qui».
Il tornado si è placato. Finalmente Luca ha trovato il coraggio di lasciar condensare in pesanti gocce di parole le nubi di pensieri che da due giorni gli impediscono di vedere dentro di sé: parole senza suono che echeggiano nel buio della sua coscienza.
Apre gli occhi: la sedia dietro al banco è vuota.
Per la prima volta da quando è arrivato si accorge di avere fame. È digiuno dalla sera prima e l'adrenalina non riesce più ad arginare la debolezza.
Entra nel bar e ordina quella che lui e Claudio avevano ribattezzato, la Colazione dei Campioni: spritz e baccalà mantecato.
Masticando lentamente ripensa a quante volte, seduti su quegli stessi sgabelli, hanno parlato del futuro. Ora che finalmente il futuro è arrivato, Luca è ossessionato dal passato: Claudio apprezzerebbe la sottile ironia della vita.
Fuori è ormai scesa la notte: si sono accese le luci e la città come sempre si è trasformata.
Dopo il tramonto le strade di Venezia si svuotano degli esseri umani e si riempiono delle idee e dei ricordi, i muri smettono di trasudare umidità e cominciano a rivestirsi delle ombre di ciò che è stato.
Aggirarsi senza meta nella città deserta delle ore notturne è come vagare sul fondo di un labirinto sommerso dai flutti del tempo: calli, ponti, campielli; scorci magici illuminati dalla luce calda dei lampioni, riflessi in perpetuo movimento sulla superficie dei canali; la sagoma scura di una gondola che appare tra i muri di un ramo e subito scompare inghiottita dalla notte.
Nell'aprirsi improvviso dei campi, immagini repentine di interni lussuosi: sontuosi arazzi, lampadari opalescenti di filigrana, dorate cornici barocche.
E tutt'attorno il sentore grave del disfacimento, del lento e progressivo abbandono, della rinuncia e del rimpianto, il canto funebre di una città sospesa da sempre sull'orlo del precipizio.
Anche negli anni d'oro, pensa, doveva essere così. Questi edifici, questi muri, non possono essere mai stati nuovi, sono venuti alla luce già decrepiti e cadenti.
Venezia è un labirinto ma un labirinto è esattamente il posto dove inseguire qualcosa che non si riesce più a trovare. La mappa è già nella nostra mente perché il dedalo esteriore non fa altro che mimare quello che è in noi.
Luca aveva srotolato quel filo di Arianna nel buio della sua coscienza e i piedi, obbedienti, lo avevano portato lì.
Lo sguardo abbraccia circolarmente il Campo. Su un lato, poco discosto dalla chiesa, l’imponente struttura del campanile di San Polo. Al centro, la vera di pozzo sui cui gradini aveva trascorso tanti pomeriggi dopo la scuola, parlando, scherzando, ridendo, innamorandosi.
Un giorno aveva deciso che quella città morente non faceva più per lui e aveva cercato una nuova vita altrove ma in qualche modo i vent'anni non ci si staccano più di dosso. Per quanto crediamo di essere cresciuti, sotto sotto restiamo sempre quelli di allora.
Seduto sui gradini, Luca lascia vagare lo sguardo.
Il chiosco dei gelati è chiuso e tra poco chiuderà anche la vicina bancarella.
La farmacia sta abbassando le saracinesche. I pochi turisti invernali hanno raggiunto da un pezzo Santa Lucia e stanno facendo ritorno alle loro case.
«Cosa devo fare?», domanda alla piazza.
Forse è colpa dell'alcol o di un ricordo rimasto intrappolato in quelle pietre o più probabilmente è troppo stanco per lottare ancora contro l’evidenza: nel silenzio del campo deserto gli sembra di sentire gli alberi mormorare: «Va’ a San Stae!».
Luca si arrende, si alza e si incammina lentamente. Non è qui per questo?
***
Dopo tanti anni Luca conserva solo immagini indistinte della prima volta che ha visitato la palestra di karate della Salizada: sensazioni confuse, ricordi approssimativi sovrascritti dal tempo e dalle imprecisioni della memoria.
Ricorda l’imponente facciata dell’edificio interrotta dalle spaziose trifore a sesto acuto, il cupo androne che conduce allo spogliatoio, un sentore di vapore condensato, gomma surriscaldata e indumenti sudati.
Poi, l’inatteso spettacolo della palestra immersa nel riverbero dei raggi obliqui del sole pomeridiano, le candide divise dei praticanti, il silenzio interrotto unicamente dallo strisciare dei piedi sulla materassina, l’illusione di trovarsi sul fondo di un enorme acquario riempito di pura luce.
Avevano dodici anni: lui, Claudio e Silvia. Amici sin dal tempo delle elementari, avevano preso la decisione di iscriversi a quel corso nella tacita ma condivisa convinzione che fosse venuto il tempo di abbandonare le occupazioni infantili per entrare finalmente nel mondo degli adulti.
Per i successivi sette anni la palestra era diventata una seconda casa e l'elemento comune che li aveva mantenuti in contatto nonostante avessero preso strade diverse: Claudio si era iscritto al liceo scientifico, Silvia al classico, Luca a ragioneria.
Il primo ad allontanarsi dal terzetto era stato Claudio che in seconda liceo aveva cominciato ad uscire con una compagna di classe.
Durante le vacanze estive del quarto anno Silvia aveva conosciuto Fabio, torinese, studente universitario a Padova: a settembre aveva cominciato a saltare qualche lezione in palestra.
Anche Luca aveva fatto programmi per l’avvenire: dopo lunghe esitazioni aveva deciso di continuare gli studi a Milano; era così determinato che aveva perfino preso la patente e con i risparmi aveva comprato una A112 di seconda mano a bordo della quale ogni domenica sera andava da Piazzale Roma a Mestre per allenarsi alla guida.
Passò l’inverno, passò la primavera, gli esami cominciarono e finirono. Arrivò l’estate e se ne andò e fu tempo per Luca di affrontare il futuro.
Il giorno prima della sua partenza gli amici della palestra avevano organizzato una festicciola di addio. Era stata una serata allegra e malinconica, era corso molto alcol e un po’ di fumo e Luca aveva trascorso buona parte della festa parlando con Silvia.
Presi dalla preparazione della maturità e da altri impegni non si erano visti per qualche mese e ora Luca si sorprendeva rendendosi conto di quanto lei fosse cambiata in quel breve lasso di tempo: era come se alcuni aspetti del suo carattere che prima apparivano esagerati o artefatti avessero acquistato spessore e consistenza contribuendo a creare una nuova personalità dotata di fascino e profondità.
Dopo parecchio tempo si accorsero di essere rimasti soli nella palestra deserta: nessuno dei due sembrava voler chiudere quella serata; lei propose di salutarsi con un ultimo combattimento, in memoria dei vecchi tempi. Avevano un solo keikogi e se lo divisero: a lui toccarono i pantaloni.
Silvia si sfilò la gonna con disinvoltura e cominciò a sbottonarsi la camicetta; Luca cercò di ignorare il fatto che non indossasse il reggiseno.
Guardandola forse per la prima volta con occhi diversi da quelli dell'amico di sempre, si sorprese a provare una fitta di gelosia pensando a lei e Fabio. Durò un attimo: non aveva più importanza, stava per partire, per cominciare una nuova vita.
Si diressero al centro del tatami, si inchinarono e assunsero la posizione di guardia: lui, con il petto nudo che cominciava a coprirsi di sudore, lei con le gambe abbronzate che spiccavano sul bianco del kimono chiuso in vita dalla cintura nera.
Cominciarono a girare in tondo, accennando piccole finte per sbilanciare l’avversario: ogni volta che lei sollevava la gamba per eseguire un calcio le sue mutandine di pizzo apparivano per un breve istante sotto i lembi svolazzanti della giacca.
Ad un certo punto si fissarono negli occhi ed entrambi lessero qualcosa nello sguardo dell'altro: caddero sul tappeto, rotolando stretti, le mani di lui che cercavano di farsi strada sotto il kimono, quelle di lei che non opponevano resistenza. Si baciarono, timidamente prima, sempre più appassionatamente dopo, mentre si spogliavano e restavano nudi sul tatami.
Fecero l’amore con foga e dolcezza e quando ebbero finito si riposarono e ricominciarono.
Quando le campane di San Stae diedero due brevi rintocchi, con riluttanza si rivestirono, spensero le luci e chiusero la palestra. Lui la riaccompagnò a casa e sulla porta si baciarono di nuovo.
Quella notte Luca non riuscì a prendere sonno.
La mattina, a piazzale Roma, trovò i due amici che lo aspettavano. Claudio lo abbracciò con trasporto, Silvia si limitò a salutarlo con un casto bacio sulle labbra.
Quando Luca finalmente trovò la forza di salire in auto, voltandosi per un ultimo saluto lesse negli occhi di Silvia un’espressione così malinconica che non resistette alla tentazione di scendere di nuovo, impugnare la macchina fotografica e scattare un’istantanea.
Chiudendo la portiera ebbe l’impressione di compiere un gesto simbolico ed irrevocabile.
La vita era proseguita: nuova città, nuove abitudini, nuovi amici e, infine, Francesca.
Gli anni erano passati, erano successe molte cose, i ricordi erano stati sepolti sotto un denso strato di problemi quotidiani, sempre più difficili da affrontare.
Poi, nel momento meno indicato, era saltata fuori quella fotografia.
Aveva trascorso ore insonni a interrogare lo sguardo triste che Silvia rivolgeva all’obiettivo, cercando di intuirne il significato, di leggere in filigrana scenari alternativi per la sua vita allo sbando.
Forse quello sguardo era un segnale lanciato attraverso il tempo che gli indicava un’ancora di salvezza, una via di uscita per quel labirinto in cui ora si sentiva perso.
Più la relazione con Francesca si deteriorava, più quel pensiero si insinuava tra le fessure della coscienza annebbiando la percezione della realtà al punto che aveva finito per accelerare il disastro: Luca era corso incontro al suo destino come una sorta di vittima consenziente.
Dal momento in cui era riapparsa la fotografia non aveva smesso di domandarsi cosa sarebbe successo se quel giorno avesse cambiato idea e non fosse partito.
Oggi, in piedi davanti all’ingresso della palestra affacciata sulla Salizada, cerca il coraggio di entrare e trovare una risposta a quella domanda.
***
Non saprebbe dire perché sia certo di trovarla qui, questa sera. Forse perché è la logica conclusione del suo peregrinare nel labirinto o forse perché, in fondo, spera di sbagliarsi.
Invece lei è proprio lì, al di là del vetro e lo sta fissando con uno sguardo sorpreso, indecisa se credere ai suoi occhi.
I due amici si riabbracciano poi si allontanano un poco per l’inevitabile inventario dei segni del tempo: Luca si accorge di indossare gli stessi abiti con cui ha lasciato Venezia due giorni prima e di non essersi rasato da allora ma non gli importa. Silvia assomiglia ancora in modo impressionante alla ragazza della fotografia: il tempo non ha alterato la linea marcata degli zigomi e il taglio ovale degli occhi chiari. Tenui efelidi le cospargono le guance ai lati del naso dritto, dalla punta leggermente arrotondata, addolcendo le rughe che sono apparse vicino agli occhi. I capelli scuri sono acconciati in modo diverso ma incorniciano lo stesso sorriso di allora.
Saluti, frasi di circostanza, il breve ragguagliarsi su ciò che dopo vent’anni valga la pena di essere raccontato. È lei a prendere l’iniziativa: «Se mi dai due minuti mi cambio e andiamo a bere qualcosa». Ha aspettato tanto, due minuti in più non faranno differenza.
Poco dopo, camminando con Silvia tra le calli immutabili, lui si sorprende ad assaporare quella sensazione di familiare déjà-vu.
Seduti ad un tavolino di Campo San Cassian, faccia a faccia, restano qualche istante senza parole, ciascuno immerso nei pensieri che la vista dell’altro gli suscita.
«Come sapevi che ero in palestra?».
«L’ho dedotto: ho saputo che eri a Venezia e che praticavi ancora, quindi… elementare Watson!».
«Mi congratulo, Mr. Holmes!».
«Perché hai deciso di tornare?»
«Torino non faceva per me. Troppo grande, strade troppo dritte, palazzi troppo austeri. E comunque troppi ricordi che volevo dimenticare. Quando sono venuta per il funerale di Claudio ho pensato di rimanere».
Luca distoglie lo sguardo per nascondere il velo che gli sta offuscando la vista.
«Quando l'ho saputo ero in viaggio per il Canada. L'avevo visto qualche giorno prima di partire. Non immaginavo sarebbe stata l’ultima volta…».
«Pensi sempre che c'è un sacco di tempo, che tanto prima o poi capiterà l'occasione... Io non lo vedevo dal giorno che sei partito per Milano».
«Già, la festa. Non ti ho mai ringraziato per il regalo d’addio».
Silvia abbassa lo sguardo. «A quei tempi ero un po’ disinvolta in fatto di sesso».
Luca sorride dell’equivoco: «Mi riferivo alla pipa di Sherlock Holmes».
«Oh, quella!», replica lei senza scomporsi «L'hai mai usata?».
«Ho cominciato a fumare per colpa tua».
«Hai preso altri vizi a Milano?».
«Qualcuno, ma sto cercando di smettere».
Luca lascia vagare lo sguardo sulla facciata spoglia della chiesa.
«Ripensi mai a quegli anni?».
«Non molto. Sono stati momenti bellissimi ma la vita va avanti».
Il terzo spritz della giornata lo aiuta a trovare le parole che esitano a formarsi: «Secondo te nella vita esistono dei momenti chiave? Attimi in cui tutto il futuro dipende dalla scelta che fai in quell'istante?»
Silvia solleva lo sguardo, fissando l'amico con intensità. «Certo che esistono. E ti cambiano la vita».
«Dimmene uno».
«Ricordi quella festa in trattoria a Mirano?»
Luca fa cenno di sì.
«All'andata mi aveva dato un passaggio qualcuno in macchina ma a fine serata ho trovato Fabio che mi aspettava fuori dal locale. Fu in quel momento che decisi tutto: sarei andata via con lui, avrei lasciato Venezia, avremmo cominciato una vita insieme».
«Certo», prosegue Silvia concentrandosi sul fondo del suo bicchiere, «qualche volta si sbaglia, però quella sera non posso scordarla: Fabio seduto sulla sua Vespa nera che mi invita a salire in sella come se mi stesse per portare nel suo castello incantato. Quello è un momento che ti cambia la vita!».
«Ricordi chi ti diede il passaggio in macchina all'andata?»
Silvia riflette qualche istante poi scuote il capo. «E' importante?»
Luca beve un lungo sorso dal suo drink, poi mormora: «Direi proprio di no».
***
Sull’ultima corsa del vaporetto per Santa Lucia, Luca osserva le facciate delle dimore patrizie allineate lungo Canal Grande apparire e scomparire nell’alone lattiginoso dal vapore che sale dalla laguna.
Ha riaccompagnato Silvia alla fermata di San Stae. Avrebbe potuto prendere lo stesso vaporetto e scendere due fermate dopo, alla stazione, ma ha preferito ricordarla così, mentre si allontanava agitando la mano in segno di saluto, sempre più piccola, sempre più distante, come una memoria che si affievolisce e scompare.
È salito, invece, sulla corsa in direzione opposta: andata e ritorno da Lido, giusto in tempo per non perdere l’ultimo treno.10
Per gran parte del tragitto non è riuscito a pensare a nulla; si è limitato ad osservare le luci di Venezia allontanarsi e avvicinarsi al ritmo delle fermate mentre le sensazioni della giornata andavano posandosi lentamente sul fondo della sua mente svuotata.
Mentre lo scafo abbandona il canale della Giudecca puntando verso San Marco un pensiero emerge dal nulla: ciascuno è convinto di recitare il ruolo di protagonista nel film epico della propria vita; è difficile ammettere di poter essere una semplice comparsa nella storia di qualcun altro.
Quel momento di intimità fisica, quello straordinario evento sui cui lui aveva costruito l’enorme edificio dei suoi rimpianti non era stato altro, per Silvia, che uno dei tanti episodi della sua gioventù.
E quello sguardo, quell’espressione di triste rassegnazione che per mesi aveva interrogato per trovare una risposta ai suoi problemi, non era realmente diretto a lui: in quegli occhi non si leggeva la tristezza per la partenza di Luca ma il dolore per la fine di qualcosa di più prezioso, un addio definitivo ai giorni che non sarebbero potuti più tornare.
In quel momento le loro traiettorie si erano separate, realmente e metaforicamente: mentre Silvia aveva accettato la conclusione di quella fase dell’esistenza, Luca aveva chiuso il ricordo in un cassetto, congelandolo nel tempo.
Deluso dal presente aveva cercato di resuscitare il passato con un rito magico i cui ingredienti aveva gelosamente custodito nel fondo della sua memoria; ma non sarebbe stato sufficiente riesumare una vecchia pipa o procurarsi uno scooter nuovo, perché la Vespa sulla quale Silvia era salita quella sera non era la sua e lui era rimasto solo, nella sua automobile, nel silenzio opprimente di una notte di inizio estate.
La scintilla che non era scoccata allora non avrebbe potuto scoccare adesso ed esattamente per gli stessi motivi: aveva impiegato vent’anni per capire dove aveva sbagliato e pochi minuti per comprendere che la vita non dà seconde possibilità.
«Cosa mi è rimasto di tutto ciò che è stato?», si domanda passando lentamente sotto gli scalini di legno di Accademia. «La verità», risponde Venezia.
Un frase, letta chissà dove, gli torna in mente: «La verità è una lama incandescente che recide i tentacoli dei rimpianti e cauterizza le cicatrici che ci procuriamo lasciando sanguinare la memoria».
Sembra scritta apposta per lui: forse è giunto il momento di lasciare che il passato riposi una volta per tutte e che i fantasmi rientrino nelle loro cripte. Rinunciare ai ricordi è doloroso ma restare ancorati ad essi può solo portarti a sprofondare sempre più, un poco alla volta, come Venezia.
Poco prima di arrivare all’approdo di Santa Lucia, Luca sfila di tasca l’istantanea, osserva per l’ultima volta lo sguardo triste di quella ragazza di tanti anni prima e lascia scivolare la fotografia oltre il bordo della murata.
Per qualche istante la segue con gli occhi mentre si allontana e diventa sempre più piccola, sempre più distante, prima di scomparire tra le acque della laguna.
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