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Di Leva Riccardo
Nasce a Polignano a Mare il 7 gennaio 1961... si laurea in Geologia  presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. Attualmente... è collaboratore e articolista del gruppo editoriale Umanesimo della Pietra di Martina Franca e della rivista “Mediterraneo Magazine”... A dicembre 2017, sempre con la Progedit, pubblica il secondo romanzo intitolato “Nati sotto il segno del riccio” che ha ottenuto la Menzione d’Onore al Concorso letterario nazionale “Argentario” 2018.
La finestra sull'anima




Intorno a me nebbia.
Un bianco lattiginoso dal chiarore innaturale, l’interno di un banco di nuvole con i filamenti coagulati che scivolano intorno a me avvolgendomi in un abbraccio spettarle.
Nessun suono penetra questo ovattato silenzio, neanche il rumore delle mie parole che s’interrogano chiedendo a invisibili interlocutori una qualsiasi spiegazione razionale sulla natura del luogo, sul perché mi trovo qui e come ho fatto ad arrivarci.
Ruoto su di me cercando di scorgere, attraverso questa bruma indistinta, una luce, un’ombra, un segno di un qualcosa su cui concentrare la mia attenzione, i mie pensieri, le mie domande. Non riesco neanche a vedermi i piedi, inghiottiti dalle spire biancastre di questo nulla che mi fa sentire minuscolo in un’immensità indistinta, personaggio grottesco e innaturale appoggiato al davanzale di una finestra che da sul niente.
I miei pensieri rimbombano nella testa con un ritmo pulsante che sovrasta il battito del mio cuore. Ma è un battito quel che mi sembra percepire o l’eco di quel che è stato? In realtà, non posso più sentire alcun suono provenire dall’interno del mio petto, nessun soffuso rombo che denunci un afflusso di sangue, uno scorrere di vita all’interno delle mie vene, nei miei organi, nel mio corpo, non almeno nella nuova forma in cui ora stento a riconoscermi.
Perché sono morto…
È l’unica consapevolezza in questo incerto presente senza tempo, l’unica sicurezza di una realtà che non dovrebbe esserci e che, probabilmente, non c’è.
Sono morto cinque ore prima. E sono morto per mano mia.
Faccio forza con la mente in questa babele di grida che sembrano uscire da un silenzio assordante. Mi aggrappo a questa mia unica consapevolezza per non farmi sopraffare dalla follia. Ma, forse, la follia era già in me e non me ne ero accorto! Com’è possibile?
Ricordo un letto sfatto, un lenzuolo che penzola fino a toccare terra con un lembo, una coperta a colori piena di disegnini per bambini. Una stanza semibuia, la lucina di un punto luce alla base della parete opposta, il sentore di un tepore che sta lentamente svanendo, l’odore vago di qualcosa che non si dovrebbe percepire in quella stanza.
Mi prendo la testa tra le mani, mi sforzo di attivare ricordi che non sento di avere, ma che ci dovranno essere per forza da qualche parte in questo mio cervello obnubilato dal vuoto.
Cinque ore: ricordo bene questo lasso di tempo, questo breve periodo intercorso tra il mio ultimo respiro da uomo e quello che ora mi contraddistingue come un essere cui non so dare né un nome, né un volto. Cinque ore da un qualcosa che ha decretato la fine di tutto quel che ero e sentivo di essere. Cinque ore di nulla.
Anzi, no. Non proprio un nulla, ma un percorrere un lungo tunnel, una galleria fatta di…., ma di cosa? Come posso dare un nome a qualcosa che non so cosa sia? Non so neanche se è esistito questo intervallo temporale, salvo averne una parvenza di certezza attraverso la mia nuova natura.
Sono morto? Sono vivo? Cosa sono?
Mi tasto in cerca delle mie sigarette. Un gesto inconsapevole e assurdo nel momento e nel luogo in cui mi trovo. Non ho sigarette con me, non ho accendino. Anzi, non ho neanche tasche e… non ho neanche vestiti. Al contempo, non sono neanche nudo, non mi sento assolutamente come dovrebbe sentirsi una persona nuda. Forse perché non ho più un corpo da coprire?
Cinque ore…. Torno alle cinque ore strappandomi dal mio divagare inconsistente, dal mio oziare
nella speranza disperata di evitare quella coscienza che, prima o poi, dovrebbe ritornare in me. Sì, evitare. Perché sento che non mi piacerà sapere qualcosa di queste cinque ore. O di quel che ha preceduto le cinque ore.
Mi aggrappo al momento della mia morte, cercando di capire, ricordare, reinterpretare, giustificare quel gesto che, in questo momento, ricordo di aver fatto ma non come. Né perché.
Sono stanco, sfinito. Vorrei sedermi per riprendere fiato, per far ordine nella mia testa. Vorrei tante cose, ora… ma non penso che potrò essere accontentato. Né che ci sia qualcuno là dove mi trovo che lo possa fare.
Calmarmi. Pensare. Riordinare. Scoprire. Anche se ho paura. Anche se sono incerto. Anche se sono confuso. Devo farcela, altrimenti impazzirò.
“Ma tu sei già pazzo…!”, mi sembra di sentire in risposta. E queste parole che mi arrivano quasi sussurrate cerco di afferrarle girando nella direzione dalla quale penso possano provenire. Prima di scoprire che nessuna bocca le ha pronunciate, ma che sono un parto della mia mente.
Sono un pazzo? Sono un folle che ha compiuto qualcosa di inumano, di innaturale come solo un gesto estremo può esserlo?
E mentre me lo chiedo con una certa insistenza, ecco che una parte di quelle cinque ore comincia ad affiorare come una serie di scogli pericolosi lungo la rotta di una nave in balia della nebbia, sussultante su di un mare agitato al pari della mia esistenza passata e, temo, di quel che sarà quella futura.
Sirene, lampeggianti, uomini in divisa… Inizio a ricordare qualcosa. Mi sforzo di rammentare questo qualcosa, di dargli un frammento di lucidità mentre cerco di riafferrare il bandolo di una matassa che possa strapparmi da tutto questo, sogno o incubo che sia.
Respiro piano. Anzi, no: faccio l’atto di respirare. “Ricordi? Non puoi più respirare come un essere umano, un organismo pluricellulare vivente” mi dico, dandomi al contempo dello stupido.
Prima grida, poi silenzio. Poi, ancora, rumori di passi, nuove grida frammiste a pianti. E sirene stridule che lacerano il cervello. E luci azzurre vorticose che saettano a intermittenza tra le mie palpebre semi chiuse.
Una barella. Ecco, metto a fuoco. Mi hanno sollevato, adagiato su di una barella, trasportato fuori.
Lo sento perché la notte mi ha accolto con un freddo abbraccio, scacciando il caldo di una stanza, il tepore di una casa. Sento gli scossoni nel trasportarmi verso qualcosa di aperto, di spalancato. La fonte dei rumori delle luci. Anzi, di una parte di questi. Suoni acuti e luci vibranti vengono da altre
parti, dai tettucci di auto parcheggiate in maniera disordinata fuori da ciò che, ormai, ritengo sia stata una casa, forse la mia.
Poliziotti, eco cosa sono quelle ombre vestite di scuro mischiate ad altre vestite di verde e di chiaro.
Infermieri? Dottori? Attori anche loro del mio piccolo dramma o semplici spettatori?
Ho paura di scoprire altro. Ma ormai sono lanciato: sento che, a poco a poco, tutti i puzzle si stanno ricomponendo mossi da vita propria, staccandosi da quel pavimento dove qualcuno (forse io?) li ha fatti cadere per unirsi, combaciando, a formare un disegno che, a frammenti, si delinea sempre più nella sua interezza.
Ospedale. Sì, la corsa in ospedale. Quanto è durata? Minuti, ore, interminabili secondi pronti a prendere il posto del mio vuoto temporale. E poi ancora scossoni, rumore di ruote fruscianti sul pavimento, di grida d’avvertimento, di sollecitazioni.
“Caso urgente, codice rosso: liberate la sala cinque” è la frase che mi accompagna in quel breve tragitto fatto di gran carriera, ondeggiando a ogni curva lungo i corridoi illuminati da una luce fredda.
Sono io il “caso urgente”?
“E chi se no?” mi rispondo da solo, con l’impazienza di chi non vuole che domande fuori luogo interrompano la trama di un evento che fa fatica a riaffiorare.
Come possono passare in fretta cinque ore nel momento in cui la mente riacquista sentore di quel che possa esservi successo? Nel momento in cui riesco a percepire qualcosa di gomma poggiata sulla mia bocca, forse i bordi di una maschera per irrorare ossigeno? E poi punture di aghi ipodermici, e flebo e chissà quanto altro.
Mi fermo ansimando oppresso dal peso dei ricordi che, lentamente, a fatica, riaffiorano.
Scogli… scogli neri, frastagliati, appuntiti. Scogli pronti a ghermire e distruggere lo scafo della mia piccola imbarcazione, del mio guscio di noce in balia della tempesta, di onde enormi e nere, di vento e pioggia, di grida disperate urlate nella notte.
Ora ricordo la sala operatoria. La ricordo non più con la mente di quello che ero, ma con la sensazione di quel che stavo diventando: uno spirito staccato dal corpo, fluttuante su di esso,
incuriosito dall’armeggiare di tante persone indaffarate intorno al mio corpo disteso su di un letto di sala operatoria, la luce fortissima delle lampade a led a illuminare quel che resta del mio viso mentre dita veloci e precise, sicure nei movimenti al pari degli ordini abbaiati dal chirurgo attraverso la mascherina che copre la metà inferiore della sua faccia, cercano disperatamente di ricomporre i frammenti di ossa, i lembi di pelle, di estrarre quel pezzo di piombo che mi sono infilato all’interno del cranio, in profondità là dove la materia diventa vita pulsante.
Adesso so come sono morto. Improvvisamente tutto mi è chiaro. Anzi, non proprio tutto…, e forse è un bene. Forse dovrei fermarmi qui nella ricerca dei ricordi, non scavare ulteriormente, non aggiungere dolore a ciò che, già di per sé, è doloroso.
Solo che la conoscenza è inarrestabile, come un fiume in piena che si fa strada tra le rocce, come la cascata che fuoriesce dalla breccia di una diga e allarga l’apertura con la sola forza dell’acqua che, tracimando ed erompendo, la ingrandisce fino a minare l’intera opera di sbarramento. E, a volte, altrettanto pericolosa!
Ho puntato un’arma contro la mia testa e ho fatto fuoco.
Ora ricordo di aver appoggiato la canna alla mia tempia destra e di aver premuto il grilletto. Ricordo anche di aver pensato, in quella frazione di secondo che, se non avessi tenuto l’arma perfettamente ferma nella mia mano, il rinculo avrebbe potuto far deviare il corpo col rischio di ferirmi solamente, se non addirittura mancarmi. Ma, per fortuna (o sfortuna?), devo esserci riuscito a piantarmi un proiettile in testa in maniera soddisfacente, visto che una di quelle figure in camice chiaro grida all’indirizzo degli altri: “Pulsazioni minime, pressione quasi a zero: lo stiamo perdendo!”
Quante ore sono passate dal momento dello sparo a quello della mia morte? Una di certo, forse due.
E le altre tre? Cosa ho fatto? Dove sono andato? Sorrido amaramente pensando a qualcuno che, in coda davanti alla biglietteria di un teatro, aspetta il proprio turno per varcarne la soglia: ho fatto la stessa cosa per entrare qui dove sono adesso? Ho dovuto attendere anche in questo luogo un turno tra tutti quelli che hanno scelto, loro malgrado, di voltare le spalle a quel che erano per intraprendere un nuovo cammino? Ma se così è stato, dove sono? Ovunque mi giri vedo nebbia e silenzio. Che ci sia una diversa anticamera per ognuno di noi?
Domande senza risposta: nessuno che si materializzi dandomi quelle spiegazioni che la mia mente cerca con l’affanno della disperazione. Dovrò cercarle dentro di me come, del resto, sto già facendo.
Anche se ho paura…, paura di scoprire qualcosa di ancor più doloroso. Qualcosa che non riguarda quelle cinque ore, bensì il prima.
Cosa è successo prima? Perché ho puntato un’arma contro di me e ho fatto fuoco?
Dicono che chi muore lasci dietro di sé tutto quel che è stato e che ha avuto in vita. E che solo le morti tragiche e violente, quelle che non recidono dolcemente i legami con la vita precedente ma li troncano bruscamente e, a volte, in maniera incompleta, ti impediscono di andar via, di allontanarti verso la pace e la beatitudine, costringendoti a giri sempre più lunghi prima di riuscire, alla fine, di spezzare le radici che ti tengono ancorato a un mondo di cui senti di non farne più parte.
Dicono anche che rimani attaccato alle azioni non concluse e alle persone dalle quali non hai potuto accomiatarti.
Dicono tante cose quando si è al di là della barriera… non so ancora se sono vere o false quelle voci, è troppo poco il tempo i cui occupo questo nulla, questo limbo di… Ecco!!!!, sono in una specie di limbo: è l’unica spiegazione.
Quando eravamo piccoli e studiavamo il catechismo, i preti ci parlavano del limbo come di un luogo di transizione, del posto dove andavano le anime dei bambini morti non battezzati. Ma io non ero bambino, bensì un uomo adulto, sposato e con figli…
Oddio!!!, figli…!
Se avessi le gambe ora vacillerei sotto il peso di una consapevolezza, di una constatazione, di un ricordo che avrei fatto meglio a non far riaffiorare alla mia mente.
Sposato con figli, due figli per la precisione: un maschio e una femmina, cinque e tre anni rispettivamente. E mia moglie.
Un sospetto si sta facendo strada dolorosamente in me: cosa ne è stato di loro? Dov’erano quando mettevo fine alla mia vita?
Sento il sudore colarmi, ma so che non esiste sudore nella forma in cui sono adesso. Forse non riusciamo a staccarci dalle reazioni che provavamo quando eravamo in vita, come chi ha subìto l’amputazione di una gamba ma ancora ha percezione del dolore lì dove l’arto non c’è più.
La stanza buia, il punto luce, la coperta a terra… L’esplosione del colpo di pistola improvviso…, no, non improvviso: c’era stati altri colpi prima! Sì, ora ricordo: almeno tre colpi prima dell’ultimo,
fatale alla mia tempia destra. Tre colpi intervallati da momenti di silenzio.
Un ladro? Ho sorpreso un ladro in casa? Un malvivente che ha minacciato la sicurezza della mia famiglia. Un ladro a cui ho sparato e che, forse, ho colpito…, forse l’ho ucciso. E il rimorso mi ha fatto volgere la pistola contro me stesso e…
No, non sta né in cielo né in terra! È successo qualcos’altro, ben più terribile, lo sento!
La consapevolezza di un gesto inconsulto ma, purtroppo, ben preciso si fa strada lentamente nella mia mente, anche se cerco di respingerlo con tutte le mie forze.
Un’immagine emerge sicura tra le altre ancora confuse: io seduto alla scrivania, il ripiano cosparso di carte. Conti e fatture, ingiunzioni…. Soldi, soldi, soldi! Al di là della porta chiusa per non disturbarmi, il rumore del televisore acceso sul programma preferito di mia moglie. Io, con la testa tra le mani, a rileggere per la decima volta la lettera della banca che mi avvisa del conto in rosso, dello scoperto ormai troppo al di là delle mie possibilità nel porvi rimedio. La mia fabbrica a pezzi, gli operai che non potrò pagare, che avanzano lo stipendio da mesi. La casa pignorata. La mia famiglia costretta ad affrontare momenti difficilissimi, senza un riparo, un sostegno, una speranza.
La mia vita distrutta!
Può bastare questa consapevolezza nuova, questo lampo di comprensione che mi attraversa lacerandomi in due? La disperazione…: ecco il motivo che ha armato la mia mano, che mi ha fatto compiere un gesto sconsiderato!
La disperazione di un uomo che non può sopportare il peso della disfatta, la visione di un futuro di stenti per sé e per i suoi cari. La disperazione sorda, lancinante, che non ti fa vedere soluzioni all’orizzonte, che ti impedisce di reagire, di lottare, di cercare una via di fuga, di trovare una possibilità per impedire che tutto quel che di brutto ti sta per pioverti addosso…
E, di colpo, tutto mi è dolorosamente chiaro.
Io che apro il cassetto in basso tra i quattro che compongono la cassettiera della scrivania. Io che afferro la pistola che ho comprato anni fa, quando era quasi un obbligo possedere un’arma per difendere il benessere in cui vivevo, la tranquillità della mia casa. Quella tranquillità che ora vacilla e frana sotto i miei piedi.
Io che guardo l’arma nella mia mano, ne sento il peso, che inserisco il caricatore dopo aver controllato se i proiettili sono al loro posto.
Io che mi alzo lentamente, il peso di una realtà troppo grande per le mie forze. Frammenti di un film che non avrei voluto interpretare ma che, mio malgrado, mi trovo a vivere come in trance, come se fosse un’altra quella persona che si dirige con passo malfermo verso la porta, la apre, si dirige in soggiorno.
Lo sguardo di mia moglie meravigliato nel vedermi all’improvviso al suo fianco, la voce che scandisce una parola prima che gli occhi si posino su quel che stringo con fermezza nella mano.
Il boato che esplode nella stanza e che la proietta lateralmente sul divano, con un fiore rosso vermiglio che si allarga sulla sua bella fronte spaziosa, tra il biondo dei suoi capelli e la linea scura del sopracciglio alzato in una muta domanda che rimarrà senza risposta.
I miei passi che mi portano nella stanza buia illuminata dal punto luce. La forma dei miei figli sotto le coperte nei loro lettini. Le mie lacrime mentre tiro due volte il grilletto, riempiendo la stanza di rumore e odore di polvere da sparo.
L’arma che, a questo punto, si gira verso di me, posa la sua canna calda sulla mia tempia… il quarto
colpo che esplode e cancella tutto in un secondo: l’amore, il dolore, la gioia, la tristezza, la vita…
Ora sono qui, nel mio limbo fatto di dolore puro, di tristezza infinita, di nulla riempito dall’enormità di una serie di gesti assurdi. Perché non c’è un luogo dove andare quando si muore come sono morto io, perché si è fatto quel che ho fatto io, inspiegabilmente, follemente… Quando si abbandona in fretta tutto quel che si è avuto perché la disperazione di perderlo accelera il senso di privazione, ingigantisce il tuo smodato non volerlo lasciare dietro di te, di portartelo appresso perché senza non sarebbe la stessa cosa, non sarebbe possibile solo pensarlo.
E adesso so che ci rimarrò a lungo in questo limbo, almeno finché il dolore non sarà compensato dalla pietà di Colui che ha deciso così. Almeno finché l’oblio che adesso è fuori di me non l’avrò dentro, permeandomi fino al punto da riuscire a non pensare più a me come a un “io” ma come a un
“noi”. Finché tutta questa nebbia non si sarà diradata; e, con essa, non voleranno via i fantasmi di un amore egoistico che mi ha portato a ergermi a giudice della vita e della morte di tutto quello che dava un senso alla mia esistenza e che adesso, lancinante nella sua spietata realtà, mi mostra come un senso non l’abbia avuto.
Solo allora avrò fatto pace con il mio mondo, quando le mie lacrime ormai esaurite avranno finalmente lavato il ricordo di mia moglie, la struggente e dolorosa memoria dei miei figli.
Solo in quel momento, per me e per loro, avrà un senso rivederli permettendo al sorriso di lenire le pene, addolcire i tratti, favorire un abbraccio, giustificare un perdono.
Solo così potrò, finalmente, abbandonare quello che ora so essere il mio limbo, la finestra senza vetri né imposte che guarda all’interno della mia anima.
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