Greco Stefania
Nata nel 1975 a Mesagne, è cresciuta a Ostuni, in Puglia in complice simbiosi con la terra e il paesaggio di mare, campagna e città... Ottenuta la maturità classica a pieni voti, si trasferisce a Bologna per studiare Lingue e Letterature straniere... Dopo un corso di specializzazione in Studi Internazionali si trasferisce nel 2002 a Bruxelles, dove tuttora vive e lavora. “Blu notte” è un suo racconto con cui ha voluto intraprendere l’attività di scrittura ed è tratto da una storia vera.
Blu notte
La luna risplendeva all’imbrunire, evocando uno sfondo solitario su un blu notte profondo e riverente. Si poteva osservarla contro un cielo pacifico, incorniciata tra i ramoscelli d'alberi spogli di vegetazione. Era quasi l’ora di cena, e il coprifuoco tipico delle guerre faceva il suo ingresso. Le abitazioni, su cui vegliava l’astro taciturno, erano illuminate, e degli esseri indaffarati si preparavano al volgere del giorno. La piazza era deserta e solo i lampioni la popolavano, ornandola delle loro stesse ombre. I lastroni di pietra, che la costituivano in geometrie irregolari, erano in alcuni punti dipinte a gesso, quello che i ragazzi portavano via dalla scuola per giocarci al pomeriggio. Lo usavano per tracciare le due porte e il centrocampo e i bordi del campetto di calcio. Ci giocavano fintanto che i segni bianchi non scolorivano da terra, e poi di nuovo ricominciavano col disegno del campo da gioco. Nelle ultime settimane, tuttavia, il gioco si era diradato, e sempre più spesso ormai circolavano voci di eventi terribili, imminenti, nel paese non lontano dal confine. I primi segnali di un cambiamento rovinoso si erano manifestati sin dall’estate, quando alcune famiglie avevano avvertito un bisogno sempre più impellente di sicurezza. La vita era sempre stata pacifica nella loro comunità, ma adesso un senso di astiosa ansia seminava paura nel meticciato delle popolazioni, che avevano sino allora saputo convivere.
“Mama e tata non fanno altro che discutere negli ultimi giorni, cosa ne pensi?” sbottò Damir, dopo essersi deciso a parlarne con Ivan, il quale dal canto suo sapeva già tutto, ma preferiva ancora tacere.
“Mama vorrebbe sentirsi più al sicuro e non fa che ripetere che cambiare aria le farebbe bene. Non capisco sai, prima si separano e poi pretendono di decidere il futuro insieme, mi fanno impazzire!”.
“Non sono matti, questo posso assicurartelo, e poi se ne parlano, meglio così! Vorrà dire che c’è ancora qualcosa che li tiene uniti”, ribatté Ivan, tranquillo in quel suo parlare sottotono.
Fumava una sigaretta e si curava poco di Damir, che rimbrottava come sempre di odiare il fumo. Uscirono insieme per comprare la cena dalla panetteria all’angolo, che preparava i migliori burek del paese. Presero il latte acido e il cacao, che Damir adorava e gli era valso persino il soprannome di Damir Cacao, perché non riusciva ad andare a dormire prima di aver bevuto una tazza di latte caldo e cacao. Passarono dalla tabaccheria per comprare il tabacco e tornarono a casa ad aspettare Jelena che doveva rientrare da lavoro. Inserita la chiave nella toppa della porta, videro che la luce era accesa e che mama era a casa.
“Allora, eccovi qua! Mi chiedevo, dove foste, ma non avendo visto la cena pronta, ho capito che eravate andati a prenderla all’angolo”, disse Jelena mentre apparecchiava la tavola.
“Abbiamo il miglior burek del mondo ed è anche caldo, come stai mama?”, le chiese Damir abbracciandola.
“Bene, bene, contenta di vedere i miei due figli prendersi cura della cena e della loro madre”, rispose sedendosi.
Ivan la baciò sulla guancia e annunciò che sarebbe uscito di lì a poco, ma che prima avrebbe fatto due chiacchiere con loro.
“L'insegnante a scuola oggi ha tenuto una piccola lezione di storia della Iugoslavia, con l'accento sugli ultimi sviluppi indipendentisti degli sloveni. Era appassionata in questa sua lezione ma si è coperta di un velo di tristezza non appena ha iniziato a parlare del futuro. Ha lasciato intendere che impediranno lo stesso esito per noi”.
“Sembri anche tu appassionato, hai apprezzato il suo intervento, mi sembra di capire?” “Sì, la storia sai che mi è sempre piaciuta e poi è interessante capire cosa accade. Dalle nostre parti al confine tanti non si sentono più al sicuro”.
“Damir, non posso negare che neppur’io mi sento più tanto tranquilla. La pace sembra essere svanita con l'ultima trebbiatura, e più si attenderà che le cose migliorino col passare del tempo, più sarà difficile prendere una decisione sensata”.
“Mama, cosa vuoi dire, che intendi lasciare il paese? Non possiamo dividerci ancora!”.
“Ieri alla cooperativa del lavoro mi hanno detto che Marija e suo marito hanno deciso di partire per la Germania. Non parlano di un trasferimento definitivo, ma almeno fino a quando il clima d’odio non si sarà placato”.
“La Germania è un paese accogliente e non è del tutto insensato quello che mama dice, in più si potrebbe viaggiare di nuovo”, disse Ivan non curante.
“Io non ho paura e non mi spaventa questo presunto clima di odio. Che cosa possono farci?”, si oppose Damir, “Tata cosa ne pensa?”.
“Sai bene che Tata non intende andare da nessuna parte, lui è tranquillo qui a casa sua e poi lavora tanto che ha poco tempo per le voci che corrono. Ma per me sento che la situazione è diversa. Io non sono nata qui, lo sapete bene, e in paese inizia a non esserci più tanta simpatia per gli altri gruppi, anche se ho vissuto qui gran parte della mia vita”. “Intendi partire?”, chiese Damir deciso.
“Col passare del tempo ci penso sempre più seriamente. Intanto ho parlato con la zia Marica e lei ci ha invitati ad andare a Zagabria per qualche tempo per godere di un clima più disteso”.
“Io ho la scuola”, disse Damir
“Non appena iniziano le vacanze di Natale, potrebbe essere l'occasione per far visita alla zia e alle tue sorelle”.
“Allora, la cena è pronta, il burek con spinaci e formaggio è servito e abbiamo anche le frittelle allo zucchero come dessert”, esultò Damir
“Dobar tek!” “Dobar tek!”
“Allora a più tardi, vado al caffè del fiume, dobar tek”, salutò Ivan, uscendo.
Bosut kava era il caffè del ritrovo con la terrazza sul Bosut, il fiume che attraversava la città prima di insinuarsi a sud e poi scorrere nella vicina Serbia. Il parco riposava a quell'ora e a passarci erano solo le piccole comitive a spasso e qualche coppia alla ricerca della quiete crepuscolare. Una volta attraversato ci si ritrovava al Bosut kava, da cui uscivano di solito le note di una melodia slava. Dalla terrazza, circondata dai ramoscelli delle piante che sottostavano e riposavano sull'acqua, s'intravvedeva il ponte unire le due sponde.
Ana giocava al biliardo con Ante e, quando Ivan entrò nella sala, stava esultando per un tiro d'autore.
“Guarda che colpo con un solo tiro”, disse Ivan.“Da quando in qua giochi al biliardo?”. “Mi diletto, è un bel passatempo”.
“Come ti vanno le cose? Hai parlato con Damir?”, riprese Ana.
“Oggi a cena se ne parlava, Damir l'ha appreso da mia madre e se ne farà una ragione. Intanto alla fine partiranno dal paese e andranno a Zagabria, qui la situazione non è più ragionevole e presto scoppierà una guerra”.
“Come vi vanno le cose Ana, Ante?”
“Le cose vanno come tutto il resto”, rispose Ana, “ma i miei piccoli cani crescono bene e adorano l'aperta campagna e la solitudine del paesaggio slavonico. Avevo pensato di trasferirmi nella casa del villaggio, lì si divertirebbero proprio tanto”.
“Tuo padre è sempre al villaggio?”, chiese Ante.
“Sì, certo. E' la sua casa e nulla lo porterà via di lì, neppure la guerra”, rispose Ivan, “Da quando tata ha lanciato la nuova attività di vendita di pezzi d'informatica, ha un gran da fare e non ha molto tempo per pensare. Rimane sempre il migliore nel suo campo e noi ne siamo orgogliosi. Vi offro un bicchiere di acquavite di prugne, della buona sljivovica per accompagnare i nostri tiri d'autore?”.
“Affare fatto!”, rispose Ante, mentre accompagnava concentrato la stecca sul tavolo vellutato.
Un’orda di cavalli bianchi attraverso la piana del Bosut si affrettano a guadare le acque basse del fiume, pronti a travolgere la natura che li circonda timidamente. Spadroneggiano nella loro maestosa agilità e l’occhio è fisso sulla loro plastica muscolatura che diviene sempre più minuta man mano che si allontanano all’orizzonte.
Un tale spettacolo non sarebbe più stato così usuale, non per Jelena né per Damir.
La neve aveva ricoperto i campi e le case. L’inverno si era riversato nella vita di tutti come sempre, come ogni dicembre. Decisero di partire per Zagabria dopo il Natale. In tanti si apprestavano a lasciare il paese, i bombardamenti non permettevano tentennamenti. Ma non tutti partirono, e tata Branimir e i suoi fratelli rimasero. Jelena e Damir invece armati di pazienza, la pazienza dei coraggiosi, salirono sul lento treno che offrì loro il viaggio più lungo della vita. I bagagli non erano tanti ma, l’unico reale peso era il nodo in gola nel lasciarsi alle spalle la propria terra in preda alla ferocia della funesta volontà degli uomini.
“A cosa pensi mama?”, osò chiederle Damir.
“Ho la mente annebbiata da mille pensieri”, rispose, “Adesso che arriveremo a Zagabria dovremo sistemarci come possiamo da zia Marica, io vedrò come organizzare la partenza per la Germania. Ivan mi precederà, così non sarò sola all’inizio”.
“Mama, ma io sentirò la tua mancanza, sarai raggiungibile?”, implorò Damir.
“Certo, potremo sentirci per telefono molto spesso, non preoccuparti non vado in capo al mondo”, lo rassicurò Jelena.
“Posso venire anch’io in Germania?”, continuò insistente.
“Damir, dovrai finire la scuola e poi continuerai gli studi probabilmente. Devi pensare al tuo futuro, noi ci vedremo ogni volta che potremo”, disse sfinita e quasi con le lacrime agli occhi.
“Dobar dan, zia Marica”.
“Dobar dan, piccolo Damir, anche se non sei più un bambino, vedo! Jelka e Bojana sono a lavoro ma rientreranno per cena e saranno felicissime di vedervi. Com’è andato il viaggio?”.
“Grazie zia Marica, adesso facciamo riposare mama, che deve essere molto stanca”. “Certo, venite pure, ho preparato le frittelle con succo e caffè caldo”.
“Siamo un po’ stanchi, è vero, ma il viaggio non è stato poi così lungo, dovremo adattarci a questo nuovo tempo”, intervenne Jelena, sprofondando nella poltrona del soggiorno.
Jelka e Bojana non tardarono e si affrettarono a preparare la tavola e poi la stanza degli ospiti, affinché Jelena e Damir potessero dormirci per qualche tempo.
II
Il giorno della partenza per il nord della Germania non tardò ad arrivare, e Damir non immaginava ancora potesse davvero accadere di doversi separare dalla sua mama. Ma quel momento giunse, e lui non ebbe neppure il tempo di accorgersene. Finché non fu preso dalla nostalgia, e non poté fare a meno di trascorrere le sue giornate al telefono per sentire la voce della sua adorata mama. I giorni trascorrevano impazienti, rincorrendosi verso una meta agognata, quella del ricongiungimento. Il tempo non aveva che un solo senso, un’unica sola direzione che Damir e, con lui, tutti i suoi familiari, avevano intrapreso: riunirsi in qualche modo a Jelena, che dal canto suo aveva potuto raggiungere la cittadina di Ingolstadt.
I viaggi si susseguivano, e Damir andava a trovare Jelena e Ivan ogni volta che poteva. Lunghi viaggi in autobus gli permettevano di non perdere la speranza e potersi riunificare con la madre e il fratello esuli. L’urgenza e la frequenza di quelle trasferte si fecero più pressanti quando Ivan, per necessità, rientrò al paese in Slavonia, lasciando così sola la madre.
“Mama, ho intenzione di seguirti in Germania, ci ho pensato a lungo e non credo debba pensarci ancora”, esordì Damir.
“Ma sei all'università, gli studi in facoltà sono importanti, lo sai”, ribatté Jelena, non potendo fare a meno di esprimere gioia a quel proposito.
“L’università, posso continuarla anche in Germania se riuscissi a inserirmi, ma non ha molta importanza ormai. Voglio stare insieme a te e recuperare il tempo perduto, potrò aiutarti e non sarai più sola”.
“Devi pensarci bene, io sarei contenta di averti vicino di nuovo e insieme le difficoltà si dimezzano, lo sai?”, riprese Jelena.
“Ci ho pensato a lungo, anzi è così naturale, perché mai dovrei pensarci ancora?”, concluse Damir.
“Va bene, allora raggiungimi pure, sarà bello ritrovarsi”.
Ingolstadt era una cittadina molto vivibile, dal verde dominante e Damir e Jelena amavano poter passeggiare nei parchi. Non era poi così diverso dalle passeggiate lungo il Bosut, con un po’ d’immaginazione. La città era sede universitaria e Damir seguiva i corsi di tedesco, che imparò in un batter d'occhio. Jelena faceva traduzioni per conto di cooperative del lavoro croate che avevano lì sede.
Qualche anno dopo, tuttavia, giunsero le risposte tanto attese alle loro procedure di richiesta d’asilo. Jelena e Damir non riuscirono a ottenere i documenti di soggiorno. Non ci fu da arrendersi, ma solo da perseverare, finché la ragione poté prevalere sulla fatalità, permettendo loro di stabilirsi in Belgio, il paese che li accolse.
Erano ancora a Ingolstadt, quando, nell'estate del 1994, giunse loro una terribile notizia. Tata Branimir lavorava troppo e amava fumare. Venne meno un giorno di calda estate, portato via non dalla guerra, ma dalla vita nella pace del sonno. La distanza in talune circostanze stempera il dolore, e Damir ricorda sempre come, da bambino nelle braccia di tata Branimir, gli mordesse il suo lungo naso aquilino. E non solo, ma anche le qualità di un uomo che si era fatto da solo, ammirato e lusingato da molti e le cui imprese erano state riportate e riconosciute dal giornale nazionale. Quest’assenza non fu più colmata, ma col tempo si fece presenza, e l’affetto e l’amore quotidiani ne divennero perenne testimonianza. Ingolstadt fu non solo città sede del loro soggiorno,
ma divenne cornice per uno degli eventi più importanti della vita di Damir, perché certi eventi hanno forse bisogno di uno sfondo tenue, come di un contesto, per sprofondarvici.
III
“Mama, oggi rientro più tardi. A lavoro organizzano la festa d'inverno e probabilmente andrò a vedere di che si tratta”, disse Damir stanco.
“Vai a una festa? Si, certo dovresti farlo più spesso, da quando mi sono ammalata esci poco”, rispose Jelena che riposava a letto, ormai sempre più di frequente.
“Ma no, che non è vero, forse non mi capitano le feste, ma esco spesso con Javier e Paolo e sua moglie, non è vero?”, ribatté Damir.
“Allora divertiti”.
“Grazie mama, ci sentiamo più tardi, ti chiamo”. “Ciao Damir”.
Damir lavorava per un'importante organizzazione, e ne seguiva i sistemi informatici. Quel giovedì non ne aveva molta voglia, ma i colleghi lo avevano convinto a passare la serata insieme, e così si fermò più a lungo dopo lavoro.
Anna si era portata il ricambio in ufficio. Non aveva avuto molta scelta, giacché il suo capo l'aveva esortata a partecipare, da quando aveva iniziato a collaborare con il suo ufficio.
Si ritrovarono piuttosto tardi sulla pista da ballo al suono di note latine. Si erano già incontrati durante un intervento tecnico che Damir aveva portato a termine nell'ufficio di Anna e così lui le offrì da bere e lei accettò divertita. La cercò nei giorni seguenti e lei scoprì che aveva appena incontrato uno dei pochi croati presenti a lavoro. E aveva anche conosciuto la Croazia l'estate prima in vacanza, mentre Damir aveva visitato l'Italia al matrimonio di Paolo di cui era stato testimone. Le coincidenze cominciarono a sommarsi e i destini sembrarono incrociarsi.
Anna era a casa e il telefono squillò. “Mia madre non sta bene, non vorrei lasciarla sola, ti dispiace se ceniamo a casa mia? Puoi portare la cena che hai preparato con i piatti della tua terra”.
“Certo posso portare tutto a casa tua”.
“Ti passo a prendere tra mezz'ora, ti può andare bene?”.
“Sì, cercherò di fare in fretta, allora conoscerò la tua mama?” “Sì, proprio così, conoscerai Jelena. A tra poco allora”.
“A tra poco”.
Anna indossò un vestito carino e preparò i contenitori con le pietanze. Aveva preparato un piatto tipico della sua regione. Non aveva mai ancora incontrato Jelena, sapeva solo che era un po' cagionevole e quella sera finalmente l'avrebbe conosciuta. Era emozionata.
Giunsero con l'auto dinanzi alla porta di casa di Damir e si attardarono per parcheggiare l'ingombrante auto. Arrivati sulla soglia di casa, la invitò a entrare.
“Dobra večer”, disse Anna passando dall'ingresso al piccolo disimpegno.
Dal disimpegno si accedeva a una stanza da letto, quella di Jelena, a sinistra, e a un'altra stanza, quella di Damir, di fronte, attraverso dei gradini nascosti dalla porta. A destra c'era la cucina, dove Damir e Anna entrarono. Sistemarono la cena nelle stoviglie per scaldarla e nel frattempo e lentamente apparve Jelena dalla sua stanza in vestaglia di ciniglia e pantofole calde.
Timidamente Damir presentò Anna a mama e poi le chiese come stava. “Bene, sto bene. Che cosa dobbiamo fare ancora per la cena?”.
“E' tutto pronto, Anna sta scaldando i piatti. Apriamo una bottiglia di vino per l'occasione?”.
“Sì”, disse Jelena, “abbiamo il vino sulla finestra”.
“Ecco un rosso per brindare a noi”.
Anna preferiva non dire qualcosa di sbagliato e parlava quando interpellata. Non voleva sembrare indiscreta.
“La cena è pronta”, disse Anna
“Che cosa sono questi piatti?”, chiese Jelena
Anna spiegò alla meglio in inglese che cosa aveva preparato, Jelena conosceva l'inglese, anche se non lo praticava più tanto spesso.
“Sono piccanti i peperoni?”, chiese Jelena
Anna non capì di primo acchito, poi comprese che si trattava del piccante. “No, non sono piccanti”, rispose Anna
“Allora facciamo un brindisi?”, propose Damir “Sì, certo”, rispose Anna
“Facciamo un brindisi a noi”, disse allora Jelena
Con quella cena Anna entrò ufficialmente a far parte della famiglia di Damir e fu per sempre.
Alcuni mesi dopo Jelena iniziò à stare peggio e decise di condividere con Anna il male che l'attanagliava in silenzio ormai da due anni. Sua nipote Jelka era arrivata da Zagabria per assisterla. Tutti le erano vicini e Damir se ne occupava nel miglior modo possibile. Il 5 settembre di quell’anno Jelena non si risvegliò dal sonno e Damir l’annunciò quel giorno ad Anna per telefono. La sua voce era lieve e intimorita. Alla sera si strinsero forte e si dettero coraggio, sapendo di non potersi più lasciare.
LUCI SUL PALCO
Sonia, attrice professionista appartenente alla compagnia “Artis”, era solita svegliarsi presto per andare alle prove ma, questa volta, aveva i sintomi di un’influenza. Ancora assonnata, telefonò in teatro pregando Simone, suo collega, di riferire a Roberto, il regista, che non ce l’avrebbe fatta a raggiungerli né a recitare nei giorni successivi, motivo per il quale avrebbe potuto dare la sua parte ad un’altra. Roberto andò su tutte le furie e, strappato di mano il cellulare a Simone, le ricordò che soltanto lei era in grado di interpretare la protagonista della loro commedia, perciò avrebbero aspettato la sua guarigione. I giorni passavano e Sonia non tornava al lavoro. Era sempre stata la più brava e la più versatile in quanto riusciva a immedesimarsi perfettamente in qualunque personaggio le fosse assegnato. Questa volta sarebbe dovuta “diventare” Nora, la coraggiosa eroina di “Casa di bambola” di Ibsen che era riuscita a riprendere in mano la sua vita dopo essere stata subordinata per anni ad un marito incapace di apprezzarla e di amarla. Sonia si era preparata a lungo ma, ogni volta che si immedesimava in lei, si sentiva male sia psicologicamente che fisicamente. Così, nonostante la febbre fosse passata, non volle fare rientro e si lasciò andare alla pigrizia e all’indifferenza verso tutto quanto stesse accadendo. Un giorno Rosaria, un’amica della compagnia, andò a trovarla per comunicarle che, data la sua prolungata assenza, le era stata assegnata la parte di Nora. Questa notizia la sollevò moltissimo. Le prove generali erano fissate la settimana successiva, di sabato mattina. Lo spettacolo era previsto di sera, ma mancava all’appello Rosaria che si era infortunata ad un piede mentre stava raggiungendo i compagni in bicicletta. Per evitare di rimandare lo spettacolo, il regista chiamò Sonia pregandola di riprendere il suo posto. La sua reazione fu all’inizio negativa ma alla fine, dopo un lungo tira e molla, si rese disponibile. Durante la prova generale si sentiva strana, quasi fosse improvvisamente caduta in uno stato di trance. Tutti notarono il suo cambiamento: recitava senza partecipazione e senzatrasmettere emozioni. Ma ormai non si poteva tornare indietro. Non restava altro da fare che rassicurarla che tutto sarebbe andato per il verso giusto. Alle 21.00 si sollevò il sipario. La platea era gremita. Rosaria era riuscita a farsi accompagnare in teatro e si era seduta in prima fila. Era sicura che l’amica non l’avrebbe delusa e che avrebbe dato il meglio di sé. All’inizio del I atto Sonia sembrava leggermente sotto tono, come se si stesse sforzando di recitare. Ciononostante era in grado di mantenere discretamente la scena e di catturare l’attenzione. Dal II atto in poi riuscì ad entrare di più nel personaggio di Nora e a percepirla per chi veramente era: una donna responsabile e matura trattata dal marito come una bambina viziata. Ora le riusciva facile sorridere, annuire come Nora, avanzare richieste e fare piccole smorfie al marito per assecondarlo e farsi ben volere. La sua voce risuonava nella platea alta e cristallina, il corpo volteggiava agile e sciolto sul palco come quello di un’ allodola, il piccolo uccello simbolo di quello che Tovarld vedeva nella moglie: una persona che, malgrado la sua immaturità, era riuscita miracolosamente a crescere i figli; una donna dalla quale pretendeva obbedienza e sottomissione, perchè spettava soltanto a lui provvedere realmente alle necessità della famiglia, esserne la colonna portante e la fonte di sussistenza dovuta alla sua dedizione al lavoro di bancario. Dal suo punto di vista, Nora non avrebbe mai potuto comprendere cosa significasse guadagnare, amministrare soldi, relazionarsi con persone importanti. Il suo regno sarebbe stato sempre e solo la casa, unico spazio adatto ad accogliere le sue piccole e fragili ali. Le sue ali erano proprio come quelle di Sonia: anche lei un uccellino, anche lei imprigionata in una gabbia, quella delle illusioni che suo marito Roberto potesse cambiare e trattarla in modo diverso. La somiglianza tra i due uomini era notevole: Tovarld non si era mai sforzato di comprendere ed apprezzare cosa realmente avesse fatto Nora per lui quando in passato aveva contratto un debito con Krogstad, un usuraio, per poter curare la sua grave malattia. Invece di esserle grato per aver corso un così alto rischio, si era solo preoccupato di mettere a tacere lo scandalo che sarebbe potuto scoppiare qualora la storia del debito fosse stata svelata a tutti i colleghi da Krogstad che lavorava nella sua stessa banca. Preso dalla rabbia e dalla preoccupazione, era stato sul punto di cacciarla di casa e di toglierle i figli. Solo alla fine, grazie al fatto che la situazione fosse rientrata fortuitamente nella norma, l’aveva magnanimamente perdonata, rivelando la sua natura meschina. Così Nora, stanca dei maltrattamenti e dell’ingratitudine del marito, aveva deciso di abbandonare un nido che non era stato mai caldo ed accogliente. Ma questa volta non aveva bisogno del permesso di Torvald per andare via: lo avrebbe fatto di sua spontanea volontà, nella convinzione che solo la solitudine avrebbe potuto scardinare o, almeno, scalfire l’orgoglio e la presunzione di un uomo profondamente egoista e ingrato. Come Torvald, anche Roberto aveva sempre sottovalutato la moglie e non l’aveva mai ringraziata per tutte le volte in cui lo aveva aiutato e consigliato. Nei primi anni di matrimonio Sonia aveva sanato i debiti da lui contratti a causa di un investimento sbagliato e lo aveva salvato dal baratro. Nonostante fosse molto più brava ed esperta di lui sia come attrice sia in qualità di regista, aveva lasciato che dirigesse la compagnia. Si era sempre messa in ombra perché le interessava solo la sua felicità. E, ora che sembrava avessero raggiunto una certa tranquillità col lavoro teatrale, le dimostrava la sua riconoscenza trattandola in modo autoritario e dispotico, dispensando ordini e critiche sul suo modo di recitare con la scusa di volerla rendere più brava e perfetta di quanto già fosse. Così come per Nora era arrivata l’ora di dire basta, anche per Sonia era giunto il momento che aveva a lungo rimandato. Aveva sperato con tutto il cuore che il marito cambiasse. Ma, dato che la fiducia riposta era stata disattesa, avrebbe dato una svolta drastica alla situazione, anche se le dispiaceva molto dover lasciare i compagni e non poter condividere più con loro la passione che avevano in comune. Nell’indossare davanti al pubblico la maschera di Nora, aveva compreso che proprio lei le stava dando il coraggio di riprendere in mano la sua vita. Ora non temeva più il giudizio degli altri, non aveva più paura di reprimere le sue emozioni. Mai come in quel momento si era sentita se stessa, la vera e autentica Sonia. Era consapevole che avrebbe dovuto abbandonare la sicurezza economica e professionale costituita da una compagnia ormai affermata ma, nello stesso tempo, era profondamente convinta che il suo affezionato pubblico avrebbe continuato a seguirla in qualunque luogo fosse andata. Non avrebbe avuto più nulla da temere se non l’ennesima e ultima lite con Roberto, dopodichè avrebbe finalmente spiccato il volo.