Küffer de Alencar Rubens
Nato a Rio de Janeiro da una famiglia austro-svizzero-brasiliana, si è diplomato in flauto dolce presso il Conservatorio Brasiliano di Musica, completando la sua formazione alla Scuola Superiore di Musica di Karlsruhe, Germania. Dal 2013 si dedica alla ricerca e riscoperta di strumenti romantici della famiglia del flauto dolce, particolarmente csakan e flagioletti. Il suo interesse per la storia e la letteratura lo ha sempre stimolato a scrivere poesie e racconti, attività a cui si dedica fin dalla gioventù. Attualmente risiede a Sanremo.
Metamorfosi
“Sono un estraneo per i miei fratelli,
un forestiero per i figli di mia madre.”
Salmo 69,8
Il cielo sanguinava. Alinardo salì su un’accozzaglia di cadaveri con la spada ancora coperta di viscere, lo sguardo vuoto, il respiro affannoso. Corpi mutilati, di vivi e morti, coprivano l’intero campo dove si era consumata quella follia. Corvi cominciavano a nutrirsi dei caduti ed i pochi soldati rimasti in piedi provavano, faticosamente, a contare le vittime e soccorrere i feriti. Un cavallo, che aveva perso parte della zampa anteriore, cercava di alzarsi ad ogni costo e schiacciava, involontariamente, qualsiasi cosa lo circondasse. Il suo nitrito era lacerante. Uomini sventrati imploravano un colpo di misericordia e quando tacevano era un gran sollievo. Non si distinguevano più vittoriosi o sconfitti e Alinardo sapeva, in cuor suo, che non c’erano che sconfitti. Lì, da solo, in silenzio, sulla montagna di defunti, osservava quelle scene di terrore assoluto da lui provocate e vedeva svanire tutte le sue certezze. A cosa gli servivano quelle terre? Valevano la morte, l’assassinio di tanti uomini? Quante famiglie distrutte! Quante madri, mogli, quanti figli non avrebbero mai più rivisto il viso dei loro cari! E poi, anche chi, come lui, avesse fatto ritorno, in realtà non sarebbe mai tornato! Sì, questo l’aveva, ormai, veramente compreso! Qualcosa cambiava, qualcosa si trasformava lì, in quell’attimo, dentro la sua anima e non c’era più via di scampo.
La strada verso casa fu lunga e silenziosa. Alinardo aveva proibito a chiunque, pena la morte, di vantarsi di qualsiasi fatto avvenuto durante quel diabolico macello. Non restava più dignità, la maestà era andata persa ... Come vola una foglia secca sottomessa ai capricci del vento, così camminavano quei soldati, spinti da chissà quale forza. Non erano più uomini, non avevano più desideri, erano araldi di membra ferite e memorie che avrebbero voluto amputare.
Arrivati alla valle, ma ancora prima che entrassero nel borgo, Alinardo inviò un messaggero al castello per avvisare la folla ansiosa che non ci sarebbero stati festeggiamenti. La popolazione, comunque, aveva formato un lunghissimo corridoio che occupava entrambi i lati della strada e che iniziava alle porte della città e giungeva fino all’entrata della fortezza. Donne di tutte le età e bambini disperati si spingevano per farsi spazio in mezzo alla moltitudine e cercavano un volto conosciuto, mentre Alinardo e i suoi uomini proseguivano muti e a capo chino. Ogni tanto qualcuno riusciva a staccarsi dal popolo e invadeva il centro della strada per abbracciare uno dei sopravissuti che, incondizionatamente, scoppiava in un pianto dirotto. All’entrata del castello, la regina e la figlia lo aspettavano in pena e, cadendo in ginocchio, gli diedero un abbraccio addolorato non appena lo videro.
Quella notte, Alinardo fece un sogno:
Guidava un esercito gigantesco che lo seguiva gloriosamente attraverso campi fioriti senza fine. Il cielo era una cupola di cristallo lucente il cui riflesso si mescolava in tutte le creature e cose ed era impossibile separare l’uno dalle altre. Una perfetta armonia fra essere-oggetto era moltiplicata infinite volte, in ogni minuscolo dettaglio. Nella più piccola goccia di rugiada si ammirava l’intero universo specchiato! Tuttavia, in mezzo all’incanto di quel paesaggio, Alinardo vide una montagna. Non era una montagna comune, poiché era così alta che lui non riusciva a comprendere come non l’avesse vista prima. Guardava in su e non riusciva a scorgerne la cima. Si sentiva irritato, offeso. Quella montagna era un affronto, una sfida, una mancanza di rispetto! Abbassò la testa in profonda riflessione. Si voltò, allora, verso i suoi uomini e, con uno sguardo enigmatico ed impassibile, puntò con fermezza verso la sommità di quel misterioso ostacolo senza proferire un’unica parola. Mai guardandosi indietro o di lato, Alinardo guadagnava terreno e non percepiva che il suo esercito si assottigliava. Nella misura in cui salivano, alcuni uomini perivano per la stanchezza, altri per la fame, c’era chi non sopportava il caldo, chi non resisteva al freddo, chi soccombeva davanti alle tante difficoltà del giorno, chi svaniva fra i pericoli nascosti nella notte, chi non tollerava la malinconia di casa, chi s’indeboliva per la mancanza dei propri cari, chi non trovava il percorso a causa della poca esperienza, chi in preda all’arroganza imboccava il cammino sbagliato, chi si abbandonava alle malattie, chi sceglieva la pazzia …
Arrivato finalmente alla vetta, Alinardo si accorse di essere solo. Il cielo era diventato di un buio così avvolgente e profondo che somigliava alle fauci di un mostro capace di alimentarsi di qualsiasi materia gli si avvicinasse. Si sentì perso. Se laggiù poteva condividere il risplendere e riflettere di tutti gli esseri e oggetti, lassù non c’erano più luce o rifrazione. Non nascevano fiori, poiché non esistevano campi. Non c’erano parenti o amici, nemmeno eserciti alleati o rivali. Niente esisteva oltre al vuoto che si auto consumava.
Fu, allora, che disperato, urlò follemente e, cercando di scappare da quel posto maledetto, si mise a scavare a mani nude un buco per terra. Ma quanto più scavava, più la terra lo faceva sprofondare. Improvvisamente, la montagna lo ingoiò e la voragine si trasformò in un immenso abisso. Alinardo cadeva, cadeva e cadeva ancora … più precipitava, più l’abisso sembrava vivo e profondo! Durante la caduta gli passavano davanti agli occhi, senza qualsiasi tipo di ordine o coerenza, immagini e memorie di tutta la vita: il suo primo bacio, membra amputate, la morte del padre, l’orgoglio della vittoria in battaglia, il sorriso di un bambino innocente, il sorriso rassegnato di un vecchio, il viso sfigurato di un impiccato, corpi allacciati fra gemiti di piacere, il profumo dei campi, lo sguardo disperato di un nemico prima del colpo fatale, campi coperti di neve, una malattia, l’estasi di una bella musica, la nascita della figlia, l’angoscia di un’inevitabile sconfitta, il richiamo di una campana, una discussione inutile con la moglie, l’odore della morte, uno sbaglio mai perdonato, un pranzo in famiglia, la preghiera intima e sublime di una coppia di contadini all’ora dell’Angelus … e un’inesauribile quantità di altre scene e ricordi che avevano segnato ogni minuto della sua esistenza.
Per quanto tempo cadde? Forse sprofondò per tutta una vita, oppure tutta la sua vita passò in una frazione scarsa di secondo. Si trovò steso dentro una caverna immensa, fredda e vuota. Un’unica breccia sul soffitto permetteva l’accesso della luce al suo interno e un mantello, illuminato dai raggi di sole, copriva qualcosa a terra. Alinardo si trascinò con difficoltà e, avvicinandosi al mantello, lo prese. In quell’esatto momento, il sogno finì.
2
Alinardo si svegliò angosciato. Tutto sembrava così vivo e vero che, nel buio della notte, per qualche istante pensò di essere effettivamente dentro la caverna. Però la caverna era fredda e, lì, non c’era nessuno. Nella sua camera invece, ancora ardeva il fuoco in un bel camino e sua moglie dormiva tranquillamente al suo fianco. Per non disturbarla, si alzò silenziosamente e si affacciò alla finestra. La nebbia era talmente densa e soffocante da ricordargli la montagna del sogno. Con un gesto tormentato, scosse la testa.
Per tutta la giornata rimase confinato in una delle stanze del castello e rifletté su ogni dettaglio del sogno. Le immagini che aveva visto mentre cadeva continuavano a corrergli davanti agli occhi e gli portavano alla stessa terribile sensazione di prima. Si sentiva come se stesse vivendo innumerevoli volte tutto quello che era già diventato passato e in preda a una devastante esplosione di sentimenti e sensazioni, a volte buoni, a volte cattivi, che non riusciva a controllare.
Alla fine del pomeriggio, poco prima di cena, Alinardo cercò la moglie. Aveva un aspetto abbattuto ed il suo sguardo era commovente. Per alcune ore conversarono a porte chiuse. Inizialmente i suoni provenienti dalla stanza erano leggeri ed indistinti, quasi come se stessero scambiandosi segreti. Tuttavia, man mano che la conversazione avanzava, si sentivano anche da lontano grida e pianti di entrambi i coniugi. La discussione si concluse infine con l’uscita della regina fra gemiti e singhiozzi in mezzo ai corridoi.
Alinardo convocò i suoi consiglieri più cari nella Sala del Consiglio. I quattro nobili arrivarono carichi di apprensione. Erano cavalieri anziani e di grande esperienza in battaglia. Avevano servito il padre di Alinardo per tantissimi anni e gli erano rimasti fedeli fino all’ultimo. Con la stessa devozione si donavano al figlio ma, nemmeno uno tra di loro, riusciva a comprendere quella sete incontrollabile di nuove terre; quel mostruoso cancro che devastava il suo cuore, sempre desideroso e alla ricerca di qualcosa in più.
Fu, però, a bocca spalancata, che ognuno udì le funzioni che Alinardo, con fermezza e naturalità, affidava loro: liberazione di tutti i prigionieri; restituzione delle terre ai legittimi proprietari o, in caso di morte, ai loro eredi; ricostruzione di tutte le case distrutte nei saccheggiamenti; sussidio vitalizio alle vedove dei soldati e così via. Come premio per gli anni di servizio, cedette ai consiglieri immense proprietà. Fece ancora tre richieste: che vegliassero sulla regina con l’amore e la fedeltà che avrebbero destinato alla propria madre; che si occupassero dell’educazione ed istruzione della piccola principessa; che facessero spargere la notizia che tutti quegli atti erano stati decisi dal Consiglio dopo la sua morte, accaduta per misteriosa malattia.
I quattro gentiluomini cercarono di discutere, di convincere Alinardo a riflettere ma questo, con un piccolo gesto, fece segno di tacere e così fu. Con immensa gratitudine nello sguardo, umilmente, gli abbracciò uno ad uno.
La mattina dopo, un’atmosfera eterea, rinforzata dall’alba rosacea, si mescolava alla nebbia bassa, che ancora copriva parte della vegetazione. Una brezza gelida soffiava lieve, donando un po’ di freschezza ma anche annunciando l’arrivo dell’inverno. Alinardo, nelle vesti di un mendicante, si trovava con la regina e la principessa in fronte al cancello della fortezza. S’inchinò davanti alla moglie, che quasi non riusciva a trattenersi, distrutta dalla tristezza. Ne baciò appassionatamente le mani e rimase abbracciato a lei in silenzio. Poi, ancora in ginocchio, guardò la figlia e, addolorato, pianse inconsolabile senza riuscire a dire nulla.
Alinardo s’allontanò lentamente dalla fortezza e mai si voltò indietro. Non perché non volesse, non perché gli mancassero sentimenti latenti di dolore più profondo, ma perché non gli era più concesso. Anzi, si sentiva schiacciato da una colpa così grande verso il mondo, verso la famiglia, verso sé stesso, che gli si piegavano le gambe e gli si contorceva lo stomaco. Però, era già stato sulla cima della montagna e aveva provato il vuoto. Ora nient’altro restava se non accettare l’inspiegabile tuffo verso il mistero.
Senza meta, camminò per molti giorni, cercando di allontanarsi il più possibile dai suoi vecchi territori. Camminava finché la luce lo permetteva e si riposava quando il sole calava. Tuttavia, c’erano dei momenti in cui si fermava davanti agli oggetti ed esseri più piccoli della natura e, lì, ne ammirava ogni particolare. Cercava di distinguere l’intera tavolozza di colori che dipingevano i fiori o le ali di un insetto, annusava tutte le fragranze come preparandosi a degustare il vino più pregiato, associava ogni forma ad una perfetta geometria cosmica che non aveva mai percepito. Si stendeva sull’erba, anche nelle notti più fredde, e contemplava ogni stella individualmente, poiché in ogni entità, in ogni materia scopriva un fulgore allo stesso tempo magico e unico. Mangiava quello che trovava: frutta, funghi, semi e anche qualche piccolo animale che riusciva a cacciare. Abituato alla dura vita da guerriero, trovava sempre con facilità qualche posto che servisse da riparo dal vento e dal freddo.
Finalmente arrivò ad un enorme lago così cristallino che rifletteva con assoluta perfezione tutta la gamma d’immagini e di colori di quel prezioso istante. Alberi dalle diverse tinte, formavano un degradé intorno agli altri che già avevano perso le foglie e si specchiavano in due piani identici, ma opposti. Si sedette immobile, sereno, senza pensare o giudicare. Mentre osservava e si lasciava assorbire dalla bellezza, una dolcissima sensazione di profondo affetto e gentilezza dominò, per qualche tempo, il suo cuore disturbato e, forse per la prima volta in tutta la sua vita, percepì che dentro di lui esisteva un residuo, una traccia, forse un’orma già quasi cancellata di qualcosa più profondo che timidamente chiedeva luce e spazio per fiorire. Questo delicato germoglio era della sua stessa natura e la consapevolezza della sua esistenza ultima si manifestava esternamente nella forma di un pianto così cordiale, così affabile, così dolce, che era quasi un sorriso!
Pian piano la luce del giorno si dissipò, il riflesso dell’acqua perse nitidezza e Alinardo sentì freddo e fame. Solo allora si accorse che già era sera. Doveva trovare subito del cibo e anche un posto dove passare la notte. Però, il buio si propagava velocemente e lui si trovò impotente. La luna nuova e le dense nuvole rubavano gli ultimi resti di chiarore. L’oscurità era totale!
Si stese sull’erba e si contrasse come un feto cercando di addormentarsi. Ma il freddo aumentava e una pioggia finissima e gelida lo infastidiva. Concluse che non avrebbe potuto restare lì e decise di cercare un qualche rifugio anche senza vedere un passo avanti. Pur prestando attenzione e camminando molto lentamente, inciampava nelle pietre e radici ma continuava, mentre una forte tempesta si formava. Rischiarato da un lampo, intravide, non molto lontano, un piccolo gruppo di case che somigliava a un paesino di contadini. Siccome probabilmente aveva già sorpassato la frontiera delle sue terre, vi si diresse.
Bussò a una delle porte che fu subito aperta da una giovane coppia che lo guardava sgomenta. Alinardo spiegò di essere un pellegrino sorpreso dal temporale e chiese gentilmente se poteva rimanere e mangiare qualcosa in cambio di lavoro. I contadini, diffidenti e perplessi, accettarono la proposta. Chi sarebbe così pazzo da andare in pellegrinaggio vestito come un mendicante e senza portare nemmeno una borsa? Chi era quel miserabile che, tuttavia, si presentava con gesti e modi così squisiti, utilizzava un vocabolario così cortese, aveva una statura così grande e forte e un viso così bello e signorile? Tutte queste domande loro si facevano, allo stesso tempo in cui erano in parte dominati dalla paura di negargli l’ospitalità e in parte dalla necessità di aver qualcuno che li aiutasse con i lavori quotidiani.
Lo invitarono a entrare e gli offrirono un po’ di zuppa con del pane, che Alinardo mangiò con immenso gusto. La casa era più che altro una capanna piccolissima e molto povera. Era composta praticamente da un’unica stanza che serviva contemporaneamente da dormitorio, cucina e sala. L’unico posto dove poteva effettivamente passare la notte era la stalla. Quando si trovò solo insieme alle capre, agli asini e ai maiali, sorrise e s’addormentò immediatamente.
Alinardo aveva scorto il paesino di contadini durante la tempesta e non aveva altra idea di quella di restarci per una sola notte e, poi, ripartire immediatamente non appena avesse pagato il soggiorno con una giornata di lavoro. Tuttavia, si trovò così bene in loro compagnia che lì rimase.
La comunità serviva un importante signore che era l’unico proprietario di tutte le terre e di tutti gli animali. Ogni famiglia aveva diritto all’utilizzo di una frazione delle terre signorili, che consisteva di una casa piccolissima, una stalla e un orto. I contadini dovevano lavorare gratuitamente tre giorni la settimana nei campi esclusivi del castellano, pagargli tributi e donargli buona parte del proprio raccolto. Si alzavano prima dell’alba, mungevano le capre e le mucche, tagliavano ed immagazzinavano il legno, abbattevano gli animali per affumicarne la carne, lavoravano il lino di canapa per fabbricare linee e corde, curavano l’orto, coltivavano i campi, alimentavano le galline e raccoglievano le uova.
Alinardo dovette imparare tutte queste attività e lo fece con grande impegno. Tutti osservavano la dedizione e l’efficienza che mostrava naturalmente mentre lavorava e se ne stupivano. Svolgeva i suoi compiti con un grado di concentrazione elevata, come rapito da ciascun minuscolo movimento dove solo il presente esisteva. Cercava, quasi come una costrizione, la meraviglia e lo splendore di ogni essere, di ogni oggetto, di ogni atto e di ogni microscopica divisione di tutto quello che vedeva, udiva o sentiva. Donava tutte le sue forze ad ogni singolo istante e tutto quello che usciva dal lavoro delle sue mani spuntava come il più prezioso gioiello offerto all’universo!
Però, nei rari momenti in cui non lavorava, tutto sembrava più difficile e pesante. Non di rado, si arrendeva alla nostalgia della moglie e della figlia e lacrime impetuose, allora, gli bagnavano il viso. Questo non passava inosservato dai contadini che, comunque, non osavano domandargli cosa affliggesse il suo cuore. Pian piano provava, con curiosità e stupore, quanto fragile e delicata, dolce e semplice, era quell’esperienza subordinata all’abnegazione e alla rinuncia.
Con l’arrivo dell’inverno, le attività quotidiane lentamente cambiavano. Nei giorni in cui il clima lo permetteva, si tagliavano le viti, si radunava il legno, si ristrutturavano i cerchi e si andava a caccia. Quando non si poteva uscire, si lavorava dentro casa riparando reti da caccia, affilando coltelli e attrezzature oppure fabbricando utensili.
In quel periodo, si vociferava che il signore delle terre si era gravemente ammalato e che, molto probabilmente, non sarebbe sopravissuto fino alla primavera. La successione diretta spettava al suo primogenito, uomo ancora giovane, notoriamente irresponsabile e avido di oro e di potere, che trattava i suoi sudditi disumanamente e senza alcuna compassione.
Impotenti, ai contadini non restava altro che pregare e attendere. Cercavano ad ogni costo di produrre più che potevano, in modo da aver qualche riserva. Con grande gioia accoglievano i giorni che cominciavano nuovamente ad allungarsi e a permettere che il lavoro esterno fosse l’attività principale. Tuttavia, l’inizio della primavera portò la notizia che tutti temevano e fu loro ordinato di partecipare a una riunione con il nuovo sovrano.
Era un giorno di pieno sole e molto caldo per quella stagione. I sudditi aspettavano con preoccupazione l’arrivo del giovane erede in un cortile vicino a una cappella. La paura dell’avvenire era così grande che un silenzio macabro regnava fra quei visi sofferti e sudati. Alinardo si trovava in mezzo al gruppo quando avvistò, lontano, la polvere che si alzava dalla strada di terra. Si avvicinava un piccolo gruppo di cavalieri.
Dette poche parole di saluto, il castellano proclamò che alcune importanti misure dovevano essere prese per evitare una grave crisi economica. Sottolineò, però, che l’aiuto fedele e incondizionato era un obbligo e non una scelta e che chi avesse l’ardire di opporsi a qualsiasi richiesta, sarebbe stato punito con estremo rigore. Il lavoro gratuito nelle terre signorili sarebbe aumentato a quattro giorni; le tasse per l’uso del mulino, del forno e del tino sarebbero aumentate del dieci per cento; per concludere, la percentuale della produzione famigliare privata destinata al castello sarebbe aumentata dal cinquanta al sessanta per cento.
Alinardo osservava i contadini che abbassavano la testa l’uno dopo l’altro in segno di rispetto e rassegnazione. Cercava senza successo qualcuno fra di loro che potesse rompere quel silenzio. Infine, gridò con autorità: “È un’ingiustizia! Un’assurdità!” Immediatamente, un cerchio si aprì intorno a lui e tutti lo guardarono increduli e terrorizzati. Alinardo non riusciva più a trattenersi e preso da una furia che da molto non provava, continuò: “Come potete chiedere ancora di più a questa povera gente? Che tipo di persona può essere crudele a questo punto? Volete negoziare anche la loro anima?” L’espressione del sovrano si oscurò e, con il mento che fremeva d’odio, accennò alla guardia di uccidere quel misterioso insolente. I contadini, ancora più spaventati, si spostarono per far passare i cavalli che portavano i soldati con la spada puntata verso Alinardo. Con una finta molto veloce scappò all’attacco del primo cavaliere, lo prese per il braccio e lo disarcionò. Ancora più velocemente gli tolse la spada e montò il suo cavallo, giusto in tempo per difendersi dagli attacchi successivi. Sempre colpendo i soldati con la parte cieca della lama, li stese a terra uno a uno finché rimase solo il giovane sovrano. Per prendersi gioco di lui, Alinardo bloccava facilmente tutte le sue mosse e contrattaccava con percosse che stordivano, senza mai ferire, fino a che, già esausto ed intontito, il giovane svenne cadendo da cavallo.
Alinardo uscì dal suo stato di furia quando sentì le urla di giubilo che arrivavano da tutti i contadini. Non c’erano state riflessioni nelle sue azioni e, ora, guardava sgomento la conclusione di quella scena e cominciava a comprenderne le conseguenze. Fra il gran chiasso di voci, udì il ragazzo che lo aveva aiutato in quella lontana sera di fine autunno: “Scappa, Alinardo! Scappa!” Comprese che era giunto il momento e fuggì.
Per un paio di giorni cavalcò senza quasi mai fermarsi, cercando sempre posti distanti da qualsiasi contatto con altri uomini. Passava vicino alle piantagioni, ai paesini e anche alle piccole città senza, però, essere visto. Quando si sentì fuori pericolo, legò, durante la notte, il cavallo ad un recinto di una casetta miserabile e proseguì a piedi. Stanchissimo, entrò in un fitto bosco alla ricerca di cibo e di un posto dove riposarsi. Quella notte, fece nuovamente un sogno:
Si trovava steso in una caverna immensa, fredda e vuota. Sentiva il corpo indolenzito, come se fosse stato fortemente picchiato. Cercando di alzarsi, inciampò in una pietra e cadde, perdendo i sensi. Quando riprese conoscenza, aprì gli occhi. Da una breccia sul soffitto, proprio sulla sua testa, un meraviglioso raggio di luce tagliava il buio ed illuminava un mantello steso a terra. Si trascinò con difficoltà e, avvicinandosi al mantello, lo prese … il sogno finì …
Era esattamente la fine del primo sogno che si ripeteva, però Alinardo lo percepiva con più dettagli, ancora più intenso. Era difficile descrivere quella sensazione, ma sentiva la caverna sempre più prossima, sempre più reale. Tuttavia, cosa fosse la caverna e, soprattutto, quello che c’era sotto il mantello, era ancora un immenso enigma senza alcuna possibilità di risposta.
Mentre attraversava il bosco, sentì dei passi molto lenti ed irregolari. Si nascose, allora, nella vegetazione e si mise ad aspettare. Vide un uomo vestito in un abito totalmente bianco, che portava un cappuccio che gli copriva quasi tutta la faccia e lasciava fuori solo una lunga barba grigia. Teneva un cestino e camminava verso di lui. S’inchinò a pochi metri di distanza per raccogliere dei funghi. In quel momento, Alinardo riuscì a scorgere il suo viso e quella sola immagine fu sufficiente a rapire completamente la sua attenzione. Dai suoi occhi coglieva una silenziosa determinazione, un quieto mirino che puntava sempre e incondizionatamente su un unico bersaglio, un vuoto bianco – che non aveva niente a che fare con il vuoto che si auto consumava del primo sogno – e che lui non aveva mai visto! In quello sguardo percepì qualcosa di soprannaturale! Eppure era uno sguardo arido, addirittura un po’ duro, era uno sguardo di uno che non apparteneva più al mondo come lui lo conosceva! Così pensava e rifletteva Alinardo, finché il vecchietto finì di raccogliere i funghi e se ne andò. Alinardo lo seguì per una lunga strada di terra in salita.
Arrivarono davanti a mura gigantesche che somigliavano a quelle di una fortezza. La magnifica struttura architettonica sorgeva fra boschi di querce, alle falde di un monte, a circa 800 metri di altezza. Da dietro le mura spuntavano costruzioni monumentali ed una torre, che senz’altro apparteneva ad una chiesa. Il vecchietto spinse con difficoltà un cancello e lo chiuse. Alinardo, che rimase fuori, decise di fare il giro di tutto il terreno e scoprire cosa fosse quel posto e chi vi abitasse. Non riuscì a scoprire nulla … non c’era un altro accesso, non si riusciva a guardare dentro … restò, quindi, vicino all’entrata aspettando che qualcuno uscisse nuovamente. Dovette attendere fino al mattino seguente, quando lo stesso vecchietto si diresse ancora una volta al bosco, lasciando il cancello nuovamente accostato. Appena si trovò da solo, lo spinse. Non c’era nessuno! Soltanto un atrio, di una cinquantina di metri, a destra del quale si trovavano le stalle, a sinistra, diverse officine e, davanti, l’ingresso agli edifici principali. Vide, dunque, nella falegnameria, un uomo giovane che lavorava. Indossava lo stesso abito interamente bianco con il cappuccio alzato e anche lui portava una lunga barba. Alinardo cercava ad ogni costo di osservare i suoi occhi. Sì, anche lì c’era quello stesso sguardo che riempiva la sua anima di stupore e di mistero! Quegli occhi, diversamente da tutti gli altri, non esprimevano gioia o tristezza, non esibivano lotte, timori o angosce, ma soltanto il puntare su qualcosa che non era lì presente in quell’istante, ma che continuava ad essere visto, sentito, amato! Gli era già capitato di imbattersi in frati mendicanti, ma non era mai rimasto a lungo insieme a loro. Leggeva nei loro occhi una commozione, un incanto verso tutte le cose e tutte le creature, un’ebbrezza di gioia verso l’esistenza, che somigliava tantissimo ad alcune delle sue esperienze personali. Però era esattamente questa la differenza che lo affascinava e attraeva! Nello sguardo di questi due uomini vestiti di bianco, uno vecchio, uno giovane, che lui non sapeva nemmeno chi fossero, non esisteva niente di simile! Sembrava che nemmeno vedessero quello che avevano davanti, ma soltanto quello che esisteva oltre! Soddisfatto, proseguì verso la porta che immaginava essere l’entrata di un monastero.
Aveva ragione! Appena la aprì, si trovò in un’immensa costruzione con lunghi corridoi, dove un silenzio, mai provato, gentilmente lo avvolgeva in ogni stanza, mentre andava da un posto all’altro. Dopo qualche minuto, sentì il suono di una campana. Si nascose in un cortile, dietro le mura di un corridoio dove si trovavano dodici porte, ognuna con uno sportello accanto. Lo stesso si osservava dall’altra parte del cortile. Sette monaci, compresi il vecchietto ed il giovane, si diressero lentamente e sempre in silenzio, ognuno, ad una porta e la chiusero. Risentì la campana. Arrivò, allora, un altro monaco che spingeva un carrello. Davanti ad ogni sportello si fermava, introduceva un pasto e proseguiva. Poi prese un vassoio, spinse una delle porte e entrò, lasciandola aperta. Per un attimo, Alinardo cogitò di seguirlo, ma trovò l’idea troppo rischiosa e decise di aspettare. Mezzora trascorse prima che il monaco nuovamente uscisse con il vassoio e Alinardo si ricordò che non aveva ancora mangiato e che era affamato. Seguì il monaco da lontano e apprese dove fosse la cucina. Nuovamente dovette attendere che l’uomo uscisse e, appena lo fece, si mise a cercare la dispensa. Gli dispiaceva dover rubare del cibo, ma la sua curiosità era ancora troppo accesa per poter andare via da quel posto. Prese del pane e del formaggio in abbondante quantità e tornò a esplorare il chiostro.
Erano già passate due o tre ore dal suono dell’ultima campana, quando la sentì nuovamente. Corse silenziosamente fino al grande cortile e si nascose. Non accadde nulla. Dopo circa un quarto d’ora, la sentì di nuovo e vide uscire gli stessi religiosi che erano entrati prima. Dalle altre porte, niente. Capì, allora, seguendogli, che ognuno di loro aveva una funzione distinta. Uno faceva il cuoco, l’altro il falegname, c’era il sarto, quello che distribuiva il cibo, quello che puliva e così via. Girò ancora per tutto il terreno e scoprì la chiesa e il cimitero. Il cimitero attirò particolarmente la sua attenzione, perché non c’erano tombe e nemmeno identificazioni, ma soltanto una povera croce sulla terra smossa. Alinardo si mise ad immaginare, con un certo apprezzamento, quante vite sarebbero passate assolutamente incognite dentro il monastero! Cercava di collegare tutte queste informazioni e allo stesso tempo scoprirne altre. Chi c’era dietro le altre porte? Perché il monaco incaricato di distribuire il cibo negli sportelli era entrato in quell’ultima cella portando il vassoio e ci aveva messo mezzora prima di uscire? Chi erano quegli uomini che attraevano tanto la sua curiosità e vivevano – e morivano! – ignoti al mondo e a loro stessi? Non restava che continuare ad osservarli e sperare di non essere scoperto.
Trascorse circa altre due ore, la campana suonò ancora. Siccome era dietro i monaci che erano usciti, vide che interruppero le attività e si misero a pregare silenziosamente. Al nuovo suono della campana si diressero verso la chiesa. Per la prima volta li scorse tutti! Notò che, curiosamente, soltanto i fratelli che esercitavano funzioni domestiche portavano una lunga barba, mentre gli altri, quelli che non aveva ancora visto, avevano il viso liscio! Continuò ad osservarli dal suo nascondiglio, poiché non poteva entrare in chiesa senza rivelare la sua presenza. Si accorse, però, che fra di loro, c’era un ragazzo ancora giovanissimo! Questo indossava una cappa nera con cappuccio sopra l’abito bianco e aveva lo sguardo ancora più particolare! Già si percepiva la determinazione estrema, la donazione assoluta, ma era chiaro che erano occhi che ancora vedevano quello che c’era davanti! Erano occhi pieni di speranza, di sofferenza silenziosa, di allegria trattenuta, di umiltà gentile, ma anche di un garbo puro e innocuo! Alinardo lo guardò con le lacrime agli occhi, perché l’innocenza di quel ragazzo gli sembrava il riflesso di un’umanità divina che esisteva ancora pienamente fra i due mondi: quello dei fenomeni e quello eterno! Aspettò per mezzora fuori dalla chiesa, dove comunque poté sentire i canti. Appena finita la cerimonia, tutti si diressero alle celle e nuovamente passò il monaco con il carrello che portava i pasti. Diversamente dal pranzo, sembrava un pasto molto semplice. Un po’ di pane e un bicchiere di vino. Ancora una volta, il monaco prese un vassoio e entrò in quell’ultima cella. Una quindicina di minuti passarono e uscì. Era la fine del pomeriggio, ma il cielo ero ancora molto chiaro. Se voleva esplorare quel posto, doveva farlo subito! Entrò … si trovò una piccola stanza con un tornio ed una legnaia che serviva, sicuramente, per alimentare la stufa a legna accanto. Poi c’era una scala che saliva e una porta che dava su un giardino lungo una decina di metri e circondato dalle mura. Dal giardino si vedevano soltanto le montagne ed il cielo. Tornò alla stanzetta e salì le scale. Arrivò ad una specie di anticamera con l’immagine della Madonna ed un posto per inginocchiarsi. Da lì procedé verso la stanza principale che comprendeva un oratorio, un tavolino ed un letto, dove era steso un monaco anziano e dall’aspetto moribondo! Fu colto da grande sgomento e pensò di scappare. L’anziano, però, gli fece cenno di avvicinarsi e Alinardo, imbarazzato, obbedì. L’uomo era cieco! Aveva un volto benevolo e gli sorrideva. Gli prese la mano e continuò a sorridere, sempre in silenzio. Alinardo percepì il proprio respiro accelerare quando si accorse che quegli occhi spenti lo vedevano! Liberati dal contatto con il mondo esterno, toglievano il velo d’inganno delle forme e raggiungevano, muniti di chiavi, tutti i cofanetti dei suoi pensieri più reconditi. Si sentì nudo … Cadde in ginocchio … l’anziano lo attirò delicatamente verso di sé e abbassando la sua testa con la mano libera, gli diede un bacio fraterno sul capo, poi fece il segno della croce. Per un attimo, un lampo di un nuovo dettaglio del sogno si manifestò: sul mantello c’era uno stemma di famiglia! Si alzò confuso e, chinandosi, salutò il monaco che manteneva ancora la stessa espressione.
Sentì la campana … non accadde nulla. Ormai si era fatta sera. Mille domande correvano dentro la sua testa disordinatamente e, fra tutti i dubbi, immagini dello sguardo dei monaci, dello sguardo del novizio, dello sguardo del monaco cieco si mescolavano alla caverna, al mantello, al sogno. Era stanco, aveva bisogno di riposo. Si diresse alle stalle per dormire. Poco prima di addormentarsi, sentì nuovamente la campana. Dormì …
Si trovava steso in una caverna immensa, fredda e vuota. Sentiva il corpo indolenzito, il naso e le costole sicuramente rotti, come se fosse stato fortemente picchiato. Cercando di alzarsi, inciampò in una pietra e cadde, perdendo i sensi. Quando riprese conoscenza, aprì gli occhi. Da una breccia sul soffitto, proprio sulla sua testa, un meraviglioso raggio di luce tagliava il buio ed illuminava un mantello rosso con uno stemma di famiglia steso a terra. Si trascinò con difficoltà e, avvicinandosi al mantello, lo prese … il sogno finì …
Si svegliò con la campana che suonava. Guardò il cielo. Doveva essere piena notte ancora … Cercò di addormentarsi nuovamente, ma non ci riuscì. Si diresse verso il chiostro. Non c’era nessuno … Aspettò … Sentì la campana … al primo rumore delle porte che si aprivano, corse verso la chiesa e si nascose lì dentro. Doveva essere oltre mezzanotte! Pian piano, tutti i monaci entrarono e si misero ai loro posti intorno all’altare, che era appena illuminato da una trentina di grosse candele. Era un’esperienza allo stesso tempo magnifica e intrigante! Per due o tre ore i monaci pregarono nel cuore della notte e Alinardo, anche senza comprendere quello che cantavano, pregava e si commoveva dal suo nascondiglio insieme a loro. Finito il rituale, si diressero verso le celle. Alinardo rimase ancora nella chiesa, ora completamente buia. Sentiva il suo silenzio in contrasto ai delicati canti di poco prima e lo accoglieva nella cavità più profonda del suo cuore. Come davanti al lago, mesi prima, una dolcissima sensazione dominò tutto il suo essere e cominciò a manifestarsi con quello stesso pianto che tanto cordiale, affabile, dolce, era quasi un sorriso! Inondato di tenerezza s’addormentò.
Alcune poche ore dopo - sembrava che il mattino fosse appena iniziato - sentì di nuovo la campana che lo svegliò. Aprì gli occhi con difficoltà e si guardò attorno. Non vide nessuno e si riaddormentò. Risentì la campana. Aprì gli occhi. Erano passati pochi minuti. Ancora una volta si riaddormentò. Era esausto! Sentì la campana una terza volta e vide che già c’era luce fuori e che la chiesa era pienamente illuminata dai raggi di sole che attraversavano le vetrate. Si svegliò appena prima che i monaci entrassero. Iniziava la messa! In un determinato momento della liturgia, tutti i religiosi si stesero a terra di lato, appoggiati su un gomito e a capo chino, in profondo stato di contrizione. Alinardo, toccato, da lontano li imitò. Poco dopo, si sedettero in silenzio, con i cappucci sollevati. Uno di loro, proprio quel primo monaco che Alinardo aveva visto nel bosco, allora si alzò, tolse il cappuccio e disse:
- Mi accuso di aver parlato con un confratello senza un permesso. Mi accuso di essere, una volta, uscito dalla cella senza un motivo grave e di aver mangiato qualcosa di più che pane e acqua venerdì scorso, contrariamente alla regola e senza dispensa del superiore. Mi accuso ancora di aver commesso degli errori nelle cerimonie e nel canto, senza averlo riconosciuto subito. Vi supplico di pregare per me.
Alinardo non si trattene e gemette senza controllo, chiamando l’attenzione a tutti, che non riuscivano a comprendere da dove potesse venire quel pianto. Finalmente lo trovarono per terra in una delle cappelle laterali e fecero un cerchio intorno a lui. Erano stupiti, però assolutamente padroni di sé stessi. Il priore fece un passo avanti e gli stese la mano. Alinardo lo guardò con gli occhi gonfi, scosse la testa, chiese perdono, gli baciò velocemente i piedi e se ne andò. Correva e urlava, urlava e correva, come se volesse scappare da sé stesso e da tutta la colpa che lo schiacciava. In un attimo di lucidità, riconobbe che era alla parte finale della caduta del sogno e che poco mancava alla caverna! Si fermò.
Vagò per terre e luoghi che non conosceva. Sentiva sulla pelle i cambiamenti delle stagioni e, insieme alla natura, ne gioiva e soffriva. Ogni tanto si avvicinava, per un breve periodo, a qualche città e vi rimaneva per un paio di giorni. Riusciva, allora, a sentire qualche diceria sul suo passato recente. Sembrava che il Consiglio avesse veramente fatto tutto quello che aveva richiesto; che c’erano state delle agitazioni per la liberazione dei prigionieri e per la restituzione delle terre; che la sua morte fu celebrata in tutta la regione con feste e teatri pubblici. Purtroppo, della moglie e della figlia non seppe nulla.
Alinardo rifletteva sui festeggiamenti avvenuti in occasione della sua morte con un misto di gioia e rimorso. Se ne rallegrava, ma non riusciva ad allontanare la colpa dal cuore. Pensava a tutte le persone, a tutte le famiglie che avevano avuto l’intera esistenza distrutta a causa della sua brama. Inoltre, i sogni della caverna diventavano più pesanti, capitavano sempre più spesso e lo rendevano stanco e affranto. Soffriva. Nei momenti più difficili, quando tutte le forze sembravano svanite, cercava di ricordarsi degli sguardi che aveva con tanta curiosità ammirato durante quella breve avventura nel monastero e dal loro ricordo imparava e si riprendeva. Ogni tanto, era capace di ricreare la rara atmosfera di tenerezza assoluta provata la prima volta nel lago e poi nella chiesa, donandosi qualche momento di profonda pace.
Mentre camminava in una strada di terra in montagna, fu sorpreso da una grossa carrozza trainata da quattro cavalli che correvano senza freno nella sua direzione. Il cocchiere sembrava morto o svenuto e c’erano delle persone dentro! Aspettò che i cavalli arrivassero più vicini e, appena poté, saltò sopra uno di loro. Perse l’equilibrio e quasi cadde. Si riprese e cominciò a calmare gli animali che, pian piano, diminuivano il ritmo. Riuscì a fermare la carrozza e fece scendere una giovane donna con un bambino di, al massimo, cinque anni. La nobile signora s’inginocchiò ai suoi piedi e non aveva parole per ringraziarlo. Piangeva di felicità! Alinardo la fece subito alzare e cavallerescamente chiese cos’era successo. La dama spiegò che la carrozza aveva subito un attacco da banditi. Avevano ucciso il cocchiere con una frecciata e suo marito, insieme agli altri cavalieri, era rimasto bloccato a combatterli. Lo pregò di restare con lei ed il figlio finché il marito fosse arrivato. Temeva il peggio …
Alcuni minuti dopo, arrivarono il castellano ed i cavalieri, che avevano legato i banditi rimasti vivi a una corda e li trascinavano per tutta la strada. Era una vera scena d’orrore osservare quei corpi lentamente fatti a pezzi e Alinardo dovette distogliere lo sguardo. Appena scese da cavallo, la giovane dama corse insieme al bambino ad abbracciare il marito. Gli raccontò come lo sconosciuto era stato eroico e aveva salvato la loro vita. Il nobile guardò quel uomo sporco e mal vestito e non lo riconobbe, ma Alinardo si accorse subito che si trattava del giovane insolente e cattivo che aveva disarcionato, quando ancora viveva insieme ai contadini. La dama ordinò che i cavalieri gli portassero dei soldi e dei vestiti ma, con grande cortesia, Alinardo rifiutò qualsiasi ricompensa. Però, mentre parlava, percepì che la sua voce era stata sufficiente per riaccendere qualche scintilla di memoria nel suo nemico, che ora lo guardava in un modo sinistro. Fece una rapida riverenza e continuò per la sua strada.
Ore dopo, mentre dormiva al riparo di una grande pietra in un bosco, sentì avvicinarsi degli uomini. Ancora non vedeva chi fosse, ma poteva contare una ventina di torce nella sua direzione. Con tranquillità, si alzò per aspettare l’imboscata e si mise a vista. Fu immediatamente circondato dai soldati del vile sovrano, che ordinò loro di legarlo ad un albero. Non oppose resistenza.
- Quest’uomo, cari miei, è Alinardo! Dopo aver ucciso i vostri cari, dopo aver saccheggiato le vostre terre e rubato i vostri beni, si è messo, ora, a fare il penitente. Ripaghiamo Alinardo di quello che ha regalato a tutti noi!
Presero delle pietre e lo lapidarono violentemente, finché gli restò solo una flebile traccia di vita. Poi, si misero davanti a lui, uno a uno, e gli sputarono in faccia. Con l’ultimo alito di forza, Alinardo, cercava di ringraziare tutti: “Queste pietre sono diamanti! Il vostro sputo è il mio trofeo!”, diceva. Slegarono, allora, il suo corpo svenuto dall’albero e, con una corda, lo calarono dentro una caverna conosciuta come “La Vocca de lu Can”.
Alinardo s’incontrava incosciente dentro la caverna immensa, fredda e vuota di cui aveva sognato. Quando riprese i sensi, aprì gli occhi ma niente vide. Il buio era totale e il suo viso era così gonfio che la sola idea di muovere le sopracciglia sarebbe stata sufficiente a provocare il dolore più intenso. Testardo, cercò comunque di alzarsi, ma non resistette, inciampò su una pietra e svenne. Si risvegliò e aprì gli occhi. Certamente erano passate ore, poiché da una breccia sul soffitto, proprio sulla sua testa, un meraviglioso raggio di luce tagliava il buio ed illuminava un mantello rosso con uno stemma di famiglia steso a terra. Si trascinò con difficoltà e, avvicinandosi al mantello, vide che gli avevano fatto uno scherzo. Al posto dell’aquila dorata che teneva una spada e un libro del suo stemma, avevano cucito un pipistrello grigio che portava un bastone e una bottiglia di vino. Alinardo lo prese. Un varco circolare contenente l’acqua più cristallina si rivelò! Le piccolissime frazioni azzurre del cielo e del fulgore del sole che s’infiltravano nell’oscurità della caverna vedevano, ora, la loro bellezza moltiplicarsi all’infinito da quel caleidoscopio naturale. Con l’idea di osservarle meglio, Alinardo s’inchinò meravigliato. Fu, allora, che un’immagine lucente apparve davanti ai suoi occhi! Guardandola fissamente e sentendosi completamente attonito, Alinardo contemplava sbalordito ogni minimo splendore e rifrazione del suo sembiante; ogni minuscolo scintillare delle particelle di acqua e luce che specchiavano la sua faccia; ma non si riconosceva più …