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Lazzarini Francesco
Nato a Jesolo il 27.08.1991
Vive e lavora nella Laguna Nord di Venezia.
THE TEEN-AGER
(l’adolescente)



E vivi solo di attimi
Che davvero non vivi.
Di scatti rubati
E di frasi copiate,
Che a stento capisci.
Nei cessi nascosta piangi,
Mentre mugugni segreti
alla mercé di tutti.
E ridi degli altri
Senza sapere chi sono.
E parli di te
Senza sapere chi ascolta.
La notte sei tenera,
Quando sul diario scrivi
“Ti amo”,
Ma lui suona, vibra
e tutto rovina:
<<Lo facciamo?>> Ti scrive un amico.
Non il fidanzato.
Ma sì, a chi importa chi sono,
E che cosa faccio. Pensi.
Io appaio
E quindi esisto.
Il mattino ti alzi,
E il tuo primo pensiero
È di toglierti lo smartphone dal culo.
“Ti amo”. Hai scritto
E in te qualcosa provi...
Ma taci quel vagito
E muori, distratta, sul tuo diario.

IO E LA GONDOLA BIANCA






Ascoltami cara,
mentre in silenzio mi sfogo.
Lo sai, mia fidata, forse sono innamorato!
Questa volta davvero! Ne ho quasi paura.
Mi giuri, che se nel nostro intimo arrossisco
Parlandone, tu non sbufferai di spuma?
Sai, solo di te mi fido, e di nessun altro!
Perdonami,
se smetto un po' di coccolarti
e se a una lei dedicherò i miei sogni.
Perdonami,
se per lei mi perdo oggi,
in lidi diversi dai nostri
anche mentre sto con te.

Come sempre,
E' più che bello stare insieme.
Sembriamo fiori, cullati dal caldo sole,
sorridenti al cielo, quand'è celeste e blu.
Io sono solo un uomo ma tu,
dolce e bianca, come una nuvola
mi porti per mare, lì dove abbiamo visto le cose del mondo
diverse, in un modo che nessuno ha visto mai.
Non temere, lo sai
sono segreti che terrò per noi.
Da qui in alto, tutto è lontano.
Si che spinti dal leggero vento
si allontanano pensieri, persone, problemi.
Quasi abbracciati, andremo.
Tu scivolerai più su,
come in volo, e io ti spingerò.
No,  non ci prenderà nessuno, lo giuro
anche se vorrei lei, purtroppo lei
mentre coccolo te.

LAGUNA:

Svègliati. Perduti
siamo nell'acqua,
temprati,
siamo dal sale.
Ci muovono
onde,
adagio, adagio
sono basse,
spumose e chiare.
Senti:
il croscio, è l'acqua
che canta.
E le sirene?
Non s'ode lor canto.
E i bambini?
Non s'ode
né grida, né pianto;
è già magia
il silenzio.

Osserva. Il gabbiano
invoca la terra,
non invidiarlo!
Volare,
non è comprendere,
né il sole, né il mare.
Apre le braccia
poi vola via
irritato
Adagio, adagio
garrisce.
Seguimi,
sul fondo alghe
nella sabbia,
tra le rughe
son verdi e chiare.
La rete? E' una gabbia.
E la valle? Un'altra gabbia.
Lasciamoli nuotare
i pesci!
E' ancora loro
la baia.
Sorridi, tu
cresci in paradiso,
questo mondo fatato
ci ama.
Resterà così?
Che mai
sia cambiato!
Questa cava dorata
sempre più bella,
perfetta,
resterà nostra
e mai abbandonata.

Il Limonio?
E' aulente!
Il sapore
è salato! Noi?
Voghiamo
nella barca, scivola
sull'acqua tiepida,
e dondola
la gondola.
Ti piace?
Nasciamo qui,
come me sarai
parte di essa.
Ascolta. Tu gridi
tante volte? No!
E' l'eco.
Continui? Risponde.
Ti fermi?
Tace.
Che bel gioco.
Respira l'aria
leggera,
tocca la sabbia,
bagnata. Guarda!
La regina del mare,
sempre accompagnata
viaggia,
è l'orata.
Sorridi, tu
che questa cava dorata
sempre più bella,
perfetta,
resterà nostra
e mai abbandonata.
COME L’ALBERO IN SILENZIO:



China la testa.
Piega la schiena. Soffri.
Abbandona le speranze
di vivere il tuo tempo, e soffri.
Non farai fortuna, vivrai di stenti
di rinunce e di paura.
I tuoi giorni presto, diverranno mesi
e i mesi presto anni, tutti pieni
di rimpianti, tutti colmi di rimorsi.
E quei ricordi morti, di momenti trascorsi
vuoti, parranno ancora crudi
tanto che al sol pensiero piangerai.
I frutti, non farli nemmeno
che già locuste insidiano i tuoi rami
e a testa bassa attaccano le foglie.
Lasciati morire uomo, come l'albero
senza un lamento, che intanto scorre il tempo
e più non tornerà.
L'uomo nel bosco




Una folta barba bruna. Capelli lunghi, ricci, arruffati anch'essi bruni. Un viso giovane, seppur l'età che porta s'intravede dalle rughe attorno agli occhi scuri, profondi. Quarantacinque, ma potrebbero essere anche cinquanta o qualcosa in più i suoi anni. Non di meno. Portati sicuramente bene.
Quest'uomo vive in un bosco, si è addentrato così tanto per i sentieri di terra e poi d'erba battuta, che dove s'è fatto dimora quasi non vi è traccia di passaggio.
Una baracca di legno, che assomiglia a una baita di montagna, ormai vecchia e logora, probabilmente abbandonata e da qualche tempo sistemata da quest'ospite, pare sia ora lì in funzione sua. Essa il minimo indispensabile. Essa il massimo per chi non vuol distrarsi dalla propria profonda ricerca spirituale.
Chi sia quest'uomo, è la domanda che egli stesso si pone. Notte e giorno, da tempo indefinito.
Ciò che invece ha un tempo, è la routine dei suoi ultimi tre mesi. L'intera primavera passata ad alzarsi presto, per contemplare l'alba.
Il resto della mattina si reca al fiume e con le mani, nell'angusto passaggio tra due massi, aspetta che qualche pesce si faccia agguantare. Dietro alla risacca, attaccati ai tronchi secolari, morenti, a volte alcuni funghi, altre volte radici o germogli. Di questi e dei pesci si nutre. Egli mangia sempre quelle poche cose commestibili che ha imparato a riconoscere.
Il pomeriggio lo passa a camminare. A riscoprire gli stessi alberi, fiori, sassi. Tutti i giorni nuovi.
Quando viene sera poi accende un fuoco, si scalda e si lascia andare. Finché dura. Finché s'addormenta.
Ed egli poi sogna, tutte le notti.
Sogna di sua moglie, che è a casa con i suoi figli. Una bambina e un bimbo di cinque e tre anni. Bellissimi. Sogna il suo cane bianco, meticcio, che fa le feste a chi entra ed esce dalla sua casa.
E ancora gli amici che si è fatto negli anni. Quelli rimasti e quelli perduti. Il padre e la madre che riposano da qualche anno sepolti insieme. Il fratello maggiore che invidia. Il fratello minore che biasima. La donna che ha perso in gioventù, e di cui non sa più nulla. Quel lavoro che davvero gli piaceva, durato troppo poco e che non bastava mai. Poi quell’altro fatto per vent'anni, che l'ha quasi ucciso. E così via.
Egli sogna la sua vita, le sfaccettature, mai una fantasia, mai pensieri rivolti al futuro. Egli sogna ciò che è stato, così come è stato, e ciò che è, così com'è. O meglio come probabilmente è.
Alla fine la mattina arriva. Sempre.
Quando l'alba sta per sorgere, lui lentamente si alza. La sua vista sbiadita ritorna vivida man mano che i primi raggi del sole colorano la vita, ed un pensiero, mai diverso, lo turba costantemente.
Il mondo va avanti, l'universo si muove, si trasforma costantemente, che lui voglia o meno. Che lui faccia o non faccia qualsiasi cosa. Lui esiste e ne fa parte. Sovente lo contempla. Ma al contempo egli non conta nulla, e nulla conta per lui l'universo.
Di fatto, per quest'uomo contano solo i suoi pensieri. I suoi sentimenti, la sua interiorità costantemente turbata, affamata, bisognosa di qualcosa.
Lui incapace di soddisfarsi. Incapace di pace. Incapace di fermarsi.
Egli non ne può più, e anche questo fa parte del problema.
Sembrerebbe questo l'incipit di un discorso complicato, estremamente profondo, in qualche modo velato. Ma i lunghi mesi a pensare, o più probabilmente il momento in cui si è stancato di farlo, hanno bensì portato quest'uomo a una risposta.
E la risposta, come sempre, altro non è che una domanda. <<Ma come si fa a godersi le cose?>>
E la banalità, con la quale ogni volta  si rispondeva, altro non faceva che peggiorare la situazione.
Lui non riusciva, mai, a godersi nulla.
La verità è che non gli fregava niente della moglie e dei figli. Li aveva fatti un po' così, "per fare", per seguire il flusso. Così come aveva preso il cane. Così come aveva vissuto le amicizie, il lavoro, i parenti, la vita tutta.
E ora era lì, forse perché per tutto ciò che accade non può essere altrimenti, o forse perché perdendo le cose, spesso le si rivalutano.
E in effetti, lui le sue cose le sognava sempre. In sogno le sentiva vive!
In qualche modo quella distanza e quel distacco davano realmente importanza e peso a cose che nella quotidianità della vita avevano perso di valore.
Egli finalmente poteva tornare a quella vita e godersela. Davvero l'aveva anche rivalutata. Per un periodo, magari anche lungo, le cose sarebbero state persino frizzanti.
Ma la verità non è mai oscura a chi pensa molto e impara a conoscere bene se stesso.
Prima o poi, tutto sarebbe tornato scontato, di nuovo. E allora lui non tornava.
In realtà soltanto una cosa continuava a farlo sentire vivo. Ed era questa, la morte dei genitori. Loro in quella buca, sepolti. Lui nella sua buca interiore, fluttuando.
In effetti da loro non poteva tornare. E seppur si era distaccato dalle loro tombe, il distacco con loro era ben più concreto.
Quell'uomo stava sì scappando, ma davvero solo la morte poteva rappresentare una vera fuga dalla vita.
Ed ecco che venne, cosi pensando, affascinato da nuove consapevolezze. Da fantasie proibite. Da ossessioni quali il suicidio, l'assassinio!
E ancora altri mesi perse dietro a quelle idee.
Tanto da passarci l'estate.
Era la prima alba d'autunno quando quell'uomo si svegliò e s'accorse per la prima volta di non aver sognato.
Per lui, dall'alto della nuova conoscenza di sé stesso e delle sue intimità, questo significò una e una cosa soltanto: egli si stava finalmente avvicinando alla pace. La sua pace. E con essa domande e dubbi venivano spazzati via come sospinti da un forte vento tiepido.
Fu proprio nell'arco di quell'autunno mite che cominciò a pianificare tutto quel che poi sarebbe stato.
E venne la notte del solstizio d'inverno che lui era già a casa, pronto a dormire sul suo vero letto.
Prima di coricarsi, se ne andò in cameretta a baciare la figlioletta e il figlio. Fece poi l'amore con la moglie, con passione, per ore e ore. Per quasi tutta la notte. Tanto che raggiunsero assieme un’estasi mai raggiunta prima, nemmeno ai tempi della gioventù.
S’addormentarono abbracciati.
Per la prima volta dopo mesi e mesi, egli non si alzò a contemplare l'alba.
E vennero avanti per lui giorni bellissimi, pieni di emozioni e sentimento.
Un qualcosa di simile alla pace duratura o forse la pace stessa l'accompagnarono per tutto l'inverno.
Ma poi la primavera tornò. E una mattina, forse la prima di quella stagione, egli si svegliò e andò nuovamente a contemplare l'alba.
Eccola lì, pensò. Ancora magnifica.
Giunse così il momento.
Egli andò prima nella cameretta dei suoi pargoletti e li baciò sulla fronte, uno ad uno li prese tra le braccia e ancora dormienti li sistemò accanto a mamma, in camera da letto. Anche sua moglie dormiva ancora profondamente.
Per un po' li contemplò. Come fossero l'alba.
Poi senza perdere altro tempo e senza versare lacrime, si recò in cucina e prese un coltello da carne. Con passo ansioso tornò da loro e con colpi secchi e decisi li sgozzò tutti velocemente, che nemmeno ebbero il tempo di reagire, di capire o realizzare.
Pochi gemiti, pochi lamenti. Un minuto appena e tutto era già finito.
Li contemplò un'ultima volta. Di lì non si sarebbero più mossi.
Venne il suo turno.
Si punse con il coltello il collo. Faceva male. Ma lo affondò comunque, lentamente, fino a recidersi la giugulare.
Arrivarono così, i suoi ultimi istanti di vita e con essi, anche i suoi ultimi pensieri.
Era quella una realtà troppo crudele.
Domani sarebbe giunta un'altra alba. Il mondo sarebbe andato avanti. L'universo pure e nulla, in quel gioco imperturbabile, sarebbe mai cambiato.
Così morì, così pensando.
E di fatto, nonostante la follia del tutto, in questo non si sbagliò.
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