Piccini Willy
...è un attore e regista dialettale triestino. La definizione che preferisce, rivolta a se stesso, è quella di “uomo di Lettere” che lui immagina lo possa far identificare non con un postino, ma con uno scrittore. Nel 2006 ha pubblicato “Una corsa incontro al passato” che ha ottenuto... una lettera di complimenti da parte di Claudio Magris... Tra le numerose Menzioni in Concorsi Letterari vanta 8 terzi, 4 secondi e 5 primi posti... con racconti, apparsi in oltre 30 antologie, che svariano dalla favola al giallo, al memoir. www.willypiccini.it
Quando il mondo si scolora
Mi chiamo Alice. I miei genitori non hanno avuto molta fantasia nel darmi questo nome perché sono proprio un’alice. Sì, quel pesciolino che chiamano anche acciuga e che vi trovate spesso sulla pizza. Se siete di Trieste, mi conoscerete con il nome di “sardon”, quello che mangiate “in savor”. Triste destino per i miei compagni e le mie compagne, in troppi siamo destinati a finire sulla tavola dei buongustai. Io, forse, sono stata molto più fortunata o per lo meno lo fui per un certo tempo quando nuotavo in questo che è il più bel pezzo di mare del mondo, al largo di Grignano, piccolo borgo di pescatori, dai quali mi guardavo bene dal farmi vedere, non volevo finire in padella!
Com’è bello questo mare! Quando è calmo, liscio come l’olio; quando è tutto increspato dalla bora: un blu intenso con tanti ciuffi bianchi e sullo sfondo si vedono, limpide, le montagne del Friuli coperte di neve tanto che sembra di poterle toccare. Quando è agitato dal vento di libeccio che lo sbatte sugli scogli a onde impetuose e pericolose. In una lontana sera d’estate, un’improvvisa tempesta con forti raffiche di bora costrinse un’imbarcazione in grave difficoltà a rifugiarsi fortunosamente proprio in questo porticciolo. Ne scese, dopo l’equipaggio, un giovane bellissimo e io, avvicinatami col favore delle tenebre, stetti a sentire quel che diceva. Era affascinato da quel promontorio carsico che pure era arido e roccioso e affermò che vi sarebbe tornato ancora molte volte. Così fece e io, incantata dalla sua bellezza, quando vedevo arrivare la sua carrozza, mi avvicinavo alla riva, incurante dei pericoli che stavo correndo. Lui girava sempre da solo e mi sembrava molto triste. Un giorno mi feci coraggio e lo chiamai.
“Bel giovane, bel giovane!”
“Chi sei? Chi mi chiama?” rispose sorpreso.
“Sono io, Alice”.
“Ma… ma… sei un pesciolino. Com’è possibile? I pesci sono muti”.
“No, non è vero, semplicemente non abbiamo voglia di parlare con gli umani, sono troppo crudeli con i loro ami e le loro reti, ma dovresti sentire quanto chiacchieriamo tra di noi” dissi mentre mi sentivo sempre più coraggiosa.
“Ma che razza di pesce sei?” fece lui.
“Un’alice che si chiama Alice, te l’ho detto e tu, piuttosto chi sei?”
“Sono il principe Tristano. Mai nome fu più azzeccato anche per me, sono sempre triste. Pensa che mio fratello è l’imperatore d’Austria e ha sposato la principessa Sissi, la più bella tra le belle. Io invece non avrò mai un regno e, se vado avanti di questo passo, solo e triste, nemmeno una sposa”.
Io mi commossi e pensai che dovevo fare qualcosa per renderlo felice. Nuotai fino al più profondo dei mari alla ricerca di Nettuno il nostro Signore. Quando riuscii ad arrivare al suo cospetto gli chiesi: “O Nettuno, tu che puoi tutto, devi farmi un favore. Voglio che tu mi trasformi in una bella fanciulla perché un principe infelice si possa innamorare di me.”
“Non mi chiedi una cosa semplice” rispose lui “vedremo cosa posso fare”.
“Ti prego, ti prego” incalzai io.
“Va bene, ma sarà più complicato di quello che pensi. Io ti trasformerò in una fanciulla e ti darò il dono dell’immortalità. Non pensare che sia una cosa tanto bella, lui rimarrà un mortale e prima o poi resterai sola e lo sarai per l’eternità.”
“Oh, non fa niente, ogni istante trascorso con lui sarà indimenticabile, cercheremo di farlo durare il più a lungo possibile e saranno questi ricordi a darmi la forza di andare avanti per sempre”.
“E così sia, allora,” disse il dio degli oceani “ritorna nel tuo specchio di mare, spicca un salto verso terra e vedrai quel che ti succederà.”
Tornai di fronte a Grignano e feci quello che mi era stato detto non appena vidi arrivare il principe che si trovò davanti la più bella fanciulla che avesse mai visto. Fu il colpo di fulmine! Lui mi disse, in seguito, che era rimasto colpito dalla mia leggiadria, dalla mia spigliatezza, dalla mia cultura, dalla mia sensibilità, dalla mia sincerità scoperte man mano che passavano i giorni, le stesse doti che io scoprivo in lui per cui, quando mi chiese di sposarlo, altro non fu che la realizzazione dei nostri desideri. Ci sposammo nella chiesetta di Barcola e a piedi percorremmo la strada sino al nostro Promontorio sopra Grignano dove lui aveva fatto costruire un castelletto, la nostra prima casa. C’era tutta Trieste lungo la strada, l’imperatore d’Austria, fratello di Tristano, aveva concesso un giorno di festa a tutti i cittadini. Gli uomini buttavano in aria i loro cappelli e le donne sventolavano i fazzoletti: tutti ci volevano bene ed erano partecipi della nostra immensa gioia. Quando finirono i festeggiamenti il mio sposo mi disse:
“Ora ce ne andremo in viaggio di nozze a bordo della mia splendida nave, la ‘Novara’. Faremo l’intero giro del mondo, e al ritorno troverai il mio dono più caro: un bianco, meraviglioso castello. Ho già dato incarico agli architetti per la sua immediata costruzione. Sarà il nostro nido d’amore e lo chiameremo ‘Miramar’. E quando non ci saremo più lo lasceremo in dono ai cittadini di Trieste, loro mi hanno voluto bene e io amo tutti loro, uno a uno. Sarà il mio regalo per i loro discendenti.”
La “Novara” spiegò le sue vele al mattino seguente e facemmo il giro del mondo: un’esperienza indimenticabile. Superata Gibilterra ci dirigemmo verso il Sud America, doppiammo il Capo di Buona Speranza puntando verso l’Estremo Oriente, poi l’Australia e tutte le isole del Pacifico. Tristano era un erudito botanico: raccoglieva tutti i tipi di piante di quelle terre e le avrebbe nuovamente interrate nel parco destinato a circondare il nostro bianco castello. Ritoccato il Sud America, dopo due anni esatti tornammo. Già da lontano il nostro favoloso castello, ormai ultimato, risplendeva: era magnifico! E il brullo promontorio intorno era diventato uno splendido parco nel quale il mio Tristano avrebbe piantato tutte le specie esotiche che aveva raccolto. Ci passavamo tutto il pomeriggio nei vialetti di quel parco con gli scoiattoli che venivano a mangiare le noci che portavamo sempre con noi e le cinciallegre che ci saltavano sulle mani a beccare le briciole di biscotti. Il nostro albero prediletto era un corbezzolo, rossastro e biforcuto, sulla cui diramazione, sollevandomi, Tristano mi faceva sedere e, avvicinandosi al mio viso, mi sussurrava dolci parole. A sera ci godevamo gli splendidi tramonti e dopo cena, quando c’era la luna piena che si specchiava sul mare calmo, quasi a formare una strada luminosa di stelle, lui mi diceva che gli sarebbe piaciuto percorrerla insieme a me, quella strada, fino a raggiungere gli astri del cielo. A notte fonda anziché coricarci nel nostro preziosissimo letto matrimoniale, ci stringevamo nel lettino della stanzetta che lui si era fatto costruire, copia perfetta di quella a lui riservata sulla “Novara”. Stretti stretti rimanevamo abbracciati tutta la notte sognando un futuro luminoso per noi.
Non fu così. Offrirono a Tristano la corona d’imperatore del Messico e lui volle accettare anche perché aveva sempre sofferto di essere una specie di re senza regno. Ci andammo, ma la situazione non era rosea: il paese era in rivolta, chi lo aveva invitato ad andare in quei luoghi con false promesse, ben presto lo abbandonò e i ribelli lo catturarono dicendo che lo avrebbero fucilato. Io tornai a Miramar per chiedere l’aiuto che nessuno poteva darmi e impazzii dal dolore. Mi rinchiusero a chiave nella stanzetta copia della “Novara” e, da parte mia, non volli mai più saper niente di quello che succedeva all’esterno.
C’era una vasca da bagno in questa stanzetta che traeva la sua acqua dal mare e un giorno, da una goccia d’acqua si materializzò Nettuno, il dio del mare:
“Sei troppo sola qui, Alice mia, perché non torni nel tuo ambiente naturale?”
“Forse sarebbe la soluzione migliore, qui non mi trovo più bene. Ma come faccio?” dissi io.
“È sufficiente che tu mi segua. Entriamo nel rubinetto e arriveremo subito nel mare.”
Lo seguii e mi ritrovai subito tra le onde. Lui se ne andò assicurandomi che da lì avrei potuto vedere meglio quando sarebbero spuntate le vele della “Novara” a indicare il ritorno di Tristano.
Non è ancora tornato e io aspetto sempre. Non conosco lo scorrere del tempo, ma sicuramente ho visto tanti, forse troppi tramonti. Ora questo specchio di mare così bello è diventato un’area protetta. Non ci può entrare più nessuno, men che meno i pescatori, e io vivrò per sempre. Voi ci potete entrare però, se lo volete, vi daranno una maschera con il tubo e dovrete seguire una guida. Se vi capiterà di notare un pesciolino triste con una lacrimuccia che spunta dal suo piccolo occhio vuol dire che mi avete vista. Sono io, Alice. L’infelice!
Questa fiaba l’aveva inventata per me mio padre tanti anni fa, cambiando soltanto il nome, ma la storia di Tristano era quella di Massimiliano, il signore del castello di Miramar. E di questa fiaba mi ricordo in questa mite giornata di aprile in cui il sole del tardo pomeriggio dà ancora una bella sensazione di tepore qui alle spalle del castello che per noi è sempre stato un punto di riferimento. Papà mi ci portava da bambino e sbattevamo le noci una contro l’altra, richiamo per gli scoiattoli che, velocissimi, correvano a mangiarsele. Quando allungavamo il palmo teso erano le cinciallegre a venirci a mangiare in mano le briciole, proprio com’era successo a Tristano. E più avanti successe a me col mio piccolo bambino. Si veniva qui, tutta la famiglia, nei momenti più felici, ma anche in quelli di crisi. Da soli per lo più, inebriandosi al profumo del mare, a ridarsi la carica, riappacificarsi col mondo intero ammirando la nostra città e il “nostro” castello. Papà mi aveva convinto che era nostro perché Massimiliano ha lasciato Miramar in dono ai cittadini di Trieste e noi, che lo siamo, ne eravamo gli eredi, di un trecentomillesimo ciascuno, magari.
Là in fondo, Trieste sembra non essersi nemmeno accorta che un suo cittadino che tanto l’aveva amata non è più con noi. Oggi abbiamo salutato papà per l’ultima volta. Non era stato facile per me nell’ultimo mese vederlo giacere così debole e indifeso, lui, l’uomo tutto d’un pezzo, così serio, forse troppo serio, da tutti stimato per la gran dignità. Non si poteva nemmeno definirlo un uomo dell’altro secolo. Nel terzo millennio, per papà era più appropriato dire che era un uomo di due secoli prima. Mamma, scherzosamente, lo aveva sempre rimproverato di essere nato vecchio citando il titolo di un libro di quand’erano ragazzini: “Storia di Pipino, nato vecchio e morto bambino”. Nessuno poteva immaginare come quella battuta, molti anni dopo, si sarebbe tanto avvicinata alla realtà.
Davanti a qualcosa di men che corretto, lo sguardo di mio padre era capace di stremirti. Uno sguardo severo, d’accordo, ma molto spesso bonario, che a me ricordava quello di Francesco Giuseppe. Ai tempi della mia infanzia la maggior parte delle persone aveva immagini religiose, la Sacra Famiglia innanzitutto, sopra la testiera del letto matrimoniale. Noi avevamo l’elegante ritratto del defunto Imperatore che ci osservava con la sua espressione austera, ma indulgente. Ereditata dai nonni, era l’immagine che per decenni aveva seguito ogni austriaco. Ogni abitante della Cacania sentiva su di sé quel familiare sguardo benevolo. Cacania, l’ironico e allo stesso tempo affettuoso nome che Robert Musil aveva inventato per definire l’impero asburgico dove tutto, ogni attività statale, ogni decreto, ogni documento, era Ka-Ka (Kaiserlich-Königlich, imperial-regio). Un gaio impero dove tutto sembrava saldo e inamovibile, con funzionari onesti e corretti, la dignità delle buone maniere in una grande “Heimat”, una patria intesa come eclettico focolare. Per amore della verità noi non eravamo più austriaci, lo eravamo stati per 536 anni e tutti i miei antenati, per non so quale ragione familiare, erano nati a Vienna. Ma avevano precipuamente abitato a Trieste così com’era capitato ai nonni che, pur senza muoversi da casa, a un certo punto della loro vita, austriaci non erano stati più. L’impero della sicurezza e dell’ottimismo era crollato, l’Austria si era rimpicciolita e loro, e noi di conseguenza, ne eravamo rimasti fuori.
Mi piaceva quell’immagine sopra il lettone e il giorno in cui venni a sapere che quel signore era morto, e da parecchio tempo, mi dispiacque. Volli sapere perché e papà mi confidò che era morto di vecchiaia. Dunque, se sopravvivevi alle varie malattie e i miei nonni e alcuni zii erano morti molto presto, arrivato alla senescenza, morivi lo stesso. Franz Joseph aveva cessato di vivere alle 21 di un 21 novembre, a 86 anni. Allora era quella la soglia della vecchiaia, ma papà aveva superato gli anni dell’Imperatore dimostrando il suo essere indistruttibile, cosa di cui mai avevo dubitato e poi gli 87 e poi... chi avrebbe potuto fermarlo? Anzi, era lui che aveva fermato il tempo: sempre uguale, sempre in gamba come un giovanotto, la vecchiaia non poteva scalfirlo, di quello non sarebbe certamente morto!
Un brutto giorno però, mentre passeggiavamo per il nostro parco, papà cercò di appoggiarsi al mio braccio e subito dopo cadde a terra, colpito da un infarto. All’arrivo dell’ambulanza era sembrato si riprendesse, ma la sera seguente il malore era stato devastante. Dopo vari giorni di coma, sembrò un po’ riprendersi e trasferito in reparto, rimase lì mestamente. Giornate di passione, per lui e per noi. Tentava di dirci qualcosa, talvolta, ma erano suoni disarticolati, incomprensibili. Una sera però, al mio arrivo trovai un uomo raggiante nell’accogliermi, un sorriso sdentato perché gli avevano tolto la dentiera, ad agitare le gambe come per manifestare felicità, come un bambino, come il mio piccolo bambino, che quando aveva imparato a sorridere, per dimostrare gioia muoveva vorticosamente le gambine, come stesse pedalando, tanto che io lo chiamavo “Signor Pedalini”. Il mio piccolo bambino che mi accoglieva ogni sera con la sua bocca ancora sdentata, pedalando, come stava facendo ora il mio papà, lasciandomi turbato nel vederlo così. Nato vecchio e morto bambino... Stava succedendo veramente? La visione mi angosciava e mi commuoveva allo stesso tempo. Era lo stesso atteggiamento che mio figlio, il suo nipotino, aveva appena lo vedeva. I due erano entrati immediatamente in sintonia, come succede in natura tra elementi chimici che, incontrandosi, subito si completano e s’influenzano a vicenda. Ed era continuato quando il frugoletto aveva cominciato a scorrazzare per la casa nel girello, prima d’imparare a camminare, le gambine infilate in una specie di mutandina di plastica, un’imbracatura agganciata a un sostegno fornito di rotelle. Papà si sedeva in cucina e lui correva a prendere un giocattolo nella sua cameretta e glielo porgeva. Il nonno ringraziava vivamente e lui, soddisfatto, filava veloce a prenderne un altro. Si erano adorati per anni quei due, prima a giocare, poi impegnati in costruzioni con il meccano o con il legno e il bimbo, più avanti ragazzetto, ad abbracciarlo affettuosamente affermando che il suo nonnino era il più bravo e il più forte di tutti.
Papà sorridente a pedalare nel letto, sarebbe stata una delle visioni che non riuscirò a cancellare mai più, purtroppo sarebbe stata l’ultima. Quella notte stessa papà ci lasciò per sempre e stamattina, per l’ultimo saluto, pur nella grande tristezza, è stato consolante per me vederlo riacquistare il suo abituale decoro, ben vestito com’era sempre, con un’espressione così serena. Ora non lo vedrò più, un semplice cittadino di Trieste, meno di un granello di polvere nell’immensità dell’universo, ha concluso la sua esistenza.
Visto dai parapetti del castello di Miramar il mare brilla agli ultimi raggi del sole che tra un po’ se ne andrà. Anche lui. Ma domani tornerà e tutto andrà avanti come sempre. Quasi nessuno, men che mai Alice, si accorgerà della mancanza di un semplice cittadino. Molto di più per me. Mi sostiene Claudio Magris quando dice che la morte di una persona amata si porta via anche un pezzo o un colore del mondo.
È bello pensarlo.
Cry for us Argentina
Louis Pauwels fu negli anni ‘60 tra i fondatori di un’importante rivista scientifica: Planète. Nel 1965 quel bimestrale pubblicò un interessante articolo dello scrittore belga il quale affermava che se avessimo voluto scrivere una storia della vita terrestre decidendo di dedicare a ogni milione d’anni trascorso un terzo di pagina, il libro avrebbe contenuto press’ a poco mille pagine. La vita sul nostro pianeta sarebbe nata alla prima riga di pagina 1, mentre il momento in cui lui stava scrivendo e anche quello, oltre cinquant’anni dopo, in cui a scrivere sono io, sarebbe corrisposto al punto finale della pagina 1000. Soltanto nelle ultime righe dell’ultima pagina di questo ipotetico libro sarebbe apparso il pitecantropo, e l’Homo sapiens, l’uomo cosciente di esistere che riteniamo al centro dell’universo, avrebbe fatto capolino appena a metà dell’ultima riga. Tutto quello che chiamiamo periodo storico avrebbe trovato posto nell’ultima parola e la storia della scienza terrestre fino a tutt’oggi avrebbe dovuto accontentarsi dell’ultimo carattere. Vista così, la nostra brevissima apparizione in quella che chiamiamo vita sembra ben poca cosa. Eppure noi “siamo”! In questo fugace lasso di tempo noi nasciamo, viviamo, soffriamo, amiamo. E molti lasciano il segno, anche quando non ci sono più. Non soltanto persone vissute sotto i riflettori, scienziati o artisti. Anche persone semplici se è ben certo che la vera morte avviene soltanto quando si chiudono gli ultimi occhi che hanno visto il nostro volto, quando si spegne l’ultimo pensiero di qualcuno che ci ricorda, quando si cancellano le tracce che abbiamo lasciato di noi nel mondo.
***
Saliamo una scaletta, entriamo nella pancia di un mostro di alluminio lucente, e in 12 ore da Madrid ci ritroveremo in Argentina. Voleremo, come Charles Lindbergh sul suo “The Spirit of Saint Louis” che, in senso contrario, volò dall’America all’Europa, come Antoine de Saint-Exupéry che attraversò l’Oceano per arrivare a Buenos Aires a unirsi ad alcuni amici per inaugurare la linea aerea più a Sud del globo. Sì proprio lui, l’autore di quel gioiellino della Letteratura che è “Il piccolo principe”, il famoso aviatore che gli argentini adorarono e il cui viso si trovava stampato su pacchetti di sigarette, scatole di fiammiferi, posacenere.
Dopo l’atterraggio ci fermeremo a Buenos Aires, ma so che in seguito potremo salire su altri aerei e visitare maestose cascate, imponenti ghiacciai, la Patagonia di Chatwin, la Tierra del Fuego. La notte, nel cielo terso, vedrò la Croce del Sud e sarò nella terra che ha dato i natali al Che. Già, Che Guevara, l’eroe disperato eppur fedele alla sua missione fino al consapevole sacrificio anche se la carica eversiva del suo personaggio è stata assorbita e resa innocua attraverso le magliette con impressa la sua immagine mentre i calzoni stile guerrigliero sono passati dalla foresta alle boutique. Elaborato rapidamente dall’industria del consumo e salito ai vertici, il mito del Che ha seguito inevitabilmente il destino dell’oggetto di consumo, l’invecchiamento precoce e l’accantonamento. E a noi rimane poco più della memoria di quello che abbiamo vissuto, quasi consapevoli ormai, che difficilmente potrà servirci per il futuro. Forse ci sentiamo sconfitti anche se ci piace citare Marx, non Karl naturalmente, ma Groucho, quando dice: “Ricordare il passato serve per il futuro, così non ripeterai gli stessi errori; ne inventerai di nuovi”.
“The times they are a-changin’” anticipava già nel ’64 Bob Dylan. E tutti dietro con i no alla cultura nozionistica e alla vecchia scuola; no alla famiglia con le sue castrazioni; no al consumismo e agli inganni di una società fondata sul capitale. Si volevano buttare a mare quelli tradizionali per far posto a nuovi miti quali il Vietnam, la rivoluzione culturale cinese, il Che, la primavera cecoslovacca, la rivolta afro-americana negli States. E si credeva anche a Shel Shapiro che affermava: “Quante volte ci hanno detto sorridendo tristemente/le speranze dei ragazzi sono fumo./Sono stanchi di lottare e non credono più a niente/proprio adesso che la meta è qui vicina./Ma noi che stiamo correndo/avanzeremo di più./Ma non vedete che il cielo/ogni giorno diventa più blu./È la pioggia che va, e ritorna il sereno”. Sogni di gioventù di cui ci è rimasto molto poco. Siamo cambiati noi, è cambiato il mondo, entrambe le cose probabilmente. Diciamo pure che non riusciamo a comprendere un mondo che sembra non avere avvenire perché non ha proposte per i giovani. Non ha memoria perché mette i vecchi nella spazzatura. Non ha attenzione perché schiaccia distrattamente bambini, handicappati e tutti i deboli. Non ha spazio perché invade e distrugge la natura. Non ha tempo perché è tutto appiattito nel presente, senza speranza…
Quando l’aereo frena sulla lunga lingua d’asfalto di Ezeiza ci siamo finalmente a Baires o quasi, ci vuole ancora un po’ per arrivare al centro col suo mix di opulenza ed estrema povertà. Giunto a destinazione, m’inebrio nel respirare l’aria che hanno respirato Borges e Cortázar, e quando incappiamo in quella splendida libreria che, ricavata da un cinema/teatro, si chiama “El Ateneo”, capita che io m’innamori perdutamente. Per sempre. La città sa offrire molto e, nel peregrinare, arriviamo al monumentale cimitero della Recoleta, quello dov’è sepolta Evita Peron il cui mito è stato accresciuto da un buon musical. Immediatamente a lato c’è una mostra che ricorda i 30.000 desaparecidos: agghiacciante. Tantissime gigantografie propongono immagini di giovani, 2,3,4 amici sorridenti, spensierati, in un campo di calcio, un prato, in cucina, in famiglia, istantanee scattate una quarantina d’anni prima. Accanto a ognuna, una foto recente, scattata oggigiorno nel medesimo posto, un campo di calcio, un prato, una cucina e in ognuna c’è uno o più di un soggetto naturalmente invecchiato, ma ne manca sempre qualcuno, spesso più di uno. Quelli che mancano, quelli che rimarranno per sempre giovani, sono, erano, i desaparecidos, persino ragazzini di 14-15 anni, arrestati perché contestavano lo spropositato aumento del prezzo degli autobus e fatti sparire per sempre. Non ho potuto fare a meno di pensare alla nostra gioventù sognante, con Ciano e Fulvio, quando vagheggiavamo una società più giusta, una rivoluzione di quelle con i fiori nei cannoni però, perché anche se ammiravamo il Che eravamo pacifisti e sempre lontana ci era stata l’idea di violenza. Cercavamo Macondo e al massimo saremmo stati come Aureliano Buendìa che promosse 32 rivoluzioni e le perse tutte. E ho pensato alle nostre fotografie, magari a quelle fatte a Torviscosa quando vi arrivammo con la millecento prestatami da mio papà per una partita precampionato della Triestina nel settembre del ’67. All’ultimo minuto Pedroni segnò il gol del pareggio e noi, unici triestini in trasferta per una partita che non interessava a nessuno, improvvisammo un carosello di festa con bandiere sventolanti per un pareggio contro una squadra di dilettanti in un’amichevole! C’era e probabilmente ci sarà ancora un bel parco accanto allo stadio con diverse statue e noi c’immortalammo cavalcandole o abbracciandole mettendo in testa a qualcuna il tamburello del nostro scalcinato mai decollato complessino che ci portavamo sempre dietro per fare un po’ di confusione. Nel pensare alle mie foto di quel giorno non posso fare a meno di paragonarle a quelle che mi ritrovo davanti e immagino il dolore di chi ha vissuto i bei momenti in cui erano state scattate e ora si trova a vedere immortalato solo chi è rimasto, soprattutto se quello rimasto è lui stesso. Maria Teresa che quegli anni li aveva vissuti, non ha voluto nemmeno entrare: era troppo straziante.
Al giovedì pomeriggio, ci tenevo tantissimo, andiamo a Plaza de Mayo, di fronte alla Casa Rosada, residenza presidenziale. Lì, alle 15.30, ogni settimana, da quarant’anni, sempre in quel giorno, si radunano le madri dei desaparecidos, e sarà impossibile scordarci di loro.
Tutto ebbe inizio il 30 aprile 1977, un sabato, quando 14 di queste donne decisero di consegnare una lettera al dittatore Videla chiedendo di essere ricevute per conoscere la sorte dei loro figli scomparsi. Effettuata la consegna, sul momento pensarono di rimanere in quella piazza per informare i passanti su quello che stava succedendo e poi decisero che ci sarebbero tornate ogni settimana. Scartarono il sabato perché qualcuna disse che non era giorno per andare in piazza: “la gente va a prendere il sole, portano i bambini a vedere le colombe” e così optarono per il venerdì. Il 6 maggio si ritrovarono più numerose a parlare sempre dei loro cari scomparsi sempre attente se qualcuna aveva qualche notizia più certa su quello che poteva essere successo. Confermarono di ritrovarsi ogni settimana anche se cambiarono ancora giorno perché qualcun’altra disse che il venerdì porta male, è giorno di streghe. Così fissarono per il giovedì e da quel giorno non mancarono mai più all’appuntamento e il gruppo andò sempre più infoltendosi con il profondo impegno verso i loro figli: non abbandonarli mai. A ottobre decisero di partecipare a una tradizionale processione religiosa che radunava un milione di giovani. C’era il problema di riconoscersi tra tanta gente, ancora non si conoscevano bene nemmeno tra loro che, da perfette sconosciute, accomunate da un identico dolore, avevano iniziato a ritrovarsi in piazza, e volevano altresì rendere visibile la loro presenza. Venne accolta la proposta di mettersi un fazzoletto in testa, uguale per tutte, sarebbe stato bianco. E non era un fazzoletto normale, era il pañal, il pannolino bianco dei loro figli che tutte avevano conservato a ricordo dei loro piccoli. La manifestazione fece molta impressione, per la prima volta si parlò pubblicamente dei sequestri, se ne accorse la stampa estera e il mondo scoprì che in Argentina non andava tutto a meraviglia come il regime militare tentava di dimostrare. Il pannolino fu poi accantonato perché si sarebbe rovinato e le donne desideravano conservarlo e venne sostituito da un fazzoletto bianco di batista, ancora oggi il simbolo di quelle che ogni giovedì marciano intorno alla piazza. Nel ‘78 al mondiale di calcio, mentre lo stadio di Buenos Aires era strapieno di spettatori festanti che sventolavano bandiere bianche e azzurre, nei suoi pressi venivano perpetrate torture e assassini spaventosi nei confronti di ragazzi dei quali le disperate madri di Plaza de Mayo chiedevano qualche notizia per tenere acceso un lumicino di speranza. Il giorno dell’inaugurazione del campionato la televisione olandese, mentre sullo stadio venivano liberate centinaia di colombe viste in diretta in mondovisione, preferì riprendere quelle donne per documentare la loro tragedia. Spiace sapere che i vincitori di quel mondiale-farsa accettarono di ricevere il premio dalle mani di Jorge Videla. Lo stesso uomo che presiedeva un governo che spediva i ragazzi arrestati, imbottiti di pentotal sugli aerei che li gettavano dall’alto in mare aperto ancora vivi. O che tenevano in vita le ragazze incinte per eliminarle a parto appena avvenuto affidando il neonato a membri del regime. La squadra olandese giunta seconda non andò a ritirare il premio da quelle stesse odiose mani: un bel gesto. E intanto, per quarant’anni le madri hanno continuato le loro marce col fazzoletto bianco annodato in testa, coraggiose e altere, come le abbiamo viste noi. Non accettano di dare per morti i loro figli, credono che vivano in ogni persona che lotta, che lavora, che s’impegna per gli altri, un sentimento molto intimo, molto personale. Dicono che ogni qualvolta si ascolta una canzone di Victor Jara, Jara è vivo, ogni volta che si legge una poesia di Pablo Neruda, Neruda è vivo, perciò come si può dire che i loro figli sono persi, sono scomparsi? Continueranno a vivere in noi che le abbiamo viste in quel momento, e in quelli che verranno le settimane successive, in ogni persona disposta ad ascoltarle. Non hanno la forza di cambiare il mondo, ma hanno la forza di dare l’esempio, quello ricevuto dai loro figli: di onestà, di fermezza, di convinzione che idee e pensieri buoni possono essere messi in pratica. Le sorregge la promessa che hanno fatto di non abbandonarli. Non li ritroveranno, ma li portano dentro con tutta la forza, con tutto l’impegno ed è, dicono, una sensazione bellissima, che insegna loro a vivere. In molti le hanno chiamate pazze, ma la loro attesa è una follia dolce, che non fa male a nessuno. Chissà, magari un giorno il figlio potrebbe arrivare sulla porta di casa, sorridente, con un semplice “Ciao mamma, sono tornato!”
Noi le abbiamo osservate con commozione, sotto una lieve pioggerellina, mentre facevano un paio di giri, sempre gli stessi, da tanti, troppi anni intorno a un monumento di fronte alla Casa Rosada, abbiamo acquistato qualche ricordino per dare un piccolo contributo e quando la manifestazione si è conclusa siamo entrati in un bar ai margini della piazza. Un bel bar signorile con camerieri ossequiosi e clientela elegante dove abbiamo ordinato 2 caffè cortitos y cargados, così bisogna chiedere per bere un buon espresso. E in quel bar, davanti a quei camerieri, a quei clienti, a quei caffè, abbiamo pianto. Con la memoria a quello che avevamo vissuto pochi minuti prima, silenziosamente, senza disturbare, abbiamo pianto. E ci siamo sfiorati la mano.