Pozzolo Paola
54 anni, genovese di nascita e di residenza, vivo i miei fine settimana e tutti i periodi festivi a Ca’ Savio ormai da tre anni, mi sento dunque ormai parte integrante di questa comunità.
Laureata in storia dell’arte, lavoro presso la Civica Amministrazione genovese. Ho una predilezione per la storia medievale ed in particolare per tutto ciò che riguarda la Serenissima. La letteratura e la scrittura sono tra i miei hobbies preferiti.
Avvenne ad Akko
-’l mare era e dovea essere di tutti-
1
Un’antica leggenda ebraica narra che il grande mare allagò il mondo e quando giunse sino alla spiaggia dinanzi a San Giovanni d’Acri si arrestò, come riporta il Libro di Giobbe: “Fin qui giungerai e non oltre…”.
“Fin qui”, secondo il suono ebraico è “Ad Co” e da qui “Akko”.
Il sole accecante dell’estate d’Outremer si rifletteva sulla spiaggia di sabbia del delta del Nilo e sulle acque che si infrangevano sulla battigia con morbide onde.
Era un turbinio di colori: dall’ocra dorata della sabbia, così fine e morbida da sembrare un velluto al tatto, al blu intenso simile al lapislazzuli che caratterizzava sia il cielo che il mare, accompagnato dal bianco accecante della schiuma delle onde che ruggivano al largo, per poi smorzarsi sulla riva.
Un caldo vento di scirocco proveniente dal deserto sferzava due figure maschili che si stagliavano l’una di fronte all’altra, contro le bianche e possenti mura di Akko.
Dopo anni di guerra vissuta su opposti fronti, i due vecchi amici d’infanzia si incontravano nuovamente su quella stessa spiaggia che molti anni prima aveva suggellato la loro amicizia a dispetto della loro differente origine, Filippo Barbarigo veneziano e Andreolo Dellepiane, genovese: occhi verdi da gatto, capelli e pelle chiara, volto largo, rischiarato da un ampio sorriso, su una figura massiccia il primo, minuto, capelli incanutiti anzitempo, occhi scuri e mobili, un’espressione che ricordava un piccolo roditore erudito il secondo, già antiquario e scrittore.
Era stata un’amicizia vera, profonda, a dispetto da quello che pensavano tutti coloro che li conoscevano e forse nemmeno la lontananza avrebbe potuto scalfirla, se non fosse stato per quella sciagurata guerra che prese l’avvio nell’anno del Signore 1255.
La sonorità del mare era sovrastata dalle voci concitate di un gruppo di ragazzini: chi dai bastioni avesse posato gli occhi sulla spiaggia, avrebbe avuto la sensazione di osservare un manipolo di formiche impazzite, un osservatore più attento avrebbe colto i dettagli della scena: giovani di diverse età, linguaggi ed etnie, delimitavano un’area circolare, entro cui due di loro erano prossimi ad affrontarsi.
Quello che maggiormente colpiva era la differenza tra i due contendenti: minuto, ma agile l’uno, più alto ma tarchiato e pesante l’altro.
L’esito della contesa sembrava scontato, tuttavia il più esile dei due non pareva minimamente intimorito e aggrediva verbalmente l’altro contendente, incitandolo ad attaccare.
Stanco di essere schernito, l’avversario caricò, lanciandosi addosso al suo antagonista che rovinò miseramente sulla sabbia, schiacciato dal peso dell’energumeno che incominciò a menar colpi.
Il piccolo, stordito dai colpi, incapace di reagire stava per essere sopraffatto, quando una mano decisa agguantò per la camicia il suo avversario, allontanandolo dalla preda: “bravo Hasan, te la prendi con quelli più piccoli di te ora? Cosa direbbe il tuo profeta?” intorno ai tre era calato il silenzio, si sentiva solo il sussurro delle onde sulla battigia.
Hasan, in una lingua tutta sua, fatta di latino, suoni arabi, ebraico, lingua franca, cercava malamente di farsi le proprie ragioni.
“falla finita, la prossima volta che ce l’hai con un piccoletto, vieni a sfidare me!” “è chiaro a tutti? Non tollero che ci si approfitti dei più deboli” disse rivolto a tutto l’uditorio, calcando sul suo accento veneziano, con uno sguardo a trecentosessanta gradi.
“io non sono piccoletto!” si levò unica una voce
“a no? E cosa saresti?” chiese il giovane veneziano
“mi chiamo Andreolo Dellepiane e sono…”
“genovese” finì per lui il suo interlocutore “e io sono Filippo Barbarigo, veneziano” si presentò, tendendogli una mano per aiutarlo a rialzarsi: Andreolo osservò per un attimo la larga mano protesa verso di lui, incerto se accettare o meno l’aiuto, alzò lo sguardo e i suoi occhi da furetto incontrarono due iridi verdi da felino, che contrastavano con il largo sorriso che rischiarava il volto di Filippo.
Senza indugiare oltre, tese la mano destra che venne serrata in una morsa, dopodiché Filippo facendo leva sulle gambe, lo sollevò letteralmente dalla sabbia e lo rimise in piedi.
I due erano ora l’uno di fronte all’altro: “grazie allora veneziano, ti sono debitore”
“troverai il modo di sdebitarti genovese, anche se la vostra propensione al risparmio è nota!” celiò Filippo.
Andreolo stava per controbattere polemicamente, ma qualcosa nello sguardo dell’altro lo fece desistere: era solo una scintilla, ma sembravano i prodromi di una nascente amicizia.
2
Filippo e Andreolo, coetanei, si intesero da subito. Dalle loro scorribande in città e lungo la spiaggia ai piedi dei bastioni, eredità della dominazione araba, nacque una solida amicizia, che nulla avrebbe potuto incrinare, almeno questo era ciò di cui erano convinti.
Erano giunti in quel lembo di terra protesa verso il mare ultimo avamposto cristiano, con le rispettive famiglie che qui avevano i propri affari.
I genitori di Andreolo, piccoli vassalli rurali dell’arcivescovo di Genova, originari della Valpolcevera, erano arrivati direttamente dalla madrepatria con i due figli maggiori, Oberto e Fulco, mentre il padre di Filippo aveva abbandonato Creta dopo esservi trasferito nel 1210 con l’insediamento di Jacopo Tiepolo al governo dell’isola, ottenendo delle terre in quanto feudatario veneziano; nel 1222 però, a causa delle continue ribellioni dei cretesi al governo veneziano e di vicissitudini famigliari, si trasferì ad Akko.
Come la famiglia di Andreolo anche i Barbarigo si occupavano di commercio: dal Negroponte, dal Bosforo sino ai mercati del Mar Nero, e della Crimea, di Cilicia e di Siria, per poi riprendere la via dei mercati di tutta Europa.
Ogni carico veneziano che navigava nelle acque dell’Adriatico aveva però l’obbligo di fare scalo a Rialto e in nessun altro porto, secondo quanto decretato dal doge Pietro Ziani e ciò faceva sì che il legame con la madrepatria si mantenesse saldo.
L’età permetteva loro di non dare peso al solco che le differenti origini e i rapporti non sempre pacifici tra le due potenze mediterranee inevitabilmente avrebbero scavato.
Akko era ora un grande porto ed emporio commerciale, dove le maggiori città italiane avevano fondaci e quartieri e la convivenza tra le strette rughe poteva risultare problematica.
Il tessuto e il paesaggio urbano di Akko erano un retaggio dell’epoca araba, che aveva a sua volta adattato i preesistenti spazi di epoca ellenistica e quando i latini conquistarono la città nel XII secolo, inizialmente non apportarono grandi modifiche, limitandosi a costruire sull’esistente, sedimentando quindi ciò che in passato era stato realizzato: vie e piazze ripercorrevano quelle degli antichi souk e dei funduq, ovunque erano presenti piccoli balnea, al posto delle numerose piccole moschee con i loro minareti, sorsero chiese latine.
Mutamenti profondi iniziarono verso la fine del secolo, conseguenza di fattori politici, demografici ed economici, quando con la perdita di Gerusalemme, la città divenne la capitale virtuale del regno latino; qui si insediarono il patriarca, gli Ordini degli Ospitalieri, dei Templari e in ultimo i Teutonici. I cristiani in fuga dai territori orientali ripiegarono in città e la prosperità economica produsse anche una forte immigrazione dall’Occidente, in particolare dalle città mediterranee dedite al commercio, come Genova, Pisa e Venezia.
La rivalità tra queste città si rifletté anche nei rispettivi insediamenti locali: ad Akko i loro quartieri erano protetti da cinte murarie, torri e porte fortificate, difese da arcieri.
In particolare i genovesi si erano stanziati ad Akko sin dal 1104: un terzo della città era occupato dal loro quartiere, il cui accesso era protetto da un’entrata fortificata con strette fessure a mò di finestre ad uso degli arcieri che dovevano proteggere i genovesi dagli assalti nemici: era convinzione comune che la torre urbana genovese fosse così grande e atta alla difesa che non si aveva notizia dell’esistenza di una migliore di quella.
Il quartiere aveva poi altre due torri, palazzi, case, magazzini e banchi, sia di proprietà del Comune che di ricchi cittadini.
Le abitazioni erano per lo più di legno, strettamente ravvicinate, la ruga principale che portava al mare era abitualmente occupata dalle botteghe degli artigiani, e ricordava i portici lungo la Ripa, che caratterizzavano lo sbocco al mare di Genova.
Tra queste vie strette, congestionate, con edifici addossati l’uno all’altro, si muovevano con estrema naturalezza Andreolo e Filippo, sempre alla ricerca di nuove avventure, di luoghi da scoprire, per placare il desiderio di conoscenza di uno e la curiosità dell’altro.
Akko era una mescolanza non sempre pacifica di razze, culture, lingue e religioni o forse semplicemente di donne e uomini del Mediterraneo, Genovesi, Pisani e Veneziani si guardavano in cagnesco nelle strette rughe dei loro quartieri contigui: era sufficiente una zuffa tra marinai ubriachi perché i coltelli facessero la loro apparizione.
Il genovese e il veneziano costituivano un’eccezione e il loro sodalizio era guardato con preoccupazione dalle loro famiglie, preoccupazione che con l’andare del tempo avrebbe potuto trasformarsi in sospetto, anche agli occhi del bailo veneziano e dei consoli genovesi, nonostante la politica di distensione voluta da Jacopo Tiepolo quando era assurto al titolo di Doge nel 1229, ma per il momento vivere qui era un’esperienza entusiasmante.
Non di rado capitava che si accendessero zuffe con ragazzi di altri quartieri, in particolare con due pisani, due fratelli, Cecco e Vieri Sobrana, con i quali gli scontri erano particolarmente accesi, forse a causa dei pessimi rapporti che esistevano in particolare tra Genova e Pisa.
I due pisani infatti avevano preso di mira in particolare Andreolo, forse anche per la sua costituzione minuta, il che faceva andare su tutte le furie Filippo, più massiccio e bellicoso; così, nonostante le aggressioni proditorie di cui erano vittime quando passavano tra le strette vie vicino al quartiere pisano, i due fratelli finivano sempre per avere la peggio: Filippo caricava a testa bassa come un toro e finiva per sopraffarne uno, di solito Cecco, il più robusto, nonché maggiore d’età; lo scaraventava a terra e cominciava a menare pugni e calci, fino a quando non intervenivano altri a separarli. A quel punto Vieri lo aggrediva alle spalle, ma non riusciva mai ad avere ragione di Filippo. Sicchè i due fratelli, laceri, contusi e impolverati, dovevano darsela a gambe, seguiti dalle risa di scherno degli altri ragazzi.
Noncuranti della crescente apprensione che si andava creando intorno a loro, vivevano appieno la vita della città, lungo le rughe dei loro quartieri, tra i mercati dove gli odori delle spezie si mescolavano a quelli dei cibi arrostiti, assaporando l’aspro succo di melagrana, oppure trascorrendo ore sulla spiaggia, ad osservare i pescatori nel paziente lavoro di preparazione delle reti, o in barca essi stessi, dove Filippo dimostrava tutta la perizia marinara della sua stirpe, o ancora fantasticando davanti al massiccio castello dei Templari, una possente costruzione realizzata con pietre a bugnato, protesa sul mare che ne lambiva la maggior parte: aveva una torre quadrata detta donjon con mura dello spessore di 28 piedi, ai lati dell’ingresso ve ne erano altre e sopra ognuna era collocato un leone dorato delle dimensioni di un toro.
Il castello era stato realizzato sui resti di un castra romano ed era divenuto punto di sosta per eserciti di cavalieri crociati e per i pellegrini attratti dalle vie della fede: era la principale rocca della città, che dava direttamente sul porto, consentendo lo sbarco diretto delle navi, non solo cariche di soldati, ma anche di merci preziose.
Ad attrarli in modo particolare erano però i cavalieri stessi: spesso attendevano di vederli uscire dalla fortezza, quando erano fortunati, riuscivano ad incrociare una concroi formata da venti o trenta cavalieri, con in testa il Commandatario riconoscibile dal Bauceant; la prima fila era composta da cavalieri, dietro di essi i sergenti a cavallo disposti su due file seguiti dagli scudieri; li osservavano con l’entusiasmo tipico degli adolescenti, al ricordo delle gesta di questi formidabili guerrieri e spesso tornavano con la memoria al racconto della terribile battaglia dei Corni di Hattin del 1187, quando sotto l’intollerabile calura, l’esercito cristiano fu massacrato dal Saladino che si impadronì della Reliquia della Croce portata in battaglia dal vescovo di Akko.
Uno di loro però in particolare aveva colpito la loro fantasia.
Si trattava di un cavaliere piuttosto giovane, si distingueva dagli altri confratelli per l’altezza, superiore alla media, il portamento e soprattutto perché a differenza degli altri cavalieri e in spregio alla regola, portava i capelli lunghi, benché raccolti sulla nuca, una barba sottile e ben curata e i baffi.
Nonostante provenisse dal Nord aveva capelli scuri e pelle olivastra, che al caldo sole d’Outremer aveva ulteriormente scurito, rendendolo più simile ad un arabo che non ad un europeo.
I due ragazzi lo avevano notato più volte durante le uscite del concroi, a cavallo in prima fila subito dietro al Commandatario e si erano divertiti a fare le più disparate congetture.
Anche il cavaliere aveva finito per notarli, e la fortuna volle che un giorno li incontrasse nel souk dove bighellonavano tra i banchi stracarichi delle merci più disparate.
Fu lui questa volta ad osservarli a lungo: lo colpì la naturalezza con la quale si muovevano in quel crogiuolo di razze, linguaggi, suoni e odori che caratterizzavano ogni mercato di quelle terre, la loro curiosità, come si intrattenessero con i venditori, avevano, in particolare il più minuto dei due, un’abilità tutta loro, che li qualificava come mercanti in erba.
Incuriosito volle avvicinarli per conoscerli meglio.
Dapprincipio i due ragazzi non lo riconobbero, dal momento che era privo del suo equipaggiamento militare, ma vestito semplicemente con una camicia di lino bianca che gli giungeva a metà coscia, calzoni aderenti e dei calzari: nell’insieme aveva l’aspetto più di un monaco che di un guerriero.
Furono i lunghi capelli e la corta barba che permise loro di capire chi fosse.
“giovani signori” li apostrofò avvicinandosi “chiedo scusa per la mia sfacciataggine, ma vi ho notato spesso in prossimità della rocca templare”
“è vero cavaliere” rispose Filippo che fu il più lesto dei due a riconoscerlo “i cavalieri del Tempio ci incuriosiscono molto, forse perché non conosciamo molto della vostra regola”
“vorreste forse entrare a farne parte?”domandò incuriosito nel suo linguaggio, un misto di lingua franca, latino e un’altra lingua che i due giovani non seppero distinguere “no signore, si tratta di semplice curiosità”, rispose il più piccolo
“ma possiamo conoscere il vostro nome? Il mio è Filippo Barbarigo”
“e il mio Andreolo Dellepiane”
“ancora una volta perdonate la mia mancanza di educazione, mi chiamo Alair Servant”
“che nome strano” disse Filippo
“è vero, non ne abbiamo mai uditi di simili e anche il vostro linguaggio non ci è noto” convenne Andreolo.
Sorrise il giovane cavaliere, in effetti era cosa rara trovare un suo conterraneo da quelle parti “vengo dall’Irlanda, da una città di nome Limerick e la mia lingua è diversa dal latino e dalla lingua franca, si chiama gaelico. Anche il mio nome è gaelico, mentre il mio cognome è normanno, un avo di mio padre, tale Adam Servant, giunse in Irlanda al seguito di Raymond Le Gros che nel 1177 conquistò la contea di Limerick, il suo nome gaelico è Luinneach, che significa palude desolata, in realtà sorge lungo la sponda di un fiume, che si chiama Shannon”
“Irlanda?” gli fece eco Andreolo
“so dov’è, me lo ha insegnato il mio precettore, è nel mare a nord, verso l’isola dei britanni, la chiamano anche l’isola di smeraldo” intervenne Filippo
“è vero, perché è ricca di valli verdeggianti ed è un’isola di guerrieri, e voi da dove venite?”
“io sono genovese” rispose Andreolo
“e io veneziano” lo seguì Filippo.
“per la barba del profeta, come direbbe un buon musulmano, che strano connubio!” rise Alair.
“sapete, l’ho salvato da un pestaggio”
“ma non è vero, me la sarei cavata benissimo”
“ma se Hasan ti aveva già buttato a terra”
“era solo tattica”
“si, come no”
Alair era divertito da quello scambio di battute, evidentemente era un argomento ricorrente tra i due.
“e da quanto tempo vi trovate qui?” i due si guardarono, come se il cavaliere avesse fatto la domanda più strana del mondo
“io vi sono nato” rispose Andreolo
“e io sono nato a Creta e sono venuto qui con mio padre e il mio fratello maggiore quando avevo due anni” continuò Filippo
“quindi nessuno di voi due ha mai visto Genova e Venezia, non avete un po’ di curiosità?”
“io no,” rispose prontamente Andreolo “la mia famiglia ha un fondaco da quasi cento anni, commerciamo con tutto il Mediterraneo e poi qui ho modo di conoscere persone e culture diverse e forse a Genova non sarebbe possibile e comunque si dice che ovunque vadano i Genovesi un’altra Genova costruiscono, quindi, che senso ha andare in una città che in fondo è anche qui?” Alair rise di gusto all’arguta affermazione di Andreolo, poi si rivolse a Filippo “e tu Filippo? Non provi curiosità verso la tua città?”
“si, no, non lo so in verità, non l’ho mai veduta, quindi non provo nostalgia, in realtà è come se fossi nato qui” rispose un po’ incerto.
“mi sembra da come parla che Andreolo intenda seguire la strada della cultura, tu invece a cosa pensi di dedicarti?”
“credo che mio padre voglia che entri nel commercio di famiglia…”
“ma tu cosa vuoi?”
“io…. Non lo so…” rispose a capo chino Filippo. Era questa la sua maggiore frustrazione, mentre Andreolo aveva le idee chiare su quale sarebbe stato il suo futuro, lui ancora vagava nell’incertezza.
Alair si rese conto di aver toccato un nervo scoperto “bene, io ora devo andare alla Commanderia, vi piacerebbe visitarla?” disse cambiando discorso.
“dite davvero?” gli occhi di Andreolo si illuminarono
“si, davvero, ma non oggi, è tardi ormai, che ne dite di incontrarci domani all’ora nona, vicino alla torre di ingresso? Pranzerete con me e gli altri confratelli alla Commanderia e vi racconterò com’è la vita di un templare”
“sarebbe meraviglioso” disse entusiasta Andreolo
“si, ma ci lasceranno entrare nella vostra fortezza?” il dubbio di Filippo smorzava un po’ l’entusiasmo del suo compagno
“state tranquilli, sarete miei ospiti, vedrete ciò che è permesso vedere a chi non appartiene all’ordine del tempio. Addio dunque, a domani” disse allontanandosi
“Filippo non lo trovi incredibile? Che colpo di fortuna”
“si, chissà cosa lo avrà colpito di noi?”
“è semplice, un genovese e un veneziano che sono amici, ecco cosa lo ha colpito e poi non deve essere tanto più vecchio di noi, è logico che si interessi a chi gli è più vicino di età, visto che molti dei suoi confratelli sono più anziani!” Fu la realistica risposta di Andreolo.
Iniziò così una nuova fase della loro vita.
Spesso erano ospiti della Commaderia, dividevano il cibo con i confratelli, sui lunghi tavoli di legno del refettorio ricoperti di tovaglie bianche, mangiavano in silenzio ascoltando letture sacre: era un’alimentazione molto parca, poca carne, pesce, piselli, ceci, lenticchie, cetrioli, carciofi, tutto insaporito da senape, aglio e cipolle e accompagnato dal pane bigio, poi fichi, melograni, arance, datteri essiccati al sole e albicocche. Nulla andava sprecato, ciò che avanzava veniva dato ai poveri, impararono così a tagliare o spezzare il cibo in maniera decorosa.
Alair spiegava loro la disciplina cui erano sottoposti: il volere del singolo era totalmente annientato a favore della volontà del gruppo e della causa crociata “sapete, una frase di San Bernardo di Chiaravalle rispecchia lo spirito templare: Essi non chiedono quanti siano i nemici, ma in che direzione si debba andare alla carica” raccontava con malcelato orgoglio il Templare “lo stesso Saladino ebbe a dire di voler purgare la terra da questi guerrieri immondi che non rinunciavano mai alla loro ostilità, non rinnegavano mai la loro fede e non potevano nemmeno essere utili come schiavi” gli occhi gli brillavano “noi Templari siamo utili agli eserciti cristiani, la nostra conoscenza del territorio impedisce che i crociati cadano nelle imboscate delle milizie saracene” e così dicendo mostrava loro il suo equipaggiamento militare, ma più di tutti era della sua spada, diritta a doppio filo e del bianco mantello con la croce rossa, che andava particolarmente fiero “il mantello bianco è riservato ai cavalieri e ai grandi dignitari, sergenti, scudieri, servitori indossano abiti bruni o grigi”
“sono gli stessi colori che si trovano sul vostro stendardo” replicava Filippo
“sei acuto Filippo, si è vero: eccolo qui, il nostro vessillo, si chiama Beauceant” e mostrava lo stendardo bipartito in fasce bianche e nere, su cui campeggiava il motto Vaucent.
L’amicizia con Alair andava rafforzandosi sempre più e quando il giovane cavaliere era libero dagli impegni della sua carica, trascorreva molte ore della sua giornata con i ragazzi.
Filippo superata l’iniziale perplessità, più di Andreolo cercava la compagnia di Alair, volendo comprendere meglio la politica di quei territori, imparare la lingua del cavaliere, sicuro che un giorno tutto ciò avrebbe potuto tornargli utile, quando avrebbe intrapreso l’attività di famiglia, acconsentiva inoltre ad esercitarsi con lui nell’uso della spada o della daga o ancora con la balestra, mentre Andreolo seduto su un tratto di muro dell’ampio cortile, faceva da spettatore.
Quando poi non avevano modo di godere della compagnia di Alair, bighellonavano lungo le banchine del porto, complice la vicinanza dei loro quartieri.
Spesso si soffermavano davanti all’edificio della dogana: qui di fronte alla porta c’erano dei banchi ricoperti da tappeti dove stavano gli scribi; Andreolo era affascinato dai loro calamai d’ebano e si attardava ad osservarli redigere le loro scritture in arabo, nonostante fossero cristiani, mentre Filippo era incuriosito dai mercanti delle carovane che provenivano dall’oriente.
Osservavano le navi mercantili che tra aprile e maggio, fino a metà ottobre giungevano fino ad Akko, sospinte da venti che soffiavano da nord e da ovest: Filippo ora sognava di imbarcarsi, ma soprattutto di tornare a Venezia, studiare nella sua città, per poter un giorno prendere le redini degli affari di famiglia con il fratello maggiore.
“non vorresti tornare a Genova Andreolo?” domandava al suo amico osservando il mare, lo sguardo perso oltre l’orizzonte, verso un punto immaginario, dove secondo i suoi calcoli sorgeva Venezia, ripensando alle parole di Alair quando si erano conosciuti.
“per fare cosa? Il commercio si pratica meglio qui che in patria e poi ho la possibilità di conoscere altre culture; rifletti, solo qui io e te abbiamo avuto l’opportunità di diventare amici Filippo, se fossimo rimasti nelle nostre città forse un giorno ci saremmo scontrati, nel corso di una delle tante guerre che da sempre combattiamo gli uni contro gli altri” replicava il piccoletto e Filippo non trovava argomenti validi per controbattere.
Così gli anni trascorsero, fino a quando nel maggio del 1235, Nicolò Barbarigo, comunicò al figlio che si sarebbe dovuto imbarcare sulla prima galea veneziana che avrebbe fatto ritorno in patria “ho già inviato una lettera per avvisare mio fratello Marco del tuo prossimo arrivo e di provvedere alla tua istruzione per i prossimi tre anni, dopodiché ti imbarcherai”
“mi informate a cose fatte padre, non mi avete chiesto cosa ne pensassi o se fossi d’accordo”
“sono tuo padre Filippo e per ora decido ancora io cosa sia meglio per te” controbatté Nicolò a denti stretti, prossimo a perdere le staffe con quel figlio buono si, ma che non sapeva stare al proprio posto e voleva sempre fare a modo suo.
Filippo strinse le labbra, consapevole che un alterco con suo padre non avrebbe condotto a nulla di buono, quando si metteva in testa qualcosa, nessuno era in grado di fargli cambiare idea.
Era un uomo notevole Nicolò, dotato di sano buon senso, alla morte della moglie non si era perso d’animo, complice la precaria situazione a Creta, aveva lasciato l’isola, mandato l’ultimo nato Jacopo, presso la famiglia di suo fratello e aveva fatto rotta verso Akko con il figlio maggiore Zuane e Filippo di soli due anni; Zuane divideva con lui l’attività commerciale ed era ora che anche Filippo ne apprendesse i rudimenti.
Non lasciava partire il figlio a cuor leggero, il timore di una tempesta, anche se si era nella stagione del passagium o ancor peggio dei pirati, non gli avrebbe fatto dormire sonni tranquilli sino a quando non gli sarebbe giunta la notizia che Filippo era arrivato sano e salvo a Venezia, ma era consapevole che se il figlio avesse voluto farsi strada nel mondo, era da li che doveva cominciare.
Il ragazzo uscì di casa, sentimenti contrastanti covavano nel suo animo, da un lato c’era forte il desiderio di tornare nella sua terra natia: quante volte aveva immaginato di solcare le placide acque della laguna, respirare l’aria salmastra del mattino ancora carica degli umori e dell’umidità notturna, osservare il sole nascente che si posava sulle facciate dei palazzi, mentre tutto intorno la città riprendeva ad industriarsi per vivere.
D’altro canto però ad Akko c’erano i suoi amici, Andreolo in particolare, con il quale aveva instaurato un rapporto quasi simbiotico e che più di chiunque altro era in grado di capirlo.
Dentro di se era consapevole che se fosse andato a Venezia, al suo ritorno ad Akko, se mai tale evento fosse avvenuto, nulla sarebbe più stato come prima.
Il sole era già alto e picchiava implacabile, le pietre della città restituivano tutto il suo calore, camminare lungo le strette rughe del quartiere veneziano era soffocante, ma Filippo sembrava non accorgersene.
Senza sapere come, si trovò davanti alla Commanderia: rimase lì per un tempo indefinito, a respirare l’aria salsa proveniente dal mare, incerto sul da farsi, quando vide uscire Alair.
“mio giovane amico, cosa fai qui solo?” lo apostrofò il cavaliere, meravigliato di vederlo senza Andreolo al fianco.
“Alair, devo partire, mio padre mi manda a Venezia” disse Filippo tutto d’un fiato, ignorando la domanda del templare.
“è una buona cosa questa Filippo, ma tu mi sembri angosciato”
“io non sono sicuro di tornare e se ciò avverrà e quando avverrà, pensate che io e Andreolo potremmo continuare ad essere amici? Lui parlandone mi disse che solo qui abbiamo avuto modo di esserlo, altrove non sarebbe stato possibile”
“Andreolo dimostra di essere più pragmatico di te. Genova e Venezia non saranno mai alleate, troppi interessi economici minano qualsiasi possibilità di accordo, voi avete goduto di un’occasione speciale, unica, ma ricorda che non ci è dato di sapere cosa ci riserva il domani, quindi considera come un dono prezioso ciò che è avvenuto tra di voi e conservane il ricordo per i giorni a venire”
“quindi è di questo che mi devo accontentare? Di ricordi?”
“no, non ricordi, esperienze che ti saranno utili per il futuro, pensaci: hai voluto imparare la mia lingua perché pensavi che avrebbe potuto esserti utile per commerciare, già guardavi oltre. Non pensare ad Akko con nostalgia, o come di qualcosa perso per sempre, se è destino che tu debba tornare, così sarà. Ecco, prendi la mia daga, forse un giorno me la riporterai, altrimenti servirà a mantenere vivo il ricordo di me, questo si” e sorridendo gli porse la sua daga, dalla lama affilata e l’impugnatura finemente cesellata.
“cavaliere io…”
“non dire nulla, ora va, c’è qualcun altro a cui devi dare questa notizia. Fa buon viaggio Filippo” e si allontanò, lungo la via che conduceva al porto.
Filippo rimase fermo, con la daga tra le mani, sino a quando la figura di Alair non fu che una sagoma sfocata nella foschia della calda giornata primaverile, poi, riposta l’arma nella cintura, si avviò verso il magazzino dei Dellepiane.
3
La flotta di galee mercantili procedeva spedita, complice il vento da sud che le sospingeva verso la madrepatria.
Filippo a bordo dell’ammiraglia, aveva infine messo da parte le proprie riserve e il risentimento nei confronti del padre e aveva preso a godere di quel viaggio, il primo così lungo a sua memoria, giacchè quando avevano lasciato Creta era troppo piccolo.
L’unico rammarico che si portava dietro era l’espressione con cui l’aveva guardato Andreolo quando gli aveva comunicato che sarebbe dovuto partire.
Al giovane genovese dapprincipio parve che gli venisse a mancare la terra sotto i piedi: in realtà era consapevole che una simile evenienza avrebbe potuto verificarsi, ma per anni aveva volutamente evitato di pensarci e ora si era fatto cogliere impreparato.
Sapeva anche che se Filippo fosse tornato, niente avrebbe potuto essere come prima e questo lo rattristava moltissimo, a nulla sarebbero serviti i ricordi e le esperienze vissute insieme, ma era conscio di non poterci fare nulla e con il pragmatismo tipico della sua gente riuscì a farsene una ragione.
Per settimane non si erano più incontrati,Filippo era troppo preso dai preparativi e Andreolo troppo immalinconito per assecondarlo in quelle operazioni, in seguito, quando era arrivato il giorno della partenza era andato al porto ad accomiatarsi da Filippo e lo aveva fatto senza parole: prima che l’amico salisse a bordo, gli aveva donato la metà esatta di un bisante d’oro, mostrandogli l’altra metà nel palmo della sua mano.
Filippo aveva stretto il prezioso dono nel suo pugno e si era limitato ad un cenno d’assenso con il capo poi, bruscamente, per non mostrare le lacrime che gli offuscavano la vista, aveva voltato le spalle ad Andreolo ed era salito a bordo.
Andreolo dal canto suo non aveva indugiato oltre e se ne era andato senza attendere che la nave salpasse.
Ora, a quasi un mese dalla sua partenza, stava finalmente per giungere a Venezia. Non era in grado di definire esattamente il suo stato d’animo, pur essendo veneziano era la prima volta che toccava il suolo della madrepatria, non conosceva quei parenti a cui il padre lo aveva raccomandato e altrettanto estraneo gli era Jacopo, il fratello minore, giunto a Venezia ancora in fasce e di cui lui aveva un vago ricordo, così come estranee gli erano le abitudini e il modo di vivere dei veneziani.
Insieme alla sua vita spensierata, si era lasciato alle spalle le isole dell’Egeo, Creta, che gli aveva dato i natali, Corfù, aveva visto scorrere davanti ai suoi occhi le coste dell’Albania e proseguito a navigare verso l’Adriatico.
Il sole stava lentamente calando, i contorni della rocciosa costa dalmata ricca di macchia mediterranea si facevano sempre meno nitidi e il caldo dell’estate cedeva il passo all’aria fresca della sera.
Filippo scese sottocoperta: per il riposo notturno preferiva dormire in mezzo ai vogatori piuttosto che nella cabina che gli era stata messa a disposizione, rifuggiva dal silenzio, ma non dalla solitudine, comportandosi come un compagno di viaggio poco incline alle chiacchiere.
Fu l’armiraglio a destarlo, comunicandogli che erano in prossimità delle bocche di porto e presto avrebbero attraccato a Venezia.
Filippo salì sul ponte proprio mentre transitavano tra mare e laguna e nel chiarore del primo mattino vide una serie allungata di cordoni litoranei interrotti da ampie bocche attraverso le quali, gli aveva spiegato suo padre, avvenivano gli scambi di acqua tra mare e laguna, dovuti al gioco delle maree: la marea penetra due volte al giorno e due volte il riflusso porta fuori l’acqua, sempre per la stessa via e nella stessa direzione, gli sembrava di udire la voce di suo padre che gli raccontava della sua città d’origine e delle peculiarità di quel territorio.
Il paesaggio era univoco: una serie di lidi che racchiudevano laguna, valli, paludi costiere, terre lambite da acque dolci e salmastre, estesi arenili di sabbia che si prolungavano verso il mare aperto: le distanze parevano dilatarsi, la piattezza e la vastità del paesaggio ne risultavano enfatizzati.
La prima impressione che Filippo ebbe di quel mondo, fu che si trattasse di un ambiente di opposizione e flusso, laguna e mare, fiume e marea, acqua dolce e sale, correnti torbidi e chiare, in un continuo alternarsi senza soluzione di continuità.
Era una scenografia fatta di canneti e tamerici fruscianti nel vento, all’odore noto del mare che profumava anche le barene, Filippo ne percepiva un altro totalmente sconosciuto, quello delle tamerici, alberi salmastri resistenti alle tempeste e al torrido sole estivo: il vento ne disperdeva il profumo, ma appena si placava, ecco prepotente l’aroma intenso, dolce, penetrante, lievemente aspro, erboso che riempiva l’aria.
Il silenzio alle bocche di porto sembrava perpetuare la suggestione del paesaggio.
La flotta mercantile stava ormai lentamente avanzando in bacino, era l’alba di una luminosa giornata di giugno, l’aria che risentiva ancora della frescura notturna era limpida, i contorni che si profilavano all’orizzonte, netti.
Giunsero infine in prossimità della riva, dove altre navi erano già alla fonda.
Filippo a mano a mano che si avvicinavano, coglieva i particolari di quella città su cui aveva a lungo fantasticato, finchè non si trovò di fronte alla piazzetta di San Marco, là dove le due colonne con il leone marciano e San Teodoro, impalcavano lo scorcio prospettico della basilica.
La tozza galea mercantile ad alto bordo e con più ponti, che ricordava le antiche navi onerarie romane, attraccò infine alla riva del bacino.
Filippo si apprestò a scendere: era fermo a prua, con una sacca sulle spalle e un piccolo baule ai suoi piedi, quando un ragazzo che pareva avere la sua età salì a bordo e lo avvicinò “siete messer Barbarigo?”
“sono io” rispose Filippo sorpreso che un suo coetaneo potesse rivolgersi a lui con tale deferenza.
“vostro zio Marco vi attende in riva, lasciate a me il baule” e senza attendere risposta prese il bagaglio e si avviò a terra, Filippo si riscosse e lo seguì.
Non gli ci volle molto tempo per individuare lo zio tra la folla che sempre assiepava la riva quando attraccavano delle galee: vicino alla colonna con il leone alato, un uomo del tutto simile a suo fratello Zuane, solo più vecchio, agitava un braccio in cenno di saluto verso la sua persona.
Filippo rapidamente scansò le persone che li separavano e raggiunse lo zio “Filippo finalmente, ti avrei riconosciuto ovunque, sei il ritratto di Angiolina, la tua povera madre” lo salutò lo zio.
Era simile al fratello Nicolò, ma più magro e scanzonato: laddove Nicolò aveva delle rughe nate dal dolore e dalla preoccupazione, i solchi sul volto di Marco erano più dettati dalla piega ironica e ridanciana della sua bocca, ma come Nicolò, anche lui rideva con gli occhi.
“buongiorno zio, vi avrei riconosciuto anch’io, assomigliate molto a mio fratello Zuane”
“buon dio Filippo come parli?” Filippo rimase interdetto “qui sei a Venezia figliolo, non puoi parlare la lingua franca d’Outremer, sforzati di parlare in veneziano, lo avrai imparato certamente” Filippo si limitò ad annuire, il senso di estraneità che lo aveva colto da quando era salito a bordo della galea, si acuì.
Intimidito non aggiunse altro, limitandosi a seguire lo zio verso un punto della riva dove sembrava esserci un cantiere navale.
“questo è il cantiere di Terranova, ma la Serenissima ne ha già attrezzato uno più grande, con migliaia di operai, di là verso Castello” disse indicando con un cenno della mano un punto vago oltre Palazzo Ducale, parlando come se Filippo conoscesse già la città, il rumore prodotto dal lavoro incessante di fabbricazione e riparazione di imbarcazioni, era assordante.
Marco si accostò ad una gondola dove aveva già trovato posto il ragazzo che si era fatto carico del bagaglio di Filippo e un vogatore attendeva con pazienza l’arrivo dei signori “sali a bordo Filippo, andiamo a palazzo dove ci aspettano mia moglie e tuo fratello Jacopo, ti ricordi di lui?”
“vagamente, ero molto piccolo quando mia madre morì e lo veniste a prendere a Creta per portarlo con voi a Venezia”.
Filippo prese posto sulla gondola, lo zio al suo fianco.
La barca si scostò dalla riva e lentamente prese ad avanzare verso il Canal Grande.
In silenzio Filippo osservava ciò che lo circondava, non era preparato a quanto stava vedendo.
Abituato ai possenti edifici da difesa di Akko che facevano da contraltare alle più semplici abitazioni in legno, rimase sbalordito alla vista delle eleganti costruzioni che parevano nascere dall’acqua del canale, quasi come ne fossero parte e limite al tempo stesso.
Erano palazzi straordinariamente ariosi e aperti che si illuminavano della luce chiara e trasparente riflessa dall’acqua traslucida: Filippo si trovò a paragonare Akko ad un guerriero, con le sue fortezze e le sue mura a spessi blocchi, mentre Venezia con la sua leggiadria gli ricordava una donna, che però era in grado di difendersi da sola, con tutta quell’acqua che la circondava.
Gli pareva che la laguna fosse il territorio che Venezia si era cucita intorno, la sua valva, mentre la città stessa era la perla.
La gondola si fermò a lato della porta d’acqua di un antico palazzotto in stile tardo bizantino che conservava ancora due ali fortificate come piccole torri, retaggio di una costruzione più antica ancora.
“la porta d’acqua serve per lo sbarco delle mercanzie, noi qui abbiamo anche i nostri magazzini” spiegava Marco “avendo i bagagli da trasportare non era il caso di fare la strada a piedi, avrai tempo per conoscere la città”.
La porta si aprì lasciando intravvedere un approdo interno.
I due uomini scesero e Marco fece strada verso una piccola porta all’altro capo dell’androne: lo oltrepassarono e si ritrovarono in un curatissimo e odoroso giardino interno, Filippo non si preoccupava di celare il proprio stupore.
“non ti aspettavi di trovare un giardino simile vero? Per la verità quasi tutti i palazzi veneziani ne nascondono uno, ma in città non mancano nemmeno orti e vigne”
“ma il palazzo non ha altri ingressi?”
“certamente, vedi quella porta laggiù?” e Marco indicò una piccola porta seminascosta nell’ombra del muro più estremo dell’edificio “quello è l’ingresso dalla calle, ma ora saliamo” e lo precedette lungo una scala di legno scuro, con un parapetto finemente intagliato che portava ad un loggiato superiore, dove si aprivano una serie di eleganti porte di quercia.
Lo zio ne aprì una e fece accomodare Filippo in un ampio salone illuminato da un’elegante vetrata tripartita con vetri colorati che rifrangevano la luce in molteplici tonalità: sembrava che questa avesse vita propria, accarezzando un mobile, scivolando sullo schienale di una poltrona, sottolineando il particolare di un arazzo.
Due persone, una donna e un ragazzino attendevano in piedi davanti alla finestra, in piena luce.
Filippo non faticò a riconoscere suo fratello Jacopo e immaginò che la donna che gli era accanto fosse la zia, ma lasciò che lo zio parlasse per primo.
“Filippo, questa è tua zia Chatarina, mia moglie e questo giovane è tuo fratello Jacopo”
Filippo, più imbarazzato che mai, si inchinò alla zia e sorrise al fratello, porgendogli la mano; Jacopo rimase immobile, poi sollevò lo sguardo verso lo zio e al suo impercettibile segno d’assenso, rivolse a sua volta un sorriso al fratello, gli prese la mano e d’impulso lo abbracciò, lasciando Filippo interdetto per un attimo, poi anch’egli si sciolse e ricambiò affettuosamente l’abbraccio.
La zia sorrise commossa, mentre Marco sospirò di sollievo.
A lungo aveva temuto quell’incontro: non avendo figli avevano allevato il ragazzo come se fosse loro, non dimenticando mai però di ricordargli chi fosse il suo vero padre.
In principio Marco aveva biasimato suo fratello Nicolò per aver lasciato Jacopo alle sue cure: sembrava quasi avesse voluto sbarazzarsi del figlio, incolpandolo della morte dell’adorata moglie, ma Jacopo aveva presto colmato quel vuoto nel cuore suo e di Chatarina dovuto all’assenza di un figlio proprio ed egoisticamente non aveva mai prospettato al fratello di mandare Jacopo ad Akko, né per la verità Nicolò glielo aveva mai domandato.
Ora, l’arrivo di Filippo avrebbe potuto far si che Jacopo si ponesse delle domande e magari dato vita a del risentimento, invece pareva che tutto promettesse per il meglio.
Il silenzio fu improvvisamente rotto da quattro persone che contemporaneamente avevano preso a parlare.
Fu Chatarina a rendersi conto della comicità della situazione e a scoppiare in un’allegra risata. Gli altri tre la guardarono interdetti, ma compresero quanto fosse amena la circostanza e si unirono alla sua ilarità.
Chatarina si riebbe per prima e sottopose il nipote ad una ridda di domande, mentre lo zio si era avvicinato ad un piccolo tavolo rotondo in stile moresco ricco di intarsi colorati, dove era appoggiata una caraffa sfaccettata contenete del liquido ambrato.
Sollevò la caraffa e versò un po’ del liquido in un bicchiere di vetro soffiato di squisita fattura “tieni Filippo, rinfrancati un po’ con questa malvasia, sono sicuro che tuo padre non te ne ha mai fatta bere di altrettanto buona”
“in realtà zio, mio padre non mi ha mai permesso di bere vino, neppure annacquato”
“come sarebbe? Un veneziano che non beve?”
“sapete ad Akko fa molto caldo per buona parte dell’anno e il vino si beve con parsimonia”
“parli come un genovese” borbottò lo zio
“il mio più caro amico è un genovese” ribattè prontamente Filippo.
Marco rimase interdetto “bisognerà darsi particolarmente da fare per ricordarti chi sei”
Filippo lo guardò con espressione interrogativa “nonostante la mercatura, che è poi cosa comune tra i nobili veneziani, noi siamo patrizi e la nostra famiglia ha origini piuttosto antiche, il nome della nostra casata risale all’880, quando un nostro antenato che vinse i saraceni…”
“basta signor mio” lo interruppe Chatarina “avrete tempo per insegnare la storia di famiglia a nostro nipote e non solo quella, ora però lasciate che prenda confidenza con ciò che lo circonda e soprattutto lasciate che si riposi un po’” così dicendo cinse con le spalle il giovane e lo accompagnò nella sua stanza.
“ecco Filippo, qui potrai riposare e stare tranquillo con te stesso, immagino ne sentirai il bisogno, deve trattarsi di un bel cambiamento per te”
“si zia, vi ringrazio”
“non mi devi ringraziare, sono felice che tu sia qui, anche per Jacopo, noi lo abbiamo allevato come se fosse nostro figlio, ma mi sono sempre preoccupata che potesse sentirsi… rifiutato. La sua stanza è proprio a fianco della tua, ho creduto che fosse più giusto così”
Filippo non sapendo cosa aggiungere, si limitò ad annuire con il capo, in realtà non si era mai soffermato a lungo su quel fratello così lontano; la zia interpretò il suo silenzio come timidezza “adesso ti lascio riposare, cerca di approfittarne più che puoi, perché non durerà a lungo” disse congedandosi e si chiuse la porta alle spalle, lasciandolo solo con i suoi pensieri.
Filippo cominciò a guardarsi intorno e a tastare le coltri: avvezzo alle abitudini spartane del padre, rimase colpito dalla ricchezza di cuscini e dalla morbidezza del suo letto, che gli ricordava un po’ le tende degli sceicchi di cui gli aveva raccontato Alair.
Il ricordo del cavaliere lo sferzò con violenza, ad esso si sovrapposero quello di Andreolo, del padre e del fratello maggiore, ma non volle farsi sopraffare dalla malinconia e riportò l’attenzione sulla stanza: non era grande, occupata per lo più dal letto, da una cassapanca dove erano stati sistemati i suoi averi e da una scrivania vicino alla finestra, una bifora divisa al centro da una colonnina tortile di legno d’ebano; si avvicinò alla finestra osservando l’esterno: la stretta calle faceva intravvedere alla sua fine il riflesso cangiante dell’acqua, le vie così strette sono simili a quelle di Akko pensava Filippo osservando il movimento nella strada sottostante.
Passavano i giorni e i giorni diventavano mesi. Filippo venne rapidamente instradato nell’azienda di famiglia, ma lo zio non si limitava a fargli fare l’apprendistato e a farlo studiare con un precettore, lo portava con sé ovunque, presentandolo alle persone più in vista della città e a fare conoscenza della città stessa.
“vedi Filippo, da quassù la tua vista spazia su tutta la città e su questo incredibile ambiente che la circonda”: dalla cella campanaria del campanile di San Marco, Filippo osservava la città a tutto tondo, il mare da un lato oltre le bocche di porto e la pianura e le montagne scoscese dalla parte opposta, posava lo sguardo sull’isola Memmia, dove a ridosso del convento, erano le saline che riflettevano il loro biancore accecante alla luce del sole.
Guardava le cupole e i mosaici della basilica illuminati dal sole, la piazza sottostante con le vere da pozzo, le malvasie e le osterie, le botteghe da straziarol all’ombra del campanile, le calli che dalla piazza si diramavano: Frezzeria, Spadaria, la Calle dei Fabbri dove venivano fabbricate le ancore.
Da quella posizione privilegiata poteva osservare i campanili di San Nicolò del Lido, San Francesco della Vigna e San Pietro di Castello che con quello di San Marco fungevano anche da fari per le imbarcazioni e da torri di segnalazione.
Ogni campo a Venezia era raggiungibile solo attraversando strette calli, anche Rialto, animato crocevia di commerci, era circondato da edifici che lasciavano varchi misurati, ricavati nei sotoporteghi.
Con Jacopo si divertiva a scoprire la città, così come per lungo tempo aveva fatto ad Akko con Andreolo: Rialto, con le sue botteghe e i suoi banchi, le osterie, dove solo gli stranieri potevano entrare, spesso si attardava dai luganegheri, aspirando i profumi provenienti dai cibi robusti che questi cucinavano e vendevano, come fegatelli e trippe.
Venezia era una città assai vivace e colorata, piena di foresti, che per alcuni aspetti gli ricordava Akko, non fosse stato che qui era più facile spostarsi per acqua che via terra, la ruga principale non era che un ampio canale su cui si affacciavano alternativamente palazzi illuminati dai riflessi dell’acqua e semplici abitazioni di legno con il tetto di paglia.
I ritmi ancestrali delle maree venivano abilmente sfruttati dai mulini: Filippo ne aveva scoperto uno tra San Provolo e santa Scolastica e spesso vi si attardava ad osservare rapito il movimento delle pale, la velocità che imprimeva loro la forza della marea.
Al sabato poi andava fino in San Pietro di Castello, dove si svolgeva il mercato più antico della città, frequentato soprattutto dalle ciurme dei navigli ancorati a San Nicolò: chiedeva loro soprattutto notizie delle terre d’Outremer, la nostalgia pareva non abbandonarlo, anche se non se ne faceva intendere da nessuno.
Aveva fantasticato di scrivere ad Andreolo, ma alla fine non ne aveva fatto nulla, per timore che qualcuno a Venezia potesse pensare che avesse chissà cosa da spartire con un genovese.
Lo zio lo condusse anche in Arsenale: si trovava sul lembo di terra più vicino al principale sbocco della laguna verso il mare aperto, in posizione appartata e segreta, per chi raggiungeva Venezia via mare non era facile scoprirne la presenza. Cinque canali circoscrivevano il territorio in cui sorgeva, in quel vuoto che separava la sede vescovile di San Pietro, da quella dogale di San Marco.
A Filippo veniva impartita un’istruzione variegata, Marco lo conduceva anche a Palazzo Ducale.
Ristrutturato dal doge Sebastiano Ziani verso la fine del secolo precedente, quando, in luogo dell’edificio fortificato in parte distrutto dalle fiamme, aveva fatto realizzare una costruzione più aperta verso la città, composta da due corpi di fabbrica, uno verso la piazzetta che ospitava le funzioni di giustizia e uno verso il bacino dove venivano svolte le funzioni di governo, strutturalmente del tutto simile a Palazzo Pesaro, con archi a tutto sesto al piano terra e una loggia con archetti minori al piano superiore.
Lo zio che faceva parte del Senato, si faceva un punto d’onore di spiegare a Filippo l’origine e le funzioni delle varie magistrature di cui si componeva il governo della Serenissima e di come avveniva l’elezione del doge: Filippo trovava quest’ultima un affare complicatissimo, ma che Marco assicurava essere l’unico sistema per evitare favoritismi e nepotismi.
Aveva anche appreso l’arte della voga in piedi e spesso in compagnia di Jacopo si avventurava lungo stretti canali, oppure fino alle terre della Laguna Nord, scoprì l’isola Boreana, con le sue case saldate le une alle altre a formare dei veri blocchi a più piani con i tetti spioventi e ricoperti di paglia.
Ascoltava curioso i pescatori dell’isola nel loro dialetto così differente da quello delle altre terre emerse della laguna, con le parole che si trascinavano e le vocali che si allungavano in una cadenza lenta e ritmata, risultato del continuo contatto con la laguna, mai violenta nel suo divenire, ma appena accennato dal lento movimento delle onde che lambivano le barene.
Passavano anche i mesi e i mesi diventavano anni; dopo tre anni di studio e apprendistato, lo zio d’intesa con suo padre, lo aveva fatto imbarcare e poiché era l’unico a comprendere e parlare una lingua che fosse diversa dal latino e dalla lingua franca, iniziò a viaggiare con le mude che andavano verso il nord dell’Europa, venendo così a contatto con nuove realtà, nuovi modi di vivere e gente differente.
Filippo riceveva regolarmente notizie da suo fratello Zuane, Nicolò venne a mancare sul finire del 1250, lasciando l’attività nelle mani del figlio maggiore e di Filippo che da Venezia stipulava accordi e ormai organizzava mude, quella di Siria, del Trafego, di Acque Morte, di Fiandra…
Sembrava essersi ormai integrato nel tessuto cittadino, aveva anche partecipato alla sottoscrizione per la realizzazione del nuovo ponte di legno e levatoio a Rialto, in luogo di quello di barche, detto della Moneta.
Di Andreolo non aveva più saputo nulla, né aveva osato domandarne al fratello, lo stesso valeva per Alair; quando la malinconia lo assaliva metteva mano al mezzo bisante d’oro che Andreolo gli aveva donato alla sua partenza e che portava sempre al collo, oppure alla daga che gli aveva lasciato Alair quando gli aveva comunicato di essere in procinto di abbandonare Akko: gli pareva in quel modo di percepire la loro presenza.
Marco e Chatarina erano preoccupati, Filippo era ormai un uomo adulto, ma a 32 anni non si risolveva ancora a mettere su famiglia; non che gli mancassero le occasioni, ma ripeteva di non aver ancora trovato la donna giusta, quella in grado di tenergli testa.
Erano ormai rassegnati all’idea che questo nipote rimanesse solo, quando, complice l’elezione a doge di Renier Zen, Filippo aveva conosciuto una giovane nobildonna proveniente da Mantova.
L’elezione era stata fastosa, al ritorno del Doge in terra veneziana nel mese di febbraio, dopo l’incoronazione e la promissio ducale, in una piazza San Marco rinnovata e lastricata, si diede vita ad un gran torneo al quale presero parte cavalieri provenienti da ogni dove.
Dalle Procuratie si affacciavano donne e damigelle, le tribune ricoperte di seta erano affollate di invitati provenienti da ogni parte d’Italia e d’Europa, il doge assisteva al torneo dalla loggia della basilica, tra la folla variopinta spiccavano le toghe austere dei membri dei vari consigli e magistrature.
Era stata la giovane Valentina ad attrarre l’attenzione di Filippo in maniera quasi sfacciata, ma aveva funzionato, i due divennero inseparabili e prima che la giovane partisse alla volta di Mantova, Filippo si risolse a chiederla in sposa.
Il matrimonio fu celebrato a Venezia, per volontà degli stessi sposi e fu una cerimonia intima, essendo presenti solo i parenti di Filippo e suo fratello. Chatarina con gioia si assunse l’onere dell’organizzazione, prendendo sotto la propria ala protettiva la giovane mantovana.
Fu comunque una cerimonia toccante, con lo scambio degli anelli e il rinnovo dei voti nella chiesa templare di San Giovanni in Bragora, davanti all’altare dedicato alla presentazione di Maria al Tempio: Valentina indossava un semplice abito blu oltremare, sui capelli sciolti, un corto velo finemente ricamato dove risaltavano piccole perle di vetro che ad ogni movimento del capo, brillavano come gocce di rugiada appena cadute.
Filippo la osservava compiaciuto, ma un velo di malinconia offuscava i suoi occhi, in quel momento sentiva acuirsi la nostalgia dei suoi famigliari, di Andreolo e del cavaliere.
Anche il banchetto, che ebbe luogo nell’austero chiosco riccamente addobbato di ghirlande di fiori e fronde per l’occasione, fu oltremodo sobrio, ancorché ricco: ci furono portate di pernici, quaglie e colombi arrosto, pollo, lepre e cinghiale accompagnati da salse aromatizzate con chiodi di garofano, cannella e noci moscate, brodo di cappone, ostriche, pesci di laguna, insalate di cipolle, scalogni, rape, carote lesse, salicornia e olive, crostate di frutta, creme e vino aromatizzato. Musici e cantori allietavano i commensali.
Tuttavia, nemmeno il matrimonio prima e la nascita di una splendida bimba a cui imposero il nome di sua madre, Angiolina, riuscirono in realtà a placare le sue ansie e ben se ne avvedeva Valentina, che più di una volta ebbe a dirgli che avrebbero dovuto nomarlo Libero e non Filippo, ma era una donna intelligente e non gli metteva lacci e laccioli e forse era anche per quello che Filippo ne era rimasto così colpito.
Erano già alcuni anni che da Akko giungevano notizie allarmanti: nel 1249 Genovesi e Pisani si erano scontrati ferocemente per ventun giorni consecutivi, un anno dopo un genovese era stato assassinato da un veneziano e vi era stata un’incursione dei genovesi nel quartiere: suo fratello lo aveva tranquillizzato, ma non era riuscito a sapere chi fosse il genovese assassinato, temendo per il suo amico.
La situazione era tesa, acuita inoltre dalle pretese genovesi e veneziane sulla chiesa e sul monastero di San Saba che si trovavano su una collina in prossimità del porto e limitrofa sia al quartiere genovese che veneziano: il console genovese Simone Vento aveva esibito al patriarca di Akko una lettera del Priore degli Ospitalieri che riconosceva a Genova la titolarità della chiesa e del monastero, parimenti, il bailo veneziano Marco Giustinian vantava un analogo documento che riportava in calce la firma di papa Alessandro IV.
In città scoppiarono delle risse sanguinose tra le due fazioni, l’arrivo di una nave genovese che i veneziani asserivano essere una nave pirata, infiammò una situazione di per sé già esplosiva.
I genovesi attaccarono proditoriamente le navi veneziane alla fonda nel porto di Akko, poi si rivolsero al quartiere veneto, a cui appiccarono le fiamme.
La notizia giunse rapidamente a Venezia e infiammò gli animi: la riparazione pretesa dalla Serenissima non ebbe mai luogo e il governo decise di stringere un’alleanza con Pisa e Marsiglia, affidando a Lorenzo Tiepolo il comando di una flotta da guerra.
Genova intanto aveva ottenuto l’appoggio di Filippo di Montfort alla sua causa; Montfort era nemico giurato dei Lusignano e di Boemondo di Antiochia che appoggiarono le pretese veneziane. A loro si unirono anche i cavalieri Templari e i Pisani.
I genovesi avevano poi per ritorsione verso il tradimento dei pisani, demolito anche la loro torre, infine si trincerarono nelle loro fortificazioni, in attesa della flotta di appoggio.
Filippo era a conoscenza di quanto accaduto e delle scelte politiche del Maggior Consiglio; era preoccupato per la sorte del fratello, di cui non aveva più notizie e di Andreolo: era dunque accaduto quello che entrambi avevano sempre paventato, ora dovevano schierarsi, l’uno contro l’altro, nemici.
Era la primavera del 1256, il tempo non accennava a mettersi al bello.
Insofferente, nonostante il clima ancora freddo e inclemente, Filippo aveva vogato dal bacino di San Marco sino al porto di Litoris Majorus, qui aveva preso un cavallo e lo aveva spronato lungo i sentieri che delimitavano la laguna fino al mare e giunto alla spiaggia di Equilinum si era fermato.
In piedi sulla sabbia scura, aveva osservato il mare con le sue onde lunghe, il cielo coperto di nubi a tratti con qualche schiarita di un biancore abbacinante e in lontananza la pioggia che stava flagellando Venezia, aveva ascoltato il rumore della risacca e infine aveva preso una decisione.
Era quindi tornato sui suoi passi, a ritroso lungo quella striscia di terra che lambiva la laguna, dove l’azzurro cupo dell’acqua immobile si fondeva con il marrone incerto delle barene e il verde brillante degli argini, sino all’approdo della sua barca, troppo preoccupato e immerso nei propri pensieri, per perdersi con lo sguardo tra le barene e i ghebi.
Furono sufficienti pochi secondi, uno stormo di fenicotteri rosa si stagliò contro le nubi cariche di pioggia proprio sopra il suo capo, come se la mano di un pittore avesse lasciato delle pennellate di colore su un fondo cupo.
Rientrò a palazzo Barbarigo bagnato fradicio, Valentina lo raggiunse all’ingresso, “ho veduto uno stormo di fenicotteri rosa” furono le incoerenti parole di Filippo, ella vide sul suo volto la determinazione e comprese.
4
La flotta veneziana al comando di Lorenzo Tiepolo prese il largo in un caldo mattino d’estate.
Una moltitudine di veneziani affollava la riva del bacino, incitando la flotta alla vittoria.
Filippo, grazie alle sue numerose conoscenze, aveva ottenuto l’imbarco e ora si trovava a bordo della nave ammiraglia, sotto il diretto comando del Tiepolo.
In piedi, sulla prua della veloce galea da guerra, osservava la folla assiepata in piazzetta: questa volta non c’era nessuno a salutarlo, non gli zii, troppo anziani e affranti per la sua decisione, non Jacopo, con il quale aveva avuto un’aspra discussione circa la necessità di tornare nel Levante, per lui Zuane rappresentava la famiglia solo nominalmente, a differenza di Filippo che vi aveva vissuto vicino per quindici anni, viceversa, Filippo era per lui quella famiglia che in passato solo confusamente aveva realizzato di avere e che solo con il suo arrivo a Venezia si era concretizzata e ora temeva di perderla un’altra volta.
Infine, non era venuta nemmeno Valentina, alla quale Filippo non aveva concesso diritto di replica. A nulla erano valse le sue lacrime, il ricordo della paternità se non l’affetto per lei stessa, l’uomo era stato irremovibile.
Filippo aveva bisogno di sapere. Doveva sapere cosa ne fosse stato di suo fratello, di Alair, giacchè sia Templari che Ospitalieri avevano preso posizione e soprattutto doveva sapere di Andreolo: l’idea di combattere contro l’amico di un tempo lo turbava profondamente. Strinse con forza il mezzo bisante d’oro da cui non si separava ormai da più di vent’anni.
La galea si stava lentamente allontanando dal bacino di San Marco, diede un’ultima occhiata al campanile, el paron de casa, come lo chiamavano affettuosamente i veneziani, sotto la cui ombra ci si attardava a bere un goccio di vino.
Era punto di riferimento per i naviganti, l’ultimo saluto di Venezia a chi partiva, chissà se sarebbe stato nuovamente il primo benvenuto, come tanti anni prima.
Intanto, all’ombra delle due colonne, una giovane donna minuta, dai neri capelli ondulati e lineamenti affilati, con una bimba bionda dai grandi occhi scuri di pochi anni tra le braccia, osservava la lunga teoria di navi allontanarsi, il petto rotto dai singhiozzi.
Stringeva la piccola a sé cosi convulsamente, che questa iniziò a dimenarsi ea lagnarsi; si riscosse, le diede un tenero bacio sulla guancia e le accarezzò i capelli, cantandole dolcemente sottovoce una filastrocca per calmarla: la bimba sorrise e Valentina si impose di fare altrettanto.
Quando anche l’ultima galea scomparve alla sua vista, abbandonò la piazza e fece ritorno verso Palazzo Barbarigo, non le restava che attendere e sperare.
Filippo ripercorreva la medesima rotta di vent’anni prima: il vento faceva scivolare velocemente le galee sull’acqua, risparmiando gli uomini al remo.
I suoi giorni trascorrevano pigri, al riparo dal sole dell’estate mediterranea; davanti agli occhi ancora una volta sfilavano le coste dell’Istria, di Dalmazia, vide il profilo dell’Albania e sempre più giù, oltre Corfù e la Morea, la flotta superava Candia per dirigersi verso Akko.
Quante volte aveva fantasticato su quel viaggio, si era immaginato su una nave diversa da quella, superare le catene di difesa del porto, attraccare al molo, superare la dogana e poi, dopo aver riabbracciato il fratello, dirigersi verso il quartiere genovese, apostrofare Andreolo “ehi piccoletto” e insieme andare alla rocca templare ad attendere l’uscita del concroi per vedere Alair.
Ora non sapeva chi o cosa lo aspettava una volta sbarcato.
Alla fine del mese di luglio la flotta veneziana giunse in vista delle coste di Akko, in anticipo rispetto a quella genovese.
Le galee veneziane a voga arrancata piombarono sul porto e ne forzarono le difese: con i loro rostri micidiali spezzarono le catene che ne proteggevano l’accesso e in formazione compatta a mezzo arco, avanzarono verso le navi genovesi alla fonda e prive di protezione.
Balestrieri e arcieri, al riparo dietro le pavesate lanciarono frecce incendiarie sulle navi inermi, che presero fuoco immediatamente.
A terra, un concroi templare con perfetta sincronicità, effettuò una sortita a sorpresa dalla rocca, attaccando alle spalle i genovesi asserragliati nel loro quartiere.
Il porto era ormai conquistato, Filippo scese a terra con i fanti da mar: correva a perdifiato verso il quartiere genovese, giunse in tempo per assistere alla carica dei Templari.
Fu spettacolare e terribile insieme: trenta uomini, tra cavalieri e sergenti seguivano il commendatario e altri dieci cavalieri che con lui cavalcavano in testa al gruppo con il beauceant al vento, le lunghe lance di frassino pronte all’uso; era un menar fendenti, un cozzare di spade e mazze turche.
Intanto, arcieri sia delle forze terrestri che di mare avevano ripreso a lanciare dardi infuocati: le abitazioni si incendiarono rapidamente e il fuoco si propagò lungo la ruga e le strette vie, sospinto dal vento proveniente dal mare.
Il ruggito delle fiamme che stavano incenerendo le navi al porto, faceva eco a quelle che stavano devastando il quartiere.
Anche Filippo era impegnato nella lotta, con la destra impugnava la grossa spada a due fili, mentre nella mano sinistra serrava la daga donatagli da Alair, quasi come se fosse stata un talismano.
Tra il calore delle fiamme e il denso fumo nero che si levava per un terzo della città, si fece strada con i soldati veneziani e gli alleati su per la collina, dove si impossessarono della fortezza di Mongioja.
La battaglia era conclusa, per i genovesi la disfatta era totale, non potevano far altro che chiedere una tregua.
Oltre alla conquista del Mongioja i veneziani avevano arrecato seri danni anche alla chiesa di San Saba, l’oggetto fittizio del contendere tra le due fazioni.
Il quartiere genovese continuava a bruciare, ma i veneziani non vi si addentrarono; anche Filippo prudentemente ne rimase lontano, ripromettendosi di cercare il suo amico nei giorni successivi, ora si imponeva la necessità di andare a controllare cosa rimaneva della sua casa e soprattutto di capire quale fosse la sorte toccata a suo fratello Zuane.
Con passo rapido si mosse verso il suo quartiere: ovunque era devastazione, abitazioni incenerite, pietre annerite dal fumo, fondachi depredati.
Gli abitanti del quartiere si aggiravano tra le macerie, cercando di portare in salvo tutto ciò che ancora fosse utilizzabile, per ricominciare a vivere.
Giunse infine lungo la ruga principale, la sua abitazione si trovava appresso al porto, in posizione strategica per l’attività commerciale, ma facile preda per chi, nemico, l’avesse assalita.
Con poche falcate fu davanti al portone: la massiccia e monumentale entrata nonostante fosse riparata dal sotoportego, era stata colpita con furia cieca e ora era precariamente appoggiata agli stipiti.
Alzò gli occhi, annerita dal fumo, era ancora ben visibile la patera con l’insegna dei Barbarigo che campeggiava sopra l’architrave: uno scudo con banda azzurra in campo d’argento, carica di tre leoncini d’oro nel mezzo di sei barbe nere; molte volte si era chiesto quale fosse il suo significato, ma né Nicolò suo padre, né Zuane suo fratello, erano stati in grado di rispondergli. Era stato suo zio Matteo a raccontargli l’origine della famiglia.
Prestando attenzione scostò il portone e varcò la soglia: all’interno si percepiva ancora odore di bruciato, ma sembrava che qualcuno avesse cercato di mettere un poco di ordine nel caos che regnava ovunque: era possibile vedere ancora qua e là sacchi di cotone squarciati, spezie disseminate sul pavimento di pietra.
Salì al primo piano, le eleganti bifore di facciata che illuminavano il salone di rappresentanza erano prive di vetri: erano stati il loro orgoglio quei vetri di diversi colori, che suo padre aveva fatto giungere espressamente da Venezia, dove la lavorazione del vetro era una delle attività più affermate in città, tanto che il Maggior Consiglio stava valutando l’opportunità di trasferire le numerose fornaci sull’isola di Murano, perché troppo alto era il rischio di incendio.
Vagò per la grande sala tra i resti di mobili vandalizzati ed arazzi squarciati, passò oltre, nelle camere i letti erano stati fatti a pezzi, i materassi sventrati, nello studio del padre i libri mastri giacevano strappati sul pavimento, la scrivania su cui era solito vedere chino Nicolò, spaccata a metà da un colpo d’ascia, la sedia rovesciata a terra, i forzieri erano stati forzati e vuotati, una tenda di tessuto di damasco azzurro pendeva a brandelli da un angolo della finestra: provò un vago senso di desolazione.
Perso in mezzo a tutto quello scempio, non si accorse di non essere più solo “chi siete? Cosa volete?” domandò una voce alle sue spalle che avrebbe voluto essere imperiosa.
Filippo si voltò di scatto, riconoscendo immediatamente l’uomo che lo aveva apostrofato “Domenico, sono io, Filippo, non mi riconosci?”.
L’uomo si fece attento, poi si avvicinò a Filippo e lo scrutò in volto, osservandone i lineamenti tra le righe di fumo impastate di sudore che gli striavano il viso, il suo sguardo si rischiarò “Messer Filippo! Siete davvero voi? Le mie preghiere sono state dunque esaudite” il tono si era fatto querulo.
Filippo lo avvicinò a se: dove era finito l’uomo prestante, robusto che era stato il braccio destro di suo padre, famiglio a capo dei servitori di casa? Gli anni non erano stati clementi e la tragedia che si era abbattuta su tutti loro lo aveva piegato e logorato ulteriormente: di fronte a Filippo c’era un vecchio curvo, dai passi incerti e le mani tremanti; i capelli, che ricordava neri come l’ala di un corvo, incanutiti e radi, lo sguardo acquoso: e pensare quanto timore quegli occhi gli incutevano quando era bambino, due iridi grigie e fredde come l’acciaio, con le pupille nere che sembravano trapassare da parte a parte.
“Domenico, cosa è accaduto? Dov’è mio fratello?”
“Sono piombati qui che sembravano posseduti. I servitori sono fuggiti tutti e siamo rimasti solo io e vostro fratello a fronteggiarli; non erano molti, ma ben armati. Si sono accaniti su di lui, lo hanno afferrato e trascinato giù dalla scala. Ho provato ad impedirlo, ma è bastata una spinta e sono caduto a terra, sbattendo contro uno spigolo” e mostrò a Filippo la tempia destra dove era visibile una brutta cicatrice “e ho perso i sensi” prese fiato, poi riprese il racconto “l’odore del fumo mi ha fatto riprendere, a fatica sono sceso al piano terra, avevano cercato di dar fuoco al fontego, ma dovevano essere stati disturbati, ed erano fuggiti. C’erano pochi focolai e fui capace di spegnerli, poi mi accorsi che nel vano della porta giaceva vostro fratello…. Non ho potuto fare nulla per lui..” il capo chino, le lacrime gli rigavano il volto, la voce tremula “non so come, ma mi ricordai che voi eravate amico di un cavaliere templare, così nel caos che regnava riuscii a far arrivare alla rocca un messaggio per lui. Accorse rapidamente con due suoi confratelli, mi curarono e si occuparono delle spoglie di vostro fratello: lo hanno seppellito a fianco di vostro padre. Quando c’è stata un po’ di tregua, alcuni servitori sono tornati e hanno pulito meglio che potevano” tacque.
Alair dunque era ancora vivo, ma perché non gli aveva scritto di suo fratello?
“il cavaliere voleva farvi recapitare una lettera per informarvi di quanto era accaduto” disse Domenico, come se gli avesse letto nel pensiero “ma non c’erano più navi veneziane che fossero in grado di salpare”
“puoi accompagnarmi alla tomba di mio padre e di mio fratello?”
“certamente messer Filippo, ma non volete prima ripulirvi?”
“più tardi forse”
“ma vostro padre e vostro fratello saranno sempre là” ribatté saggiamente il vecchio Domenico: Filippo doveva avere tempo di far decantare la rabbia per quanto gli aveva raccontato l’uomo, se fosse andato subito l’ ira avrebbe potuto fargli commettere uno sproposito, ben conoscendone il carattere esplosivo.
“d’accordo Domenico, faremo come dici tu, come sempre del resto, in questa casa hai sempre comandato tu” sorrise mestamente Filippo
“venite ora, i servitori hanno sistemato le stanze più piccole, quelle dove nessuno è entrato e anche la cucina non ha subito danni. Vi faccio portare un mastello d’acqua” e date le spalle a Filippo si incamminò verso la scala che portava al piano superiore, dove erano le stanze più piccole, quelle di uso quotidiano, secondo le abitudini veneziane.
Due giovani uomini entrarono nella stanza in cui lo aveva condotto Domenico con una tinozza d’acqua fumante: con del crine Filippo si deterse, levando via fuliggine e sudore; il servitore gli porse un ruvido telo di lino grezzo per asciugarsi “dimmi Domenico, ho visto che i forzieri sono stati aperti, hanno portato via tutto?”
“no signore, vostro fratello teneva poco denaro nei forzieri, le somme più ingenti le aveva nascoste sotto una mattonella proprio in questa stanza, secondo l’uso che gli aveva tramandato vostro padre”
“hai verificato che ci fosse ancora del denaro?”
“si signore, dopo le esequie di vostro fratello feci un rapido inventario dei danni subiti e mi accorsi subito che i genovesi non erano saliti al secondo piano, così venni a controllare, se volete ora potete farlo voi stesso, sono sotto quella mattonella” disse indicando una larga piastra sotto la finestra su cui era abilmente inciso il leone di San Marco.
“non ce n’è bisogno, lo hai già fatto tu, ora andiamo”concluse Filippo.
Le due scarne lapidi erano a ridosso del muro della chiesa templare di Santa Croce, sotto delle fronde rigogliose, su ognuna era inciso il nome e la data della morte.
Riposavano sotto l’ombra pietosa degli alberi, al riparo della canicola che infuocava la pietra, una leggera brezza muoveva le foglie, quasi fosse un leggero salmodiare che accompagnava il loro sonno eterno.
Filippo rimase lì, apparentemente raccolto in preghiera, almeno era quanto credeva Domenico, che attendeva poco più distante.
In realtà Filippo meditava vendetta; era consapevole di non essere un buon cristiano, ma a perdonare e porgere l’altra guancia proprio non riusciva.
Sapeva che sarebbe occorso del tempo, ma alla fine avrebbe trovato i responsabili e questi avrebbero pagato.
Doveva anche trovare Andreolo e Alair, ma per il momento era opportuno tornare a casa: era necessario fare il punto della situazione e scrivere alla sua famiglia a Venezia, non volendo lasciarli nell’incertezza circa la sua sorte.
Così, anche se i commerci per il momento erano ancora difficili risentendo della precaria situazione politica, l’abitazione dei Barbarigo fu ripulita, almeno all’esterno e nel fondaco; il primo piano per il momento venne sgombrato dalle macerie, furono sprangate porte e finestre.
Filippo si organizzò al piano superiore, ove oltre alla sua camera fece allestire una stanza dove pranzare e un piccolo studio in cui portò ciò che restava dei libri mastri dell’azienda.
Seduto alla piccola scrivania che aveva recuperato, scrisse tre lettere: una agli zii, in cui ometteva molti particolari per la loro tranquillità, una a sua moglie Valentina e una a suo fratello Jacopo, sostanzialmente identiche, fatta eccezione per il desiderio di vendetta che aveva esternato solo al fratello minore.
Le tre lettere, sigillate con la ceralacca, presero la via per Venezia sull’ammiraglia di Lorenzo Tiepolo: questi, poiché i genovesi avevano chiesto e ottenuto tre mesi di tregua, si accingeva a rientrare in patria, portando come bottino di guerra due pilastri marmorei sottratti alla chiesa di San Saba.
5
La tregua richiesta dai genovesi in realtà non poteva dirsi tale, la battaglia continuava ad infuriare in città, combattuta strada per strada, casa per casa, nei quartieri confinanti il porto.
Ovunque erano sparse macchine da guerra: trabucchi, petriere, mangani, i veneziani avevano occupato la Torre delle Mosche, su un isolotto ad est dell’ingresso in porto, controllando così tutte le navi in arrivo. In cima alla torre avevano posizionato due piccoli onagri, uno rivolto verso la città, l’altro verso il mare; in particolare da quella rivolta verso terra venivano lanciate grosse pietre sferiche che finivano per abbattersi sul quartiere genovese, portando ulteriore morte e distruzione.
Filippo non aveva alcuna intenzione di partecipare a quella carneficina: file di morti coprivano il terreno poco fuori le mura, sembravano tronchi caduti che riempivano le valli e colline circostanti, come un bosco appena tagliato.
A volte si aggirava tra loro, incurante del rischio di malattie portate dai cadaveri che marcivano al sole, nel timore di trovare il corpo senza vita del suo amico; veneziani e genovesi, acerrimi nemici in vita, si trovavano uniti nella morte.
Infine si risolse ad andare nel quartiere genovese: una mattina di fine estate, sordo alle rimostranze di Domenico, mosse verso quella che sapeva essere la dimora dei Dellepiane.
Era poco dopo l’alba, i raggi del sole iniziavano ad illuminare i tetti e le macerie; le strade ancora vuote, Filippo giunse dinanzi ad un austero palazzotto quadrato, costruito come una fortezza, con l’unica presenza di una serie di arcate aperte al pianterreno, dove erano i magazzini.
Tutto era silenzio, osservò la pesante porta sprangata, come a casa sua, sopra l’architrave era esposta l’insegna dei Dellepiane, uno scudo al leone al naturale, attraversato da una banda d’argento: anche Andreolo come lui non conosceva l’origine dell’insegna, ricordò Filippo.
Con circospezione si avvicinò alla porta, ma era saldamente chiusa, cautamente guardò dentro i locali che si aprivano su profonde arcate, infine si allontanò dai portici, per poter guardare verso il piano superiore, cercando di indovinare se dietro le impannate qualcuno lo stesse osservando.
Ad un tratto la porta si aprì, il cigolio riempì il silenzio di quel primo mattino: una figura minuta comparve dal buio dell’androne “Filippo sei davvero tu?” la voce nota colpì Filippo come un pugno in pieno stomaco, lasciandolo privo di fiato, incapace di replicare.
Dunque quello era Andreolo? Buon Dio, del ragazzo che ricordava era rimasta solamente la voce.
Filippo si avvicinò “Si Andreolo, mi hai riconosciuto subito”
“ho riconosciuto quello sguardo”
“e io la tua voce”
“sei cambiato”
“anche tu”
“no, io sono invecchiato” concluse mestamente Andreolo: in luogo dei capelli scuri, aveva ora una criniera candida, il viso grigio e rugoso, gli occhi che parevano essersi rimpiccioliti, sembrava un uomo che avesse trascorso gli ultimi vent’anni chiuso in una stanza; vicino a Filippo, che conservava i suoi capelli del loro colore castano dorato e la pelle del viso liscia e abbronzata, solcata solo da rughe d’espressione, fattesi forse più marcate negli ultimi tempi per le preoccupazioni e i dolori provati, non pareva che fossero coetanei.
“la tua casa non ha subito danni” non era una domanda, ma una considerazione.
“si, ma è stata la nostra sola fortuna” riconobbe Andreolo
“i tuoi fratelli?”
“sono morti durante l’assalto templare dopo il vostro arrivo”
“anche Zuane è morto”
“si, lo so”
“tu… lo sai? E come fai a saperlo? Eri li?” la voce di Filippo stava pericolosamente salendo di tono
“no Filippo, non è come pensi. Quel giorno uscii per seguire i miei fratelli che con altri genovesi avevano organizzato una spedizione nel tuo quartiere”
“sono stati loro?” lo interruppe Filippo
“no. Io li seguii proprio perché temevo che volessero appiccare il fuoco a casa tua, una rivalsa nei miei confronti che ero tuo amico e che a loro dire aveva nuociuto alla famiglia e agli affari”
“continua”
“nella ressa però li persi di vista, così decisi di andare direttamente al tuo palazzo. Quando vi giunsi vidi tre uomini che si stavano allontanando da casa, lasciando un uomo accasciato sull’uscio. Mi avvicinai e mi resi conto che si trattava di tuo fratello Zuane: respirava a fatica, aveva il volto tumefatto e un grosso squarcio su un fianco. Alzò lo sguardo su di me, sembrò volermi dire qualcosa… ma morì” una breve pausa, poi riprese “non potevo fare più nulla per lui, mi limitai a chiudergli gli occhi. Nel frattempo sentii dei passi provenire da dentro la casa, così mi allontanai, appena in tempo per vedere il vostro famiglio, Domenico, uscire malfermo sulle gambe e con un brutto taglio sulla tempia che sanguinava copiosamente: si chinò su tuo fratello ed iniziò a piangere. Non sapendo che fare e temendo per la mia vita tornai verso casa mia” tacque, lo sguardo fisso sul selciato.
“hai riconosciuto qualcuno di quegli assassini?”
“tutti e tre”
“dove sono ora?”
Scosse la testa Andreolo “ non potrai avere la tua vendetta, sono già morti”
“ne sei certo?”
“dubiti di me? Erano stesi a fianco dei miei fratelli” Filippo non trovò le parole per controbattere “cosa ci è successo Andreolo?”
“nulla di diverso da quello che già sapevamo amico mio, io sono genovese e tu veneziano” rispose Andreolo: ecco, tutta la tragica dolorosa realtà era contenuta in quelle poche scarne parole.
“per anni sono stato tentato di scriverti, ma non mi sono mai risolto a farlo per timore”
“vedi che alla fine lo hai capito anche tu?”
In silenzio i due vecchi amici si guardarono negli occhi, poi di slancio, contemporaneamente mossero l’uno verso l’altro abbracciandosi.
“ora devi andare via di qui” disse Andreolo sciogliendosi per primo dall’abbraccio fraterno
“promettimi che presterai attenzione”
“anche tu Filippo, non combattere una guerra che non ci appartiene”
“tornerò quando tutto sarà finito” e si allontanò rapidamente
“Filippo” lo chiamò Andreolo ancora una volta, Filippo si girò “mi spiace, per tuo fratello, so che mi era affezionato”
“e a me dispiace per te Andreolo, per il tuo lutto” rispose Filippo e aggiunse “e perdonami per aver dubitato di te”.
Andreolo assentì con il capo, lo sguardo sulla schiena dell’amico che ancora una volta se ne andava.
In lontananza il clangore della battaglia che stava nuovamente prendendo campo.
Aver ritrovato Andreolo era stato come tornare di colpo agli anni della sua gioventù, quando Akko era tutto il loro mondo e loro ne erano i padroni.
Il destino era stato beffardo, li aveva uniti anche nel dolore per la perdita dei rispettivi fratelli e per Andreolo era stato maggiormente doloroso, perché erano morti per mano dei Templari, chissà se aveva mai pensato che Alair avrebbe potuto esserne responsabile.
Alair, d’improvviso a Filippo sovvenne il ricordo del cavaliere, certamente era ancora vivo, così si risolse ad andare alla rocca.
La rocca non era cambiata, era sempre quella formidabile costruzione che aveva instillato in lui timore, onore e rispetto: si rivolse al cavaliere di guardia che, non appena lo riconobbe per veneziano e amico di Alair Servant, gli permise immediatamente l’accesso e mandò a chiamare il cavaliere.
Alair giunse rapidamente “Filippo” il veneziano si voltò e si trovò davanti al templare, identico a come lo ricordava: no, ora guardandolo meglio si accorse che i capelli seppur sempre lunghi, si erano fatti più sottili e grigi e anche la corta barba lo era, mentre le rughe attorno agli occhi erano diventate più profonde. In compenso però il fisico era sempre asciutto, l’usbergo che Alair indossava, tratteggiava perfettamente le linee del suo corpo.
“Alair, quanto tempo è trascorso” lo apostrofò Filippo
“vedo che porti ancora la mia daga” replicò il cavaliere ammiccando al fianco sinistro di Filippo
“lo considero un talismano, come il dono che mi fece Andreolo prima della partenza, non me ne sono mai separato da allora”
“Andreolo…ora siamo su fronti opposti, lo sai vero Filippo?”
“l’ho veduto questa mattina” disse ignorando la domanda
“dove?”
“vicino al suo palazzo”
“sei andato nel quartiere genovese? Sei un incosciente, avrebbero potuto ucciderti”
“francamente non ci ho nemmeno pensato”
“è questo il tuo guaio, imparerai mai a pensare prima di agire?”
“Andreolo è un mio amico e io dovevo sapere…”
“è genovese” ribadì Alair, non sembrava più l’antico amico di entrambi.
“voi l’avete veduto cavaliere?”
“io… si, quando venne a reclamare i corpi dei suoi fratelli”
“e vi è parso un uomo pericoloso?”
“no” dovette convenire il templare, andando con la memoria a quel giorno, alla dignità con cui Andreolo era giunto alla rocca, a come in nessun modo si era appellato alla loro antica amicizia.
“quando finirà?” chiese Filippo, cambiando discorso, il tono stanco
“chi può dirlo Filippo? Forse quando uno dei due contendenti non avrà più forze per continuare” il silenzio calò tra i due, Filippo si rese conto che non avevano molto da dirsi, non in quel momento: non era così che aveva immaginato il loro primo incontro dopo vent’anni “sono venuto a ringraziarvi per quanto avete fatto per mio fratello” Alair annuì “và ora, torna a casa, presto i combattimenti riprenderanno vigore”
“io non voglio combattere”
“lo so, nessuno ti obbliga a farlo per ora” fu la risposta di Alair nel congedarlo.
Filippo si trovò nuovamente in strada. Si avviò verso il quartiere veneziano, mentre un drappello templare usciva per andare a combattere la propria guerra privata contro gli Ospitalieri, Alair era a fianco del Commandatario, proprio sotto il beauceant.
In una mattina d’ottobre si sparse la voce che stava giungendo da Cipro e da altre colonie una flottiglia di dieci galee in appoggio ai genovesi.
I veneziani reagirono facendo venire rinforzi da Candia.
Quando si giunse allo scontro i genovesi ebbero la peggio, rimettendoci quattro galee, tra cui l’ammiraglia, mentre la flotta veneziana per ritorsione attaccava i convogli genovesi lungo la rotta per Costantinopoli: le mercanzie a bordo venivano razziate e rivendute dai veneziani; anche Filippo partecipò a questa guerra di corsa, se non in prima persona,investendo il proprio denaro in quote di navi: il ritorno in termini economici era ragguardevole e gli permetteva di combattere contro Genova senza versare sangue, ma colpendola nei suoi traffici.
Aveva ripreso a frequentare la rocca.
Nei momenti in cui i templari non combattevano, si ritrovava nelle grandi sale del castello a ragionare con Alair “ma perché voi combattete contro gli Ospitalieri?”
“perché gli Ospitalieri sono alleati dei genovesi, così come noi lo siamo dei veneziani”
“ma sia voi che gli Ospitalieri avete il compito di proteggere i cristiani dai musulmani, in realtà la vostra è una guerra fratricida”
“esattamente come quella tra genovesi e veneziani Filippo non credi? In verità è solo una questione di supremazia politica ed economica, ma siamo tutti degli stolti e presto ne subiremo le conseguenze”
“cosa volete dire?”
“gli arabi Filippo, loro osservano come ci stiamo scannando tra noi, approfitteranno della nostra debolezza per sopraffarci e cacciarci da questa città come hanno fatto a Gerusalemme, conquisteranno anche l’ultimo avamposto cristiano”
“e secondo voi quando accadrà?”
“non ne ho idea, dipende da quanto questa guerra si protrarrà nel tempo”
“ma una volta che sarà determinata la supremazia veneziana e avremo cacciato i genovesi….”
“vi alleerete con il Sultano? A quel punto sarete soli Filippo: soli a contrastare il sultano, soli a contrastare le forze cristiane se volgerete lo sguardo ad una alleanza con gli arabi. Non vi è via di uscita, il destino di Akko è comunque segnato”
Filippo non accettava la crudele analisi della situazione che esponeva Alair, non poteva credere che tutto il suo mondo potesse sgretolarsi in quel modo.
Stranamente da quando era tornato, Venezia gli pareva sbiadita e lontana, faticava a ricordare la sua vita com’era allora: scriveva a casa, sia a Jacopo, con cui intratteneva rapporti commerciali, sia a Valentina, ma le lettere a quest’ultima erano scarne e superficiali, né accennava al desiderio di tornare in patria.
Il volto della moglie andava lentamente sbiadendo nella sua memoria e non provava alcun rammarico all’idea di non veder crescere sua figlia, pensò che forse quella terra avesse un’influenza maligna su di lui, lo stesse inaridendo, proprio come il deserto vicino.
Il sole era tramontato all’improvviso e all’improvviso le ombre della sera erano calate sulla città: di giorno il sole infuocava ancora la terra, la notte il freddo del deserto sferza implacabile uomini, animali e pietre, le tarantole affliggevano con punture che causavano indicibili dolori.
Non aveva desiderio di tornare a casa, dove non c’era più nulla che lo legasse alla sua gioventù.
Si sentiva come una barca che avesse rotto gli ormeggi e si trovava in balia della tempesta.
Chiese ad Alair di poter essere ospitato per la notte; il cavaliere che ben comprendeva il suo stato d’animo accondiscese.
Dopo la parca cena nel refettorio con gli altri confratelli, lo aveva accompagnato in una piccola cella dove poté stendersi sullo stretto letto che la occupava: non si tolse nemmeno gli abiti e con il mantello si riparò dal rigore notturno.
Non vi era alcuna comodità in quella austera, piccola stanza, ma si addormentò immediatamente e dormì profondamente come non gli accadeva da mesi.
Lo svegliarono le voci concitate dei fratelli: passi frettolosi rimbombavano lungo lo stretto corridoio dov’era la cella in cui Filippo aveva riposato.
Improvvisamente sveglio, uscì di corsa per capire cosa stava accadendo.
Vide Alair nel cortile interno che stava radunando un manipolo di cavalieri “Filippo non uscire dalla rocca, stiamo per fare una sortita nel quartiere genovese dove sono stati individuati degli Ospitalieri. Resta qui sino a quando non sarà tutto finito” e senza attendere conferma gli diede le spalle, urlando ordini ai sergenti vicini.
“Alair” lo chiamò Filippo, quello si girò “Andreolo” disse semplicemente
“farò tutto ciò che posso” fu l’asciutta risposta. Doveva bastargli.
I portoni della rocca si spalancarono e un pugno di diavoli bianchi uscì al galoppo.
Dal quartiere genovese iniziò il lancio di pietre e frecce, ma non servì a rallentare la loro carica, quei formidabili combattenti si abbatterono con violenza bel punto in cui gli Ospitalieri erano asserragliati.
Il rumore del combattimento lacerava il silenzio che precede l’alba; quando il sole sorse era ormai tutto finito, un silenzio innaturale calò tra le mura del quartiere genovese dove i cavalieri del Tempio avevano aperto una breccia: le pietre erano rosse di sangue, non ci furono prigionieri.
Quando i cavalieri fecero ritorno, Filippo era ad attenderli nel vasto cortile interno: Alair entrò per primo, impugnando l’asta con il loro vessillo che sventolava nella brezza del primo mattino.
Filippo cercò lo sguardo del cavaliere, una muta domanda era nei suoi occhi e questi rispose con un cenno, tranquillizzandolo.
Filippo allora uscì rapidamente dalla rocca. Incurante ancora una volta del rischio che correva, si avviò di corsa verso il palazzetto dei Dellepiane: il portone era aperto, senza riflettere entrò e chiamò a gran voce l’amico. Non ricevendo risposta superò il cortile interno e salì al primo piano facendo i gradini a due per volta; aprì tutte le porte fino a quando, disperando di trovare Andreolo, spalancando la porta dell’ultima stanza del piano, lo vide seduto vicino ad una finestra con una candela accesa nonostante la luce del mattino, intento a scrivere.
“Andreolo…”
“Filippo cosa fai qui?”
“Tu cosa fai qui da solo”
“se ne sono andati tutti, sono quasi rovinato, mi restano solo i miei libri, la mia raccolta di antichità e questo….” Disse mostrando le pergamene.
“di cosa si tratta?”
“è la cronaca di quello che sta accadendo qui, giorno per giorno”
“non puoi restare qui”
“cosa vuoi che mi succeda”
“qualunque cosa, ormai non sono più solo genovesi e veneziani che combattono, sono stati assoldati anche dei mercenari. Questa pazzia si sta espandendo a macchia d’olio. Verrai via con me”
“non posso lasciare le mie cose e per andare dove poi?”
“a casa mia. Sprangheremo il tuo palazzo e nessuno porterà via nulla”
“tu sei pazzo. Non posso venire a casa tua”
“si che puoi, non lo saprà nessuno. Ora muoviti, metti il mantello e andiamo”
“la mia cronaca…”
“portala con te, la continuerai a casa mia”
Usciti dal palazzo si guardarono intorno con circospezione, poi fu Andreolo a guidarlo lungo stretti vicoli non più larghi di quattro spanne, bui e maleodoranti, di cui Filippo non aveva mai sospettato l’esistenza.
Rasentarono il quartiere pisano ed infine entrarono nel quartiere veneziano, quasi a ridosso della dimora dei Barbarigo.
“non ricordavo esistessero quei vicoli”
“la città è cresciuta in venti anni” fu la laconica risposta di Andreolo.
Filippo realizzò che non conosceva Akko più di quanto la potesse conoscere un pellegrino che giungeva da quelle parti per andare in Terrasanta.
Erano comunque arrivati a casa sua, quindi ora sapeva come muoversi: entrò in un piccolo fondaco a lato del portone principale, da qui, attraverso una stretta porta mimetizzata da sacchi di cotone, salì per una scala secondaria al secondo piano.
Trovò Domenico nel suo studio, affacciato alla finestra. Entrando nella stanza questi si girò, il volto tradiva la notte insonne, era fuori di sé dalla preoccupazione “signore! Dove siete stato? È da ieri che mancate da casa, ho temuto il peggio” nella voce una nota di sollievo.
Filippo si vergognò di se stesso, si era completamente dimenticato del vecchio “perdonami amico mio, ma sono rimasto bloccato alla rocca e non c’era modo di avvisarti”, l’uomo non ribatté, spostò lo sguardo sulla figura accanto a Filippo e sgranò gli occhi
“signore…”
“vedo che ti ricordi di Andreolo”
“ma non può restare qui!”
“perché?”
“è genovese!”
“è mio amico. Trovagli una stanza che sia occultata ai più luminosa, con una bella finestra”
“ci farà uccidere tutti, penseranno che siete un traditore”
“no se nessuno parlerà. Gli uomini di casa sono fidati?”
“si signore, almeno credo”
“raddoppia loro la paga e dì loro perché, hanno la consegna del silenzio, se sgarrano dovranno vedersela con me. Ora fai portare qualcosa da mangiare e che preparino per tre”
“per tre signore? E chi è l’altro ospite?”
“tu” e lasciando il vecchio senza parole, accompagnò Andreolo nella sua stanza affinchè riposasse un po’, in attesa che ne approntassero una per lui.
I giorni si susseguivano lenti, sempre uguali, all’autunno sopraggiunse l’inverno e con esso un po’ di tregua e questa volta non furono i genovesi a chiederla, ma semplicemente perché nell’ordine delle cose naturali, per il succedersi delle stagioni.
Per quanto il clima in Outremer fosse più mite che in Europa, le temperature calarono e sopraggiunse anche la pioggia, i commerci diminuirono e anche le continue battaglie lungo le vie cittadine andarono via via scemando.
Filippo trascorreva lunghe ore nel piccolo studio che aveva fatto predisporre per Andreolo, quest’ultimo ogni giorno redigeva la sua cronaca: ascoltava le notizie che il suo amico gli riportava quando rientrava dai sopralluoghi in città e oltre le mura, nei possedimenti di campagna dei veneziani.
Il genovese pareva sempre avido di notizie e quando non vi era nulla di interessante, dissertava con Filippo sulla situazione creatasi ad Akko. Più volte avevano analizzato il pensiero di Alair, dopo queste discussioni Andreolo immancabilmente riprendeva a redigere la sua cronaca: pareva quasi una necessità, l’urgenza di vedere le parole scritte, di catturare i concetti.
Andreolo gli domandava anche di Venezia e qui Filippo prendeva a raccontare con il tono di chi sta narrando una fiaba ad un bimbo, con l’animo meravigliato di chi ha dinanzi agli occhi uno spettacolo unico e irreale.
Gli raccontava di epoche lontane, di quando dai profughi fuggiti alle orde barbariche fosse iniziata la ricerca del luogo migliore dove insediare una nuova comunità.
Disegnava nella sua mente la laguna, disseminata di isole grandi e piccole, di un ambiente che viveva in equilibrio tra terre emerse e acqua, acqua dolce e salsa, di velme, ghebi e barene che a primavera erano un’esplosione di colori.
Gli spiegava il movimento della marea, che si invertiva ogni sei ore, servente, quando entrava in laguna, dozana quando ne usciva.
Gli raccontava di quando, in autunno avanzato, spirava forte il vento di scirocco, che spingeva il mare verso l’apertura dei porti, di come l’acqua invadesse le terre emerse, non risparmiando case, fonteghi e chiese.
Gli parlava con la sua lenta cadenza musicale, di come la nebbia durante l’inverno avvolgesse ogni cosa e di come i suoni risultassero lontani e ovattati.
Lo faceva sognare descrivendogli la basilica di San Marco, dei suoi mosaici scintillanti di vetro e oro, opera dei migliori fiolari e cristalleri della città, di come i palazzi riverberavano sull’acqua nella luce accecante dell’estate mediterranea, di come il biancore delle saline rendesse la luce ancora più intensa, di come nelle notti, anche le più buie senza luna, la laguna sembrasse un ambiente magico, slegato dal tempo e dalle ere, quando lungo i canali si udiva solo lo sciabordio di un’imbarcazione che scivolava sopra la massa liquida, incidendola con il remo…
“ti invidio Filippo” diceva malinconico Andreolo “io non ho assolutamente idea di come sia fatta Genova, so solo che è una città stretta tra monti e mare, irta di torri e che troppo spesso vi regna la discordia”
“allora potresti venire con me a Venezia, dopotutto tu a Genova non hai più nessuno, nulla ti lega a quella città”
“no, non posso rinnegare le mie origini”
“ma tu stesso hai detto di non averla mai veduta, di non sapere come sia e come ci si viva…” Filippo non riusciva proprio a comprendere.
“non capisci? È l’idea di ciò che rappresenta” cercava di spiegargli il genovese.
“tu stesso da giovane dicevi che non aveva importanza la madrepatria, giacchè ovunque un genovese vada, un’altra Genova crea”
“si, lo so, ma le cose con il tempo cambiano”
“si, hai ragione, le cose cambiano”, conveniva mestamente Filippo.
Filippo andava spesso alla rocca e se Andreolo ebbe mai il desiderio di accompagnarlo, non ne fece parola.
Dal canto suo Filippo omise di dire ad Alair che il genovese era ospite a casa sua, era certo che non li avrebbe mai traditi, ma preferiva non metterlo alla prova.
A volte si sedeva anche lui allo scrittoio del suo studio e scriveva a Valentina: le raccontava le sue giornate, le parlava di Andreolo, esponeva le sue riflessioni.ma le lettere non potevano partire, giacchè in inverno nessun armatore si arrischiava ad andare per mare, così le chiudeva in un cassetto, ripromettendosi di farle partire con la prima galea che avesse preso il largo, assieme a qualche pezza di stoffa e magari a qualche gioiello esotico, per tacitare la sua cattiva coscienza.
Con l’arrivo della primavera la lotta rinfocolò: iniziarono nuovamente le sortite dei templari e le micidiali macchine da guerra tornarono a colpire a più riprese i punti nevralgici della città.
Le navi ripresero il mare e Filippo spedì tutte le sue lettere e altre ancora, indirizzate al fratello.
Da Genova giungevano notizie allarmanti: lotte interne avevano portato al potere Guglielmo Boccanegra il quale, come Capitano del Popolo, armò una nuova flotta per l’Oriente al comando di Rosso dalla Turca; era una flotta imponente di cinquanta galee e quattro navi tonde e ogni nave era allestita con una macchina da guerra.
Lorenzo Tiepolo fu immediatamente richiamato ad Akko, a lui si unirono Paolo Falier con venti galee e Andrea Zen con dieci.
La flotta veneziana giunse per prima ad Akko e mise le navi alla fonda in porto, ma la guerra continuava ad infiammare la terraferma, la popolazione riprese a morire.
I Templari forti della presenza della flotta veneziana in porto, decisero di portare la battaglia sotto le mura del castello degli Ospitalieri.
Filippo aveva un triste presentimento e ne parlò con Andreolo, fu questi a convincerlo a non andare alla rocca, questo sarebbe stato lo scontro finale tra i due ordini cavallereschi e il vincitore non avrebbe usato clemenza.
Il buio stava calando rapidamente, nella rocca trecento cavalieri templari si stavano preparando per l’imminente battaglia.
Alair, con l’ausilio di un servitore, stava procedendo alla vestizione.
Era un rito che prima di ogni battaglia importante, contribuiva ad infondergli la calma necessaria a guadagnarsi la ricompensa di Dio, come ricordava la Regola: in piedi, abbigliato del solo aketon, indossò l’usbergo di maglia di ferro e i gambali, sopra fece scivolare la cotta d’arme di colore bianco, armata con la croce rossa del Tempio all’altezza del petto, vicino al cuore; cinse la vita con la sua cintura e indossò il budriere, la cinta di cuoio posta a tracolla per la spada. Fu poi la volta del cappuccio da guerra, una protezione fatta di maglia di ferro fissata da allacciature che ricadeva sulle spalle. Il servente gli appoggiò sulle spalle un mantello bianco munito di spalliere, infine gli porse spada, elmo e scudo.
Era mezzanotte, Alair si diresse verso la cappella per recitare il mattutino; giunse tra i primi, si avvicinò alla statua della Vergine Maria e si inginocchiò per recitare le sue preghiere in silenzio: il capo chino, appoggiato all’elsa della spada, i lunghi capelli raccolti sotto il cappuccio, gli occhi socchiusi; nella penombra del luogo sacro, rischiarato dalla luce fioca delle candele, si distingueva solo il profilo, con un naso importante con una leggera deformità e la corta barba bianca.
Al termine della preghiera si alzò e si unì ai suoi fratelli per cantare il Gloria Patri… le belle voci tenorili si levavano senza incertezze verso l’Onnipotente.
Uscirono nel cortile, la luna piena illuminava la notte. I cavalieri vicini alle loro cavalcature attendevano che il maresciallo impartisse l’ordine di sellare e montare.
Quando Renaud de Vichiers diede l’ordine, come un sol uomo i cavalieri furono pronti, si disposero in colonna seguiti dai loro sergenti e uscirono dalla rocca e dalla città per dirigersi verso l’ingresso alle mura settentrionali, dove era ubicata la fortezza degli Ospitalieri.
Giunti che furono alle porte settentrionali, il maresciallo prese in consegna il beauceant e ordinò a dieci cavalieri di disporsi intorno a lui con il compito di abbattere gli avversari che si avvicinavano al vessillo, Alair era uno di questi.
Di fronte alla porta settentrionale, gli Ospitalieri in formazione attendevano.
I due schieramenti avversari erano uno di fronte all’altro, il silenzio notturno rotto solo da qualche nitrito nervoso, poi, Templari e Ospitalieri caricarono.
Fu uno spettacolo terrificante, la terra rimbombava al rumore degli zoccoli, l’aria era piena del cozzare di scudi, mentre le centinaia di spade sguainate luccicavano sotto il freddo bagliore lunare simili a stelle brillanti nelle notti d’estate.
Nel tumulto della battaglia il beauceant restava il punto di riferimento, dove avanzava lo stendardo, così premevano i cavalieri.
La lotta fu aspra, dagli spalti della fortezza degli Ospitalieri, macchine da guerra lanciavano pietre, schiacciando senza pietà e senza distinzione chiunque fosse sulla traiettoria. Nugoli di frecce si abbattevano sulle retrovie templari: gli uomini del Tempio non potevano arretrare e non riuscivano a sfondare le linee avversarie che compatte resistevano all’onda d’urto, forti anche della copertura dagli spalti.
Guillaume de Chateauneuf, Gran Maestro degli Ospitalieri seguiva le fasi della battaglia dalla torre più alta della fortezza.
Filippo e Andreolo, svegliatisi ai primi clamori, erano corsi sul campanile della chiesa di San Lorenzo per seguire gli eventi: dall’alto le due fazioni erano solo delle forme bianche e nere che si spostavano, oscillando avanti e indietro.
La battaglia continuava senza sosta, il terreno era disseminato di morti e feriti.
Nonostante il loro valore i Templari non riuscivano a far arretrare gli avversari oltre le porte cittadine, a man mano che trascorreva il tempo, le possibilità di occupare la fortezza si facevano sempre più flebili.
Il maresciallo cadde colpito da una lancia, il Commandatario giaceva ferito a terra, fu Alair a sollevare il vessillo bianco e nero e ad incitare i suoi fratelli.
Era ormai giorno pieno, la battaglia infuriava da ore, i Templari, ridotti ad un esiguo numero, resistevano stoicamente, provando e riprovando ad andare all’attacco, ma ormai appiedati, venivano calpestati dagli zoccoli dei cavalli lanciati dalle forze fresche che uscivano dalla fortezza.
Poi, fu il silenzio, nella piana disseminata di cadaveri e feriti, un uomo in piedi sosteneva l’asta con il beauceant, intorno a lui un manipolo di Templari in ginocchio pronti all’estrema difesa.
Gli Ospitalieri si ritirarono facendo ala al loro Gran Maestro che a cavallo stava avanzando sul campo. Fermo, dall’alto del cavallo, fece un cenno con il braccio, alcuni cavalieri a piedi si avvicinarono e presero in consegna i Templari superstiti. Prima di allontanarsi fissò intensamente Alair che sostenne il suo sguardo, mantenendo ferma la presa sul beauceant poi, il Gran Maestro voltò il cavallo e anche Alair fu strattonato via.
Contemporaneamente un violento temporale si abbattè con forza sulla città e tutto intorno, lavando via il sangue versato.
Filippo e Andreolo in silenzio guadagnarono nuovamente la strada di casa: le lacrime bagnavano le guance di Filippo, mischiandosi alla pioggia scrosciante, Andreolo, turbato teneva il capo chino, avvolto dal cappuccio del suo mantello.
A palazzo Barbarigo li attendeva Domenico, già a conoscenza della disfatta dei Templari; senza profferire parola li aiutò a liberarsi delle vesti fradice di pioggia e li fece accomodare vicino ad un grande braciere, mentre una giovane serva portava loro due coppe di vino caldo e speziato.
“cosa gli faranno?” domandò Filippo
“non credo che useranno clemenza” rispose Andreolo
“ma è un cristiano”
“che ha sollevato le armi contro altri cristiani”
“ha obbedito ad un ordine” Andreolo non seppe che altro ribattere all’ingenua logica del suo amico.
“pensi che ci permetteranno di vederlo?”
“non a te”
“perché?”
“perché sei veneziano” Filippo chinò il capo costernato “un modo c’è però” disse Andreolo
“quale?”
“potrei andare io in qualità di genovese, tu potrai essere la mia guardia del corpo, così non dovrai parlare e nessuno ti riconoscerà per…quello che sei”
“e per quale motivo a te dovrebbero permetterti di incontrarlo?”
“perché voglio portare un po’ di consolazione all’uomo che per carità cristiana mi ha permesso di riavere i corpi dei miei fratelli per poter dare loro una degna sepoltura”
“e pensi che ti crederanno?”
“perché non dovrebbero? Chiunque è a conoscenza dei miei buoni rapporti con lui”
Filippo non replicò, ancora una volta Andreolo aveva dimostrato una lucidità di ragionamento fuori dal comune.
Andreolo la mattina successiva si recò solo dai consoli genovesi; non fu facile, perché lui era sempre stato trattato con sospetto per via della sua amicizia di gioventù con Filippo, ma alla fine le sue argomentazioni ebbero la meglio sui sospetti, gli fu detto di tornare la mattina successiva per ritirare il lasciapassare per entrare nella fortezza degli Ospitalieri.
Nel frattempo Filippo era andato dal patriarca, da cui sperava di ottenere l’aiuto necessario per perorare la causa di Alair.
“mi spiace figliolo, ho già tentato di far ragionare il Gran Maestro, ma è stato irremovibile, i Templari sopravvissuti saranno giustiziati domani” rispose Nicolas de Hannapes, tradendo tutta la sua frustrazione , Filippo non sapeva che altro aggiungere “e la colpa è vostra uomini di Akko, ciechi e sordi, preoccupati solo dei vostri interessi, i personalismi hanno avuto la meglio su una visione superiore e uomini valorosi hanno perso la vita e altri la perderanno domani” concluse stancamente il patriarca, a Filippo parve di sentire parole già dette.
Deluso uscì dal patriarcato e si incamminò verso la rocca dei Templari: rimase fermo davanti al donjon, immaginando di veder spalancare il portone e uscire un concroi con in testa Alair, poi la pioggia battente lo convinse a tornare a Palazzo Barbarigo.
Andreolo era già rientrato e gli comunicò di aver ottenuto il lasciapassare “domani andremo al palazzo del Comune dove i consoli me lo consegneranno. Tu dovrai fingere di essere la mia guardia del corpo, quindi dovrai uscire armato di spada e soprattutto non parlare mai” per una volta Filippo non ebbe nulla da controbattere.
Quella notte Filippo non riusciva a prendere sonno per l’imminenza dell’incontro e della tragedia che si sarebbe consumata di lì a poche ore.
Si alzò, prese una candela e andò verso il suo studio: seduto vicino alla finestra stava Andreolo.
“cosa fai qui?”
“sapevo che non avresti preso il sonno e che saresti venuto qui” disse semplicemente Andreolo, Filippo scosse il capo con un mesto sorriso, dopo tanti anni la sua capacità di leggergli dentro lo sbalordiva ancora.
Rimasero seduti uno di fronte all’altro, guardando il cielo plumbeo e nel silenzio risuonarono fiumi di parole non dette, ma custodite gelosamente in fondo al cuore.
La luce del giorno li colse all’improvviso “è ora di andare” disse Andreolo, Filippo si diresse nella sua stanza, prese la pesante spada e la mise a tracolla, poi cinse il fianco sinistro con l’elegante daga che Alair gli aveva donato un tempo ormai lontano e si avviarono.
La fortezza degli Ospitalieri era imponente; superato l’ingresso si trovarono in un vasto cortile di oltre mille metri quadri, circondato da una serie di archi che sostenevano un sistema di scale e corridoi che portavano ai piani superiori.
Salirono al primo piano e dall’alto Filippo notò che sul lato nord, vicino ad un pozzo era stato allestito uno spiazzo con una serie di ceppi: volse lo sguardo altrove per non indugiare oltre su quella macabra messa in scena.
Attraversarono la sala settentrionale, anche questa di imponenti dimensioni, con soffitti di dieci metri e volte a botte, i muri esterni spessi più di tre metri, poi attraversarono un lungo corridoio e infine entrarono nella sala dei pilastri.
Qui in piedi li attendeva il maresciallo Guillaume de Clermont “eccovi messer Dellepiane, vedo che non siete solo”, lo salutò il maresciallo ammiccando verso Filippo.
“è la mia guardia del corpo”
“si credo vi sia necessaria” disse l’Ospitaliere squadrandoli entrambi “venite vi conduco da fratello Servant” e fece loro strada verso un altro corridoio, più stretto del primo, dove in fondo si apriva una piccola ma massiccia porta su un’altrettanto piccolo vano d’angolo; non vi erano finestre, ma solo due feritoie, era buio e il maresciallo fece accendere una torcia per rischiarare l’ambiente. Nella luce incerta della torcia, Andreolo e Filippo videro Alair inginocchiato in preghiera con il viso rivolto verso il muro. De Clermont li lasciò soli.
“Alair” lo apostrofò Filippo, il cavaliere alzò il capo e si voltò, mostrando un viso stanco ma sereno “Filippo, Andreolo, come avete fatto a venire qui?” si era alzato in piedi e in quella piccola stanza la sua figura pareva ancora più imponente.
“è stato grazie ai miei buoni uffici” rispose Andreolo.
I tre si sedettero sul pagliericcio che fungeva da letto “dunque vi giustizieranno” era una constatazione
“è così Filippo, i miei giorni sono giunti al termine, ma non siate tristi, ho vissuto la vita che mi sono scelto e l’ho fatto in piena consapevolezza di ciò che sarebbe potuto accadere. Ci sono stati momenti amari e momenti dolci, non rimpiango nulla: voi due appartenete ai miei momenti buoni” disse sorridendo Alair.
Filippo aveva gli occhi colmi di lacrime, Andreolo, di natura più riservata, mostrava un profondo turbamento, il volto chino, non riusciva a guardare il cavaliere in viso.
“ascoltate ciò che vi dico, questa non è la fine, il silenzio mi avvolgerà ma io ritornerò, sarà solo un breve riposo nel vento e poi un’altra donna mi porterà in grembo. Vale per ognuno di noi, non dimenticatelo e ora andate”.
Si alzò nuovamente, seguito dai due amici, d’impulso si abbracciarono, poi Alair si scostò da loro e si volse nuovamente verso il muro, nuovamente in ginocchio riprese a pregare, dimentico della presenza dei due uomini; allora Filippo fece un gesto che non compiva da oltre vent’anni: si slacciò la sottile corda di canapa che portava al collo, a cui era appeso il mezzo bisante e ne cinse il collo di Alair, Andreolo lo imitò, il cavaliere non si mosse.
Andreolo si riscosse per primo, aprì la porta e uscì, Filippo gli fu dietro, nessuno dei due ebbe modo di vedere le lacrime di Alair che, dignitose gli rigavano il volto.
Scesero in cortile, dove furono nuovamente al cospetto di Guillaume de Clermont “venite messer Dellepiane, i fratelli Templari stanno per ricevere il loro castigo”.
In piedi, ognuno a fianco di un ceppo stavano sette cavalieri: furono fatti inginocchiare, alle loro spalle altrettanti Ospitalieri alzarono sopra i loro capi lunghe spade affilate, abbassandole con veemenza una dopo l’altra, in rapida successione.
Da una rampa di scale, scortato da due cavalieri, scendeva Alair: era stato ripulito e indossava il suo mantello candido sopra la cotta d’arme. Si fermò al centro dello spiazzo, di fronte al Gran Maestro Guillaume de Chateauneuf, intorno a lui una schiera di Ospitalieri, con i loro mantelli neri: a Filippo sembravano tanti corvi che attendono la loro vittima per banchettare.
Alair guardava fisso negli occhi il Gran Maestro, il volto privo di qualsiasi emozione; de Chateauneuf fece un lieve cenno con il capo, i due Ospitalieri fecero inginocchiare Alair, mentre alle sue spalle dal buio delle arcate emergeva una figura, Filippo sussultò: era Hasan, avrebbe riconosciuto ovunque il vecchio compagno di giochi.
L’arabo bruscamente tirò indietro il capo di Alair, scoprendone il collo da cui pendevano i due mezzi bisanti infine riuniti e con il suo coltello ricurvo in un solo gesto recise la gola del cavaliere: il sangue sgorgava a fiotti sulla bianca cotta d’arme, mentre gli occhi di Alair si facevano vitrei, poi quello che era stato un formidabile guerriero, non fu altro che un corpo inerte, Hasan lo lasciò cadere a terra ripulì il suo coltello e se ne andò.
Andreolo e Filippo si allontanarono, gli occhi colmi d’orrore, nella mente riecheggiavano le ultime parole di Alair.
Attesero alcuni giorni, poi, insieme come in passato, si diressero alla rocca: grazie a Filippo fu permesso ad entrambi di entrare e vennero ricevuti dal Gran Maestro.
“messer Barbarigo, in cosa posso esservi utile?” disse, ignorando volutamente la presenza di Andreolo.
“siamo qui per onorare la memoria del cavaliere Servant, vorremmo poter pregare sulla sua tomba”
“entrambi?”
“Alair era amico di entrambi” intervenne Andreolo, con un tono tagliente, stanco di questo continuo voler sottolineare le differenze tra lui e Filippo “da quando eravamo ragazzi e io non ho dimenticato né l’amicizia che ci legava allora né la bontà d’animo del cavaliere che mi restituì i corpi dei miei fratelli” concluse infine; per una volta il Gran Maestro dovette chinare il capo, vergognandosi in cuor suo delle sue parole e del suo atteggiamento “vi devo delle scuse messer Dellepiane, l’amarezza per quanto accaduto cova ancora nel mio cuore, tuttavia non dovrebbe avvelenare il mio animo nei vostri confronti, qui tutti conoscono la strana amicizia che legava voi tre”
“strana? Cosa ci sarebbe di strano nell’amicizia tra tre uomini cristiani? Pensateci, avevamo più in comune noi, che ci combattiamo a vicenda, di quanto si abbia in comune con gli arabi, che stanno a guardare il nostro massacro, pronti ad intervenire” fu la sferzante risposta di Filippo.
Il Gran Maestro si irrigidì, ma preferì non esprimersi ulteriormente “venite, vi accompagno alla sua sepoltura” e fece loro strada, conducendoli a fianco dell’edificio che ospitava la cappella: lì, sotto le fronde di un ulivo secolare, era una tomba, contraddistinta da una semplice pietra rettangolare, priva di qualsiasi iscrizione, su cui era incisa la sola sagoma dell’arma dell’Ordine.
“è questa” disse il Gran Maestro e poiché non recava nemmeno il nome, dovettero credergli.
Rimasero lì a lungo, tra le fronde dell’albero mosse dal vento caldo, pareva loro riecheggiassero parole lontane: ad un templare non è concesso chiedere pietà... il blocco nero del Beauceant simboleggia il mondo peccaminoso che un cavaliere si lascia alle spalle affiliandosi all’Ordine, quello bianco rispecchia il moto dalla tenebra alla luce… per noi Templari la croce è l’emblema del martirio di Nostro Signore…
Sembrò loro infine giungere un ultimo pensiero, ricordate che nulla ha un fine, sono solo momenti di passaggio, poi tutto ricomincia... Forse fu solo suggestione, o semplicemente era ciò che entrambi volevano sentire, per placare il dolore, che non era provocato solo dalla scomparsa di Alair.
La battaglia fratricida fra Templari e Ospitalieri non parve sortire effetto su genovesi e veneziani, che ben presto ripresero la loro lotta senza quartiere.
La flotta al comando di Rosso dalla Turca, inviata da Guglielmo Boccanegra era infine arrivata in vista di Akko, mentre le navi veneziane alla fonda erano impreparate al combattimento: se il comandante genovese non avesse indugiato, i veneziani sarebbero stati annientati.
Il bailo veneziano chiese a Filippo di andare a parlare con il Gran Maestro dei Templari Tommaso Berard perché si preoccupasse della sicurezza del quartiere veneziano, nel caso in cui le truppe di Filippo di Montfort fossero giunte ad Akko e si fossero unite agli Ospitalieri.
Avuta la certezza dell’appoggio templare, i veneziani iniziarono ad armare le loro galee.
All’alba del 24 giugno 1258 le galee veneziane abbandonarono il porto di Akko per dare battaglia: i genovesi rimasero sulla difensiva, consentendo alla flotta veneziana di posizionarsi sopravvento e formare la linea di battaglia.
Dall’alto delle torri cittadine gli abitanti di Akko seguivano le sorti della battaglia, Andreolo e Filippo erano nuovamente appostati sull’alto campanile fortificato della chiesa di San Lorenzo: la flotta veneziana a voga arrancata avanzò in formazione serrata sulle galee genovesi rompendone i ranghi e nel tentativo di speronarle, mentre da bordo venivano lanciate palle di pietra, pece, fuoco greco.
Fu il caos, le fiamme divamparono alte, un denso fumo nero impediva ai balestrieri genovesi di avere la meglio sul nemico con le loro letali armi.
I micidiali rostri sventrarono le navi, lo stridere del fasciame che veniva fatto a pezzi, rimbombava fino nei punti più remoti della città.
A bordo delle galee veneziane un gran numero di mercenari, attratti dalla buona paga e aizzati dall’odio verso i genovesi, fecero la differenza nell’abbordaggio: fu una carneficina, il mare intorno alle galee si tinse di rosso, chi non era falcidiato dalle lame, si lanciava in acqua avvolto dalle fiamme, l’odore di carne bruciata, unito a quello dolciastro che colorava le acque antistanti ad Akko, permeava l’aria; la vittoria fu schiacciante, la metà delle galee genovesi cadde in mano ai veneziani e mille e settecento uomini furono le perdite, tra morti e prigionieri.
I superstiti fuggirono a Tiro, in città intanto si finiva di consumare la tragedia: il quartiere genovese fu completamente devastato e dato alle fiamme, i genovesi asserragliati nella loro torre fortificata, dovettero arrendersi. Era finita.
Andreolo impassibile assisteva alla disfatta politica ed economica della sua gente. Rivolse lo sguardo verso Filippo “devo andare”
“dove? Dove vuoi andare?”
“raggiungo i miei concittadini” Filippo non replicò, era giusto così ma non poteva fare a meno di avere il cuore gonfio di amarezza.
Pochi giorni dopo, il tre luglio i contendenti accettarono l’arbitrato del pontefice.
I patti che i genovesi furono costretti ad accettare erano duri ed umilianti, il quartiere genovese fu diviso tra tutte le fazioni che componevano la compagine vittoriosa, Venezia in testa, i genovesi furono espulsi da Akko con il divieto di tornarvi per i tre anni successivi e alle loro navi fu vietato di entrare in porto a bandiere spiegate.
Le fortificazioni del quartiere furono demolite e la torre maggiore fu rasa al suolo e le fondamenta scavate fino a che non vi irruppe l’acqua del mare.
Per giorni una lunga teoria di uomini, donne, bambini si era avvicendata lungo la ruga che conduceva al porto per imbarcarsi alla volta di Tiro: erano profughi, abbandonavano un porto sicuro che per loro era casa, dovevano ricominciare da capo.
Erano lì, su quella spiaggia dove tutto era cominciato oltre vent’anni prima.
Il vento caldo sollevava mulinelli di sabbia, il sole implacabile bruciava la pelle, ma loro parevano non accorgersene.
“allora hai proprio deciso” Filippo aveva sempre l’abitudine di sottolineare l’ovvietà dei fatti.
“non posso fare diversamente, lo sai”
“si, lo so” sospirò Filippo “finirà mai?”
“non credo e ne sei consapevole anche tu amico mio”
“siamo ciechi, gli arabi finiranno per sopraffarci”
“si, e Alair lo aveva capito da tempo, ricordi quando ci disse che loro erano venuti Outremer per salvare qualcosa che non si poteva salvare. Allora non capii, ma adesso so che aveva ragione” silenzio, Filippo gli occhi fissi sul donjon templare, Andreolo lo sguardo perso verso il mare “vado a Tiro, poi forse andrò finalmente a Genova”
“è ora che anch’io torni a Venezia, mia moglie e mia figlia aspettano da troppo tempo” Andreolo annuì.
“Abbi cura di te piccoletto” la voce divenne stranamente bassa e incrinata, Andreolo annuì una seconda volta, poi fu lui ad allontanarsi senza voltarsi e questa volta era per sempre.
NOTE
Nel XIII secolo furono intensi i contatti con San Giovanni d’Acri, ultimo baluardo cristiano in Terrasanta e tra le potenze mediterranee non mancavano Genova e Venezia.
La quarta crociata aveva sancito la supremazia di Venezia sui mari del levante, danneggiando con il suo prepotente espansionismo la repubblica genovese che era stata esclusa dalla spartizione dei possedimenti del neo Impero Latino.
La scintilla del conflitto tra le due repubbliche che sarebbe durato più di un secolo, scoppiò ad Acri, dove la difficile convivenza sfociò in guerra aperta.
Nonostante le vittorie marittime e l’opportunità di ricostruire le proprie colonie a Tessalonica e Costantinopoli, Venezia non riuscì a scardinare il potere genovese in Oriente, rinforzato dal solido legame con Bisanzio.
Con il tempo i combattimenti tra genovesi e veneziani si fecero sempre più duri.
Nel XIV secolo il Mediterraneo era però diventato troppo piccolo per ospitare contemporaneamente ambizioni tanto grandi e la resa dei conti si ebbe con la Guerra di Chioggia, quando per la prima volta in Italia, i veneziani impiegarono l’artiglieria.
La storia qui raccontata prende spunto dalla prima guerra che le due città combatterono tra loro, quella per il possesso della chiesa e del monastero di San Saba.
I personaggi descritti e la loro storia sono frutto di fantasia, ma inquadrati in precisi momenti storici, e gli avvenimenti principali riportati sono collocati secondo le date in cui sono avvenuti. I nomi dei cavalieri templari qui stilati e gli atti raccontati sono mutuati dall’assedio e battaglia di Acri del 1291, quando la città venne conquistata dagli uomini del Sultano Al-Asharaf: l'evento simbolo della fine delle Crociate, e una delle più belle pagine di valore dell'Oriente cristiano.
La ricostruzione di San Giovanni d’Acri è parziale e anche di fantasia, essendo ancora oggi in atto gli scavi per il recupero della città crociata, mentre la descrizione del Palazzo Ducale veneziano di quel periodo, fatto realizzare da Sebastiano Ziani negli ultimi anni del suo dogado, ricalca il Fontego dei Turchi che all’epoca era di proprietà del capostipite della famiglia Pesaro.
I pilastri acritani che giunsero a Venezia al seguito del Tiepolo, furono razziati a San Giovanni d’Acri ma in realtà provengono dalla basilica di San Polieucto che era stata la chiesa più grande di Costantinopoli fino all'erezione della nuova Hagia Sophia da parte di Giustiniano I (527-565).
Mi sono volutamente presa alcune libertà: in merito ai Cavalieri Templari e la loro Regola, che invece imponeva ai confratelli una disciplina molto ferrea, così come riguardo alla costruzione del ponte di Rialto e di un’eventuale sottoscrizione per realizzarlo.
Non so se un giovane veneziano e un giovane genovese avrebbero potuto diventare amici in un territorio così pericolosamente conflittuale, ma mi piace pensare che a dispetto della politica e degli aspetti economici che la regolavano, due ragazzi fossero in grado di superare tutti i limiti e le convenzioni che il mondo degli adulti poteva imporre.
La teoria dei simboli
-Refoli de mar e de laguna-
PREMESSE
Non sappiamo esattamente quando le colonne di Piazza San Marco giunsero a Venezia: secondo Francesco Sansovino le colonne furono portate a Venezia da Costantinopoli nella seconda metà del XII secolo, altri storici indicano nel 1125 la data di arrivo delle colonne in città, per volere del doge Domenico Michiel al ritorno dalla spedizione in Terrasanta.
Quale sia la verità, certo è che due rimasero a lungo distese sulla riva di Piazza San Marco, giacché nessuno osava cimentarsi nel tentativo di sollevarle.
Una terza colonna non fu mai sbarcata, perché cadde in acqua proprio di fronte al molo e per il peso sprofondò nel fango.
Quando finalmente le colonne superstiti furono innalzate, i veneziani videro stagliarsi verso il cielo il Leone di San Marco da un lato e l’effige di Todaro che uccide il drago dall’altro, ma il popolo non seppe mai chi o cosa sarebbe dovuto apparire sulla base del capitello della terza colonna…
Le due colonne, così drizzate sembravano designare il limite fra lo spazio sacro della piazza della basilica e quello profano della laguna....
Questo non è il racconto di come e quando furono innalzate, ma di quello che hanno significato per l’immaginario collettivo, così come io l’ho “visto”, scrutando nelle nebbie della storia, là dove la realtà sconfina nella leggenda…
I
La piazza andava via via animandosi in quella calda sera di settembre, gli ultimi raggi di sole accarezzavano voluttuosamente le acque del bacino di San Marco, che andavano increspandosi sotto il movimento cadenzato dei remi delle galee che, attraversate le bocche di porto, con lenta maestosità avanzavano verso la riva.
I veneziani accalcati sulle rive, osservavano l’incedere delle lunghe galee in formazione, i remi che si muovevano all’unisono, secondo il ritmo leggero impartito dal capovoga.
Le imbarcazioni si stagliavano sull’orizzonte, nere di pece in contrasto con il cielo infuocato del tramonto; micidiali in battaglia, con il lungo rostro per l’abbordaggio, velocissime, grazie alla forma sottile e allungata e alla voga arrancata dei formidabili uomini ai banchi di voga, uomini liberi e zontaroli, parevano ora avanzare con una calma quasi innaturale verso il luogo dell’attracco, secondo le indicazioni fornite dall’armiraglio presente a bordo.
È da queste banchine che chi giunge a Venezia per mare, accede alla piazza, il secondo cuore di Venezia; se Rialto ne è il cuore economico, l’arteria pulsante di vita popolare, con il suo mercato, i sanmarchi, e le furatole, il cuore politico e religioso è il brolo di San Marco: qui la vita politica si intreccia con il divino, la piazza riunisce il potere dogale e aristocratico, a fianco del culto dei suoi protettori, San Marco e San Teodoro.
Chi da Rialto si avviava a piedi, o, più fortunato, a dorso di mulo o di cavallo lungo la calle dei fabbri, attraversava il ponte dei dai e fiancheggiando il Rio Batario, si ritrovava in piazza, tra la chiesa di San Teodoro, la basilica di San Marco e la chiesa di San Geminiano, a cui orti e alberi facevano da sfondo; le due chiese, ai lati della piazza, erano state fatte edificare dal generale bizantino Narsete, dopo la sua vittoria sugli Ostrogoti:
Teodoro fu santo patrono della città sino a quando in maniera alquanto rocambolesca e fortunosa, nell’827 d.c. Rustico da Torcello e Bono da Malamocco trafugarono le spoglie dell’Evangelista Marco da Alessandria d’Egitto e le portarono a Venezia dove gli dedicarono la basilica di piazza.
La basilica fu più volte distrutta e riedificata, sino a quando a causa di un incendio, oltre alla chiesa scomparve anche il corpo del santo: fu solo dopo il Mille, quando si riprese la fabbrica della basilica, che una delle colonne più antiche superstiti dopo una scossa, miracolosamente si aprì lasciando intravedere il luogo ove la reliquia giaceva, accadde il 25 giugno del 1094, il popolo era in chiesa, si andava diffondendo il presentimento di un prodigio….
La chiesa, con la reliquia nuovamente agli occhi del mondo, divenne il cuore del mondo lagunare: il culto marciano fu un potente fattore di unità, che avrebbe dato ai veneziani la fiducia sul loro destino, la certezza di una protezione particolare.
La leggenda marciana, secondo la quale l'evangelista Marco nel suo viaggio di ritorno da Aquileia, dove era andato a portare il Vangelo, e dove aveva nominato il primo vescovo Ermagora, era stato sorpreso da una tempesta, e aveva trovato riparo in un'isoletta della laguna, dove un Angelo gli era apparso dicendogli: "Pace a te o Marco, mio evangelista” aggiungendo anche, "Qui riposerà il tuo corpo”, così come era stata tramandata, sanciva l’indiscutibile unione tra il santo e la città.
Il momento era solenne, la guerra contro Bisanzio, combattuta tra le terre d’Oriente e le acque adriatiche era finalmente conclusa e anche se decimata dalla pestilenza e dalle battaglie, la flotta stava rientrando.
Le galee erano in procinto di attraccare lungo la riva, sulla piazzetta dove mesi prima i fanti da mar che partivano per la guerra avevano prestato giuramento e il doge Vitale II Michiel aveva consegnato le bandiere di combattimento.
Il nuovo doge Sebastiano Ziani, appena eletto, attendeva con i simboli della sua carica, nonostante il caldo che grava sui presenti il doge indossa un’aderente veste talare azzurra, stretta in vita da una cintura ornata di pietre preziose, al collo un ornamento fittamente decorato; un pesante mantello fluttuante color cremisi gli ricade, stretto dalla cintura, sul davanti, sul capo il segno distintivo della sua carica, il camauro e il corno dogale: la tradizione vuole che risalga al primo doge, Paoluccio Anafesto, allora era un semplice copricapo, oggi è di velluto cremisino, guarnito di un circolo d’oro in forma di diadema e smeraldi, con una croce d’oro che ne adorna la parte anteriore.
L’espressione del viso quasi ieratica, nasconde abilmente i sentimenti di fastidio che il nobile prova ad essere attorniato dalla folla incuriosita.
Fastidio o timore? Dopotutto è stato eletto proprio dopo l’assassinio del doge suo predecessore, quasi con un atto di forza, imposto da una ristretta assemblea di undici nobili, decretando di fatto la nascita di un’oligarchia aristocratica a scapito delle prerogative popolari del vecchio Comune.
La situazione in città infatti era critica: un anno prima l’imperatore Manuele Comneno aveva fatto arrestare ben diecimila veneziani e sequestrare tutti i loro beni, come ritorsione per l’incendio della colonia genovese di Galata della quale erano stati ingiustamente accusati.
L’oltraggio era stato tale per cui Michiel aveva approntato la spedizione miseramente fallita e i cui resti attraccavano ora in riva del bacino di San Marco.
Il malcontento in città aveva portato a dei tumulti ben orchestrati dallo stesso Ziani e da Orio Mastropiero, altro ambasciatore veneziano a Costantinopoli, sfociati così nell’assassinio del doge il 28 maggio di quello stesso anno. L’elezione del nuovo doge da parte della ristrettissima cerchia di nobili, provocò un’ulteriore sollevazione popolare.
Dopo la sua elezione, alla quale infatti l’assemblea popolare aveva reagito malamente e per la quale occorse tutta la sua abilità diplomatica per sedare gli animi, Ziani aveva immediatamente promosso una riforma del Consilium Sapientium che fu trasformato in un’assemblea sovrana, con il nome di Maggior Consiglio, di durata annuale.
In città quindi, tra il popolo ormai estromesso dal governo cittadino, si raccontava che Pietro ed Enrico Dandolo l’avessero presentato in Consiglio con queste parole “questo xe messer el doxe, che ve piaxa o no ve piaxa”… Ziani quasi con un brivido di voluttà torna con la memoria alla cerimonia di incoronazione, quando il primicerio di San Marco gli consegnò il vessillo marciano, e al pronunciamento della sua promissio.
Oggi come allora la piazza è gremita: la gente calpesta gli orti al di là del Rio Batario, si accalca lungo le mura dell’ospedale Orseolo; sono giunti dai lembi di terra più lontani della Laguna Nord, Lido Bianco, Lido Marcense, Lido delle Vignole e dalle isole che sono all’interno della barriera composta dai lidi stessi, Torcello, Burano, Mazzorbo, Ammiana: una lunga teoria di piccole imbarcazioni aveva solcato l’acqua fino alla zona di canneti e paludi di Cannaregio, proprio come nei giorni di festa durante le processioni.
Lasciate le barche lungo le rive, avevano attraversato calli, zone popolate e altre ancora paludose o coltivate, avevano superato il Luprio con le sue saline e i laghetti stagnanti, fino al brolo di San Marco per assistere al ritorno delle galee.
Sul castello di poppa dell’ammiraglia il capitano da mar Jacopo Orseolo Falier osserva la scena che si presenta ai suoi occhi: ha saputo durante il viaggio dell’assassinio del doge Michiel e della nomina di Ziani; sa che è uomo ricchissimo, potente e ambizioso.
È giovane Falier, ha lunghi capelli corvini leggermente mossi, lineamenti regolari, raffinati e virili, occhi nocciola dallo sguardo penetrante; alto, prestante, discendente ed erede di una delle grandi famiglie veneziane: i Falier erano infatti una delle dodici famiglie apostoliche, legate alle quattro evangeliche, capostipiti della città, il suo antenato Ordelaf aveva contribuito a far realizzare la pala d’oro... Spera che la sua voce non tradisca il timore che gli chiude lo stomaco in una morsa feroce.
Finite le operazioni di attracco, scende a rendere omaggio al doge, porta per lui un dono di inestimabile valore, tre colonne di granito orientale rosa e grigio.
Il popolo rumoreggia: molti, troppi non sono tornati da quella sciagurata spedizione, Falier è consapevole della precarietà della sua posizione, ostenta una sicurezza che in realtà non prova, sa che non ci vuole molto perché facciano di lui il capro espiatorio della disfatta.
Giunto di fronte al doge si inginocchia, abbassando il capo senza profferire parola, quasi ad attendere una sentenza.
“Capitano” esordisce Ziani, la voce profonda, nonostante i suoi settant’anni, di colpo sulla piazza cala il silenzio, rotto solo dal rauco grido dei gabbiani “queo che vedemo se tuto queo che se riusio portar casa?”
“Serenisimo dose” la voce di Falier si alza limpida “ea ota se stà impari, gavemo dovuto frontegiar e forse aleate de Bisanzio Pisa e Genova…..”
“Semo a conosensa de cosa sé suceso capitano e no ve femo na colpa, ma soeo adoeorai par tuti quei che non sé tornai” “oltre alle spese ingenti che sono state sostenute” pensò irato il doge, inveendo contro il suo predecessore, la sua anima da mercante e usuraio aveva la meglio su tutte le altre considerazioni, ad eccezione della perduta credibilità di Venezia.
Un applauso esplose tra la folla presente a sottolineare la magnanimità del doge, mentre Falier, pur mantenendo il capo chino, raddrizzò impercettibilmente le spalle.
“alseve capitano e seguime a paeaso”, così dicendo gli diede le spalle e si avviò verso palazzo ducale, tra le ali della folla che si aprivano al suo passaggio.
Anche il palazzo della Signoria rispecchiava la deriva lungo cui stava scivolando la città, pensava con stizza Ziani: l’edificio che ricalcava l’antica fortezza fatta costruire dal doge Angelo Partecipazio, era costituito da un agglomerato di costruzioni di forme differenti, protetto e delimitato da una consistente muraglia, rafforzata agli angoli da massicce torri. In parte era però andato distrutto da un incendio, dava quindi una sensazione di decadimento e abbandono.
Al suo interno si affollavano uffici pubblici, carceri, palazzo di giustizia, scuderie e armerie e la residenza del doge: tutto ciò, nonostante l’eleganza degli interni di rappresentanza, è inviso al nuovo doge, che già si propone di ricostruirlo.
Superato l’accesso al palazzo, a cui si accedeva attraversando il Rio Batario e una grande porta fortificata al lato della basilica di San Marco, finalmente all’interno delle sue sale, Ziani si liberò con impazienza dei pesanti paludamenti e attese Falier che lo raggiunse di lì a poco.
“eora capitano, cosa gà riportà casa e gaee che i ve gaveva afidà? Go notà che e pescava molto poco” lo apostrofò il doge senza nemmeno attendere l’inchino di circostanza, il mormorio dei nobili presenti tacque di colpo, gli astanti si fecero tutti più attenti.
“no ve perdè niente serenisimo, oltre a spesie e stofe che farà de sicuro ea feisità dei mercanti venesiani, go un dono par voialtri, se trata de tre beisime coeone de granito rosa e grigio”
“capitano, par voialtri cosa ne dovemo far?”
“ve sugeriso Serenisimo, de metarle a l’entrata dea Piasa cusì alte e sarà viste da tuti a l’orisonte e deventarà el simboo de Venesia… E del vostro dogado”
“interesante proposta, fa in modo de farle sbarcar entro doman” e lo congedò.
Il silenzio dei nobili presenti che aveva fatto da sfondo al dialogo tra i due, appena il capitano Falier ebbe lasciato la sala, cedette il posto ad un più concitato vociare “Nobii siori, ve prego” esordì il doge.
“Serenisimo, ma come e podarà esar doparae? Tre coeone susì… Pusae sul niente?”
“Nobile Candiano, ve par che Venesia sia el niente??” ribattè sferzante Ziani “vaeutaremo con tuto el Mezor Consejo come dopararle, se nostra intension riportar sta cità al rango e al splendor che ghe compete: questo pol esar l’inisio”
Il patrizio tacque e chinò il capo, il resto dell’assemblea non fece ulteriori commenti, Ziani riprese a parlare “Signori, abbiamo chiaro come la spedizione voluta dal mio predecessore sia stata un vero fallimento, inoltre i nostri fondaci a Costantinopoli sono andati completamente distrutti: in questo modo siamo perdenti sia dal punto di vista economico che militare e di prestigio. Io credo che dovremmo appoggiare l’imperatore contro Ancona”
“Ma come? Abbiamo appena subito una disfatta, ci sono rimaste poche galee” un brusio sommesso seguì le parole del nobile Gradenigo.
“manderemo quelle poche, si tratta semplicemente di dimostrare all’imperatore che gli copriamo le spalle in mare, mentre per terra le sue truppe assediano la città. Signori, non dimentichiamo che Ancona è la testa di ponte di Costantinopoli nell’Adriatico e se vogliamo riappropriarci della nostra reputazione, questa è la soluzione. Non trascuriamo il fatto che l’imperatore è a conoscenza del nostro appoggio alla Lega Lombarda che abbiamo finanziato, io per primo e altri undici tra voi qui presenti”.
Nessuna voce contraria si alzò tra i rappresentanti del Consiglio tutti erano consapevoli della sua abilità politica, e poiché il doge non aggiunse altro, si congedarono.
Rimasto solo, Ziani tornò con il pensiero alle parole del capitano, voltatosi verso la finestra che affacciava in bacino, lo sguardo perso verso l’orizzonte, quando la luce calava e già la sera ammantava di ombre i canali e i palazzi che vi si specchiavano, rifletteva sul significato di ciò che potevano rappresentare le tre colonne: tre è numero divino, simbolo della Trinità, collocarle vicino al palazzo avrebbero mostrato al mondo il saldo legame tra il cielo e questa terra, avrebbero vegliato sul destino di Venezia…
Una città che pare esistere in funzione dell’acqua, gli edifici sono fusi ad essa, per servire questa insolita condizione di vita.
Venezia è permeata dall’acqua, sembra che dai canali tragga respiro, linfa vitale: la laguna è il territorio che si è cucita intorno, la sua cornice naturale. L’uomo ha protetto le sue rive con palade, formate da più file di pali fra i quali venivano stipati sassi e fango lagunare, ed alla base una scarpata di sassi a protezione, mentre all’interno della città gli argini furono le case stesse, costruite lungo il corso dei canali.
Sul Canal Grande, più che lungo ogni altro, si alternavano palazzi ed abitazioni più modeste, in una promiscuità che sintetizzava la forte coesione della popolazione; una città dalla fisionomia anomala, in cui convivevano aree coltivate, aree brade e aree densamente popolate, stagni e saline, dove secche, canali e barene erano le sue mura invalicabili.
Sorrise il doge, al vertice delle tre colonne ci sarebbero stati San Marco e San Teodoro, l’uno con lo sguardo volto verso le bocche di porto, l’altro nell’atto di uccidere il drago e al centro la figura per eccellenza della Serenissima, il doge: si queste tre colonne avrebbero preservato la fortuna di Venezia nei secoli a venire, pensava soddisfatto, osservando la propria mano, su cui risaltava l’anello d’oro con incisa la figura di San Marco.
II
Una notte era calata sulla città dormiente e sulla laguna, apparentemente la calma regnava intorno alle galee alla fonda, le vele ravvolte, i remi acconigliati e il grande tiemo di tela cerata destinato a riparare l’interno degli scafi e le merci non ancora scaricate.
Un refolo di vento caldo increspava leggermente le acque in bacino, il Canal Grande d’improvviso parve fremere, le acque scure si mossero di vita propria, bagnando il selciato lungo le rive e i muri dei palazzi e delle abitazioni che si affacciavano sul Canale…
Nel silenzio notturno sembrò udirsi un debole sciabordio, ma nulla appariva all’orizzonte, però un occhio attento avrebbe potuto cogliere dei movimenti vicino alle galee: strane iridescenze sembravano galleggiare sull’acqua, muovendosi torno torno alle imbarcazioni, simili a fuochi fatui.
Se qualcuno avesse osservato l’acqua, avrebbe creduto di scorgere degli occhi…si proprio occhi, grandi, dalle iridi chiarissime e le pupille fosche come l’acqua buia della laguna.
Non parevano occhi malevoli, solamente curiosi, che si agitavano attorno alle galee, percependo forze arcane, sprazzi di potere che dalle galee stesse si irradiavano.
Un lamento lontano, proveniente dalla Punta dei Lovi ruppe l’incantesimo, un lungo brivido percorse nuovamente il bacino di San Marco e il Canalazzo, mentre attorno alle galee calava nuovamente il buio della notte settembrina, e scomparvero alla vista di chiunque, nere nella notte fosca.
Il sole era nuovamente alto sul bacino acqueo, le maestranze già al lavoro per sbarcare le colonne giunte da Costantinopoli.
In città si era sparsa rapidamente la voce di quello che le galee avevano riportato da Costantinopoli e che il nuovo doge voleva che fossero immediatamente sbarcate: era difficile in un ambiente così ristretto mantenere un segreto.
Nuovamente la folla incuriosita andava assiepandosi intorno agli argani fatti giungere apposta dall’arsenale in Terranova.
Jacopo Falier sovrintendeva ai lavori, una certa apprensione albergava nel suo animo.
Non sapeva dire per quale motivo, ma aveva la percezione di una disgrazia imminente: aveva trascorso una notte agitata, fatta di sogni strani e di bisbigli sibilanti, più volte si era svegliato, convinto che ci fosse qualcuno ai piedi del suo letto, più volte si era alzato, portandosi all’ampia finestra che sporgeva sul Canal Grande, affacciandosi ad essa per scrutare nelle tenebre, ma non aveva visto nulla, solo sentito il salso della laguna penetrargli a fondo nei polmoni e qualcosa di indefinibile sospeso nell’aria e dentro di se.
Aveva chiuso gli occhi, e per un attimo gli era parso di aver sentito tremare le fondamenta del palazzo, in lontananza un rumore sordo come il rombo di un tuono, ma la notte era serena.
Poi era finalmente giunta l’alba e con la luce apparentemente erano scomparse le sue ansie, i contorni dei palazzi avevano acquistato nitidezza, le pietre si erano infine asciugate al sole, ma ora i timori lo assalivano nuovamente.
Nervosamente si muoveva sulla riva, osservando di tanto in tanto le finestre della formidabile torre d’angolo di palazzo ducale, certo che il doge stesse seguendo lo sbarco delle colonne.
La prima colonna emerse dalla pancia della galea, i raggi del sole riverberavano sul fusto con imprevedibili barbagli d’oro fuso, mentre un maestoso leone veniva inondato di luce.
Lentamente gli argani iniziarono a sollevarla e trasferirla verso riva: dopo un tempo che a tutti i presenti parve essere eterno, fu appoggiata sul selciato, un boato di urla ed applausi si alzò dalla moltitudine presente, ma non era ancora finita, venne imbracata anche la colonna con San Teodoro e il drago e si ripeté l’operazione di sbarco.
Nuovamente calò il silenzio in mezzo alla gente, rotto solo dal rumore del vento che soffiava dolce e caldo in laguna.
Con la stessa accortezza la seconda colonna venne trasferita a terra e fu appoggiata a fianco dell’altra, la folla esplose nuovamente in un fragoroso applauso.
Jacopo Falier iniziava a sentirsi sicuro della riuscita dell’azione intrapresa, accantonati i timori iniziali, incitava gli operai a fare presto, mancava ormai solo la terza colonna.
Una giovane donna, dai grandi occhi dalle iridi chiarissime e le pupille fosche, osservava con crescente timore lo sforzo degli operai: minuta, la pelle chiarissima e una massa di folti capelli color del rame, si aggirava tra la folla, cercando di farsi largo per avanzare lungo la riva.
Indifferente a quella rumorosa umanità abbacinata dal sole, pareva avere uno scopo preciso, la sicurezza con la quale si muoveva scansando la ressa per raggiungere la figura del capitano, contrastava con la folla assiepata lungo la riva, che con i visi rivolti ad osservare gli argani al lavoro assomigliavano a tanti piccoli pigolanti in attesa del cibo; la diversità di atteggiamento, la chioma che sembrava danzare sulle sue spalle ad ogni movimento, la rendevano unica in mezzo a quella marea di gente.
Per la terza volta gli operai ripeterono le operazioni di imbracatura, anche la terza colonna venne sollevata e lentamente avviata verso terra, quando inaspettatamente un soffio di vento più impetuoso proveniente dal mare investì la riva.
Le acque del bacino parvero gonfiarsi, le galee presero a rollare pericolosamente, mentre la colonna dondolava sospesa nell’aria, un’improvvisa coltre di nubi oscurò il sole e con esso parve disperdersi tutto il calore di quell’estate settembrina.
Un silenzio innaturale calò improvvisamente sulla piazza, si sentiva solo il gemito degli argani, poi, inaspettatamente ci fu uno schianto e un sollevarsi di spruzzi che investì tutta la gente accorsa in riva: le corde avevano ceduto e la terza colonna era sprofondata in acqua.
Inorridito, Jacopo Falier aveva assistito alla scena senza poter fare nulla, aveva avuto la sensazione che un’ombra serpentina sollevatasi dalle acque della laguna, avesse avvolto la colonna, lacerando le possenti corde che la sorreggevano e questa fosse planata in acqua lentamente e lentamente si fosse inabissata, prima la base, in ultimo il capitello sormontato dalla statua che raffigurava il doge.
La giovane donna che era riuscita a raggiungere il capitano, ma non era stata in grado di avvicinarlo, parve diventare una statua di ghiaccio, poi nello stesso modo in cui il ghiaccio al sole si liquefa abbandonando la sua originaria forma solida, si accasciò a terra, piegandosi su se stessa, il volto nascosto tra le braccia, intorno a lei improvvisamente il vuoto.
Falier rimase fermo, impietrito di fronte a quella che sapeva essere la sua disfatta, intorno le urla concitate della folla che rapidamente si stava disperdendo, invocando la protezione di San Marco e San Teodoro.
Dalla finestra di palazzo, il doge Ziani aveva assistito a tutta la scena, i suoi occhi avevano visto quanto aveva veduto il capitano Falier e aveva compreso.
Sulla riva ormai sgombra, rimaneva solo un fagotto di stracci; l’aria pareva immota, poi, qualcosa si mosse, uno strano riflesso ramato sembrava prendere forma e dall’ammasso di cenci a terra si sollevò la giovane donna: allarmata, si guardò intorno stringendosi il logoro drappo che aveva sulle spalle, poi velocemente scomparve lungo la stretta calle dove aveva trovato la morte poco tempo prima Michiel.
Ziani, incapace di allontanarsi dalla finestra dopo il disastro, osservava incuriosito la scena, mandando a mente la strana figura che aveva visto.
I rappresentanti del Maggior Consiglio radunatisi in palazzo ducale al tocco della Trotera, attendevano con impazienza il doge, commentando tra loro il disastro del giorno precedente, quando la terza colonna era sprofondata in acqua in una maniera tale che aveva quasi dell’incredibile.
Le spesse porte di quercia della sala si aprirono e fece il suo ingresso il doge: i patrizi veneziani si disposero sui due lati lunghi della sala, facendo ala al Serenissimo che avanzava verso il suo scranno.
Accomodatosi, Ziani si guardò intorno, valutando chi aveva di fronte, quanti di coloro che erano li sarebbero stati dalla sua parte e quanti lo avrebbero avversato, lieti che il suo dogado potesse iniziare in una maniera così infausta.
“ebbene nobili signori, ho voluto io questa convocazione perché si ragionasse insieme di quanto è accaduto ieri e insieme si cercassero delle soluzioni per porvi rimedio” nelle sue parole echeggiava la consapevolezza che la sua figura, senza l’appoggio del Maggior Consiglio era totalmente priva di potere: a differenza del suo predecessore, fiero assertore delle prerogative dogali, Ziani aveva ben chiaro che il potere a Venezia non era più prerogativa di una persona fisica, ma di un’entità astratta, lo Stato.
“Serenissimo doge, io credo che quanto accaduto sia un segno del cielo: non dobbiamo diventare presuntuosi, o sicuramente la protezione di San Marco, verrà meno e sono sicuro che come me la pensano molti dei presenti” arringò Candiano abbracciando con lo sguardo i presenti, molti annuirono.
“Nobile Candiano, voi già avevate esternato la vostra perplessità” ricordò Ziani “io francamente non credo che San Marco ci farà mancare la sua protezione se dovessimo elevare due colonne, di cui una a lui dedicata, inoltre al nostro patrono è già dedicata la basilica” replicò con ironia Ziani, liquidando così le asserzioni del nobiluomo.
“ripeto, siamo qui riuniti per trovare un rimedio: pensate che si possa recuperare la terza colonna?” molte voci si sollevarono contemporaneamente, così diverse tra loro, in una cacofonia di suoni, amplificata dall’ampiezza della sala.
Ziani attese, quando gli parve che fosse trascorso il giusto tempo richiamò con autorità all’ordine i patrizi presenti.
“Serenissimo” una voce alta e chiara si levò sopra le altre, che si ridussero ad un lieve brusio di scherno, poiché il patrizio che aveva preso la parola non godeva della considerazione della maggioranza dei presenti, dal momento che la sua famiglia non veniva riconosciuta di origine veneziana “ritengo che dovremmo far scandagliare il punto in cui la colonna è affondata, per capire se il fango non l’abbia risucchiata”
“grazie nobile Priuli, ecco dunque cosa faremo: ordineremo che una barca con più uomini a bordo si muova nel punto in cui la colonna è scivolata in acqua e con lunghe pertiche saggino il fondo, per capire se ciò che incontrano è solo fango o se tastano il duro del granito” quindi rivolto ai dignitari presenti ”disponete che domani tre marangoni provvedano a fare quanto oggi è stato deciso, l’operazione avverrà alla presenza del Maggior Consiglio”.
Un’altra mattina si levava sulla città: nelle ultime ore in cui l’aria pungente della notte cede il passo al tepore del sole che inonda di luce tetti di case e palazzi, senza distinzione di censo, strappando via le ultime gocce d’acqua sospese tra cielo e terra, come quando si strappa via una ragnatela che ci infastidisce, il doge e i nobili del Maggior Consiglio si trovarono al margine delle fondamenta dove era affondata la colonna; una grossa imbarcazione con tre uomini a bordo in precario equilibrio e un rematore, si barcamenava con una certa difficoltà tra i lunghi rostri delle galee all’ancora: i tre marangoni con lunghe pertiche saggiavano il fondale della laguna.
Fu un’operazione di precisione, l’area scandagliata palmo a palmo e solo quando il sole era ormai alto sul bacino di San Marco, la barca si avvicinò alla riva. I tre uomini scesero e si avvicinarono al doge: questi attese il responso, poi, visto che nessuno dei tre si risolveva a parlare, li incitò dicendo loro di non preoccuparsi e di dire liberamente ciò che erano riusciti a vedere e sentire con le pertiche.
I tre si guardarono, poi il più anziano annuì e si rivolse al doge “Serenisimo, l’aqua se scura e par che ea bogia, no se vedeva niente e coe perteghe no semo rivai a tocar niente, a parte fango. Ea coeona co ea so pesantesa, ea ga da esar sprofondada fin el caranto. Noaltri no credemo se posa recuperarla”
Il doge strinse le labbra senza profferire parola, si limitò a congedare i tre uomini con un cenno del capo e allo stesso modo indicò ai nobili presenti di rientrare con lui a palazzo: stava per avere inizio una delle più lunghe sedute del Maggior Consiglio, non li avrebbe licenziati sino a quando non avessero deliberato ciò che maggiormente gli premeva.
III
Ziani intendeva far accettare ai membri del Maggior Consiglio l’idea di far sollevare le due colonne, ma nessuno tra architetti e ingegneri conosciuti in città aveva idea di come fare, così le colonne erano ancora distese sulla riva, sottoposte ora alle intemperie invernali ed in futuro alla canicola estiva.
Era ormai pieno dell’inverno, la nebbia calava come un livido sudario su tutta la città, i gabbiani volavano radenti lungo il Canalazzo, in cerca di cibo nei mercati di Rialto, emettendo rauchi richiami che rimbombavano nell’atmosfera ovattata della città.
Con il primo buio, muri vecchi e nuovi sembravano perdere la loro solidità, trasformandosi in pallidi riflessi di se stessi, sommersi a poco a poco dalla spietata umidità notturna, che tutto impregnava.
La notte veneziana non era fatta per attardarsi lungo le calli; al buio chiunque avrebbe potuto perdere l’orientamento e cadere nell’acqua gelida, che lo avrebbe ghermito inesorabilmente: solo con la luce del giorno, il corpo ormai livido sarebbe stato restituito al mondo, eppure qualcuno stava calcando il selciato veneziano, con passo furtivo ma rapido, quasi di corsa, sembrava che una scia invisibile guidasse il suo cammino.
Jacopo Falier non riusciva a darsi pace del disastro avvenuto, aveva preso su di se la responsabilità di quanto capitato, da mesi si rifiutava ostinatamente di uscire di casa, ancora non si capacitava del fatto che gli sbirri del doge non fossero venuti a reclamarlo.
Un lieve bussare alla porta dello studio che aveva eletto a suo rifugio, lo riportò alla realtà.
“Sior, ghe sé na zovane dona che vol parlar co voialtri” riferì il domestico, avuto il permesso di entrare
“na zovane dona? Cosa ea vol? no go schei par asumar altro personal, mandea in cusina e farghe dar calcosa da magnar e po’ mandea via” replicò seccamente Falier.
“no ea serca eavoro, ea vol soeo parlar co voialtri, ea dise che sé importante, ea me ga dito de dirve che sé per e do coeone”
Il capitano si fece subito interessato “ben, eora faea venir”
Poco dopo la porta si aprì e il domestico fece entrare la giovane dai capelli rossi; Jacopo ebbe la sensazione di averla già incontrata, ma non riusciva a ricordare dove e quando, poi, visto che la giovane stava in silenzio e con il capo basso la sollecitò “eora chi ti se? Cosa ti vol da mi?”
“me ciamo Bianca, e go visto queo che gavè visto anca voialtri quando ea tersa coeona se cascada in aqua” rispose con voce roca e profonda senza incertezze, alzando il viso verso di lui.
Jacopo sussultò: quegli occhi erano gli stessi che avevano agitato il suo sonno prima di quel giorno infausto e poi anche nelle notti successive, poi ricordò di aver visto la giovane popolana vicino a lui mentre la colonna veniva issata.
“mi go visto soeo ea coeona che sprofondava in laguna. Te ripeto, chi ti se? Ti me perseguiti?”
“gavè visto bel altro e savè che ga visto anca el Dose. No sior, no so qua par perseguitarve, ma per giutarve”
“ti sé na striga?”
La giovane sorrise dolcemente, il volto parve illuminarsi di luce propria “calchedun podaria anche ciamarme cusì, ma soeo chi sé ignorante e no capise..”
“sta tenta a queo che ti disi” replicò affascinato e insieme terrorizzato Jacopo
“da voialtri no go niente da temer” disse Bianca “aeora, voè el me agiuto o preferì vivar nea paura?”
Non ho nulla da perdere in fondo pensò Jacopo, e assentendo con il capo, le fece segno di accomodarsi sulla poltrona vicino al braciere: gli pareva che stesse tremando, con quegli abiti poco adatti alla stagione, una sottotunica di lino grezzo e una tunica lunga di un color verde stinto senza maniche: la tunica, il cui colore si addiceva alla tonalità dei suoi capelli, era stretta in vita da una sottile cintura di lino intrecciato e le segnava la vita snella, la semplicità dell’abito nulla toglieva alla dignità della giovane.
Con leggerezza Bianca si mosse verso la poltrona e si sedette, il capo chino, le spalle leggermente incurvate e le mani racchiuse in grembo. Dopo un breve silenzio, quasi a voler raccogliere le idee, sollevò nuovamente il bel viso verso il capitano e iniziò a parlare, lo fece a lungo, senza interruzioni.
Il cielo stava rischiarando quando lasciò il palazzo, avvolta in un lungo e caldo mantello con il cappuccio bordato di pelliccia, Jacopo da un terrazzino tremolante come l’acqua del canale, aggettante sulla stretta calle, la osservava allontanarsi.
Nella livida luce bianca del mattino che sfumava nel blu verde delle acque della laguna rendendo il paesaggio circostante un’unica macchia di colore, un uomo si aggirava intorno alle colonne: si trattava del doge Ziani.
Poco distante, altri dignitari restavano in paziente attesa nonostante il freddo pungente che aggrediva loro il volto e le mani.
La riunione del Maggior Consiglio era stata concitata, molti dei presenti non riuscivano a comprendere perché il doge si fosse intestardito a voler tirar su le due colonne, pensavano che a causa di quanto accaduto, Ziani reputasse aver perso credibilità.
“Eminentissimi, so quanto vi appaia astruso il mio ragionamento, ma voglio che comprendiate che noi dobbiamo guardare a queste due colonne come a dei simboli”
“cosa significa Serenissimo?”
“non interrompetemi nobile Gradenigo, così potrete intendere il mio ragionamento” rispose seccamente Ziani, il patrizio arrossì violentemente e tacque.
“come dicevo prima di essere interrotto” riprese Ziani un po’ pedantemente “queste due colonne posso essere dei simboli: il simbolo è una rappresentazione che fa apparire manifesto ad occhio umano un significato profondo, nascosto, è l’apparizione di un mistero...”
“ma quale mistero ci può essere in due colonne?”
“nobile Bragadin, lasciate che il doge termini di esporre il suo pensiero, se continuiamo ad interromperlo come potremo venirne a capo?” intervenne Priuli in tono esasperato.
“grazie nobile Priuli. Signori, noi veneziani viviamo una situazione difficilissima, combattiamo incessantemente con le forze della natura, sia durante i viaggi in mare, che in laguna, dove contendiamo la terra all’acqua salsa. La sola nostra via di salvezza è la coesione, e la sfida quotidiana a cui siamo sottoposti è cementata dalla nostra fede” tacque, osservando i volti dei patrizi presenti: bene, era riuscito infine a catturare la loro attenzione.
“voi tutti sapete quanto in realtà San Teodoro non appartenga alla nostra tradizione, a differenza di San Marco, che ha portato la parola di Dio nel territorio dei Veneti e che qui riposa, secondo l’antica profezia, tuttavia non possiamo allontanare dalla nostra devozione San Teodoro, ed ecco la Provvidenza interviene con questo inaspettato dono: San Marco e San Teodoro, protesi verso l’alto per noi”
Silenzio, poi “Serenissimo, e la terza colonna?”
“nobile Michiel, evidentemente non era gradito a Dio che l’immagine del doge, non la mia badate bene” sottolineò Ziani “fosse a fianco dei due santi, sono certo che Dio abbia voluto dirci come in realtà sia San Marco il vero signore di questa città, il leone dovrà diventare il simbolo di Venezia”
Il doge aveva compreso che tra il Santo e la sua figura si era creata un’identità di significati: il leone era l’emblema dello Stato, come il doge ne era il simbolo, nonostante la nuova riforma avesse di fatto ridimensionato il suo potere, riducendolo a quello di un primo magistrato dello Stato. Venezia era lo stato sovrano, che si sostituiva all’uomo, suo strumento.
I patrizi presenti erano interdetti, molti di loro erano privi di qualsiasi cognizione filosofica, altri raramente si erano allontanati dalla laguna, a differenza di Ziani, che prima di essere eletto doge, era stato diplomatico a Costantinopoli, ed era quindi più sensibile di altri ad influenze provenienti dalla lontana Bisanzio.
Il silenzio del pomeriggio invernale era tale che, brevi refoli portavano il rumore del mare nella sala, quando improvvisamente le possenti porte si aprirono, la figura di Jacopo Falier avanzò incerta nella luce morente del giorno, il rumore dei suoi passi riecheggiava sul pavimento di legno, nessuno profferiva parola.
Jacopo Falier giunse davanti allo scranno del doge, si inchinò, volse il capo alla sua destra e alla sua sinistra, incrociando gli sguardi di tutti i presenti. Era pallido ed emaciato, ma aveva un’espressione serena.
“Serenissimo, nobili signori, sono qui per perorare una causa” un’improvvisa inquietudine lo assalì, il timore di non essere all’altezza di spiegare quanto era necessario.
“se la vostra causa è pertinente con l’argomento che questo Consiglio stava trattando e voi avete avuto l’ardire di interrompere, proseguite pure capitano” rispose in tono falsamente condiscendente il doge.
“si Serenissimo, si tratta delle due colonne da me portate in patria”
“erano tre le vostre colonne Falier” intervenne ironicamente il nobile Dandolo, ma Jacopo Falier non si lasciò intimidire.
“Eminentissimi, provate a pensare come appaia a chiunque la nostra città: una selva di campanili che emergono dall’acqua; profonda è la fede dei veneziani, ogni giorno dalle chiese molteplici preghiere salgono al cielo ed è bene che sia così, perché sotto le acque che ci circondano, forze misteriose si agitano, in particolare lungo il Canal Grande. Non si tratta di forze malevoli miei signori, sono …. neutre, sino a quando non entrano in gioco altre forze, allora si pongono in contrasto”
“e quali sarebbero queste forze capitano?” domandò cautamente il doge, Falier era forse impazzito?
“le colonne Eminentissimo” rispose prontamente Jacopo “non dimenticate che giungono dalla città dell’imperatore Costantino, dove sua madre Elena conservava tra le più sacre reliquie della cristianità, lì come nei luoghi santi, tutto trasuda spiritualità” si girò verso i nobili presenti “il Canal Grande miei signori, si snoda simile a un drago, tagliando in due la città; come un drago ha testa e coda, e alla fine di quest’ultima si trovano l’isola di San Giorgio con il suo monastero e sulla riva opposta la basilica di San Marco, baluardi contro queste arcane energie”.
Fece una pausa per riprendere fiato, si guardò nuovamente intorno, temendo di leggere negli sguardi dei presenti lo scherno, ma così non fu, rinfrancato riprese a parlare “le colonne trasmettono energie dall’alto verso il basso, sono il simbolo della solidità, il senso dell’equilibrio, rappresentano quella saldezza interiore che è propria di noi tutti e quella del nostro Stato e che tutti insieme dobbiamo concorrere a realizzare”
“e la terza colonna?” domandò Priuli, che più di ogni altro dei presenti sentiva istintivamente di condividere il pensiero di Falier e la volontà del doge.
“sono state proprio le forze arcane di cui vi sto parlando ad impedire che la terza colonna toccasse il suolo: quella colonna avrebbe rappresentato il potere temporale, l’uomo la cui natura umana si protende a quella divina, cercando con essa il contatto. Le tre colonne insieme avrebbero annientato queste forze. Serenissimo, è necessario trovare chi sappia come innalzarle, non possono più giacere abbandonate sulla riva” il silenzio calò sulla sala.
“d’accordo capitano, avete esposto le vostre ragioni, ora vi preghiamo di ritirarvi da questa assemblea” concluse il doge.
Jacopo Falier chinò il capo in segno di obbedienza e in silenzio arretrò verso l’ingresso, abbandonando la sala: crederanno che abbia perduto la ragione, ma non potevo essere completamente sincero, non potevo raccontare loro di Bianca, l’avrebbero condannata senza appello al supplizio come strega, pensava tormentato.
Nella sala nessuno aveva preso la parola, il doge si alzò dal suo scranno e si portò verso la finestra che affacciava sul bacino: là simili a grossi pesci arenati sulla spiaggia, stavano le due colonne e i loro simboli “bene signori, non credo vi sia altro da aggiungere, possiamo sciogliere la seduta”
“ma Serenissimo, non vorrete davvero prestare fede allo sproloquio del capitano Falier?” si levò allarmata una voce.
“nobile Badoer, siete mai stato a Costantinopoli? Io si” rispose laconicamente Ziani, dopodiché si volse verso i nobili presenti e senza aggiungere altro abbandonò la sala.
Giunto nei suoi alloggi, si accasciò su una poltrona vicino al fuoco: era stanchissimo e non solo fisicamente, gli anni cominciavano a pesargli sulle spalle, paventava di non riuscire a portare a termine i progetti che si era prefissato di realizzare quando era stato eletto doge, pochi mesi prima: ricostruire palazzo ducale, ampliare la piazza, cercare di concludere la pace con l’impero d’Oriente, restituire a Venezia quanto le era stato defraudato a causa di Pisa e Genova. Tutto sembrava così difficile ora…
Con passo leggero Costanza sua moglie entrò nella stanza e si fermò alle sue spalle “aeora sior, se rivai a na soiusion”
“no so cosa pensar Costansa” rispose stancamente Ziani e posando la propria mano sulla sua, la invitò a sedere accanto a lui, raccontandole quanto aveva riferito il capitano Falier.
“voialtri omini se incredui verso sti portenti, calchedun ga daver contà tuto al Capitano, forse na dona, no me gavè dito che el giorno che ea coeona sé cascada in aqua gavè visto na dona ‘ndar via dopo stò fato? Convochè el Capitano, parlè coi ù da soeo e vedarè che co voialtri sarà più ciaro” gli consigliò la moglie.
“se na bona idea, ma go da star tento che i altri nobii i vegna a saver”
“mandè nostro fio Paoluccio el se un toseto, nisun se inacorsarà de un fieto che va a torsio par ea cità” suggerì la moglie.
“si convochea qua mantinente”
“voè farlo ‘ndar deso col scuro?”
“e cosa sarà mai Costansa? Su moveve sé urgente”
Poco dopo, complice il buio della sera, un ragazzino si incamminava furtivamente lungo il brolo di San Marco per raggiungere l’abitazione del capitano, aveva avuto l’ordine dal padre di condurlo immediatamente a palazzo.
Non passò molto tempo che due figure comparvero all’ingresso di palazzo ducale.
Il capitano Falier era rimasto stupito di vedere il figlio più giovane del doge recargli un messaggio da parte del padre.
Istintivamente avrebbe voluto rifiutare l’invito, temendo una trappola, poi però il buon senso ebbe il sopravvento e comprese che si trattava di un espediente di Ziani per un incontro riservato, senza la presenza dei rappresentanti del Maggior Consiglio, così si era risolto a seguire il ragazzo.
Fu fatto accomodare in una stanza relativamente piccola, ma sontuosamente arredata, comprese che doveva trattarsi dello studio privato del doge, con gli arredi e le suppellettili che si era portato dalla sua vecchia abitazione e che gli eredi avrebbero prontamente tolto per far posto agli oggetti del suo successore..
Si stava guardando intorno con interesse, ammirando con discrezione sedie e mobili finemente intagliati, gli arazzi che rivestivano le pareti, gli spessi tappeti che ricoprivano il pavimento di legno, odoroso di cera d’api e le pesanti tende che riparavano dal rigore notturno, quando una seconda persona entrò nella stanza “buona sera capitano”
“Serenisimo” e fece l’atto di inchinarsi, ma Ziani lo bloccò “lasciate stare capitano, veniamo subito al dunque, immagino abbiate capito perché vi ho convocato così in gran segreto” e si sedette di fronte a Jacopo senza invitarlo a fare altrettanto “raccontatemi ora quanto avete celato al Consiglio oggi”
Jacopo non si stupì: Bianca lo aveva avvisato che il doge avrebbe capito e che lui non avrebbe potuto esimersi dal raccontare ogni cosa, anche se così facendo avrebbe messo a repentaglio le loro vite, perché la certezza che Ziani non li avrebbe denunciati non l’aveva neppure lei.
Rassegnato Jacopo rivelò ogni cosa al doge: in piedi, come fosse stato di fronte ad un precettore, gli raccontò dei suoi sogni da quando aveva messo piede a Venezia, dei presentimenti, di ciò che aveva creduto di vedere quando la colonna era scivolata in acqua, dell’incontro con Bianca e di quanto lei gli aveva raccontato, senza tralasciare nulla.
Il doge non lo interruppe mai, quando il resoconto fu terminato si limitò a dire “dovete portare alla mia presenza questa giovane donna”
“non verrà Serenissimo, inoltre non saprei dove trovarla….”
“cercatela”, il tono era perentorio e con un gesto imperioso della mano lo congedò; solo, si accasciò contro lo schienale della poltrona, sfibrato dagli avvenimenti e dai pensieri.
Jacopo senza nemmeno rendersene conto si ritrovò sul ponte che attraversava il rio Batario.
Lentamente si allontanò dal brolo di San Marco, avvolgendosi strettamente nel pesante mantello: l’aria proveniente dal mare si depositava su ogni pietra, l’umidità trasudava da ogni cosa. Immerso così profondamente nei suoi pensieri, non si accorse che due figure nere come la notte lo seguivano a debita distanza, muovendosi silenziosamente come solo due sicari sapevano fare.
Stava attendendo che il solido portone della sua abitazione venisse aperto, quando una mano dalla pelle diafana si posò delicatamente sul suo braccio: il pallore argenteo della pelle spiccava nel nero profondo di quella notte senza luna.
Jacopo si voltò di scatto “Bianca” la sua mano si posò su quella di lei, la giovane cercò di ritrarla, ma la pressione aumentò, Jacopo percepì il gelo della sua carne, in contrasto con il calore che proveniva da lui, confusamente pensò quanto Bianca fosse simile ad una creatura lunare, da quanto era pallida e fredda “vien dentro a scaldarte un fià”, nel mentre il portone venne aperto, la giovane lo seguì.
Le fece strada nel piccolo studio dove già era stata fatta accomodare durante il loro precedente incontro, seduti accanto al fuoco, Jacopo le offrì una coppa di malvasia e ne versò una anche per se.
Bianca beveva a piccoli sorsi e taceva, lo sguardo perso tra le braci del camino, seguendo immagini, scie e volute che solo lei poteva vedere.
Anche Jacopo beveva e la osservava, si perdeva nei suoi occhi, si beava di ogni particolare del suo viso dalla delicata struttura scheletrica che si indovinava sotto la pelle sottile.
Era come ipnotizzato da quei capelli color fiamma che al buio, colpiti solo dalla luce del camino, parevano avere vita propria, come lingue di fuoco essi stessi, che danzavano sulle esili spalle della giovane, ricadendo in morbidi riccioli lucenti.
“Bianca, il doge vuole parlarti”, la magia del momento si dissolse
“No è impossibile”
“Non ti farà del male”
“E voi cosa ne sapete?”
“Tu stessa mi hai detto che anche lui ha visto ciò che abbiamo veduto noi e comunque stasera ha voluto parlarmi da solo”
“Potrebbe essere una trappola” replicò angosciata
“Non lo è, ne sono certo”
“Non voglio comunque”
“Se non verrai le colonne rimarranno dove sono!”
“Io ho fatto tutto ciò che potevo. Come potete chiedermi di rischiare la vita?”
“Io l’ho fatto, ho raccontato tutto ciò che tu mi hai detto, di fronte al Maggior Consiglio, per bene che mi sia andata devono avermi creduto pazzo” concluse amaramente Jacopo.
“Devo pensarci, non posso decidere così… ora devo andare” disse alzandosi.
“E sia, ma cerca di non pensarci troppo a lungo. Dove posso trovarti?”
“Sarò io a venire a cercarvi” e senza aggiungere altro si accomiatò.
Uscita dall’abitazione del capitano, Bianca si allontanò, ma non tardò ad accorgersi di essere seguita, la finissima percezione che aveva delle cose che le stavano intorno, le aveva permesso di udire i passi impercettibili dei due figuri che già avevano seguito Falier fino alla sua abitazione e di cui lui non aveva avuto sentore.
Angosciata allungò il passo, incominciando a vagare alla cieca tra le calli.
Ben presto si rese conto di essersi persa, come i naviganti anche lei si orientava seguendo la posizione degli astri, ma a Venezia spesso le stelle viste dai giri delle calli, sembravano cambiare posizione.
Il panico la colse e incominciò a correre, il fiato sempre più corto, improvvisamente un braccio la ghermì, mentre una mano le coprì la bocca impedendole di urlare “zitta, sono io, ora continua a correre, seguimi” le sussurrò Jacopo; una strana sensazione lo aveva colto quando Bianca lo aveva lasciato, così era sceso nuovamente in strada, in tempo per vedere due forme appena più chiare del buio della notte che si muovevano leste e mute dietro la giovane.
Iniziò una folle corsa, Bianca aveva la sensazione di girare in tondo, ma forse era un modo per confondere i loro inseguitori.
A tratti le pareva che i passi si facessero più vicini, per poi perderli nell’eco di uno scalpiccio lontano, accompagnato da voci soffocate.
Ad un certo punto giunsero sulla riva del Canalazzo, Jacopo fece un passo verso il ponte di barche che a Rialto consentiva di attraversare l’acqua.
“No” si bloccò Bianca
“Cosa?”
“Non posso, non posso passare sopra l’acqua ora”
“Vuoi farti catturare?” e senza attendere risposta la trascinò rudemente sul ponte attraverso il canale.
I loro passi rimbombavano sulle assi di legno, echi distorti nel silenzio notturno, sotto di loro l’acqua pareva fremere e le barche scontrarsi tra loro, come investite da un’onda di piena, quando la marea entrava con forza dalle bocche di porto, sospinta dal vento di scirocco e copriva la terra e i selciati.
A Bianca parve che per attraversare il ponte occorresse un’eternità, la sensazione di cadere in acqua ad ogni movimento, poi finalmente misero piede sull’altro lato del Canale.
Si appoggiarono al muro della chiesa di San Giacometo, la chiesa più antica di Venezia, sulla sponda del Canal Grande, vicino al ponte di Rialto: la gente raccontava che fosse stata costruita almeno settecento anni prima, in quella landa deserta che era allora l’isola di Rivoaltus.
Si attardarono per riprendere fiato, il silenzio della notte pareva amplificare i loro respiri ansanti, sbuffi dei loro fiati si levavano come volute di fumo bianco di fronte ai loro visi, mischiandosi.
Bianca riprese vigore e fu lei ora a guidare Jacopo verso la loro salvezza. Camminarono velocemente e in silenzio fino a raggiungere la zona di Dorsoduro, dove tra le compatte dune sabbiose lo condusse verso una casupola di legno, una tra le tante della zona, forse più piccola, di forma rettangolare con tetto di paglia a due spioventi molto accentuati, non troppo distante dal Canale Vigano; aprì la porta e la richiuse fermandola con un paletto, poi accese un lume, facendo luce su un’unica stanza, con il pavimento di terra battuta ricoperto di paglia pulita, un giaciglio, una madia, una cassapanca, un tavolo a cavalletto con due sgabelli impagliati e al centro il fogher che la giovane si diede subito da fare per accendere.
Alle travi che costituivano la semplice intelaiatura del soffitto, piccoli fasci di erbe secche.
Jacopo si tolse il pesante mantello e lo appese ad un alto gancio di legno e cominciò a guardarsi intorno con malcelata curiosità: la stanza non era grande, ma decorosa nella sua semplicità e odorosa di pulito, le piccole finestre oscurate da pesanti cortine, nel complesso era un ambiente intimo e caldo che rispecchiava tutto il decoro che la giovane sapeva esprimere.
“Dovrete accontentarvi per questa notte, per il momento non potete fare ritorno al vostro palazzo”
”Mi stenderò sul tavolo”
“Potete stendervi sulla paglia per terra starete certamente più caldo, è pulita e non vi sono topi qui”
“D’accordo” e così dicendo prese il suo mantello e si accoccolò ai piedi del pagliericcio, dove Bianca si coricò coprendosi con una pesante coperta di pelliccia.
“Buonanotte Bianca”
“va ben, bona note”
“no ti gà mai dito el me nome”
“Buonanotte…. Jacopo” rispose Bianca spegnendo il lume: il capitano sorrise nel buio e chiuse gli occhi; la stanchezza li vinse entrambi rapidamente e il sonno calò su di loro.
Fuori, la notte veneziana di mezzo inverno, qualcosa si muoveva nell’aria, una scia, un brivido.
A Jacopo pareva di essersi appena coricato, quando un raggio di sole che filtrava dalle pesanti impannate appena discoste, lo colpì in viso svegliandolo.
Bianca si muoveva affaccendata attorno al focolare, nell’aria un vago sentore di zuppa, sul tavolo stavano appoggiate due ciotole e due fette di pane scuro dalla spessa crosta.
“Buongiorno, avete dormito a lungo, il sole è già alto. Vi sentite riposato?”
“Era molto tempo che non dormivo così profondamente”
“Ne sono lieta”
“Bianca, quei due uomini stanotte…”
“Sicuramente avevano seguito voi pensando di giungere a me..”
“Devono essere uomini del doge, a questo punto ne convieni che sarebbe meglio che ti recassi da lui di tua spontanea volontà? Naturalmente ti accompagnerò io”
Bianca non rispose subito, sembrava intenta a mescolare la zuppa.
“E sia, ma ci muoveremo con il buio, non è prudente farsi vedere di giorno superare le mura di palazzo” versò la zuppa fumante nelle scodelle.
“vegnì, eà sopa sé pronta”
D’inverno al calar del sole, il buio giungeva rapidamente, in lontananza si sentiva l’eco della Marangona che segnava la fine della giornata di lavoro.
“sé ora de movarse” disse Jacopo.
Bianca in silenzio indossò il mantello e lo seguì. Il tragitto verso San Marco parve meno lungo della sera precedente: quando infine giunsero all’ingresso di palazzo ducale, era il buio più completo.
Jacopo informò una guardia che erano attesi dal doge. Aspettarono nella torre di guardia, seduti su una panca di legno, Jacopo si teneva vicino alla giovane, quasi a volerle infondere coraggio; la guardia tornò indietro rapidamente e li autorizzò ad entrare. Il capitano condusse Bianca tra edifici e corridoi, sino agli appartamenti privati del doge, confinanti con l’abside della basilica marciana.
Ziani li attendeva nel medesimo studiolo della sera precedente; quando vide Bianca riconobbe immediatamente la giovane donna che per ultima aveva lasciato la piazza dopo che la colonna era caduta in acqua.
“Serenissimo, questa è Bianca, la giovane di cui vi ho parlato”
Bianca si inginocchiò e Ziani si avvicinò posandole una mano sul capo, con fare paterno: un calore improvviso si propagò lungo tutto l’arto e l’anello con il sigillo di San Marco prese a brillare.
Bianca sollevò il volto e i suoi occhi incontrarono quelli del doge, sorrise e parve illuminarsi.
Accomodatisi vicino al camino, i tre parlarono a lungo; Ziani ad un certo punto chiese loro licenza di poter far partecipare all’ incontro anche il nobile Priuli.
Jacopo che ricordava come questi durante il suo intervento in Consiglio sembrasse interessato e non scettico a differenza degli altri nobili presenti, diede il proprio benestare, poi guardò Bianca e le fece un lieve cenno assertivo con il capo, anche lei accondiscese.
Priuli non parve sorpreso quando un servitore del doge fu ammesso alla sua presenza, comunicando che il doge reclamava la sua persona a palazzo. Senza replicare, aveva fatto svegliare il suo vogatore, sceso alla porta d’acqua era salito in barca, dando l’ordine di condurlo in bacino di San Marco e di attendere li il suo ritorno.
Sferzato dal vento aveva percorso rapidamente il tratto che separava la riva della piazzetta al portone del palazzo, transitando a fianco delle due colonne: una luce fioca pareva emanare da queste, stese al buio…
Priuli avvertì un certo disagio, gli parve di sentire i capelli rizzarsi dalla nuca verso il capo e fu lieto di trovarsi oltre la possente porta di quercia del Cansiglio che celava l’interno di palazzo ducale.
E non si era nemmeno sorpreso quando, entrando nello studio del doge, aveva veduto il capitano e la giovane donna: il suo sguardo incrociò quello del doge, fece un rapido cenno d’assenso con il capo, Ziani lo invitò ad accomodarsi e il racconto di Bianca riprese.
Le ore trascorsero, compieta era ormai giunta.
“Dovrete andar via da Venezia, è troppo rischioso per il momento restare per entrambi” affermò il doge, Priuli si disse d’accordo e si offrì di accompagnarli in barca verso la terraferma “di li potrete raggiungere Chioggia, voi capitano avrete un imbarco ad attendervi, una nostra squadra navale partirà in appoggio all’imperatore che sta assediando Ancona, mentre Bianca potrà restare ad attendervi, al sicuro” concluse Priuli.
Bianca protestò vivacemente, non volendo abbandonare la propria casa. Era anche preoccupata, non avendo mai lasciato Venezia in vita sua, non aveva idea di cosa le avrebbe riservato il futuro e questo l’angustiava.
“Bianca sè l’unica soiusion” disse il doge interrompendo le sue rimostranze “se ve ostinè a restar a Venesia, sta storia prima o dopo sarà suea boca de tuti, e ben che vada sarè serada nel convento de San Servolo, ma se i nobii del Mezor Consejo i se voese impor, par voialtri ghe saria i posi e el strasio sensa fine dea tortura per farve confesar e mi no podaria far niente” sottolineò amaramente il doge.
“ma confesar cosa?”
“che sé na striga”
“ma no sé vero!”
“ma sé l’unica roba che i voria sentirve dir, sopratuto se mesi su dai preti” che per fortuna sono stati estromessi dalla vita politica della città, considerò filosoficamente tra sé il doge.
Non c’erano soluzioni alternative, era così e basta.
Era giunto il momento del congedo: Bianca, dopo aver baciato l’anello con l’effige di San Marco si alzò, indugiò un momento, le pupille fosche parvero penetrare gli occhi del doge “riuscirete a portare a termine i vostri progetti, ma non avete molto tempo: San Giorgio sarà il vostro ultimo rifugio” e con queste parole si allontanò, seguendo Jacopo e il nobile Priuli.
La barca del patrizio era ormeggiata in bacino, a bordo, quasi rannicchiato su se stesso a proteggersi dal freddo, un vogatore.
Dopo che i tre furono saliti a bordo, silenziosamente si mosse verso il Canal Grande, scivolando lenta sull’acqua.
Il bacino di San Marco flagellato dal vento freddo di nord est, sembrava vivere di vita propria, piccole onde dalle creste di spuma bianca cavalcavano la superficie dell’acqua; dietro la basilica, lontane ma così vicine da incombere sulla città simili a cattedrali del silenzio, le cime innevate delle alte montagne settentrionali.
L’imbarcazione si fermò all’altezza della porta d’acqua di palazzo Priuli: un piccolo palazzetto color ocra caratterizzato da un porticato a livello d’acqua con archi inflessi e la pentafora balconata al piano nobile.
“se megio che voialtri proseguì verso el vostro paeaso a pie, Bianca ve spetarà qua, mentre mandarò a tor e so robe” spiegò Priuli.
Tutti insieme entrarono nell’androne “sercarò de far più presto che poso” disse il capitano Falier accomiatandosi, mentre Bianca seguiva il patrizio veneziano che la fece accomodare in un salotto nell’ammezzato, una piccola stanza raccolta, confortevole e calda.
Avvolti dal tepore della stanza, i due si disposero ad attendere il capitano. Priuli ordinò una cena sostanziosa per Bianca, ai suoi occhi piuttosto provata, ordinò inoltre che andassero a recuperare a casa della giovane, quanto le potesse occorrere per il viaggio e la permanenza a Chioggia.
“dove stè Bianca?”
“a Dorsoduro” rispose Bianca, poi,rivolta ai due uomini di fatica del nobile “sé na caseta de egno pintada de roso co i balconi incornisai de bianco, trovarè ea me roba nea casapanca, no e sé tante, ma per piaser toè anca i masi de erbe seche picai sui travi” i due assentirono e si allontanarono.
“vivè dunque soea? No ghe sé nisuni da avisar che se posa preocupar par voialtri?”
“i mii sé morti co gero picoeta, no mei ricordo nianca, me gà tirà su me nona, da ea go imparà a usar e erbe par curar e maeatie del corpo e deo spirito”
“come se ciamava vostra nona?”
“porto el so nome”
“aero voialtri se ea nevoda de quea Bianca? Vostra nona me gà salvà dae frevi co gero picoeto, me mare gaveva na granda considerasion de ea!”
“i gera tanti i nobii siori che ‘ndava da ea, sopratuto e dame, ma sempre de scondon, e se par caso ea incontrava nee cai, i faseva finta de no conoserla” disse amaramente Bianca.
Priuli avrebbe voluto dire che non tutte le dame erano così, ma in fondo, cosa ne sapeva lui, se non quello che aveva sentito dai racconti materni e della sua balia?
Il breve, imbarazzato silenzio fu rotto dal discreto ingresso di una cameriera che aveva portato la cena ordinata per Bianca.
“quando ea sé morta?” chiese ancora Priuli
“alla fine dell’estate scorsa. Ha aiutato tante persone, ma non è riuscita a curare se stessa, né ha permesso a me di farlo, si è semplicemente spenta, forse era solo stanca, aveva perso la voglia di vivere: quando sentì che il momento stava per giungere, mi fece chiamare i nostri vicini; disse loro che non voleva essere seppellita, ma che la mettessero su una vecchia barca con dei pesi per farla affondare e la lasciassero andare alla deriva.
A me non disse nulla, si limitò a stringermi le mani e se ne andò; la vegliai tutta quella notte, poi il giorno successivo un pio frate dell’Ospitale dei Crociferi la benedisse.
La sera seguente allestimmo una vecchia barca che da tempo era arenata tra le velme e i pantani che sono a est, verso San Marco e la portammo sulla riva del canale Vigano: ve la deponemmo dentro, coperta da un leggero velo, era diventata molto esile, pareva essersi addirittura rimpicciolita, la incoronammo con i fiori di barena, poi aggiungemmo delle pietre e dei tronchi portati dalla corrente e tutti insieme la spingemmo verso il centro del canale; era plenilunio e la luce della luna la illuminava mentre si allontanava verso il bacino di San Marco, sospinta dalla corrente, ad un certo momento scomparve.
Tememmo che qualcuno potesse ritrovare il corpo, ma passarono i giorni e non giunsero notizie, così ci convincemmo che doveva essere davvero affondata.
Poco tempo dopo però, qualcuno andava raccontando che nelle notti di luna piena era possibile scorgere una piccola imbarcazione che pareva andare alla deriva senza che nessuno la governasse: ogni tanto, nelle notti in cui la luna illumina il canale, guardo verso l’isola di Spinale, con la speranza di vederla…”
Tacque Bianca, lo sguardo perso nelle fiamme del camino, ad inseguire i suoi ricordi, Priuli non osava infrangere quel silenzio “tuto queo che me resta de ea coi ricordi, sé sto ciondoeto, che ea me ga da poco prima de morir.” E mostrò il piccolo ciondolo di squisita fattura bizantina che portava al collo, celato sotto i suoi poveri abiti.
“riconoso sto ciondoeto, me pare eo ga donà a me mare co so nato e me mare lo donò a vostra nona par ricompensarla de averme fato naser na seconda volta... .” sussurrò Priuli visibilmente commosso, un velo di lacrime gli offuscava la vista, mentre guardava sorridendo il bel volto di Bianca e cercava nei suoi lineamenti, il ricordo di un’altra donna, di cui ancora ricordava il profumo di erbe che si diffondeva dalla sua persona, lo stesso che riconobbe in quello emanato dalla figura seduta di fronte a lui.
“ora comprendo il perché abbia da subito avvertito l’urgenza di esservi d’aiuto in qualche modo” soggiunse, prendendole una mano tra le sue: un brivido lo percorse, in quanti avrebbero creduto al racconto di Bianca e del capitano? A cosa sarebbero giunti lui e il doge, pur di salvare quella donna?
Venezia esisteva prima di nascere: il Canal Grande serpeggiava tra le velme e le barene, naturale prosecuzione del letto tortuoso di un fiume che attraversava la laguna sino al mare, oltre le naturali bocche di porto, tornava alla sua mente il racconto fatto da Bianca quella notte alla presenza del doge, sotto la superficie, una forza primordiale si muove, una forza che può distruggere oppure lasciar fluire il tempo. Solo una forza altrettanto potente può tenerla a bada, una forza a cui gli abitanti di questa città siano devoti. Le due colonne incarnano questa forza in modo tangibile, sono il simbolo materiale della protezione posta su questa città.
“Venezia non perirà, si trasformerà questo si, essa è il frutto della lotta tra uomo e natura e nei secoli a venire dimostrerà come l’uomo sarà riuscito ad avere la meglio sulla natura, anche grazie all’intercessione divina. Le colonne verranno issate” era stata la conclusione di Ziani alle parole di Bianca.
Il discreto bussare alla porta interruppe il filo dei pensieri di Priuli: erano giunti sia il capitano Falier che i due servitori con il misero bagaglio di Bianca “se ora che ve alontanè, ‘ndè so aea porta de aqua, eà na barca ve portarà in terraferma”
“grasie par queo che se drio far”
“no capitano, so mi che go un debito nei confronti de sta zovane dona e queo che so drio far no la ripagherà mai bastansa, ‘ndè via deso”
D’istino prima di accomiatarsi i due uomini si strinsero gli avambracci, all’uso degli antichi soldati di Roma, Bianca fece un lieve inchino, prese le mani del patrizio e le strinse delicatamente tra le sue, negli occhi tutta la sua gratitudine per avere davvero compreso.
Nuovamente l’imbarcazione prese a risalire il canale, scivolando silenziosamente sulle acque.
Il vento gelido proveniente dalla porta boreana sferzava il viso di Bianca che si stringeva nel mantello, il cappuccio calato sul viso a coprire i lunghi capelli color di fuoco raccolti sulla nuca.
Nessuno parlava, ognuno avvolto dai propri pensieri, mentre la barca seguiva le curve del canale.
Bianca sentiva che non erano soli, percepiva il dolore che la presenza emanava, sapendo che lei si stava allontanando da Venezia, piccoli barbagli di luce danzavano intorno all’imbarcazione che adagio procedeva lungo il Canalazzo.
“Tornerò” andava rassicurando la presenza, parlandole con la propria voce mentale “e tu sarai qui ad attendermi, fino alla fine dei tempi”.
La barca ondeggiò lievemente, come se un’onda l’avesse investita, poi il flusso della corrente riprese il suo cammino.
Giunsero alfine in terraferma: Falier scese per primo, poi porse la mano a Bianca per aiutarla. Senza una parola il rematore prese a vogare lungo la via del ritorno.
Iniziava ad albeggiare, in lontananza si scorgeva la sagoma scura della loro città: a mano a mano che il sole illuminava lo spazio circostante, ancora una volta osservarono il miracolo della perfetta fusione fra la luminosità dell’aria, i riflessi madreperlacei dell’acqua e le dimore che in essa si specchiavano, il contrasto con i fitti boschi della terraferma che giungevano a lambire le acque salse era fortissimo, in termini di luce, colori, forme e volumi.
Si misero in cammino: fianco a fianco si avviarono verso un futuro incerto, senza avere sentore di cosa il destino avrebbe riservato loro.
Il percorso sarebbe stato lungo a piedi, c’era speranza di incrociare qualche carro che da quella parte della terraferma si portava verso l’estremità della laguna.
Camminando di buon passo, rasente i boschi e le selve che costeggiavano la sottile linea costiera, naturali punti di riferimento per i naviganti, giunsero infine lungo un corso d’acqua, seguendo le indicazioni che Priuli aveva dato loro, proseguirono costeggiando l’argine.
Era ormai giorno inoltrato quando infine decisero di fermarsi.
Non vi erano ripari Bianca in silenzio e affranta, si lasciò cadere sulla nuda terra, strettamente avvolta nell’ampio mantello di cui Falier le aveva fatto dono al loro primo incontro.
Jacopo si accovacciò al suo fianco, da una bisaccia trasse delle gallette e del formaggio stagionato e glieli porse “magna calcosa eà strada se ancora eonga e se no trovemo nisun dovaremo rivar a Ciosa a pie”
Bianca lo guardò con occhi velati di lacrime “per colpa mia gavè dovesto asar ea cità e el vostro paeaso”
“anca ti ti ga asà ea to casa e so sta mi a costringerte. No sta preocuparte, tornaremo” e con gesto protettivo scostò l’ampio mantello e avvolse entrambi, il lieve profumo d’erbe che scaturiva dalla giovane al suo fianco gli pervase le nari, respirò a fondo e per un attimo socchiuse gli occhi.
Lontano, da un palazzotto in un’ansa del Canalazzo Priuli, gli occhi cerchiati di stanchezza per la notte insonne, volgeva lo sguardo verso la terraferma: aveva infine capito.
IV
Incurante del freddo, Ziani osservava le due colonne stese sul selciato, stava valutando la possibilità di farle erigere e come: era consapevole che non potessero restare ancora in tali condizioni, non i simboli di Marco e Todaro, inoltre non si era smorzato il ricordo di quanto avvenuto alla terza colonna.
La gente della sua ostinazione pensava che non volesse che il suo dogado venisse ricordato solo per un insuccesso: e lui lasciava credere che fosse realmente così, anche se ben altro lo ispirava.
Tornò sui suoi passi e rivolto al suo segretario ordinò “convocatemi Nicolò Barattieri” e senza profferire ulteriori parole, si risolse a tornare verso palazzo ducale.
Non trascorse molto tempo che una figura incappucciata, attraversò il ponte dei dai e si diresse verso palazzo ducale.
“Eccellentissimo” esordì Barattieri, inchinandosi di fronte al doge che lo attendeva sul suo scranno: alto, paludato di nero, tunica e calze, alla stregua dei nobili, aveva capelli radi, occhi piccoli sotto sopraciglia folte, ma molto mobili e curiosi, tratti del volto proporzionati, il mento leggermente sfuggente.
Nonostante fosse lombardo parlava veneziano con la giusta cadenza, a testimonianza della lunga permanenza in laguna.
“Mastro Barattieri, si dice che siate un eccellente architetto” le parole del doge rimbombarono per tutta l’ampiezza della sala vuota.
“Se è ciò che si dice, allora deve essere vero”
“Ditemi, voi avete realizzato la cella campanaria del campanile di San Marco”
“Si Eccellenza, in collaborazione con mastro Bartolomeo Maffatto”
“E come avete fatto a trasportare i materiali in cima alla torre?” domandò il doge evidentemente non interessato al Maffatto.
“abbiamo utilizzato delle casse di legno, mosse da carrucole, che hanno permesso di trasportare meglio il materiale”
“E sareste in grado di sollevare le due colonne stese in lungo la riva?”
“Eccellenza?”
“Avete capito benissimo, rispondete alla mia domanda”
“Le colonne sono molto alte...”
“Si, misurano 49 piedi”
“E occorrono anche dei basamenti...”
“Vi assegniamo l’incarico messer Nicolò, non deludeteci” e con queste parole Barattieri fu congedato.
Ziani non voleva correre il rischio che l’architetto accampasse ulteriori scuse per rifiutare la commenda: il racconto di Bianca durante quella lunga notte lo aveva convinto che solo un uomo come Barattieri di cui conosceva la fama, avvezzo agli azzardi, avrebbe potuto portare a termine l’impresa.
Uscito da palazzo Nicolò si incamminò verso la sua abitazione a Castello, la solitaria isola già abitata dai Venetici, prima ancora di Rivoaltus, originariamente detta Olivolo per gli alberi di ulivi che lì erano cresciuti e successivamente denominata Castello per la fortezza in rovina che i suoi primi abitanti vi avevano trovato.
Abitava proprio vicino alla chiesa di San Pietro, da poco ricostruita dopo l’incendio che poco più di cinquant’anni prima l’aveva completamente devastata; osservò la facciata tripartita, poi entrò fermandosi all’ingresso e osservando le tre navate, le absidi circolari e la transenna marmorea alla cui base era un antico mosaico, unico retaggio della chiesa più antica.
Si voltò verso la navata di destra, dove era la cattedra di San Pietro quasi a cercare soccorso e rifugio: si avvicinò al trono e vi appoggiò una mano, raccogliendosi in preghiera; la tradizione popolare narrava che fosse stato portato da Antiochia, dove San Pietro era stato vescovo, dal doge Pietro Tradonico, anch’egli morto di morte violenta come il predecessore di Ziani, all’uscita della messa in San Zaccaria…il popolo raccontava anche che al suo interno fosse celato il Santo Graal: Nicolò non sapeva se ciò corrispondesse al vero, certo il Graal era una reliquia potente e lui aveva fede, pregando, di sicuro la soluzione sarebbe apparsa.
Pregò a lungo, la testa china, gli occhi fissi sugli strani simboli che istoriavano il trono, quando uscì, sapeva cosa avrebbe dovuto fare.
Rimase immobile, in quello spazio erboso antistante la chiesa, privo di selciato.
Fissò lo sguardo verso un punto lontano, poi si riscosse: aveva bisogno di sedersi ad un tavolo con pergamena e grafite per disegnare e far di conto.
Più volte nei giorni successivi fu visto attardarsi intorno alle colonne, misurandone la lunghezza a lunghe falcate, valutandone il diametro, calcolando quelle che avrebbero dovuto essere le dimensioni del cantiere: a volte mormorava tra sé e la gente pensava che avesse perso il senno, qualcuno incominciò a credere e a sussurrare che le colonne diffondessero un’aura maligna.
Alcune settimane erano trascorse quando ripercorse la strada che da Castello lo avrebbe nuovamente condotto a palazzo ducale: sicuro di sé, camminava diritto, ad ampie falcate, sotto il braccio due rotoli di pergamena.
Il doge lo ricevette nella stessa sala del loro primo incontro, questa volta alla presenza dei nobili rappresentanti del Maggior Consiglio.
Barattieri allargò le pergamene fittamente illustrate, con in calce calcoli e numeri su di un ampio tavolo a cavalletto e illustrò a Ziani e ai presenti come avrebbe proceduto; fu chiaro ed efficace, non occorsero ulteriori spiegazioni, il doge si limitò ad assentire e lo congedò, mentre il resto dell’assemblea non profferì alcun commento.
Non trascorse molto tempo che i veneziani videro nuovamente del fermento in riva, attorno a quelle colonne a cui nessuno si avvicinava da tempo.
Due basamenti quadrati con agli angoli scolpite le effigi delle Scuole di Arti e Mestieri, furono posizionate sulla piazzetta di San Marco, poco discosto dalla Beccaria.
Poi gli operai iniziarono bloccando un’estremità della colonna di San Teodoro, legando all’altro capo fasci di corde che passando lungo il fusto della colonna stessa, andavano a fissarsi al suolo sull’altro lato della piazza. Quando si fu assicurato che era ben imbracata, Barattieri fece bagnare le corde della colonna: le corde, così bagnate aumentavano di diametro diminuendo in lunghezza.
Gli uomini chiamati a compiere tali manovre non comprendevano quello che veniva detto loro di fare, ma erano pagati e quindi non discutevano, ma commentavano oh se commentavano e Barattieri fingeva di non sentire le loro battute salaci.
Anche la folla raccoltasi per assistere all’evento non capiva e rumoreggiava, qualcuno ricordava e raccontava di come fosse stato visto aggirarsi tra le due colonne, parlando tra sé, come i folli.
All’improvviso si udì uno scricchiolio potente, pareva il gemito di chi si stesse prodigando in uno sforzo immane, la folla si zittì e nel silenzio assistette al prodigio: le funi di canapa impregnate di acqua si erano accorciate e stavano alzando di fatto un capo dell’enorme mole di granito.
Barattieri iniziò ad urlare ordini: gli uomini corsero a posizionare dei cunei per fissare la nuova posizione della colonna, poi si cambiarono le corde con altre più corte e si ricominciò a bagnarle, ripetendo l’operazione fino a che il primo monolite non fu completamente innalzato.
Occorsero giorni, la città pareva essersi fermata, ogni mattina una folla di veneziani si raccoglieva attorno alla fabbrica per continuare ad assistere a ciò che agli occhi dei semplici pareva un prodigio.
Gruppi di sfaccendati commentavano tra loro, scaleteri con cesti colmi di busolai e zaleti andavano tra la folla vendendo i loro biscotti; le malvasie intorno a San Marco facevano affari: cosa c’era di meglio di un buon bicchiere di vino in compagnia?
Ad ogni nuovo movimento della colonna, la folla già dimentica dei commenti salaci, applaudiva entusiasta ed affascinata, anche il doge non mancava all’appuntamento e ogni giorno osservava la scena dalla finestra di palazzo con vivo interesse, cercando di calcolare quanto tempo ancora sarebbe occorso per vedere l’opera completata.
Infine anche la Pasqua era giunta: era l’otto di aprile, Ziani usciva dalla chiesa di San Zaccaria, dove per tradizione il doge si recava in visita in segno di gratitudine verso le monache che avevano concesso il suolo su cui era stata edificata la basilica di San Marco; una breve occhiata alla fabbrica delle colonne gli bastò per esprimere un moto di disappunto.
Il nobile Priuli, che faceva parte del corteo, notò il gesto e si ripropose di intervenire: per nulla al mondo il doge doveva sospendere la commenda.
A sera tarda, una figura emerse dal buio in fondo al brolo di San Marco: si avvicinò alla passerella sul rio Batario e chiese il permesso di entrare in palazzo ducale.
Poco dopo Priuli era di fronte al doge: seduti vicino ad una finestra, a respirare l’aria fresca proveniente dalla laguna, il giovane patrizio riportò quanto quella notte d’inverno Bianca aveva raccontato a lui, nel sicuro rifugio del suo palazzo “è così Serenissimo, la forza ancestrale che dimora sotto il Canal Grande si rinnova eternamente, carpisce gli ultimi aneliti di vita della prescelta, solo una forza altrettanto sovrumana può contrastarla, impedirle questo continuo olocausto. Bianca sembrava rassegnata a questo destino, fino a quando non sono giunte le colonne e allora ha capito che forse avrebbe potuto non esserci un’altra vittima”
Un refolo d’aria, simile ad un lungo doloroso sospiro entrò nel piccolo studio, muovendo le pesanti cortine, Ziani rifletté “sta bene, Barattieri terminerà la commenda, anche se fossero necessari altri dieci anni di lavoro indefesso e costante” e congedò il nobile Priuli, preoccupato, ripensando a quando Bianca prima di accomiatarsi in quella sera lontana gli aveva detto che non avrebbe potuto disporre di molto tempo.
Barattieri infaticabile continuava ad impartire ordini, obbligando gli uomini a lavorare senza sosta, dando egli stesso l’esempio, cavandosi via la tunica e con solo sottotunica e calze si univa a loro.
L’umida calura di un’estate anticipata sembrava soffocare la città, faceva caracollare gli uomini, i muscoli tesi allo spasimo, il sudore a velare gli occhi, il respiro si mozzava nell’aria liquida di quei giorni.
Le colonne illuminate dal sole, abbagliavano chiunque fosse nelle vicinanze, ferivano gli sguardi, simili a grandi meduse, pronte a tramutare in pietra gli impavidi che avessero osato alzare lo sguardo su di esse.
Agli occhi della folla sembrava che la seconda colonna si sollevasse impercettibilmente, tanto era l’impazienza di vedere l’opera compiuta.
Avvertendo ogniqualvolta la colonna si alzava un poco, una sorta di brivido, una lieve scossa si alzava dalle acque circostanti che per un momento parevano farsi minacciose.
Finalmente, in quel tardo pomeriggio di primavera inoltrata dell’anno del Signore 1173, anche la colonna di San Marco fu ritta a fianco di quella di San Teodoro: il Leone simbolo dell’Evangelista e il Santo rivolti l’uno verso palazzo ducale, l’altro in procinto di scrutare il mare verso le bocche di porto, a simboleggiare quanto il potere divino avesse posto la Serenissima sotto la propria protezione, sia in terra che sul mare.
Un lieve sorriso increspò le labbra del doge, sul cielo sopra la piazza le nubi avevano assunto le sembianze di un maestoso leone e la folla lanciò grida di stupore, mentre da quelle nubi un unico raggio di sole andava ad illuminare la piazzetta.
Ziani allora comprese davvero, improvvisamente gli furono chiare le parole di Bianca e anche quelle di Priuli, ma fu soprattutto intellegibile ai suoi occhi il disegno divino che era dietro l’opera compiuta: “pax tibi marce evangelista meus” sussurrò commosso, lo sguardo rivolto al cielo sopra il palazzo.
Lontano, l’oscura forza che riposava sotto il Canalzzo fu percorsa da un lungo brivido, mentre un refolo di vento proveniente dalla laguna, cancellava l’ombra del leone e faceva nuovamente splendere il sole sulla città.
In un’altra piccola città poco distante, sul limitare meridionale della laguna, una giovane donna in piedi, in prossimità di una tozza torre di legno detta Castello della Lupa, stava osservando il mare, tra le braccia un paniere colmo di erbe odorose che raccoglieva ogni giorno lungo il limitare della palude che dominava il paesaggio circostante, quando all’improvviso percepì il portento che si stava consumando.
Sorrise, mentre il vento caldo le scompigliava i lunghi capelli rossi, e dopo una fuggevole occhiata verso nord, mosse nuovamente lo sguardo verso le acque in movimento scrutando l’orizzonte, in attesa del ritorno di una galea veneziana.
Poco meno di cento anni dopo, vicino al nuovo palazzo ducale, a fianco del muro laterale della Basilica rinnovata, comparvero altre due colonne, più piccole, decorate di segni scarsamente comprensibili ai più. Erano anch’esse bottino di guerra, provenienti dalla spoliazione della chiesa di San Sabba a San Giovanni d’Acri, ma questa è un’altra storia…
NOTE
Questa storia è totalmente frutto di immaginazione: mi piaceva l’idea che “forze arcane” potessero aver combattuto tra loro per la grandezza di Venezia.
Reali invece sono i personaggi di Sebastiano Ziani, doge e Nicolò Barattieri, lombardo, architetto e ingegnere, anche se quest’ultimo sconfina nel mito.
È opportuno ricordare che i simboli sulle colonne furono posti in un secondo momento; va precisato che il leone come emblema araldico iniziò a diffondersi con la “Leggenda Aurea” di Jacopo da Varagine e solo da metà del Duecento Venezia iniziò ad utilizzare il leone nelle sue insegne, in precedenza il vessillo di San Marco era costituito da una croce d’oro in campo azzurro e quattro code, tre rosse e una azzurra.
Il dogado di Sebastiano Ziani si distinse per il notevole impulso dato all'edilizia cittadina, in particolare all'ampliamento e all'abbellimento dell’area marciana; partecipò soprattutto con aiuti finanziarî più che militari alla Lega Lombarda, si adoperò perché Venezia fosse prescelta come sede dell’incontro tra papa Alessandro III e l'imperatore Federico Barbarossa, avvenimento storico intorno al quale nacquero leggende che giustificarono la supremazia veneziana sull'Adriatico; certamente Venezia era in una posizione favorevole come mediatrice tra Papa, Comuni della Lega e Imperatore, inoltre agli occhi del papa e dell’imperatore questa città isolata in mezzo all’acqua, dovette sembrare il luogo ideale per una conferenza diplomatica. Ziani abdicò per motivi di salute il 12 aprile 1178, quindi pochi anni dopo l’elevazione delle due colonne e si ritirò nel monastero dell’isola di San Giorgio, dove poco dopo morì. Prima della sua abdicazione era stata decisa una nuova procedura per l’elezione del doge: quattro persone laiche avrebbero designato quaranta elettori ai quali era riservata la nomina del doge.
Dell’Arsenale di Venezia le prime notizie certe sono datate a partire dal 1220, certamente esistevano squeri per la realizzazione di imbarcazioni e dal 1177 una specie di grande cantiere, all’altezza dei giardinetti reali, prodromo di quello che sarebbe stato l’Arsenale così come noi lo conosciamo, in quel di Castello, sorto in quel vuoto topografico che separava la sede vescovile di San Pietro, da quella dogale di San Marco.
La storia della terza colonna affondata durante lo sbarco è divenuta anch’essa mito ed è all’origine di studi e di indagini sul “campo” che sono in procinto di avviarsi.
Indagini che vanno al di là del fine stesso, sono letteralmente un tuffo nel passato e che forniranno comunque importanti informazioni, utili per il futuro di questa città, così fragile, così compromessa e così calpestata.