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Saccenti Ivana
Pensionata, ex insegnante elementare.
Scrivo racconti ed ho ottenuto riconoscimenti in diversi concorsi letterari.
Il fardello di chiamarsi Manzoni




“Benarrivato! Il solito quarto d’ora di ritardo!”
Allunga il braccio verso me, scopre il polso e batte l’indice sull’orologio.
Stesso gesto, stesse parole, stesso tono sarcastico di ogni lunedì mattina. Nulla di nuovo.
Non mi scompongo. Le giro le spalle e raggiungo il mio posto, penultimo banco, seconda fila.
Il ritardo del lunedì mattina è ormai consolidato. Non mi va di trovarmi nell’atrio con gli altri ad ascoltare: nel weekend sono andato di qui , sono stato di là, ho fatto questo, ho fatto quello… Io passo il sabato e la domenica con il calcio e la musica. In clausura in camera mia. La cuffia mi isola da tutto. Nulla che sia degno di essere raccontato.
Frugo nello zaino, pesco una penna e un foglio protocollo, lo stretto necessario per bypassare le prime ore e arrivare all’intervallo. Evito di alzare lo sguardo, per non imbattermi nel suo: so che mi sta osservando, pronta a sparare un’altra cartuccia già in canna.
“Naturalmente, come sempre, te ne sei ben guardato dal portare il vocabolario. Ah già, scusa,  cosa se ne fa del vocabolario uno che si chiama MANZONI?” Sorrisetto.
Eh sì, proprio così. Purtroppo. Mi chiamo Manzoni, Manzo per gli amici. Ed è solo per un colpo di  fortuna se non sono Alessandro, come il nonno avrebbe voluto. La mamma, in uno dei suoi rari momenti di lucidità, si è opposta e imposta perché fossi Marco.
Il fardello pesante del cognome famoso, in terza liceo, non lo reggo più.
“Uno che si chiama così, queste cose dovrebbe saperle, certi errori non dovrebbe farli, dovresti fare onore al tuo celebre omonimo, non si può certo dire che tu sia all’altezza del tuo illustre predecessore…” e via con idiozie del genere.
Alla lavagna l’istrice ha già scritto il titolo del tema: “IL SILENZIO”.
L’istrice naturalmente è la prof di lettere che, ironia della sorte, di cognome fa Cherubino. Mai cognome meno azzeccato, mai nickname più appropriato. L’ha ideato Giulia, una compagna di classe, per via della capigliatura dagli aculei corti, color carota, sparati in piedi da una dose massiccia di gel.
Davanti a me, la visuale è libera. La schiena dei miei compagni è curva sul foglio. Le teste chine, quasi a lambire il banco. Il braccio e la mano scivolano a riempire le righe.
Alla cattedra armeggia col registro, alza lo sguardo e mi punta con aria  di sfida.
“Caro Manzoni, mi sa che anche questa volta il grande Alessandro si girerà nella tomba, leggendo il tuo tema. Non vedo l’ora di rifilarti un altro bel quattro.”
Questo sta pensando la perfida, glielo leggo in quei due occhietti neri, profondi, una miniera di sarcasmo e sadismo.
In effetti nei temi non vado oltre il quattro. A fatica, scrivendo largo e lasciando spazi a casaccio, riesco appena a superare una colonna. Sono sempre il primo a consegnare, così poi mi faccio i cavoli miei.  Il commento scritto in rosso lo so a memoria: “Componimento ortograficamente corretto, ma dal contenuto privo di idee.”
E mia madre: “Possibile che tu non abbia idee? Fattele venire queste benedette idee! Pensaci prima di consegnare!”
Il fatto è che le cose stanno in modo completamente diverso. Io le mie idee le ho, e come se le ho! Ma perché dovrei esporle a lei, proprio a lei? Chi è l’istrice per meritare di conoscermi?
Intesto il foglio e in mezzo “IL SILENZIO”.
La penna tra i denti e gli occhi al soffitto, ci penso un po’. Questo titolo non mi è poi così estraneo, qualcosa da dire ce l’avrei.  
Di quale silenzio vuole sapere, cara prof? Ne ho conosciuti tanti in questi anni.
Partirò da dove tutto ha avuto inizio: la mia nascita. Un parto molto difficile. Un bambino che proprio non ne voleva sapere di venire allo scoperto (come dargli torto!). Poi finalmente, fuori. Un vagito, un urlo, un pianto per far sentire la mia presenza nel mondo, per dire a tutti eccomi, ci sono, sono vivo. Questo, solo questo, pretendevano da me i presenti, sfiniti e sudati per gli sforzi nell’ aiutarmi nell’ impresa. In fondo, sarebbe stato un segno di riconoscenza nei loro confronti. E invece, niente. Silenzio. Secondi di sospensione, di angoscia. Sospeso il mio respiro, sospeso il loro. La mia pelle paonazza. Poi il gesto crudele sui miei neonati glutei: due pacche  decise, perentorie, risolutrici.
La mamma commenta sempre: sei stato un bambino problematico fin dal primo momento.
I miei genitori si sono sempre fatti la guerra. Barricate e trincee opposte. Ma a cena, in quelle rare occasioni in cui ci si trovava tutti e tre, le discussioni erano abolite. Ognuno di loro affondava lo sguardo nel proprio piatto, a rimuginare lo scontro appena avvenuto e a caricare i fucili  per la prossima battaglia.  Colonna sonora: il ticchettio delle posate nel piatto. Troppo pesante da sopportare quel silenzio carico di tensione,  per un bambino. Lo percepivo, lo riconoscevo, ne avevo terrore. Mi schiacciava, quasi a togliermi il respiro.  Davo loro la soddisfazione di vuotare il piatto in fretta, per poi rifugiarmi in camera mia, dove finalmente, tra i giochi, riprendevo a respirare. La fantasia mi riportava a dimensioni infantili.
Poi  si sono separati. E’ giusto così, mi hanno detto. Non cambia niente per te, mi hanno detto. Papà va a vivere in un’altra casa, ma lo vedrai quando vorrai, mi hanno detto. Lo vedrai quando vorrà lui, quando avrà tempo, avrebbero dovuto dirmi. Per questa nostra decisione, dovrai rinunciare a tante cose, avrebbero dovuto dirmi. Non l’hanno detto. Non l’hanno mai messo in conto. Ho pagato di tasca mia.
Qualcuno ha già finito: inizia la processione alla cattedra per consegnare. Questa volta non sono il primo. Ho già superato la mia lunghezza standard e ho ancora qualcosa da dire.
Mi sa, cara istrice, che questa volta la sorprenderò e deluderò le sue aspettative.
Un giorno il mio amico Luca mi mostrò orgoglioso una magnifica astronave costruita con il Lego.
“L’ho fatta con mio papà. C’è voluto quasi un mese. Cos’hai costruito tu con tuo papà?”
Seguì un lungo silenzio. Come poteva un bambino essere così crudele da rivolgere a un coetaneo una domanda tanto imbarazzante e inopportuna? Non esisteva dunque la solidarietà di categoria? Arrossii, deglutii e sputai: “A mio padre le costruzioni non piacciono”.
Sono alla terza facciata. Potrebbe servirmi un altro foglio. Lo chiedo a Giulia, dietro me.
“Ne hai già finito uno?”
“Quasi”.
“Questa volta l’istrice…” e accostando l’indice alle labbra chiuse “muta!” Mi regala un sorriso pieno di soddisfazione.
Lei è la migliore della classe in italiano e non ha certo problemi con la prof. Però è dalla mia parte. Lo so.  
Una volta, con mio padre,  da Mc Donald, tra un morso e l’altro buttai lì:
“Papà, voglio cambiare cognome”.
Rimase con la bocca semiaperta dalla quale si intravedeva il boccone di hamburger. Lo sguardo sprigionava incredulità.
“Cos’è che vuoi?”
“Dai, hai capito benissimo. Ne ho abbastanza delle continue allusioni dei prof per via del mio cognome, non le sopporto più.”
“Ah! Adesso capisco! La mamma me l’ha detto che a scuola vai male. Allora è per colpa del cognome! Già, giusto! Che stupido io a non pensarci prima! Meglio cambiarlo! Ma sì, dai, cancelliamolo! Hai ragione, perché non buttare via ciò di cui la tua famiglia è orgogliosa da generazioni?”
“Papà, adesso sei peggio dei miei professori. Comunque tranquillo, è una cosa semplice. Mi sono informato. Si va all’anagrafe e basta cambiare anche una sola lettera, Manzini, Menzoni, Fanzoni, Ranzoni, … ed è fatta!”
Sì alzò, sbattè sul tavolo ciò che rimaneva dell’hamburger e alzando il braccio mi mandò a quel paese. Ma il labiale comunicava tutt’altra destinazione.
“Quando hai finito ti aspetto in  macchina nel piazzale.”
Il ritorno a casa si consumò nel mutismo totale.
Era sceso in campo sfoderando la stessa arma dei professori: l’ironia tagliente. Battaglia persa!
Il filo della comunicazione tra noi due, sottilissimo come un filo interdentale, ma molto meno resistente e pronto a spezzarsi ad ogni minimo contrasto, quel giorno si era completamente lacerato. E tale è rimasto.
Quando torno da scuola, trovo la casa vuota, sprofondata nel silenzio e nella penombra. La mamma è al lavoro,  sempre al lavoro, è una manager. Nonna dice: è una donna in “corriera.” Non un suono, non una voce, non un rumore. Nulla e nessuno ad accogliermi. Tutto perfettamente a posto. Un’esposizione di mobili. Manca solo il cartello “non toccare”o “per favore, non sedersi”. Alma viene ogni mattina: spolvera polvere inesistente, lava  sporco invisibile, riordina  disordine immaginario. Lavoro sprecato. Ma per mamma è bravissima:  ce la dobbiamo tenere ben stretta. Per me l’importante è che rispetti i patti: in camera mia non ci deve mettere piede. La mia stanza è un’isola felice. Polvere, calzini single sparsi ovunque,  fogli e  libri alla rinfusa, felpe e jeans accatastati,  il letto arruffato. E l’odore! L’odore del mio sudore, delle mie scarpe puzzolenti, mio, unico, inimitabile. Come una rana, galleggio in questo stagno perfettamente a mio agio.
Alma lascia la cucina  lucida, cromata, asettica come una sala operatoria. Gli odori, banditi.  Mamma li detesta: dice che si appiccicano ai vestiti e alla pelle e non se ne vanno. Quindi solo cibi già pronti, al massimo da scaldare pochi secondi nel microonde.
Che odorino! Che  profumino! Bello, quando la cucina ti accoglie e ti dice che qualcuno ti ha pensato e ha preparato qualcosa di buono per te! Così succede quando viene nonna. La trovo  già lì sul pianerottolo, ad  aspettarmi davanti alla porta dell’ascensore. Mi bacia, mi abbraccia, mi accarezza il viso.
“Bello! Quanto sei cresciuto!”
“Nonna, a questa età tutti crescono”.
“Sì, ma tu sei cresciuto meglio! Ti ho preparato le tagliatelle con il ragù e le polpettine. Non dirlo  a mamma, quella brontola, dice che ti faccio ingrassare”.
“Tanto questa sera appena entra, se ne accorge dall’odore”.
“Madonna, figlia mia! Quella tiene la fissa degli odori e della dieta. Mo mangiamo, poi apriamo tutte  le finestre. E facciamo morire di invidia  quelli che passano. Che profumino! Chissà cosa avranno cucinato di buono i Manzoni?”
Nonna mi fa ridere,  parla e mi fa domande. Non sono domande a perdere, come quelle dei miei. Loro chiedono solo nel tentativo di  riempire un po’i silenzi, solo per mettersi a posto la coscienza, perché sentono dire  che con i figli bisogna  parlare. Le domande della nonna aspettano la risposta. Sono i suoi occhi a pretenderla e  a catturarla. Gli occhi dei miei, ancor prima della risposta, sono già altrove. Inutile rispondere.   
Rileggo velocemente.
Consegno per ultimo. Inserisco il foglio in mezzo agli altri: l’istrice non deve vederlo.
“Ti ho notato stranamente impegnato a scrivere. Hai avuto un’illuminazione?”
Mercoledì.
La prof consegna il plico dei temi corretti ad un compagno, da distribuire.
Il mio non c’è.
“Manzoni, vieni, il tuo l’ho io”.
Me lo porge.
“Leggi tu il commento ad alta voce”.
Rifiuto.
“Bene, allora lo leggerò io”.
Ha proprio deciso di sputtanarmi davanti a tutti, la stronza.
“Ragazzi, ascoltate. Leggerò il commento al tema di Manzoni”.
Ammutoliti. Tensione e suspense aleggiano tra i banchi.  
“Il ‘tuo’ silenzio mi è arrivato dritto al cuore. Non avresti potuto trovare forma migliore per esprimerlo. Nemmeno il grande Manzoni sarebbe riuscito a fare meglio! Complimenti!  Nove”.
Le brillano gli occhi e la durezza che conoscevo si è dissolta in quel luccichio.
Torno a posto. Passo il tema a Giulia, lo vuole leggere.
La sorpresa la immobilizza, sussurra appena qualcosa.
Nel sedermi, urto maldestramente il banco.
Cade l’astuccio. Piovono mille pezzetti di carta. Coriandoli di parole.
Parole che raccontano i miei silenzi. Ma non hanno trovato il coraggio di prendere il volo, e ora giacciono lì, sul pavimento.
Parole sostituite dal silenzio di un foglio in bianco.

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