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Vianello Guido
Ho lavorato oltre trent’anni in una grande azienda, 21 dei quali come dirigente.
In pensione da qualche anno mi sono dedicato alla scrittura ed è prossima l’uscita del mio primo libro di racconti gialli. Vivo a Mestre con moglie e due figli e da oltre vent’anni passiamo le nostre vacanze estive a Cavallino.
Ancora nebbia a Nord-Est





La causa di quell’ingorgo serale era davvero singolare: all’incrocio, il vigile stava dando la precedenza ad un corteo funebre che seguiva solenne l’auto con la bara.
“Un funerale all’ora dello spritz” si sorprese Giuliana, da qualche minuto in coda al semaforo. Le piacque immaginare che quell’orario inconsueto rimandasse a un defunto importante, una persona eccentrica che aveva voluto per sé un addio di visibile originalità.
Alla radio, il meteo prediceva “banchi di nebbia di particolare intensità, nelle regioni nord -orientali”. “Tanto per cambiare” commentò tra sé.
Il verde tardava ad arrivare e il suo sguardo andò a posarsi su una coppia di ragazzi seduti ad un pub, a bordo strada; sopra il tavolino, scorgeva i bicchieri vuoti degli aperitivi.
Osservò con curiosità l’invadente ciuffo di lui e i diffusi piercing di lei, infilati tra le narici e lungo le sopracciglia. Era inevitabile notare come i due giovani, pur così vicini, sembrassero ignorarsi del tutto, smarriti nei labirinti dei loro smartphone.
“I ragazzi di oggi sono assenti, non comunicano più: in cambio twittano molto” constatò Giuliana, con un’ombra di rassegnazione.
Il pezzo di Tiziano Ferro che aveva messo come suoneria partì all’ improvviso e lei apprezzò una volta di più il calore di quella voce. Sul display apparve scritto “Luca”: eccola, l’altra metà della sua coppia!
Spense la radio, prima di rispondere: “Guarda, sono per strada, il traffico era bloccato ma ora stiamo ripartendo. OK, ci vediamo direttamente là”.
Nel riavviare l’auto, i pensieri indugiarono sul suo compagno; da qualche tempo lo vedeva pensieroso, c’erano gli affari, il mobilificio, questa crisi che non voleva passare…
Per fortuna le era venuta l’idea della cena giapponese: sarebbe stata una serata diversa, un’occasione per distrarsi.
Andò alla ricerca di un pensiero felice e le tornò in mente la sera in cui, per togliere Luca dal suo umore grigio, aveva voluto stupirlo con qualcosa di speciale: un menù ispirato nientemeno che a ricette afrodisiache, tratte da un libro di una famosa scrittrice sudamericana.
Tutto di quella cena era stato perfetto: dall’apertura con l’insalata di pere, tagliate a fette sottili e preparate con il crescione e le noci spellate, fino alla mousse di cioccolato, guarnita di “baicoli” secchi veneziani; passando per il piatto forte, un’imperiale zuppa di pesce molto speziata, con gamberi e frutti di mare, che per prepararla si era presa un giorno di ferie!
Sarà stato davvero merito degli ingredienti o forse dei frequenti calici di prosecco millesimato, fatto sta che gli… effetti speciali - sorrise tra sé -  c’erano poi stati davvero. Durante l’amore, Luca quella volta era stato magnifico, aveva fatto in modo che fosse lei a condurre il gioco, corrisposto ogni sua iniziativa.
“Se sapevo che funzionava tanto alla grande, questa cena te l’avrei preparata molto prima!” aveva scherzato e lui aveva riso: “Manco io immaginavo che i frutti di mare mi avrebbero fatto questo effetto! Domani andiamo in pescheria a comprarne qualche chilo!”.
Ma dov’era questo ristorante giapponese? Di sera e con la foschia che cala veloce, perdersi nel dedalo dei cartelli gialli e neri dell’area commerciale è un attimo. Ecco, forse vedeva l’insegna: “Asahi Sushi Restaurant”, sì finalmente era arrivata.
Controllò il trucco nello specchietto retrovisore: poteva andare. Scese e si diresse spedita verso l’ingresso.
Lui la stava di sicuro aspettando all’interno del locale.
Dopo la telefonata della Polizia, si era recata sul posto con tutta la fretta possibile, dato che sulla Statale la nebbia era ormai fitta.
Luca lo stavano portando via con l’ambulanza, a sirene spente.
Osservò attonita il muso devastato dell’auto, spaventosamente adagiato sul grosso platano a bordo strada.
“La nebbia e la notte l'hanno tradito. Andava molto veloce, signora” aveva spiegato l’agente. Aggiungendo poi, composto: “Non ha rallentato nemmeno imboccando la curva”.
Sconvolta, si aggirava intorno alla macchina, come in un incubo. Quando lo sguardo le cadde sulla borsa di pelle marrone posta sul sedile posteriore, aprì la portiera e, facendosi forza, la prese.
Insieme ai quotidiani, c’erano vari documenti, lettere di fornitori, commercialisti, banche… Estrasse una cartellina rossa e ne lesse l’intestazione: “Tribunale di Treviso - Mobilificio Nuovo Design s.r.l. - Ricorso per fallimento”.
Il fiato le mancò. Luca non aveva mai accennato a niente del genere, non le aveva mai parlato di un evento tanto sconvolgente! Angosciata, sfogliò gli atti giudiziari: si capiva che il fallimento a giorni sarebbe stato confermato dal giudice.
Tornò con il pensiero alla serata appena trascorsa, tra sushi e sakè: avevano chiacchierato, lui sembrava tranquillo.
Le aveva raccontato dell’immenso mercato ittico di Tokio, di come selezionati cuochi giapponesi sappiano preparare il fugu, il pesce palla del Pacifico, squisito ma velenosissimo, specie nel fegato e negli organi sessuali femminili.
“Qui da noi l’hanno vietato perché se le interiora non vengono pulite perfettamente questo pesce porta a sicuro avvelenamento” - aveva spiegato - “In Giappone invece ha ancora tanti estimatori”.
“Ma scusa, perché lo mangiano se è così pericoloso?” aveva chiesto lei.
“È un modo per sfidare la morte”. Quell’esitazione di Luca, prima della risposta, le era apparsa indecifrabile.
Eppure – ora lo capiva -  proprio in quel fugace attimo di silenzio, stava l’indizio che non aveva saputo cogliere, la chiave che, per un istante, Luca le aveva fatto inutilmente intravvedere.
La luce gialla dell’unico lampione visibile appariva come racchiusa in un involucro di densa oscurità e gli alberi intorno protendevano i loro rami nel buio spesso e progressivo, come braccia alzate in una resa silenziosa.
Barcollando sui tacchi, si diresse verso la sua auto, ma presto si arrestò in mezzo alla strada, accucciandosi in un pianto disperato.
La fine di Mondo




“Mondoo… Moondooo… torna a casa che fa scuro…”.
Il richiamo stridulo di sua nonna suonava inconfondibile. E lui dove stava? Ah, sì. Seduto su un ramo, tra le fronde dell’amolo.
Braghe curte e gambe sgrafae. A magnar prugne robae dai alberi. Co’ Radames.
“Ma che nome xe Radames?”
“El xe cavà da la Ida”.
“E cosa saria ‘sta Ida?”.
“Un’opera lirica che ghe piase a mio pare. E ti alora, che ti te ciami Mondo?”.
Già. Avrebbe impiegato novant’anni a spiegare agli altri che quello era il suo nome. Non un abbreviativo di Raimondo, Edmondo o simili. Mondo, e basta.
“Mama, ma perché me ciamo Mondo?”.
“Vol dire neto, amor mio, puro de animo. Me lo gà spiegà el paroco”.
E Radames dov’era adesso? “Ah sì, me ricordo, el xe morto in Russia, co’ l’Armir. A vintidò ani”.
Lui invece ce l’aveva fatta. La guerra in Dalmazia, a Ragusa, che pareva d’essere a Venezia: “Contro i partigiani jugoslavi, co ghe gera da far robe tanto brute, ghe pensava i tedeschi.  E in libera uscita fassevimo el bagno sui scogli…”. Sorrideva, rievocando quegli spicchi di serenità nella tragedia della guerra.
L’otto settembre, la cattura, la prigionia. Quasi due anni, in un lager vicino Danzica, là dove tutto era iniziato.
“Ostwall! Ostwall!”, aveva ancora nelle orecchie quelle urla terribili, mentre li caricavano sui treni diretti al fronte orientale, come prigionieri di guerra.
“Per la precisione eravamo IMI, internati militari italiani. Dopo però, tuti ne ga desmentegà”.
Poi, la Liberazione. Una nuova Italia da costruire, le città con le fabbriche, il benessere.
E Antonietta? “’Na brava mujer, la xe morta qualche ano fa, poareta. Mi so restà solo”.
I figli: “Chissà dove che i xe adesso...”.
La solitudine. Tanta, troppa… anche per uno che ha visto i lager.
“Alzati amico! Vieni, che è l’ora! Su, sveglia!”.
Uno dei due ragazzi biondi, piegato su di lui, con delicatezza lo stava scuotendo per una spalla; quell’accento dell’est, lui lo conosceva bene…
Seduto in un angolo del gradino, aprì gli occhi senza muoversi: “Ma dove semo? Chi xe tuta ‘sta gente? ‘Sti foresti che fa la coda?”.
“Dai, che i frati stanno aprendo la mensa. Si mangia!” ribatté entusiasta il giovane straniero, avvicinando alla bocca le estremità riunite delle dita.
“E voialtri dò, chi sé? Sé i russi? Sé vegnui a liberarne?”. Parlava a fatica, come chi viene abbandonato dalle forze.
Prima che l’altro potesse ribattere, il suo compagno lo fermò, appoggiandogli una mano sul braccio.
“Sì, nonno” sussurrò poi a Mondo, in tono dolce, quasi paterno, “siamo i russi. È tutto finito, ti portiamo a casa”.
Lui chiuse di nuovo gli occhi: “‘Desso vegno, nona!” mormorò e sul suo volto si fermò un sorriso.
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