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Zacchi Maria Pia
Nasce ad Albenga (SV) ed attualmente vive nell’entroterra, in mezzo a un bosco di ulivi, con suo marito ed i suoi cani. Dopo un passato di ghost writer, scrittrice di testi scolastici e correttore di bozze, oggi insegna in una scuola elementare e si dedica a corsi di scrittura creativa, nonché alla stesura dei suoi romanzi, alcuni pubblicati per editrici di Milano e Albenga... Da tutto ciò scaturiscono  idee a fiotti... Finora ha scritto 18 romanzi...‘IL CIELO FRA GLI ULIVI’...“UN SECOLO D’IERI E DI DOMANI” ...“INCUBO A SCUOLA”...
Gigi Galosse



Mio suocero, che ho molto amato, un friulano della laguna, nato in barca - per così dire - e cresciuto con la fiocina in mano, si chiamava Luigi, ma tutti lo conoscevano per Gigi. Anzi, al suo paese gli avevano affibbiato un nomignolo: Galosse.
Era stata la nonna a comprargli alla fiera di San Vio un bel paio di galoche color acquamarina, di due numeri più grandi, in previsione della crescita, ma solide, tanto da sostenere la vivacità di quel bambino magro e nervoso. Le aveva portate a Luigi senza un sorriso, perché lì la gente sorrideva poco, porgendogliele con negli occhi una mesta tenerezza. Gigi aveva borbottato un "grazie", le aveva infilate sui piedi nudi, ci aveva fatto qualche passo tanto per saggiarne la resistenza ed era schizzato via, a grandi salti, simile a una rana.
Era il primo regalo che riceveva dacché era nato.
La nonna era rimasta a guardarlo sparire negli acquitrini della laguna e quando non lo aveva visto più aveva girato le spalle e se n’era tornata alla casa sul canale, vicino al ponte mobile che costituiva l'unico legame con la terraferma, e lì si era accoccolata presso il fuoco spento, con la testa grigia fra le ruvide mani use a rattoppar reti. Aveva sospirato e chiuso gli occhi, per sempre.
Quella sera Gigi, rientrando tutto fradicio dalle nebbie del canneto, si era fermato alla sua porta con le galoche in mano. Aveva bussato, sospinto il battente, ascoltato il silenzio, annusato il freddo umido dello stanzone buio.
Perché la nonna non rimestava nel pentolone?
Nel focolare non ardevano ciocchi. La vecchia immobile gli girava la schiena. Il bambino le si accostò, posò la sua manina sulla guancia di lei, ma gli sembrò di toccare un bovoletto appena pescato e fremé,  ritraendosi con un lampo negli occhi selvatici, piccoli e chiari.
Non disse nulla. Arretrò, inciampò, gli cascarono le galoche azzurrine, le riprese, volò verso casa. Doveva dire! Doveva chiamare !... Abitava all'altro capo del canale. Coprì la distanza in quattro falcate. Spalancò l’uscio con un calcio, il respiro mozzo. Piombò in mezzo al cucinone lasciando una striscia fangosa dietro di sé. Fece per urlare:" La nonna!..." Ma il primo manrovescio che gli assestò sua madre gli chiuse la bocca e il nerbo di bue di suo padre ne deviò i pensieri.
“ Perché ho un figlio così?! Tutto il giorno che ti cerchiamo! E queste? Cosa sono queste?”
L'uomo voleva afferrare le galoche. Gigi, con una sorta di ruggito, le strinse a sé, aprì la finestra e a balzi, simile  ad un animale ferito, sparì nell'oscurità che ormai pervadeva la veneta laguna.
“ Perché ho un figlio così?!”. Il lamento del pescatore si perse nella ninna sciabordante dell'onda contro la riva. Ogni tanto il tonfo di un pesce, il roco richiamo di qualche uccello notturno, l'abbaiare di un cane. Voci, lanterne lontane. Le solite cose, la solita vita grama, l'odore salso, i fiaschi di grappa a infondere nel sangue una parvenza di calore, l'echeggiare degli zoccoli sul selciato.
“ Perché ho un figlio così?!” Poldin dai rossi capelli non riusciva  a capire dove sbagliava, cosa poteva fare per domare quel bimbetto di nove anni nero e selvaggio, forte e instancabile, tanto diverso da lui, che era pacato, giocoso, e da sua moglie Salute, sempre così seria e precisa.
Gigi non conosceva freni, se non quelli di una giustizia le cui regole e i cui dogmi sembravano essere stati scritti da lui stesso contro tutto il resto del mondo.
Leopoldo sperava di raddrizzarlo pestandolo ogni giorno, con metodo, senza cattiveria. Gigi incassava. Parlava pochissimo. Qualche parola con la nonna, le necessarie col padre, nulla con madre e sorella. Vagò tutta notte reggendo nelle mani le galoche. All'alba, sotto un cielo grigio piovoso, si riavvicinò alle case e spiò l'andare e venire da quella di sua nonna. Sentì la mamma, che come ogni alba aveva portato il latte alla suocera, piangere; le comari gemere mentre correvano qua e là concitate. Vide Poldo arrivare col berretto in mano a testa china e gli amici che facevano cerchio attorno a lui, scuotendo il capo.
Gigi si guardò i piedi nudi incurante del freddo, guardò le galoche, si appoggiò al muro e con calma le calzò, quasi compisse un rito.
Per quel giorno, quando rientrò, a nessuno venne in mente di suonargliele di santa ragione. Si rifecero il dì seguente, ché si rifiutò di togliersi le soprascarpe azzurre e di mettersi gli scarponcini di cuoio (quelli della cresima, custoditi in una scatola color zabaglione e tirati fuori a Pasqua e a Natale) per seguire il funerale.
Poldin gli ripassò le spalle con le cinghia, Salute gli tirò gli zoccoli di legno: tutto senza risultato. Cupo e caparbio, Gigi pedinò il corteo a distanza di sicurezza, trascinando le galoche troppo grandi e reggendo gli sguardi che di tanto in tanto il padre incrociava coi suoi, occhiate che parevano ripetergli “ perché un tal figlio?” e promettergli fulmini e saette quando - sarebbe ben giunto il momento! - lo spazio che li divideva si fosse accorciato.
Gigi ricambiava il muto dialogo con quel suo muso di sfida che mandava tutti in bestia, nessuno escluso. Con l'immobile pazienza di una roccia, aspettò sul sagrato la fine della Messa. Dalla riva salutò in cuore suo la processione di barche che conduceva la nonna sull'isola del cimitero.
I remi pagaiavano nell'acqua liscia del canale. Leopoldo mordeva la berretta. La sorellina si soffiava il naso.
“ Che hai ai piedi, Gigi? - sentì più voci sghignazzare alle sue spalle. - Che ci fai con quelle ‘galosse’?”
Il bambino respirò a fondo.
“ Gigi ‘galosse’! Gigi ‘galosse’! - le voci dei ragazzetti stridevano alte nella nebbia. - Gigi ha le ‘galosse’! Gigi è una Gigia! Che? Hai paura dell'umidità? Poverinooo!”
Non gli occorse molto per scattare ed afferrarne uno, uno nel mucchio, buttarlo a terra e cominciare a pestare. Gli altri, colti alla sprovvista, si dispersero; ma riorganizzatisi, tornarono all'attacco e – uniti - riuscirono ad agguantarlo e a spiegargli due cosette.
A turno, ognuno lo sistemò per benino mentre i compari lo tenevano fermo.
Quando si stufarono, Gigi si trascinò fino a casa. Non visto salì le scale e si buttò sul pagliericcio, macchiandolo di sangue.
Sentiva dolore ovunque, ma non era quello che gli importava. Gli importava delle ‘galosse’, ben sistemate ai piedi del letto. Ecco, ormai Gigi era Gigi Galosse. GALOSSE: questo secondo ho nome gli piaceva talmente tanto che avrebbe persino scordato l'accaduto se,  il mattino seguente, il padre di uno dei ragazzetti non si fosse preso la briga di venire da Poldo a chiedere giustizia poiché “ Gigi Galosse - disse proprio così - aveva fatto nero Zanze”.
Poldo, rispedito sbrigativamente l'uomo, andò in camera, acchiappò il bambino per le orecchie e gli assestò un paio di pedate.
“Che hai fatto, eh? Cosa?!”, gridò.
Gigi saltò su tremando di rabbia e gli urlò, puntando l'indice verso il proprio viso: “Guardami!”
Il pescatore ebbe un fremito, accorgendosi del faccino tumefatto. “ Le hai prese, ma lo ha hai provocato”, borbottò, facendosi forza per non cedere alla pena.
“ Chi? ZANZE? Erano in sette, e mi tenevano!”

Il padre ristette un attimo, il tempo di scacciare definitivamente la pietà. “ Zanze è sempre stato ubbidiente”, replicò a bassa voce, come se questo avesse potuto spiegare ogni cosa.
Gigi dilatò le pupille, le guance gli si tesero, dalle narici parve uscire davvero un fumo denso e nero.
“Va bene, - assentì. – Farò da solo”.
“Cosa? Cosa farai?!”
“So io”.
“Tu non sai niente! Da domani vai in mare e ti guadagni il tuo. T’ho finito la barca piccola”.
“Da domani mi guadagnerò il mio. E aggiusterò da solo le mie faccende”.
“Dovrai fare i conti con me”.
Padre e figlio si fronteggiarono. Padre e figlio. Poldo: un uomo chiaro e allegro. Ancor oggi, quando mi parlano di lui, vibra l'affetto nel ricordo di chi lo ha conosciuto. Scherzoso, innamorato della moglie, gran lavoratore, nonno esemplare. Gigi: Gigi color carbone, Gigi col mare negli occhi, un mare violento, in tempesta. Gigi incontenibile, troppo diverso, troppo difficile da capire. Gigi che quando entrai in casa sua mi accolse come una figlia. Gigi che corse a seppellire il mio cane un giorno triste in cui gli chiesi aiuto. Gigi che ha allungato la lista di chi mi aspetta lassù, andandosene quando non stavo vigilando…
Eccolo, Luigi, che sfida suo padre. Da quel momento non ci fu più tregua. Le imprese di Gigi, detto il Galosse, misero a  soqquadro il paese che solo un ponte mobile legava alla terraferma, liaison evanescente e delicata.
I sette ragazzetti conobbero tempi duri. Gigi non aveva fretta, sapeva aspettare. Armato della sua forza fuori dell'ordinario, pescò i primi due all'uscita della scuola e gli regalò dieci giorni di vacanza. Un terzo lo vide sgattaiolare dal cinema e anche lì furono stelle, ma non precisamente di Hollywood. Li affrontò insieme, all'approdo, giusto per chiudere la questione, ma quelli si spaventarono e preferirono gettarsi in acqua e farsela a nuoto. Lui li lasciò andare: “ Non ci ho gusto a pestare i codardi”.
Gli mancava ormai solo Zanze.
“Attento, Zanze ! - gli dicevano in paese. - Gigi Galosse ti cerca!”
Zanze tremava e la cosa faceva un po' ridere, perché era almeno due spalle e più grande di quel bimbetto nero in erboso. Ma tant'è!
“Stai in guardia, Zanze! Il Galosse non perdona!”
Zanze non riusciva nemmeno più ad andare a scuola e il padre tornò da Poldo a lamentarsene, Gigi presente.
“Di cosa ha paura, Zanze? - disse Gigi tranquillo.- Quando mi pestava mentre gli altri mi tenevano mica se la faceva sotto!”
Poldo taceva. L'altro andò via sbattendo la porta.
“Lascia perdere, figlio”, borbottò Poldo.
Gigi sorrise, gli occhi che erano due onde dell'Adriatico, i riccioli neri di traverso sulla fronte abbronzata.
Alla fine Zanze dovette ben uscire di casa! Fu il giorno della festa patronale, giorno di fiera, la processione di barche e Zanze chierichetto, tutto bardato di pizzi, ombra del parroco - presenza rassicurante, perché Gigi non avrebbe osato, no, non era possibile, davanti alle pie donne, alle figlie di Maria col velo celeste … c'era pure sua sorella … no, non avrebbe avuto il fegato o la sfrontatezza, non stava bene, che diamine … c'è un limite a tutto!
Zanze, a passi goffi, l’incensiere in mano, sorrideva come chi vuol mostrarsi sicuro e sicuro non è. Si trovava nella stessa condizione del capretto che i cacciatori legano al margine della giungla per attirare la tigre. Al pari del capretto, aveva così tanta paura che, pian piano un rivolo caldo gli scese giù giù per le gambe, bagnandogli i pantaloni.
Non lo vedeva, ma sapeva che Gigi Galosse vedeva lui. E quando fece per porre piede sul barcone del prevosto, dietro a San Vio tutto ceri e giunchiglie, non gli occorse girare la testa per capire quel che stava accadendo: un urlo disumano e sprofondò nei verdi liquami del canale, coi pizzi che si gonfiavano a campana e le bolle che gli uscivano dalla bocca. E sott'acqua, attaccato a lui, c'era Gigi, Gigi più pesce che cristiano, che gli parve uguale uguale a un barracuda, posto ne avesse mai incontrato uno.
Fu così che la processione s'interruppe, con gran diletto degli uomini e gran scandalo delle donne. Poldin e il padre di Zanze si tuffarono, ognuno per recuperare il proprio erede, e non sto a dirvi come si concluse la giornata per Gigi: penso sia chiaro.
Il seguito venne la domenica, alla messa grande, e questo sì che bisogna raccontarlo!
Alla predica, Don Antonio - famoso fustigatore di pecorelle smarrite - riprese pubblicamente Gigi Galosse per i fatti avvenuti, intimandogli di ravvedersi, pena l'esclusione dalla settimanale lezione di dottrina.
Poldo ordinò al figlio di andare a scusarsi.
“No, non ci vado. Il prete non doveva rimbrottarmi davanti a tutti. Doveva parlarmi a tu per tu, da uomo”.
“Ma tu sei un bambino!”
“Per valgo come un uomo. Non sono più un bambino: sto in mare tanto quanto voi”.
Insisti insisti, Poldin riuscì però a spingere il figliolo ad andare a porgere quelle roventi scuse e Gigi entrò una sera in sacrestia per fare, a malincuore, ammenda. Entrò in silenzio, com'era abituato, e nella semioscurità vide il parroco tutto intento smaneggiare la perpetua, ch’ era una vedova detta ‘Muset’, non tanto per una qualche somiglianza col nobile animale da prosciutti, quanto per le spiccate (e non altrettanto nobili) doti di allegria morale.
Gigi Galosse osservò, annotò e scivolò fuori, zitto zitto come se n'era venuto.
Giunse un'altra domenica e il bimbetto corse a messa e si sedette in prima fila. Alla predica, implacabile come una piaga d'Egitto, Don Antonio proruppe: “ Sto aspettando le tue scuse, Luigi! Non ti vergogni di stare nella casa del Signore con la coscienza sporca?”
Gli occhi di Gigi ridevano. “Non più di quanto ti vergogni tu a stare con le mani sulle chiappe della Muset! - esclamò. – Vi ho visti bene, l'altra sera, quando sono entrato in sacrestia per scusarmi. E adesso? Come la mettiamo?”
Quella non fu ciò che può definirsi una domenica tranquilla. La perpetua si sentì male e svenne. Il parroco scacciò Gigi dalla chiesa, ma tempo dopo fu il vescovo a cacciar via lui. Poldo rispolverò il nerbo di bue, ma in cuor suo aveva tanta voglia di farlo assaggiare anche al prete.
La Salute non sapeva più da che parte prendere quel suo figlioletto. Pensa e ripensa, sembrò che la soluzione migliore fosse rimandarlo a scuola, anziché sulla barca; idea che fu prontamente attuata: ad ottobre Gigi, armato di cartella e di galoche, tornò sui banchi di legno consunto che aveva lasciato l'anno precedente (senza molti rimpianti) per prendere la via del mare.
Suo muto compagno di banco era Zanze. Nessuno, del resto, osava fiatare col severissimo maestro Pinot, armato, a mo’ di sussidio didattico, di una bella verga di salice, che fiondava  improvvisa su spalle e su mani. Mantenere la disciplina in classe, con quel sistema, non costituiva un problema.
Tra Gigi e il maestro non poteva correre una gran simpatia. Per giunta, Pinot non era simpatico proprio  a nessuno, neppure all'Alvise, il figlio del signor Tosin, che era sempre paludato in un completo blu di Prussia fatto a mano, indossava scarpe di capretto e prendeva dieci in tutte le materie, anche quando non sapeva un piffero, perché suo padre mandava a casa del maestro certe ceste colme d'ogni ben di Dio che nemmeno alla corte di Cecco Beppe se n'erano viste di eguali!
Gigi si era ripromesso di lavorare sodo a scuola, per dimostrare a suo padre che non sapeva solo darle e prenderle, ma che valeva anche lui qualcosa. Aveva promesso a Poldo  di soprassedere alle provocazioni e di usare la propria energia per studiare. “Ce la farò”, si ripeteva, convinto.
Per un po' le cose andarono benino. I giorni correvano via tra libri e quaderni. Ogni tanto Gigi lanciava uno sguardo di nostalgia al libero mare, poi riprendeva a compitare i verbi e a mandare a mente gli affluenti del Po. Anzi, Zanze e lui arrivarono al punto da aiutarsi a vicenda.
Poldo era soddisfatto. Salute si chiedeva quanto sarebbe durata.
Infatti non durò.
Si era verso Carnevale quando ad Alvise nacque l’ideuzza di giocare un brutto scherzo al maestro, che si era appena comprato un loden al mercato di Udine e nel tempo libero passeggiava in su e in giù lungo i canali deciso a mostrare a pesci e cristiani il suo ultimo acquisto.
Alvise non sapeva architettare scherzi, ci vuole genio per farlo. Non aveva nemmeno senso dell'umorismo, povero Alvise, ma si studiò di darselo e tutto da solo costruì un marchingegno di corde e cordicelle cui era sospeso un calamaio colmo d'inchiostro indelebile che, non appena il maestro avesse aperto la porta dell'aula, avrebbe dovuto rovesciarglisi sulla zucca tonda e pelata, ‘sì da cambiarla da rosea in nera.
Che razza di risultato si aspettasse l’Alvise da tutto ciò non è dato sapere. L'unica cosa sicura è che la porta si aprì e il calamaio versò con diligenza il proprio contenuto, ma non sulla testa lucida e un po' sudata del maestro Pinot, bensì sul bel cranio plurilaureato del signor Direttore, che non gradì e diventò paonazzo pari pari al venditore di cocomeri che arrivava ogni anno al paese quando il sole d'agosto faceva sragionare persino le granseole.
Tutti gli occhi si levarono di scatto puntandosi sull’ Alvise, che pareva lì lì per esser vittima di un coccolone. Ma il maestro emise un respiro ad effetto ed esplose:
“ E’ STATO LUIGI, LUIGI GALOCHE!”
Trentanove occhi si girarono repentinamente verso Gigi, sul cui volto era comparsa un'espressione di sincero stupore. Alvise sgonfiò, affranto.
“Ebbene? - gorgogliò il maestro, orgoglioso di sé. - Cos'hai da dire, Luigi?”
Il bambino si strinse nelle spalle. “Non sono stato io, maestro Pinot”,  rispose calmo, scuotendo i riccioli neri.
“E’ naturale che tu dica così. Ma, visti i precedenti, l’unico delinquente fra i miei alunni sei tu. Pertanto sei di sicuro il colpevole e ne pagherai le conseguenze in modo doppio: per ciò che hai escogitato ai danni del nostro stimato signor Direttore e per non esserti costituito quando te ne ho offerto l'occasione. Sei  come la peste bubbonica e sei un vile”.
Zanze, a tali parole, ebbe uno scatto. “Maestro, - bofonchiò, - veramente io so chi è stato. Non è stato Gigi Galosse, è stato …”
“Zitto, figliolo. È onorevole da parte tua difendere un compagno. Qualunque cosa tu dica, sappi tuttavia che non vi crederò. Conosco la mia missione, conosco i miei allievi e so cosa si agita le loro menti.”
“Grazie, Zanze,” sussurrò Gigi. Poi ascoltò impietrito tutta la sfilza di idiozie che il maestro gli riversò addosso. Ed era tanta la rabbia verso quell'uomo, che il suo fegato aveva voglia di esplodere.
Alvise piangeva, seduto al suo posto, ignorato dagli altri, presi dall'osservare Gigi, le cui reazioni, nessuno ne dubitava, sarebbero giunte assai presto.
Fu chiamato Poldo, per comunicargli che, in seguito a tanta bravata, il figlio era sospeso da scuola. Poldo riportò a casa ragazzino e con coscienza gli spolverò spalle sedere col nerbo di bue, alle lacrime della madre che ripeteva: “Perché un figlio così?”
“Domani torni in mare”, decise il pescatore, sedendosi stanco davanti al brodetto fumante.
“Sì, ma prima devo regolare un conto”, replicò Gigi, affondando il cucchiaio tra il pesce della zuppa, che schizzò torno torno sul desco. Poldin non disse nulla. Abbassò la testa rossa sul piatto, cupo, e non fece i soliti scherzetti con la mollica di pane alla moglie e alla figlia.
Alle otto del mattino seguente Gigi Galosse era fermo davanti all'ingresso della scuola. Arrivò il maestro, nel suo loden nuovo, ostentando di passare oltre senza vederlo.
“Maestro Pinot! - gridò il ragazzo. Si era tolto le galoche azzurrine e infilato gli zoccoli. – Questo è perché sono un delinquente! - e gli sferrò un gran calcio nel ginocchio sinistro che si sbriciolò.
Urlando di dolore, il maestro cadde in terra, mentre il bidello correva il suo aiuto.
“Delinquente! Delinquente!”, strillava.
“Sì, - ammise Gigi, serissimo, - sono proprio quello che tu vuoi.” E, girategli le spalle, se ne andò senza fretta alla barca, le galoche sottobraccio, alle reti, alle fiocine, al libero mare.
Tante e tante furono le imprese di Gigi Galosse nella laguna di Marano, là dove cielo e mare sono tutt'uno e gli uomini costruiscono casoni di canne per cacciare le anatre.
Gigi non aveva confini, proprio come quelle acque che sembrano piatte, statiche, ma che nascondono la poesia di un mondo le cui nebbie si intessono alle passioni dei cuori, intorbidandole.
Gigi crebbe, diventò un giovanotto agile e nerboruto, dai ricci corvini e dagli occhi color dell'Adriatico. A diciotto anni se ne andò a cercare fortuna. Obiettivamente, lì al paese non aveva più nessuno da ripassare…
Poldin gli donò il nerbo di bue e con quello in valigia Luigi emigrò in Svizzera, poi arrivò in Liguria, dove nacque colui che sarebbe diventato mio marito, un tipo rosso e pacioso com'era stato Poldin.
Tante e tante volte ho ascoltato Gigi narrare queste storie. Tante e tante ho cercato di penetrare il segreto della sua infanzia, il tempo che costruisce ciò che poi saremo.
Fino all'ultimo,1 che di selvaggio e di assoluto è rimasto nella natura di mio suocero. Infine la sua vita ha sfogliato l'estrema pagina ed ora egli è nell'eterna laguna dove ognuno, finalmente, scopre la verità su se stesso. Là è in buona compagnia: ci sono Carmen la bresciana, Renato il calciatore, Ofelia l'appassionata, nonno Ettore l'infermiere. Quanti!
Mi piace pensarli tutti di nuovo bambini, liberi di godere un'infanzia senza incomprensioni né violenze, belli, felici, avvolti d'amore. Insieme.

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