Da un paio d’anni scrive memorie di famiglia per i nipoti e raccoglie testimonianze venete del 1900.
Dopo nove lunghi anni di fidanzamento, si coronava il loro sogno d’amore.
“Mamma Cassa”, la Cassa di Risparmio di Venezia, aveva finalmente assunto Nilo in “pianta stabile” e lui poté quindi, a buon diritto, metter su famiglia. Giovannina lavorava da tempo come commessa nella tabaccheria della signora Fontana, alla stazione Santa Lucia, ma il suo impiego non dava sufficienti garanzie, da solo, per sposarsi, dato che all’epoca il licenziamento era una semplice e inappellabile discrezionalità del datore di lavoro e spesso arrivava, come infatti arrivò, alla prima gravidanza. E poi si trattava di lavoro femminile, mentre era doveroso che fosse il capofamiglia, cioè l’uomo, a contare su un impiego sicuro. Per soddisfare tale requisito, economico e morale al tempo stesso, fu necessario attendere lunghi anni, il che portò l’età della sposa e dello sposo, rispettivamente a 28 e 33. Per loro, come per la maggior parte delle coppie dell’epoca, il matrimonio era un obiettivo primario a cui tendere con passione e desiderio, e a cui si arrivava a prezzo di grandi sacrifici.
Una casa di proprietà non c’era, ma mamma Isetta, vedova, mise a disposizione la camera matrimoniale del suo appartamento in affitto al 241 del sestiere di Santa Croce, ritirandosi nella stanzetta più piccola. Una “sbianchizàda” , un copriletto nuovo, due fioretti sul comò e il talamo fu pronto. Il vestito della sposa è a tre quarti: “longo fin dove che rivàva i schei” , e il mezzo di trasporto non certo una fastosa gondola de “casada”, piuttosto una semplice “lancia”, pur con tutti “ i so paréci”. Ma il grande orgoglio entusiastico degli sposi stava nell’aver ottenuto il permesso di celebrare alla Madonna della Salute, la chiesa per antonomasia dei veneziani, e ciò grazie ad un amico di studi di Nilo, che era diventato un pretino importante. Sì, perché la Salute non era chiesa parrocchiale e quindi i matrimoni ivi celebrati erano vere eccezioni. L’atto fu poi trascritto nel registro della vicina Chiesa di Santa Maria del Rosario, vulgo “Dei Gesuati”, alle Zattere dove è conservato ancor oggi.
La data scelta e sognata fin dai primi tempi del fidanzamento fu il 25 aprile, orgogliosa Festa di San Marco, festa del “ bòccolo” per gli innamorati veneziani, ma soprattutto festa “de la Liberassion” , come racconto’ , anni più tardi , alle figlie, mamma Giovanna, scoppiando in una fragorosa risata mentre papà Nilo arrossiva: per Liberazione, infatti, non intendeva soltanto il grande anniversario nazionale, all’epoca unanime e indiscusso, ma anche la più prosaica liberazione dall’obbligo religioso della verginità. “Prima si fa il nido e poi si depongono le uova, come insegnano gli uccellini”, raccomandava alle figlie, e l’unico sistema anticoncezionale sicuro al 100% era l’astensione. “Arrivare vergini al matrimonio -continuò - era anche una dimostrazione di carattere verso lo sposo, di resistenza ad oltranza ai suoi focosi attacchi, oltreché di rispetto verso i genitori”. Così era la morale delle famigliole borghesi e osservanti del Veneto di allora. E quando le figlie, adolescenti del nuovo mondo, osservarono con malizia: -“Ma allora siete andati avanti a fare ‘petting’ per nove anni…”, mamma Giovanna rispose che loro, le corse, le facevano solo per andare a lavorare…
“No, mamma, quello è ‘jogging’ !!”
Sulle questioni sessuali, spesso proposte come materia per barzellette o viceversa come tabù da sussurrare sotto voce, ci fu grande discussione antagonista nelle famiglie degli anni Settanta, epoca di esplosione del femminismo per le figlie e di scandalo per i genitori. Così, quando la giovane Anna sparò le sue cartucce di supposta e vaga emancipazione, sbalordendo i genitori con una efferata collezione di conquiste maschili, vere o immaginarie che fossero, mamma Giovanna, scuotendo la testa, commentò desolata che se li avesse messi tutti in fila, i suoi ”masci”, come vagoni del treno (o qualcos’altro di impronunciabile), sarebbe arrivata a Roma, mentre lei a Roma c’era arrivata in viaggio di nozze con l’unico amore della sua vita e non era poi troppo sicura che la figlia, alla fine dei conti, sarebbe stata una donna più felice grazie ai numeri.
Per il vestito, modello economico spezzato e a tre quarti, fu scelto il color madreperla , ritenuto più appropriato per una sposa attempata, rispetto al bianco ghiaccio, percepito come un po’ sfacciato, più adatto al carattere insolente di una giovanissima che ad una donna ormai matura e responsabile che, tra l’altro, insolente non lo era mai stata. Acconciatura semplice ad incorniciare un visetto acqua e sapone e copricapo marino a nautilus da cui partiva un discreto, simbolico velo. Scarpette decolté rivestite con la stessa stoffa del vestito, come i guanti, unica scelta di lusso in nome di un’eleganza autentica e priva di sfoggio.
Mamma Isetta aiutò Giovannina a vestirsi quella mattina e per l’ennesima e ultima volta la ammonì: -“Giovanna mia, ti xe proprio sicura de torte su quel toso par tuta la vita?” Isetta voleva un gran bene a quel giovanotto che era tornato come un “rovinasso” dalla terribile esperienza della guerra ed era riuscito a trovare la sua strada tenendo fede con gran cuore e serietà al suo impegno d’amore, ma era al contempo preoccupata per quei suoi modi a volte bruschi, a volte ombrosi, che forse valutava come buchi neri pieni di incognite, nel romantico cielo stellato che dipingeva la figlia. Pensava che la sua amata ragazza meritasse un uomo che la venerasse senza esitazioni e che avesse un cuore aperto, buono, generoso e allegro come il suo.
Giovannina, in risposta, alzò le spalle per l’ennesima e ultima volta. Lei addebitava a retaggi familiari certi atteggiamenti ed era più che certa che il suo Nilo si sarebbe arrotondato e addolcito solo grazie al suo amore.
“Dai mama,, el xè un fià rustego ma in fondo el xe tanto bon!”
La stessa domanda e la stessa risposta, pur su esitazioni materne di diversa origine, si ripeterono il giorno del matrimonio delle figlie Rita e Anna, a prova che non è facile ascoltare i genitori, e a riprova che la certezza femminile di ritenersi in grado di risolvere qualunque problema con l’arma dell’amore, genera un’energia che a volte, purtroppo non sempre, produce miracoli. Così fu per Giovanna, così per le figlie, donne fortunate che erano vissute in esempio di bontà e tolleranza in famiglia e forse grazie a ciò, avevano finito per innamorarsi di uomini buoni.
Isetta tacque, finì di abbottonarle la camiciola e fece colare una lacrima di profumo di Violetta di Parma sulla nuca della figlia. La goccia birichina scese lentamente lungo la schiena e si fermò sulla piega d’ingresso delle natiche provocando a Giovannina un prurito insostenibile ma impossibile da grattare nel corso della cerimonia. Soltanto dopo aver detto “Sì” e dopo aver scambiato gli anelli, quando su invito del sacerdote strinse la mano del suo legittimo e la trovò bagnata di sudore, l’emozione fu tale da farle dimenticare il prurito. Un’altra lacrima cominciò a scendere, ma lungo il viso, mentre gli sposi si scambiarono uno sguardo che arrivò all’anima per abbracciarla e dirle: “Sì, ce l’abbiamo fatta!” , mentre si udivano le parole del prete:
“Oggi, 25 aprile, è il giorno sacro delle vostre benedette e fauste nozze, sposi carissimi. Il Signore renda invidiabile la vostra unione; la conservi esemplare fino agli anni più tardi; la fecondi con una corona di santi figliuoli; la sostenga nei dolori e nelle avversità; la alimenti con l’amore che ferma il tempo e pone nei cuori una giovinezza perenne. Vi benedice commosso il Ministro di Dio che ha celebrato il vostro Matrimonio.”
E fu da allora, senza dubbio, un giorno sacro, il 25 aprile, nel privato della famiglia come nel pubblico a cui gli sposi avevano simbolicamente voluto unire il loro destino. Amore e libertà in un solenne vincolo, in un impegno a vita.
Fuori dalla chiesa, una sottile pioggerellina. “Sposa bagnata, sposa fortunata!” Il piccolo corteo di parenti e amici, la partenza in lancia lungo il Canal Grande, la nostra Venezia da favola a fare da sfondo e tanta gente che salutava e ben augurava, dalle finestre dei palazzi, agli sposi di passaggio. Fino all’arrivo all’Hotel de la Gare e Germania, che in tempo di guerra era stato il quartier generale delle SS ed era ora ritornato un semplice albergo per gente in pace, forse un po’ ingenua ma che aveva “resistito”, sofferto, e infine assaporava la libertà festeggiandola unanimemente.
49 invitati per un costo di 1300 lire a testa e un totale di 63.700 Lire, cifra molto contenuta per un menù altrettanto semplice a base di pesce, senza granseola.
Ma prima di tutto, un salto al bagno per liberarsi dal prurito. Un sorriso soddisfatto allo specchio a quella donna che era finalmente diventata “moglie”, una sistemata all’acconciatura. Via il velo e poi la vita cominciò sul serio, nelle gioie e nei dolori, in due e per sempre, mentre il tempo scorreva al di fuori di quel buco nero che, con buona pace di Isetta, conteneva solo amore eterno.
Al ritorno dal viaggio di nozze a Firenze e Roma, la sposa, imbarazzata, scese dal treno in lettiga e così fu caricata in gondola con l’aiuto dei parenti.
Dall’altra parte del canale, affacciata alla finestra, Isetta piangeva premendosi il fazzoletto sul viso e accennando un debole, ansioso saluto di bentornati agli sposi. Le battute ridanciane di Bepi e Nane, i gondolieri del traghetto, sulle condizioni della sposa, si sprecarono durante la breve traversava provocando scoppi di risa nei gruppetti di parenti ed amici su ambo i lati del canale. A nulla valsero le spiegazioni dei novelli, fra rossori e timide parole, su una improvvida sciatica che aveva colpito Giovannina a causa, dissero, dell’umidità!
Il giro al cimitero, a trovare parenti, amici e conoscenti è sempre stato un “must”, come si dice oggi, per la nostra famiglia, un rito irrinunciabile e un’occasione di ritrovo che rinsaldava i rapporti umani fra i vivi, messi umilmente a confronto con i morti ai quali si può parlare solo attraverso la preghiera, la rimembranza ed un mazzolino di fiori. Una gita che piaceva tanto a noi bambine e che facevamo con la mamma soltanto, perché papà preferiva evitare, così diceva, una “ingrumada de fredo”, sostenendo con una risatina, che avrebbe avuto tanto tempo, in futuro, per stare in cimitero a far compagnia agli altri. Mamma rideva e commentava: “Ti ga razon, caro, sta in leto al caldo che te li saludemo nialtre.” Prendevamo il pulmann dal viale San Marco a Mestre, dove la famiglia si era trasferita nel 1962. Mamma mostrava al bigliettaio il suo abbonamento A.C.N.I.L , contenuto in una cornicetta di alluminio e prendeva i due biglietti ridotti per noi. Ci sedevamo nei posti più avanti possibile,vicino all’autista, evitando quelli sopra le ruote che erano più alti degli altri e considerati pericolosi in caso di frenata.
Il mio tram arriva adesso sul Ponte della Libertà e la Laguna è inquadrata su ambo i lati dalle ampie vetrate brunite. Allungavamo il collo, a quel tempo, per guardare fuori dai piccoli finestrini dell’MV, il doppio autobus blu, con la fisarmonica centrale, che collegava il centro di Mestre con Venezia. Quando arrivavamo sul Ponte della Libertà,mamma Giovanna cominciava anche lei ad allungare il collo mentre si accendeva un sorriso sul suo volto: “Ecco Venezia!!” esclamava con entusiasmo come se non la vedesse da tanto tempo, lei che ci andava per lavoro anche due volte al giorno. E aggiungeva: “La mia Venessia! Quanto bea, quanto ben!” Poi i suoi occhi si inumidivano e cacciava giù un singulto. Mia sorella non se ne accorgeva, seduta davanti a noi, occupata a contare i sandoletti e le gondole che solcavano la laguna gelata. Io chinavo la testa nel suo grembo e l’abbracciavo. Mamma si passava un fazzolettino sugli occhi e poi mi sorrideva intonando sottovoce una canzoncina che ci piaceva: “Venezia rassomiglia ad una sposa, vestita di merletti di Burano, sorride fra le gondole festosa, dal Lido alla Laguna, sposi ed amanti buona fortuna” Noi ci univamo al suo canto, ma anziché “amanti”, parola sconosciuta al nostro vocabolario, cantavamo “diamanti”. Lei non ci correggeva. Seguiva il bel ritornello che cantavamo tenendoci per mano, una volta scese a Piazzale Roma, mentre ci incamminavamo: “Voga e va, voga voga e va, Gondolier, vecio gondolier, canta ancor, non posso andar più via, perchè Venessia mia, mi hai fatto innamorar!”
Capitava di incontrare parenti e c’era sempre un pranzo organizzato per le festività, ma la visita al cimitero era faccenda intima e ogni famiglia vi si recava per conto proprio.
Arrivavamo a piedi alle Fondamente Nuove, gelate, fermandoci al Ponte delle Paste per comprare un sacchettino di favette dei morti, dei dolcetti rosa, beige e marroni che mamma infilava nella sua borsetta e che sarebbero stati una specie di premio per essere state brave, al rientro dal cimitero. Prendevamo il motoscafo gremito di persone e di fiori: chi piangeva, chi rideva, un brusio coperto dal rumore del motore e dello scafo che solcava l’acqua densa della laguna fino all’approdo a San Michele. Si scendeva in silenzio nell’Isola dei Morti, dove l’atmosfera rarefatta aveva l’odore nauseabondo di fiori già marciti.
Il percorso in cimitero era un vero e proprio tour guidato fra i sepolcri. Mamma puntava le fotografie dei morti e li faceva rivivere nei suoi succulenti racconti, fatti a voce bassa, per rispettare la sacralità del luogo. Noi tendevamo le orecchie ai suoi sussurri che avevano il sapore di segreti rivelati. “Quel sior lo conossevo, el abitava in Campo de la Lana, el fazeva el Ganser, quanta miseria poareto, ma el gera tanto un bon omo!...la siora Gilda, cara, vàrdela qua, benedetta! Dele volte,in tempo de guera, la ne slongàva qualche tòco de carbon in più par scaldarse...Quel puteo el xè un angelo, compagno de l’angelo de marmo che i gà messo su la so tomba piccenina. Quanti pianti so mama e so papà coi lo ga perso! Robe da ‘ndar via de zàgola e finir coi màti a San Servolo dal dispiassér!” Noi ascoltavamo tutte le storie, chiedendo, a volte, maggiori dettagli. Scoprivamo che i morti non erano stati proprio tutti brave persone, ma adesso erano tutti uguali. Mamma citava Totò e “La Livella” e azzardava qualche commento in uno stentato napoletano. Davanti alle tombe e ai loculi dei parenti, le storie si infittivano. Lì rimanevamo più a lungo, recitando i “L’eterno riposo” mentre lei sistemava i fiori. Immancabile, era la visita alla ricca tomba della Siora Fontana, la sua “paròna” per i dieci anni in cui aveva lavorato alla tabaccheria della Stazione di Santa Lucia. Quella donna ebrea le aveva insegnato il mestiere e quindi meritava un grande rispetto e un affettuoso ricordo, poco importa che l’avesse licenziata dopo sposata, all’annunciarsi dei primi problemi causati da sfortunate gravidanze. Le doveva tanto!
Ogni volta che andavamo al cimitero, si poteva star sicure che ci sarebbe stata una storia nuova e con l’andar degli anni ci venivano rivelate storie di vite inenarrabili, prima, a due bambine, ma adatte, poi, a due adolescenti. Era allora la volta di un distinto signore immortalato con un elegante foulard al collo “...el gera un nobile venessian, ti lo vedevi a la finestra del so palasso, in Campo de la Bragora, co la so vestàgia da camara, impomatà de brillantina sui cavéi grizi. ‘Na bea matina, un vigile lo ga visto sentà fora da ‘na casa de Casteo, col capeo storto sul muso. Lo gà ciamà ma lu no gà parlà. El gèra morto. Pararìa chel fusse morto dentro la casa de ‘na signorina de quee, fatostà che la fantesca lo gà ciapà, lo gà vestìo e lo gà sentà fora dea porta col capeo fracà in testa...”
Prima di tornare all’imbarcadero, attraversavamo la parte più antica del cimitero, quella in cui erano sepolti, mappati per confessione religiosa, personaggi importanti di cui parlava con confidenza: “La Giustina, la nevoda del doge che la gà manda via da casa sò marìo parch’el gera cativo! E la ga fato ben, ostrega!... Leopoldo, un pitor francese chel se gà tagià la gola col corteo parch’el gera scontento. Noooo! Noo savé, putee mie! Qualsiasi dispiassér nea vita, vardè sempre ‘vanti!...Ara qua Giacinto Gallina, la me scuola elementar se ciamava cussì! El stava a Rialto, el scriveva comedie in venessian, da rider e da pianzer!... Vardè, là, dentro quea cassettina co’ quel nome longo, ghe xè un foresto, inglese, me par. El gera tanto un bel toso, vostra nona se lo ricordava ben, chel ‘ndava in giro par Venessia. Ma el gera uomosessuàl, poaréto! “ “No mamma, si dice omo” facevamo noi, signorinette saccenti. “Va ben, queo che xé, ma mi digo che se’l Signor lo ga fato cussì na razòn ghe sarà! E pararìa chel gàbia tanto soferto parchè el voleva farse prete ma i preti no i lo voèva parchèl gèra strambo. In mosca anca i preti! I lo ciamàva Baron Corvo....e Dal Zotto gà fato el monumento de Goldoni in Campo San Bortolomio, ... e Igor el gèra un musicista russo, ...e la Emma Ciardi la gèra sorea de Bepi e i piturava insieme, la siora Gorleri gaveva un so quadreto ...e qua ghe xè Cesco Baseggio, caro, quante ridae, el xè morto che no xè tanto, e Ezra Pound anca se el nome finisse co ‘na “a”, el gera un omo, un scritor, chel stava vissin ae Sàttere.
Tutte persone che avevano avuto Venezia nel cuore. Mamma pronunciava i loro nomi con tono declamatorio ma ad una indagine più approfondita, si capiva che di loro sapeva ben poco. Li riteneva, comunque, degni di ammirazione per il solo fatto di aver amato la “sua” Venezia. Quei nomi rimanevano impressi e le indagini sul loro conto, mi capitò di condurle da sola, in biblioteca, quando ne ebbi occasione. Dopotutto, erano persone che un po’ già conoscevo!
Dal silenzio solitario del cimitero, si tornava a bordo del motoscafo del rientro, pressato di gente con nasi rossi e narici fumanti. Cominciavano a sciogliersi le articolazioni bloccate dal freddo, ci toglievamo i guanti e il berretto. Anche le lingue si scioglievano e cominciava un leggero brusio di voci sommesse. Si incontrava sempre qualcuno che si conosceva e spesso si formavano gruppetti che, appena scesi alle Fondamente Nuove, si infilavano direttamente nel Bar in una calca ancora più pressata che lottava per avvicinarsi al banco urlando da lontano: “un caffè corretto graspa che me slargo el stomego giassà; un’ombra de bianco; un’ombra de rosso; ‘na marsaletta; un vermout; un punch al mandarin; un petrus per l’uomo forte.” Ci si sedeva intorno ai tavolini e gli adulti ciacolavano mentre i bambini sgranocchiavano finalmente le loro favette dei morti. Si sentivano storie di morti recenti e di malattie paurose e allora c’era sempre qualcuno che commentava:”Magna e bevi che la vita xè un lampo!” Arrivavano panini e cicchetti per tutti i gusti e la vita riprendeva.
L’ultima volta che andai al cimitero con la mamma, nel 2002, arrivate in Piazzale Roma, mi mandò a fare i biglietti: “Anna, domandighe al biglietter se se pol far andata e ritorno pal cimitero!” Anche se abbiamo quarant’anni, alla mamma si ubbidisce sempre ciecamente! Me ne resi conto quando mi arrivò la prevedibile, tipica veneziana, ironica risposta: “Ciò! Dipende! Ghe xè chi che fa solo che andata!” E allora giù a ridere tutte e due, mentre lei commentava: “E me racomando, co morirò mi no ste’ pianzer, ve prego! Va ben cussì! Chi more el mondo lassa e chi vive se la spassa, va ben cussì!”
La scuola era finita. Le divise da Balilla e Piccola italiana, col fez e la bustina, furono riconsegnate all’Ufficio del Ministero dell’Educazione Nazionale e per Athos e Giovannina si preannunciava una bella estate di gite al Lido, ma soprattutto alle Vignole, dove Edvige, sorella di mamma Isetta, viveva col marito Antonio Vianello e i tre figli, coetanei dei cugini.
Era stato un anno scolastico triste per Giovannina, quel XVI di Era Fascista: a veva assistito all’allontanamento della sua maestra, l’ormai matura signorina Myriam Calimani, a causa delle nuove leggi che “liberavano” da insegnanti ebrei le scuole italiane. Far prevalere l’amore patrio su quello per la maestra fu un vero strazio per lei, ma era abbastanza intelligente e mansueta da comprendere che una ragione valida doveva pur esserci. L’ubbidienza non richiede tante spiegazioni,, specialmente quando, essendo giovani, non si può sapere tutto. Inoltre, un pessimo esempio di disobbedienza, lo viveva già con una certa ansia proprio all’interno della sua famiglia e si rendeva ben conto di come costituisse un grosso problema per la povera mamma Isetta: Leonida, suo zio e tutore, era socialista e si ostinava a criticare aspramente il Duce, nonostante gli accorati “Te prego, Leonida, i te còpa!” della Isetta. Adorava lo zio, uomo buono e giusto, e aveva risolto il suo gran dilemma, separando l’amore per il Duce – nobile guerriero la cui immagine troneggiava fra Crocefisso e Re sulla parete dell’aula scolastica – da quello per amici e familiari. La faccenda della maestra, però, aveva aperto una ferita nel suo cuore, e poi c’era anche Silva, l’amichetta ebrea che viveva nel ghetto e che non avrebbe più potuto andare a scuola! Fortunatamente, a Silva non piaceva per niente studiare: da grande voleva fare la pasticcera come i suoi genitori e perciò l’aveva presa bene. A Giovannina rimaneva la preoccupazione di che fine avesse fatto la sua maestra, dato che nessuno l’aveva più incontrata in giro per Venezia. La sua casa in Campo della Lana era chiusa “da notte” e si diceva che fosse andata a vivere con la sorella a Trieste.
Per fortuna, la nuova maestra, una solida e allegra feltrina, gigantesca come le montagne da cui proveniva, pur essendo di bacchetta facile, si era fatta subito benvolere. E, per fortuna, erano arrivate le agognate vacanze estive. Era tempo di buttarsi alle spalle la tristezza e pensare a divertirsi, sguazzando nelle acque limpide e fresche della laguna assieme ai cugini Silvio, Sante e Maria in quella specie di Isola del Tesoro, ricca di sorprese e di avventure che era, per lei e per il fratello Athos, Le Vignole.
Durante la settimana , nel periodo delle vacanze, Athos e Giovannina aiutavano mamma Isetta nelle faccende domestiche e poi scendevano dallo zio Gino nella tabaccheria sottocasa, sul Ponte de la Crose, per confezionare a mano le sigarettine che all’epoca si vendevano singolarmente. Era un lavoretto che ad Athos piaceva molto: conosceva tutti i nomi dei diversi tipi di tabacco che provenivano dalla manifattura di Piazzale Roma e imparava a far di conto assistendo lo zio nella vendita al banco.
Quando a Leonida, capotreno delle ferrovie, toccava il turno lungo con pernottamento a Calalzo, Isetta mandava i figli con uno scritto all’Hotel Danieli, in Riva degli Schiavoni, dove il cognato Antonio consegnava quotidianamente le verdure fresche del suo orto delle Vignole, per avvisarlo di andare a prenderli col suo sandoletto alle Fondamente Nuove alle 10 di mattina del sabato successivo.
La sera prima della partenza preparava il borsone- non dimenticando di metterci dentro qualche pezzo di buon formaggio della latteria della Zanze per la sorellae qualche sigaretta per il cognato- mentre i ragazzi andavano in soffitta a prendere le ceste di vimini destinate a raccogliere una buona scorta di ortaggi e frutta al ritorno, non dimenticando, a loro volta, di metterci dentro il quaderno dei compiti delle vacanze e il libro sussidiario.
La mattina del sabato, partivano di buon’ora per una bella passeggiata a piedi fino alla fondamenta a lato della Chiesa dei Gesuiti, e dal vicino ponte scrutavano la laguna verso Murano per scorgere la barca dello zio in arrivo.
L’isola delle Vignole era, allora come oggi, meta preferita per le gite in barca dei veneziani. Offriva la molteplice prospettiva di divertirsi vogando, pescando , facendo il bagno nei ghebi in mezzo alle barene, osservando una fauna incantevole di uccelli: garzette, cavalieri d’Italia, germani reali. C’erano persino volpi che abitavano la campagna della laguna. Si mangiava un risottino di bosega e del pesce fritto o arrostito sotto le frasche della trattoria dei Vianello, seduti ai tavoli di legno scuro, impregnati di vino e di odori, con “un’ombra de queo bon” davanti al naso, appisolandosi nell’aria tiepida, in compagnia del quieto sciabordio dell’acqua che separava l’isola dalla frenesia della città di fronte, divenuta silente nella sua silhouette di chiese e campanili. C’era chi si fermava solo per farsi sporgere sulla barca,da Edvige, un “scartosso” fatto con le foglie di pannocchia piegate a cono, traboccante di frittura mista di pesce “mollo” di barena e un bel fiasco di vino. La sera, si rientrava in città con ceste e cestini di prodotti dell’orto,fra cui spiccavano le castraure, i carciofi violetti ,albicocche e pesche profumate, secondo la stagione, in un viaggio di ritorno silenzioso, a remo lento, assecondando la corrente, seduti sulle stiore con la testa appoggiata al trasto, gli occhi rivolti all’orizzonte, l’orecchio teso allo scricchiolio dell’asta sulla forcola e allo sciacquio della pala che fendeva la distesa oleosa, cullati dal moto dondolante della barca gravida, davanti allo spettacolo del sole che calava lento nell’acqua irrorando cielo e laguna, fondendoli nel rosa e poi nel rosso, in contrasto col lilla delle barene fiorite a distesa di limonium da cui levavano il volo stormi scuri di uccelli in formazione, prima alti nel cielo infuocato e poi bassi sullo scintillare prismato della linea d’acqua.
Ma quel giorno non sarebbe finito con un ritorno a Venezia per Isetta e i suoi ragazzi. Loro avrebbero avuto il privilegio di fermarsi per ben due notti alle Vignole, dormendo tutti e tre insieme sull’ampio materasso di “paion”, nel granaio della casa degli zii.
La casa e i campi erano di proprietà di un ricco veneziano a cui Antonio doveva, stagionalmente, un modesto affitto e parte del raccolto.
Silvio, Sante e Maria, fra i dodici e i sedici anni di età non vedevano l’ora di giocare con i cugini cittadini e li aspettavano frementi sul pontile, davanti alla frasca.
Antonio attraccò guardandosi intorno e indicando alla cognata la foresta di paline che erano state scelleratamente piantate dai barcaioli, per pura comodità, intorno alle barene. “Palo fa palù”, sentenziò sconsolato: c’era il rischio di creare insabbiamenti, spiegò, di far prendere all’acqua dei giri diversi e malsani, “I rovina Venessia stì disgrassiai che no capisse gnente!” Isetta lo esortò a pazientare e a moderarsi, com’era abituata a fare quotidianamente col marito che si appassionava alla politica. “Cossa vustu, Toni, no xé più el tempo dei Dogi che ghe voleva ben a la nostraVenessia!”
La sorella e i nipoti si fecero incontro per accoglierli.
Mentre le due donne si perdevano in convenevoli, i ragazzi guizzarono fuori dalla barca e si misero a correre insieme ai cugini. Ce n’era di spazio sull’erba delle Vignole! Manon era ancora venuto il momento di giocare liberamente: Silvio, il più grande, fu richiamato dalla madre che lo mandò a prendere del pesce da cucinare per il pranzo. Giovannina e Athos gli corsero dietro con entusiasmo: l’avventura cominciava. Tutti insieme si diressero dietro la casa dove un ghebo si insinuava nel prato e finiva ramificato in quattro vasche cieche . In una c’era una moltitudine di pesci diversi, in un’altra solo granchi, in un’altra ancora anguille e nell’ultima un mucchio di cocci di vetro destinati a Murano. Silvio allungò nell’acqua , delicatamente, un canestro di bambù e tirò su un po’ di vivaci orate.
Nella grande cucina, Isetta, seduta davanti ad un banco di granito con già addosso il suo più bel grembiule, puliva l’insalata mentre la sorella Edvige le raccontava la ricetta del risotto col gò, una novità culinaria che aveva appreso da una siora buranela. Sul retro della cucina, una porticina immetteva in un portego riparato da un tetto di canne diviso in tre zone: da una parte si friggeva il pesce in un enorme padellone; dall’altra lo si arrostiva sopra la griglia dell’ampio camino; di fronte c’era una lunga scafa di granito su cui arrivavano i piatti sporchi che venivano strofinati con una pasta di cenere e farinaccio di polenta, per poi essere sciacquati dentro ad un largo tinozzo di legno con due manici laterali.
Giovannina e Athos fecero un giro d’ispezione. Gli aiutanti di cucina erano quattro tipi un po’ strani, con la pelle nodosa, scura, solcata da profonde rughe, secchi come baccalà e arruffati come cani randagi. Il più arruffato aveva uno sguardo strano, luccicante da dietro folte sopracciglia. Un altro, glabro, allampanato, rideva con la bocca larga e sdentata. Un terzo era molto strabico e lo chiamavano “frize el pesce varda el gato.” Il quarto era seduto con una lunga barba su un trespolo e farneticava parole incomprensibili, ma quando li vide entrare in cucina disse “Ara che bei!” Facevano quasi paura. Davanti alla scafa dei piatti, di spalle, una donnina incurvata, dall’aspetto fragile aveva un che di familiare. Non poteva essere…Sì, invece! Il cuore di Giovannina fece un balzo quando capì che si trattava proprio della signorina Myriam, la sua maestra., la quale, sentendo la sua voce si voltò con un viso radioso e, tendendole le braccia, le si fece incontro. Giovanna non l’aveva mai abbracciata prima. La figura della maestra, in quegli anni era quella di un’autorità massima, una capitana inavvicinabile seduta in cattedra sopra una pedana, una che entrava in contatto con le sue allieve solo per bacchettarle. Ma la signorina Myriam non aveva mai bacchettato nessuna: non era stato necessario perché le sue allieve la seguivano come si segue il Pifferaio magico. Persino la Dina Suma, la Iole Tagliapietra e la Maria Mangialardo - note ribelli indisciplinate che la nuova maestra, in preda alla disperazione, chiamava “disutili” oppure “Barabba”, prima di bacchettare - persino loro erano state agnellini con la maestra Myriam , soggiogate dal suo incantesimo.
In quella cucina, dove la donna vestiva un umile grembiule al posto del sobrio ed elegante abito scuro, e nelle mani rovinate dalla lisciva teneva i piatti sporchi anziché il libro di testo, un puro sentimento che il ruolo istituzionale aveva tenuto lontano si rivelò in un abbraccio.
Ma allora non era andata dalla sorella a Trieste? Ma allora era ancora lì a Venezia?
Isetta accorse, con gran stupore, a salutare la maestra e si abbracciarono con le lacrime agli occhi.
Edvige raccontò poi, alla sorella, che l’avevano accolta disperata. Ora, oltre ad aiutare in cucina, Myriam si adoprava ad insegnare ai ragazzi dell’isola, dove non c’erano le scuole elementari. Molti bambini poveri che non disponevano di una barca, non potevano recarsi in città per frequentare le scuole. Inoltre, sembrava avere un forte ascendente su quei quattro matti che tutti conoscevano bene in laguna, e che navigavano insieme su una barchetta, senza meta,fermandosi a a volte a Sant’Erasmo, a volte alle Vignole per elemosinare un piatto di qualcosa. Edvige non aveva mai avuto cuore di mandarli via e dava loro da mangiare in cambio di lavoro in cucina. Quando avevano finito, di solito, se ne tornavano spontaneamente sulla loro barca e ripartivano per chissà quali mete, ma da quando erano approdati con Myriam a bordo, non se n’erano più andati . Si erano costruiti una piccola baracca in legno dove ripararsi la notte e di giorno aiutavano nei campi e in cucina: tutti tranne Barbassa, che si rifiutava di “rubare alla terra”, come diceva lui, o di fare qualsivoglia altro lavoretto perché Dio non voleva che gli animali lavorassero e l’Uomo, secondo lui, era un animale disobbediente. Era una specie di filosofo fautore dell’ozio. Myriam sembrava l’unica in grado di tenerli tranquilli ed era davvero incredibile come, con la sua guida, affrontassero qualsiasi compito con serenità. Nell’isola si favoleggiava su Myriam l’incantatrice, tanto che molti la chiamavano “Biancaneve dei 4 matti”. Quando arrivavano le autorità o il padrone di casa a fare ispezioni, li facevano scappare, i 4, a nascondersi in mezzo ai campi: c’era il rischio che rispondessero male a qualcuno e che andasse a finire a botte, o peggio a “a cortei”! Qualcuno di loro era già stato a San Servolo e nessuno voleva farceli ritornare, soprattutto Myriam che voleva loro molto bene e li proteggeva, contraccambiata con abbondanza. Nessuno sapeva come si chiamassero veramente e quale fosse la loro storia Avevano soprannomi, questo sì: c’era Caronte, secco e arruffato, che traghettava sulle barene e raccoglieva mazzi di limonium da rivendere poi ai gitanti come fiori semprevivi adatti al cimitero; c’era Pampalugo, un individuo alto e glabro, con un solo dente al centro di una bocca enorme, perennemente aperta in un’espressione ebete, e poi c’erano Barbassa e Frize el pesse, lo strabico con una particolare capigliatura riccia che gli cresceva come una siepe di bosso sopra la testa , finendo quasi a punta.
Myriam aveva raccontato a Edvige che il giorno in cui aveva raccolto le sue cose e lasciato per sempre la scuola dove aveva insegnato una vita, lo sconforto aveva preso il sopravvento su di lei e si era diretta verso Sant’Alvise con l’idea di buttarsi in laguna e farla finita. Non aveva famiglia e quelle scolarette erano il suo mondo. Si trovava senza di loro, senza insegnare, senza quattrini: era troppo per continuare a vivere. Seduta sulla fondamenta con le gambe a penzoloni, la testa pesante e lo sguardo perso nell’acqua, non sapeva dire quanto tempo era rimasta lì a piangere. Ad un certo momento, le si era parata davanti quella “Stultifera navis”, così l’aveva battezzata: una barca con quattro matti a bordo che la guardavano inteneriti. Disse di aver avuto una specie di illuminazione, di ave r visto in loro purezza e bontà, di aver sentito il suo dolore disperato condiviso, di non essersi sentita più sola al mondo. Pampalugo l’aveva invitata a salire col suo irresistibile sorriso a un dente solo e lei non aveva avuto esitazioni: quella era senz’altro la sua barca della Salvezza. Non aveva pensato minimamente a dove sarebbe finita quella sera. Non era importante. Approdarono alle Vignole quando faceva già buio. Il resto della storia lo conosceva.
La figlia di Edvige, Maria, adorava Myriam e aveva deciso che un giorno avrebbe fatto la maestra. Nella borsa che aveva portato con sé, la signorina aveva tanti libri per ragazzi e la sera, prima di dormire, Maria leggeva le storie ai matti e ai fratelli. Una sera un racconto dal libro “Cuore”, un’altra un capitolo da “Tom Sawyer”, un libro proibito.
Quello stesso pomeriggio, i ragazzi andarono a giocare nel campo vicino all’officina di paline. Ci arrivarono attraverso il sentiero che tagliava in due i campi coltivati, le carciofaie e le pescherie. Lì, trovarono Dino, il figlio undicenne dei contadini che vivevano nella casa verso il Forte di Sant’Andrea. Era lui che teneva l’erba tagliata bene su una superficie minima per giocare a calcio la domenica. Aveva annodato con le sue mani una rete e l’aveva legata fra due arbusti per fare da porta. Si divisero in due squadre facendo la conta e ogni squadra si prese una femmina. .
Dino era l’ultimo di dieci fratelli. Sua madre era stata premiata dall’ONMI, alla sua nascita, il 23 dicembre dello stesso anno, nella Giornata della madre e del fanciullo. Le era stata data perfino una medaglia. Ora, però, non lo mandavano più a scuola: entrambi i genitori si erano lamentati perché il Duce voleva tante braccia ma poi non le lasciava ai genitori che avevano bisogno di aiuto nei campi. Dino era ben contento perché non gli piaceva per niente la scuola. Preferiva di gran lunga andare a pescare in laguna col papà, anche se, raccontava, una volta, mentre staccava cozze da una bricola, gli era capitato che una di queste richiudesse le valve pizzicandogli il pìpi nudo. Era finito in ospedale ma disse che, comunque, era meglio di prendere cento bacchettate sulla schiena dal maestro.
Con lui, raggiunsero la sponda davanti alla chiesetta di Sant’Erosia e si tuffarono nelle profonde acque del canale. Ma non Giovannina e Athos che erano paurosi e non sapevano nuotare bene. Sante si offrì di andare a casa a prendere le tavolette per loro e poi si adoprò per aiutare la sua diletta cugina a calarsi nell’acqua. Era un ragazzino gracile e timido Sante, tanto “bon” e con modi gentili . A sei anni si era ammalato di febbre tifoide ed era stato in pericolo di vita. Mamma Edvige, disperata, aveva fatto un voto a Sant’Antonio e quando il bambino guarì, per grazia ricevuta gli fece fare la chierica in testa e lo mandò in giro per un anno intero vestito di saio e sandali. Da allora, il bimbo fu chiamato da tutti “Santo”.
I ragazzi delle Vignole erano bravissimi a nuotare e mostrarono ai cugini tutte le loro prodezze: tuffi spericolati con capriole in aria dalla riva e “bori” con permanenza di anche un minuto sott’acqua.
Fu durante uno di questi bori dimostrativi, quando Sante se ne stava con la testa sott’acqua e non riaffiorava più, che Giovannina, preoccupata, con gran coraggio ficcò la testa sotto per guardare. E fu lì che Sante, approfittando del momento e della situazione appartata, le allungò un bacetto sulle labbra. Riaffiorarono entrambi tirando un gran respiro col cuore in gola e non si guardarono più per il resto del pomeriggio.
Salirono tutti sul barchino di Dino e i ragazzi più grandi si diedero il cambio a vogare per raggiungere la barena grande, quella vicino alla “zenzìva” del canale profondo, dove passavano i vaporetti diretti a Burano. Dino faceva le sue considerazioni sull’andamento della corrente e sulla marea. Era abbastanza bassa e lui conosceva una velma dove si potevano prendere tante corbole, da usare poi come esche per branzini, passarini e anguille. Scese dalla barca adagiata sul fango e immerse le gambe premendo per sprofondare fino al ginocchio. Si guardò introno e indicò entusiasta tutta una serie piccoli buchi che disegnavano dei pois sulla distesa di sabbia e fango.. Premeva il fango vicino al buchino ed emergeva una specie di gamberetto: era lei, la preziosa corbola! Athos imparò presto la tecnica e si divertì un mondo, mentre le ragazze, schifate, si dedicarono alla raccolta di mazzetti di “’sparagetti salati” con cui fare uno spuntino sulla via del ritorno. Quando il secchio fu pieno di corbole, Dino fu soddisfatto e ripartirono. Avrebbe fatto una sorpresa a suo padre e il mattino dopo, molto presto, sarebbero andati insieme a pescare: lui col parangal e suo padre con la lenza.
Al rientro, si presero tutti un sacco di parole di rimprovero da Isetta e Edvige perché non avrebbero dovuto, mai e poi mai, fare il bagno senza la loro supervisione e tantomeno andarsene in giro per la laguna senza avvertire. La serata si concluse facendo un po’ di compiti per le vacanze e tutti insieme aiutarono Athos a risolvere un problema di geometria: si trattava di calcolare la superficie totale delle province italiane in Libia.
Il giorno dopo fu loro permesso di sguazzare con la tavoletta a riva, sotto l’attenta supervisione di mamma e zia che si godevan o una fetta di anguria fresca all’ombra, chiacchierando del più e del meno.
Quando risalirono dal bagno, ricevettero una fetta d’anguria per merenda e fu loro raccomandato di rimanere lì tranquilli mentre le donne si sarebbero occupate di una faccenda in giardino. L’ingenua proposta accese curiosità e sospetti. Finirono in fretta l’anguria e seguirono da lontano mamma e zia, attenti a non farsi scoprire.
Le due sorelle si diressero verso il “sambugher” sul prato vicino al piccolo stagno retrostante la casa. Edvige aveva un badile in mano. Appoggiò la schiena all’albero e rivolgendosi verso la piccola serra, avanzò contando a voce alta dieci passi. Poi si fermò, fece cenno a Isetta di raggiungerla e mentre lei sbadilava, la sorella toglieva di mezzo la terra con un rastrello. Affiorò un bussolotto di vetro col coperchio di stagno, pieno zeppo di enormi banconote e poi un altro che conteneva tutti gli “ori de famegia”. Edvige estrasse preziosi anelli, collane e orecchini. Perle, smeraldi, rubini, lapislazzuli, c’era di tutto! Assieme ad Isetta se li provarono e riprovarono tutti facendosi reciprocamente i complimenti, mentre i ragazzi le guardavano e ridevano sottovoce per non farsi sentire. Infine, li riposero nel bussolotto. Edvige estrasse un rotolone di banconote e lo infilò nel petto riassestandosi il corpetto. Sotterrarono bene tutto e appoggiarono un vaso di gerani sopra la terra smossa. Rientrarono in casa e i ragazzi continuarono a spiarle dal buco della serratura. A turno, videro Isetta mettere le bronse dentro al ferro da stiro e poi stirare le preziose banconote una ad una. Edvige ne fece un pacchetto ordinato che annodò con una fettuccia. Uscirono dal retro della casa e si diresso alla cavana, dove Antonio, seduto in barca, appisolato, le stava aspettando per prendere in consegna il pacchetto e partire vogando alla volta di Venezia.
I ragazzi tornarono alla frasca, consapevoli di spartire ora un gran segreto e di avere delle responsabilità di mutu o silenzio al riguardo.
Giovannina li lasciò e andò in cucina a trovare la sua maestra. Aveva un peso sullo stomaco per via di quel bacio rubato. Myriam aveva appena finito di lavare tutti i piatti e chiamò Caronte e Pampalugo per svuotare il tinozzo dell’acqua di risciacquo in laguna. I due a malapena ce la fecero. Giovannina li seguì.Osservava l’acqua sudicia e maleodorante, e si tappò il naso. Myriam, allora, le insegnò che quell’acqua dall’aspetto putrido era, in realtà, un vero toccasana per la Laguna: conteneva la cenere che la purificava , la farina di granoturco che nutriva le piante e i molluschi e gli avanzi di tutto il cibo che sarebbero stati una vera leccornia per i pesciolini. Occorreva fare attenzione e non fidarsi mai di giudicare le cose dalla loro apparenza.
La domenica volgeva ormai al termine. Passarono le ultime ore insieme sotto le frasche ascoltando il canto dei grilli e giocando a briscola. Sante aveva il muso e guardava Giovannina, ma lei si girava imbronciata dall’altra parte. Prima di ritirarsi nel granaio, Athos passò a farsi dare da Silvio la bugia con la candela e la lozione a base di aceto e chiodi di garofano con cui inumidirsi la pelle per non essere divorati dalle zanzare. Nel buio del granaio,dopo la preghiera e a candela spenta, Giovannina si avvicinò all’orecchio di Isetta: - “Mama, Santo me ga dà un baso!”
“Cossa che ti me conti, mariassantissima!” – esclamò Isetta. Ma lo disse con quel tono che usava per le cose di poco conto. Poi aggiunse: “Dormi, dormi, Giovana mia, che doman sarà già tuto passà e desmentegà!”
Giovannina dormì tranquilla.
La luce cominciava a filtrare dai fori della parete del granaio quando si sentì un canto provenire dalla Laguna. Era l’alba e le donne sui sandoleti vogavano in coppia sospingendo barche traboccanti e di verdure e frutta da consegnare agli alberghi a Venezia.
Isetta cominciò a rassettare la stanza: era arrivato il momento di tornare a casa. Svegliandosi, Giovannina si accorse di non essersi dimenticata del bacio di Santo, però, se mamma Isetta aveva detto così, non c’era da preoccuparsi, prima o poi se ne sarebbe dimenticata.
Il sandolo si allontonò scivolando dalla riva delle Vignole mentre le sorelle si mandavano baci e saluti. Silvio e Maria si sbracciavano per salutare anche loro, ma Sante era imbronciato. Giovannina dalla barca lo chiamò: “Ciao Santo!” E gli mandò un bacio accompagnato da un sorriso che accese il viso del ragazzino sulla sponda.
Passarono un paio d’anni, fra scuola, vita e altre vacanze alle Vignole. Un bel giorno di primavera, Sante si presentò a casa Cappellari ai Tolentini tirato a lustro e con una preziosa scatolina in mano: conteneva l’anello da infilare al dito della cugina, nel caso questa avesse acconsentito a diventare la sua fidanzata. La sorpresa per una visita così inaspettata e con una motivazione così importante, subito dichiarata, fu davvero grande. Isetta non potè trattenere uno dei suoi “Mariabambina!”. Fece sedere comodo il giovanotto che era sudato per la tensione, e cominciò col chiedergli notizie della sorella Edvige. Giovannina era concentrata sulla scatolina. Arrotolandosi nervosamente le trecce, si domandava quale dei preziosissimi anelli della zia fosse stato destinato all’occasione e pensava in particolare al suo preferito: uno smeraldo squadrato, incorniciato nell’oro giallo. Mentre la mamma e il cugino chiacchieravano del più e del meno sbottò: “Santo, fàme vedar l’anèo!”. “Ehh…nnò !” rispose Sante con la sua vocina ancora bianca e flebile. Passandosi una mano sulla fronte continuò:-“Gà dito cussì mia mama che te fàsso vedar l’aneo se ti me dìzi de sì, sennò gnente!”. “Dai Santo mio, no stà far el rochèo e fàme véder l’anéo” insistette la ragazza. Sante afferrò con uno scatto la scatolina che aveva appoggiato sul tavolo, la chiuse nel pugno e girò entrambe le braccia dietro la schiena alzandosi in posizione “riposo”. “Giovana, ti vol deventar mia morosa sì o no?”.
“Dai Santo, mi no vogio esser to moròsa e po’ so ‘ncora massa zòvine, no xè vero màma?”
“Sì, benedèta, gavé tempo par l’amor”, giunse in suo soccorso la Isetta.
Sante rimase a pranzo. Parlarono, scherzarono e l’argomento non fu più toccato. Quando ripartì per le Vignole, Giovannina si lamentò con la Isetta per non aver insistito a farsi mostrare l’anello. Isetta le spiegò che i sentimenti delle persone sono mille volte più preziosi dell’anello più prezioso e non bisogna ferirli. “Ma dime, Giovanina mia” – aggiunse poi – “par cossa no ti vol far l’amor co’ Sante chel xè un toso cussì bon?” “Ti schersi mama? Mi ghé vògio tanto ben, ma nol me piàze”.
“Va ben, va ben cara! Al cuor no se comanda!”
Sedute sotto la frasca, davanti ad un caffè, nei primi anni Sessanta, Maria e Giovanna ricordavano gli episodi della loro infanzia alle Vignole. Erano passati tanti anni . Giovanna si era sposata e quel giorno aveva portato con sé le sue due bambine piccole. Era diventata commerciante, aveva aperto un negozietto di Ricordi di Venezia sotto casa; Maria era diventata maestra e aveva ottenuto di organizzare una classe elementare unica per i bambini delle Vignole, fatto di cui era molto orgogliosa. Raccontò alla cugina come fosse riuscita ad utilizzare una stanza all’interno dell’idroscalo. Dalla prima alla quinta, tutti insieme ad imparare. La signorina Ines le dava una mano: in qualità di zia, bidella e addetta al trasporto, partiva alle cinque e mezza del mattino col sandoletto, e andava ad accendere la stufa di terracotta a tre piani per rendere accogliente la stanza. Alle sette, il sandoletto si trasformava in “scuola bus” e imbarcava i bambini dai pontili lungo il canale. Cera chi aveva il grembiulino e chi no, chi metteva un fiocco e chi la cravatta, non aveva grande importanza. Bastava un abito pulito e una testina ben pettinata per presentarsi con decoro al cospetto dell’Istruzione, almeno per come la intendeva Maria…. E risero insieme!
Ricordarono la maestra Myriam. In tempo di guerra, quando gli ebrei erano ricercati, fu costretta a scappare dalle Vignole. Salì piangente sulla sua “Stultifera navis” che i fedeli matti avevano riverniciato e su cui avevano dipinto, orgogliosi, quell’altisonante nome latino. Avevano intenzione di risalire la laguna fino a Marano per nascondere la loro fatina in qualche casone, ma di loro non si erano avute più notizie. Anche all’ amichetta di Giovanna, Silva, non era toccata buona sorte: nessuno della sua famiglia era tornato dalla Germania, dove erano stati costretti a trasferirsi.
Edvige e Antonio non c’erano più e Silvio aveva preso in mano, assieme alla moglie Rina, la trattoria e i campi. Sante li aiutava, lui non si era ancora sposato. Aveva grossi problemi di salute e, in più, ogni tanto gli cedeva la mascella, per cui dovevano legargli un fazzoletto intorno al viso per sostenerla e portarlo, di corsa, in ospedale a fargliela assestare.
Mentre parlavano, arrivò correndo un bambinetto biondo e ricciolino. Era Antonio, figlio di Silvio, Tonino per tutti. Prese per manina le bambine, di qualche anno più piccole e insieme fecero una corsa. Ce n’era di spazio sull’erba delle Vignole. C’era spazio per tutti.