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Anna Sartori
Nata a Treviso nel 1960 ha trascorso la prima infanzia a Venezia per poi trasferirsi con la famiglia a Mestre. Diplomata all’Istituto Tecnico per il Turismo “F.Algarotti”, laureata in “Lingua e letteratura neogreca” a Cà Foscari. Sposata con due figli.
Da un paio d’anni scrive memorie di famiglia per i nipoti e raccoglie testimonianze venete del 1900.

RACCONTO
25 APRILE 1954



Dopo nove lunghi anni di fidanzamento, si coronava il loro sogno   d’amore.

“Mamma Cassa”, la Cassa di Risparmio di Venezia, aveva finalmente   assunto Nilo in “pianta stabile” e lui poté quindi, a buon diritto,   metter su famiglia. Giovannina lavorava da tempo come commessa nella   tabaccheria della signora Fontana, alla stazione Santa Lucia, ma il suo   impiego non dava sufficienti garanzie, da solo, per sposarsi, dato che   all’epoca il licenziamento era una semplice e inappellabile   discrezionalità del datore di lavoro e spesso arrivava, come infatti   arrivò, alla prima gravidanza. E poi si trattava di lavoro femminile,   mentre era doveroso che fosse il capofamiglia, cioè l’uomo, a contare su   un impiego sicuro. Per soddisfare tale requisito, economico e morale al   tempo stesso, fu necessario attendere lunghi anni, il che portò l’età   della sposa e dello sposo, rispettivamente a 28 e 33. Per loro, come per   la maggior parte delle coppie dell’epoca, il matrimonio era un obiettivo   primario a cui tendere con passione e desiderio, e a cui si arrivava a   prezzo di grandi sacrifici.

Una casa di proprietà non c’era, ma mamma Isetta, vedova, mise a   disposizione la camera matrimoniale del suo appartamento in affitto al   241 del sestiere di Santa Croce, ritirandosi nella stanzetta più   piccola. Una “sbianchizàda” , un copriletto nuovo, due fioretti sul comò   e il talamo fu pronto. Il vestito della sposa è a tre quarti: “longo fin   dove che rivàva i schei” , e il mezzo di trasporto non certo una fastosa   gondola de “casada”, piuttosto una semplice “lancia”, pur con tutti “ i   so paréci”. Ma il grande orgoglio entusiastico degli sposi stava   nell’aver ottenuto il permesso di celebrare alla Madonna della Salute,   la chiesa per antonomasia dei veneziani, e ciò grazie ad un amico di   studi di Nilo, che era diventato un pretino importante. Sì, perché la   Salute non era chiesa parrocchiale e quindi i matrimoni ivi celebrati   erano vere eccezioni. L’atto fu poi trascritto nel registro della vicina   Chiesa di Santa Maria del Rosario, vulgo “Dei Gesuati”, alle Zattere   dove è conservato ancor oggi.

La data scelta e sognata fin dai primi tempi del fidanzamento fu il 25   aprile, orgogliosa Festa di San Marco, festa del “ bòccolo” per gli   innamorati veneziani, ma soprattutto festa “de la Liberassion” , come   racconto’ , anni più tardi , alle figlie, mamma Giovanna, scoppiando in   una fragorosa risata mentre papà Nilo arrossiva: per Liberazione,   infatti, non intendeva soltanto il grande anniversario nazionale,   all’epoca unanime e indiscusso, ma anche la più prosaica liberazione   dall’obbligo religioso della verginità. “Prima si fa il nido e poi si   depongono le uova, come insegnano gli uccellini”, raccomandava alle   figlie, e l’unico sistema anticoncezionale sicuro al 100% era   l’astensione. “Arrivare vergini al matrimonio -continuò - era anche una   dimostrazione di carattere verso lo sposo, di resistenza ad oltranza ai   suoi focosi attacchi, oltreché di rispetto verso i genitori”. Così era   la morale delle famigliole borghesi e osservanti del Veneto di allora. E   quando le figlie, adolescenti del nuovo mondo, osservarono con malizia:   -“Ma allora siete andati avanti a fare ‘petting’ per nove anni…”, mamma   Giovanna rispose che loro, le corse, le facevano solo per andare a   lavorare…

“No, mamma, quello è ‘jogging’ !!”

Sulle questioni sessuali, spesso proposte come materia per barzellette o   viceversa come tabù da sussurrare sotto voce, ci fu grande discussione   antagonista nelle famiglie degli anni Settanta, epoca di esplosione del   femminismo per le figlie e di scandalo per i genitori. Così, quando la   giovane Anna sparò le sue cartucce di supposta e vaga emancipazione,   sbalordendo i genitori con una efferata collezione di conquiste   maschili, vere o immaginarie che fossero, mamma Giovanna, scuotendo la   testa, commentò desolata che se li avesse messi tutti in fila, i suoi   ”masci”, come vagoni del treno (o qualcos’altro di impronunciabile),   sarebbe arrivata a Roma, mentre lei a Roma c’era arrivata in viaggio di   nozze con l’unico amore della sua vita e non era poi troppo sicura che   la figlia, alla fine dei conti, sarebbe stata una donna più felice   grazie ai numeri.

Per il vestito, modello economico spezzato e a tre quarti, fu scelto il   color madreperla , ritenuto più appropriato per una sposa attempata,   rispetto al bianco ghiaccio, percepito come un po’ sfacciato, più adatto   al carattere insolente di una giovanissima che ad una donna ormai matura   e responsabile che, tra l’altro, insolente non lo era mai stata.   Acconciatura semplice ad incorniciare un visetto acqua e sapone e   copricapo marino a nautilus da cui partiva un discreto, simbolico velo.   Scarpette decolté rivestite con la stessa stoffa del vestito, come i   guanti, unica scelta di lusso in nome di un’eleganza autentica e priva   di sfoggio.

Mamma Isetta aiutò Giovannina a vestirsi quella mattina e per l’ennesima   e ultima volta la ammonì: -“Giovanna mia, ti xe proprio sicura de torte   su quel toso par tuta la vita?” Isetta voleva un gran bene a quel   giovanotto che era tornato come un “rovinasso” dalla terribile   esperienza della guerra ed era riuscito a trovare la sua strada tenendo   fede con gran cuore e serietà al suo impegno d’amore, ma era al contempo   preoccupata per quei suoi modi a volte bruschi, a volte ombrosi, che   forse valutava come buchi neri pieni di incognite, nel romantico cielo   stellato che dipingeva la figlia. Pensava che la sua amata ragazza   meritasse un uomo che la venerasse senza esitazioni e che avesse un   cuore aperto, buono, generoso e allegro come il suo.

Giovannina, in risposta, alzò le spalle per l’ennesima e ultima volta.   Lei addebitava a retaggi familiari certi atteggiamenti ed era più che   certa che il suo Nilo si sarebbe arrotondato e addolcito solo grazie al   suo amore.

“Dai mama,, el xè un fià rustego ma in fondo el xe tanto bon!”

La stessa domanda e la stessa risposta, pur su esitazioni materne di   diversa origine, si ripeterono il giorno del matrimonio delle figlie   Rita e Anna, a prova che non è facile ascoltare i genitori, e a riprova   che la certezza femminile di ritenersi in grado di risolvere qualunque   problema con l’arma dell’amore, genera un’energia che a volte, purtroppo   non sempre, produce miracoli. Così fu per Giovanna, così per le figlie,   donne fortunate che erano vissute in esempio di bontà e tolleranza in   famiglia e forse grazie a ciò, avevano finito per innamorarsi di uomini   buoni.

Isetta tacque, finì di abbottonarle la camiciola e fece colare una   lacrima di profumo di Violetta di Parma sulla nuca della figlia. La   goccia birichina scese lentamente lungo la schiena e si fermò sulla   piega d’ingresso delle natiche provocando a Giovannina un prurito   insostenibile ma impossibile da grattare nel corso della cerimonia.   Soltanto dopo aver detto “Sì” e dopo aver scambiato gli anelli, quando   su invito del sacerdote strinse la mano del suo legittimo e la trovò   bagnata di sudore, l’emozione fu tale da farle dimenticare il prurito.   Un’altra lacrima cominciò a scendere, ma lungo il viso, mentre gli sposi   si scambiarono uno sguardo che arrivò all’anima per abbracciarla e   dirle: “Sì, ce l’abbiamo fatta!” , mentre si udivano le parole del   prete:

“Oggi, 25 aprile, è il giorno sacro delle vostre benedette e fauste   nozze, sposi carissimi. Il Signore renda invidiabile la vostra unione;   la conservi esemplare fino agli anni più tardi; la fecondi con una   corona di santi figliuoli; la sostenga nei dolori e nelle avversità; la   alimenti con l’amore che ferma il tempo e pone nei cuori una giovinezza   perenne. Vi benedice commosso il Ministro di Dio che ha celebrato il   vostro Matrimonio.”

E fu da allora, senza dubbio, un giorno sacro, il 25 aprile, nel privato   della famiglia come nel pubblico a cui gli sposi avevano simbolicamente   voluto unire il loro destino. Amore e libertà in un solenne vincolo, in   un impegno a vita.

Fuori dalla chiesa, una sottile pioggerellina. “Sposa bagnata, sposa   fortunata!” Il piccolo corteo di parenti e amici, la partenza in lancia   lungo il Canal Grande, la nostra Venezia da favola a fare da sfondo e   tanta gente che salutava e ben augurava, dalle finestre dei palazzi,   agli sposi di passaggio. Fino all’arrivo all’Hotel de la Gare e   Germania, che in tempo di guerra era stato il quartier generale delle SS   ed era ora ritornato un semplice albergo per gente in pace, forse un po’   ingenua ma che aveva “resistito”, sofferto, e infine assaporava la   libertà festeggiandola unanimemente.

49 invitati per un costo di 1300 lire a testa e un totale di 63.700   Lire, cifra molto contenuta per un menù altrettanto semplice a base di   pesce, senza granseola.

Ma prima di tutto, un salto al bagno per liberarsi dal prurito. Un   sorriso soddisfatto allo specchio a quella donna che era finalmente   diventata “moglie”, una sistemata all’acconciatura. Via il velo e poi la   vita cominciò sul serio, nelle gioie e nei dolori, in due e per sempre,   mentre il tempo scorreva al di fuori di quel buco nero che, con buona   pace di Isetta, conteneva solo amore eterno.

Al ritorno dal viaggio di nozze a Firenze e Roma, la sposa, imbarazzata,   scese dal treno in lettiga e così fu caricata in gondola con l’aiuto dei   parenti.

Dall’altra parte del canale, affacciata alla finestra, Isetta piangeva   premendosi il fazzoletto sul viso e accennando un debole, ansioso saluto   di bentornati agli sposi. Le battute ridanciane di Bepi e Nane, i   gondolieri del traghetto, sulle condizioni della sposa, si sprecarono   durante la breve traversava provocando scoppi di risa nei gruppetti di   parenti ed amici su ambo i lati del canale. A nulla valsero le   spiegazioni dei novelli, fra rossori e timide parole, su una improvvida   sciatica che aveva colpito Giovannina a causa, dissero, dell’umidità!

   

RACCONTI DI NATALE


Sono le cinque del pomeriggio ed è già buio quando arriva un sms: “We are on the Alilaguna, heading to Arsenale. See you soon!” I miei ospiti natalizi stanno arrivando. Un’ultima occhiata intorno, accendo le lucette dell’alberello e del presepio che ho preparato per scaldare la loro vacanza e scendo in calle. Quando, tanti anni fa, riuscii a riconquistare un angolo della mia amata città, dopo che la mia famiglia ne fu allontanata come tanti veneziani negli anni Sessanta, fu una gioia che solo i veneziani possono comprendere. La possibilità di tornare a Venezia almeno per le vacanze da una parte, ma anche la necessità di affittare l’appartamento negli altri periodi per pagare la costosissima manutenzione, anno dopo anno. Non avrei immaginato, allora, che sarebbe diventata la mia unica fonte di sostentamento, ma le circostanze della vita riservano soprese di ogni genere e bisogna accettarle, e ringraziare il cielo.
Incontro i miei ragazzi sotto casa: mi hanno fatto una sorpresa e torneremo insieme verso Piazzale Roma, dopo aver consegnato l’appartamento, facendo una passeggiata in centro, come ai vecchi tempi. Mangeremo una mozzarella in carrozza da Gislon, ci berremo uno spritz al Mercato di Rialto e ci fermeremo anche in “Latteria” per sentire una band che suona.
La famigliola di australiani arriva puntuale. Come tutti gli stranieri che vengono per la prima volta a Venezia, appena scesi dal motoscafo ruotano la testa a destra e a sinistra, estasiati, elettrizzati. Fanno subito cento domande e la più frequente è “Do you live here in Venice?” Se rispondi “Yes”, allora il commento è “WOW”. Se racconti la storia dell’esilio si spengono in un “So sad!”. No! A Natale non è il caso di rattristare nessuno e così rispondo sempre “Yes! It is such a privilege, I know!” E loro ricevono la casetta e non finiscono mai di ringraziare, come se gli stessi regalando l’intera città con tutta la sua bellezza. Li lasciamo e ci incamminiamo verso San Martino. C’è, come sempre il mercatino dell’usato vicino alla chiesa e ricordiamo la storia del Santo col mantello e la tradizione del dolcetto veneziano. La città è silente nelle sue calli interne, quei percorsi labirintici che solo i veneziani conoscono, dove il ritmo dei passi sui masegni traballanti echeggia dagli stretti muri laterali creando un’atmosfera intima. Mi stringo a braccetto dei miei figli che sono grandi, mentre io sto diventando più piccola e il racconto di un Natale di tanti anni fa parte da solo.
“La letterina di Natale era pronta, con la sua data - Natale 1969 - e col beneplacito di Suor Elisea che la consegnò accompagnandola con uno dei suoi rari sorrisi, un’ancor più rara carezza e un caldo “Buon Natale, Anna!”. La infilai con cura dentro la mia cartella di cuoio rossa! Sarebbe stata l‘ultima di quel tipo e intimamente lo sapevo. Su carta sottile, quasi impalpapile nella sua trasparenza, striata di polvere argentata ad impreziosire l’immagine della Sacra Famiglia, col suo contenuto di confessioni, promesse e dichiarazioni di affetto per i genitori più buoni del mondo.
Ero in quinta elementare e le ormai prossime scuole medie statali avrebbero significato una sorta di preambolo alla vita adulta. Ne avevo avuto un assaggio attraverso mia sorella che era già in seconda: niente più infantili letterine di Natale; niente più clima ovattato dell’Istituto San Gioacchino, dove le suore mantellate avevano protetto l’esile stelo della mia vita bambina. Pur nell’entusiasmo per il nuovo, eccitante periodo che mi aspettava, da qualche parte nel profondo di me, in quell’aria gelida, fitta di nebbia all’uscita da scuola, percepii un battito di malinconica nostalgia.
Con le compagne, imbacuccate di sciarpe di lana, berrettoni e guanti, correvamo felici per l’inizio delle vacanze, scambiandoci promesse di passare a trovarci per fare un po’ di compiti insieme, ma soprattutto per giocare con tutto ciò che avrebbe lasciato per noi Gesù Bambino sotto l’albero.
Quel giorno la mamma era a casa dal lavoro e appena Rita ed io ci affacciammo alla porta della cucina, il vapore della pasta scolata saliva già verso la finestrella sopra il lavandino.“Svelte, svelte! Via il grembiule, lavarsi le mani e a tavola! Dobbiamo far presto perchè è lunga la strada per arrivare a Sant’Alvise...” .
Rina, la nostra giovane tata, una ragazza cannone dalla pelle bianca e lentigginosa, i rossi capelli ricci ed un irresistibile sorriso di felicità stampato perennemente in volto, ci seguì nelle manovre per aiutarci a far presto. La malinconia era già passata, scavalcata dall’entusiasmo per la gita a Venezia che ci attendeva quel pomeriggio. Per qualsiasi motivo si andasse a Venezia, era sempre festa grande! Ci sarebbe stato di sicuro un giro in vaporetto, qualche incontro con cugini o amici e una pausa in qualche buon panificio o pasticceria.
Come ogni anno, fin dall’inizio di dicembre, mamma e papà avevano accantonato parte della spesa grossa che si faceva la domenica nel negozio di alimentari della zia Lidia, per mettere insieme due borse di roba da portare alle suore di clausura in occasione del Natale. A rotazione, toccava alle suore di Carpenedo, alle Clarisse della Giudecca e quell’anno era la volta delle Carmelitane Scalze di San Bonaventura, a Cannaregio.
Noi bambine avevamo contribuito a confezionare i pacchetti, divertendoci ad imparare l’arte di incartare dalla mamma che conosceva cento modi di piegare la carta, nascondendo i pezzetti di scotch e passando il nastro arricciato con fantasia.
I regali per le suorette erano decisamente semplici,” perchè loro sono semplici e pure, poverelle come Gesù” - commentava mamma, e non avrebbero gradito neanche l’ombra del lusso o del vacuo. Ciò non toglie che, essendo Natale, - e si sa, a Natale tutto è più bello- anche i regali più semplici, coperti di luccicante carta natalizia, acquistano una preziosità che non verrà mai delusa dal contenuto. “L’importante è offrire col cuore!” – ci veniva ricordato, e la simbologia di quel ben di Dio, che ripeteva ciò che era sulle nostre tavole tutti i giorni, era quella di togliersi il pane di bocca per donarlo ai bisognosi! In effetti, un po’ di dieta “leggera” si seguiva, a casa nostra,nel periodo che precedeva il Natale, ma più che per motivi religiosi, pareva servisse a salvarci dallo scoppio della pancia, quando il 25 avremmo pranzato con i parenti a Zermeghedo, nella campagna vicentina, punto di ritrovo di fratelli e sorelle che vivevano sparsi nel Veneto e in Piemonte. E lì si sarebbe visto sul tavolo un trionfo di capponi, musetti e pandori, tutta roba sconveniente per le suore di clausura. Per loro, 2 pacchi di subiotti, 2 di spaghetti Barilla nr.7, 2 di riso arborio, 2 bottiglie di olio di oliva Dante, 2 tubetti di conserva Mutti, 2 pezzi di grana,2 pacchetti di caffè Pellini in grani, 2 scatole di formaggini Milkana Oro, 2 scatolette di fagioli bianchi giganti, 2 scartocci di mostarda, 2 stecche di mandorlato di Cologna; e per finire 2 scatole di Baicoli. Il tutto, rivestito in abito natalizio, andava a riempire due grosse sporte di tela pesante.
Prima di uscire facemmo le prove per il trasporto. Eravamo in quattro: due grandi e due ragazzette per portare due borse. Una manina di qua, l’altra di là e partimmo con le raccomandazioni di mamma di stare attente a non perderci perché in Piazzale Roma ci sarebbe stata un sacco di gente. Come avremmo potuto perderci poi, unite in quel cordolo di mani e borse... non lo so! Me lo chiedo ora, ma all’epoca alle raccomandazioni si badava e basta. Non c’era nulla da discutere.
Il vaporetto partì scivolando lungo il Canal Grande, lento e piatto dentro la nebbia che diradava nelle prime ore pomeridiane. Passati i Giardini Papadopoli, ci sporgemmo verso la riva del Ponte della Crose per richiamare la zia Ada che era rimasta di turno in bottega e ci sbracciammo per salutarla. C’era una coppia di turisti con lei che la seguì sull’uscio e ci salutarono anche loro. Ogni volta che passavamo col vaporetto davanti al palazzo dove la nostra famiglia aveva abitato fino a qualche anno prima, la mamma non mancava di indicarcelo e di raccontarci, con una vena di livore, che ci avevano dato lo sfratto approfittando del fatto che era morta la nonna Isetta, titolare del contratto d’affitto fin dal 1932, per farne un albergo. “Vegnarà un giorno che no ghe sarà più venessiani, ma solo che foresti dentro le nostre case! ” commentava con sagace precognizione. Scendemmo a San Marcuola dove ci aspettava la Cicci con la piccola Giovanna, una bellissima bimba di di cinque anni coi capelli scuri tagliati a caschetto, una mantellina di loden verde bordata di velluto rosso come il cappellino, sotto cui brillavano due occhi neri enormi e sorridenti, incorniciati da un ventaglio di ciglia foltissime. Mamma e Rina furono d’accordo nel dire che non s’era mai vista a Venezia una putea più bella, “’na piàvola!” .Ci scambiammo gli auguri e dopo tanti baci e strucconi riprendemmo la nostra strada.
Attraversammo il ghetto che non mostrava , come oggi, i segni dell’ebraismo. A quel tempo, il passato era forse ancora troppo vicino e le ferite troppo aperte. Non ho ricordi di librerie ebraiche, affollati ristoranti kosher, musei e gallerie d’arte, negozi di souvenirs ecc. Mamma mostrò a noi e a Rina le cupole “sconte” delle “sinagoghe sconte”. Tutto era nascosto e misterioso quando si trattava di ebrei! Ci raccontò, per la prima volta, la triste storia della sua amichetta Silva... i suoi avevano un laboratorio di pasticceria e lei andava spesso a trovarla nell’ appartamento dai soffitti bassissimi, all’ultimo piano di un palazzo che dava sulla corte Scala Mata. Un brutto giorno, durante la Seconda Guerra mondiale, Silva le disse fra le lacrime che la sua famiglia era costretta a partire. C’erano nuove leggi e gli ebrei del ghetto dovevano trasferirsi in Germania, dove avrebbero ricevuto dei terreni per cominciare una nuova vita. Però a loro dispiaceva tanto lasciare l’ amata Venezia. Mamma era andata a salutarla alla stazione il giorno della partenza. Silva, allora quattordicenne, indossava il suo vestito più bello. I suoi avevano riempito un gran numero di bauli e valigie per portarsi appresso più cose possibili. Si abbracciarono strette per l’ultima volta. “Busìe, busìe! Gnanca un toco de tera sototèra no i gà ciapà, povari ‘nossénti! Imparé, putee mie” ci diceva poi. “No ste mai scoltar chi che vol far del mal al so prossimo!”. Noi volevamo saperne di più e cominciammo a fare domande ma lei pose fine a qualsiasi discorso dicendo:- “Xé Nadal e no se pol. A Nadal bisogna perdonar anca i assasìni, come   che ga fato Nostro Signor! Sennò no xé Nadal!”.
Dalla Fondamenta della Misericordia prendemmo la Calle del Forno dove c’era un ghiotto panificio da cui uscivano profumi inebrianti. Ci facemmo promettere che saremmo passate al ritorno a prendere i panini con l’uvetta. Dalle parti della successiva calle del Capitello c’era una statua di Sant’Antonio da Padova che ci fermammo ad ammirare e a cui rivolgemmo una preghierina a mani giunte, poggiando per un minuto le borse a terra.
Alla fine di una larga calle, la nebbia svelò il ponte sul Campo di Sant’Alvise, con la sua bella chiesa. Lì, svoltammo a sinistra lungo la fondamenta, fino a raggiungere la porticina del Monastero delle Carmelitane. Il campanello trillò e la porta si aprì su un piccolo androne diviso in due vani da una parete di legno traforata e incorniciata, una specie di iconostasi che separava due mondi. Era il nostro punto d’arrivo. Oltre non si poteva andare. Oltre, c’era la clausura dove vivevano suore che non si facevano vedere da nessuno e passavano tutto il tempo della loro giornata a pregare per il bene degli altri. La porta si richiuse dietro di noi e rimanemmo sospese nell’attesa e nel silenzio. Dietro la parete, si accese una debole luce che invitò lo sguardo ad allungarsi fra i forellini fitti del legno. Spuntò da un lato la sagoma di una giovane religiosa, Suor A., che con la voce di un angelo, suggestivamente echeggiata dalle strette pareti del vano, ci salutò e ci ringraziò per la nostra visita e per i doni. Ci assicurò che Gesù ci amava e che dal Bene nasce il Bene. Ricordo che non disse molto di più ma le sue parole commoventi, scandite con tono lento e certo, arrivarono dritte al cuore. Com’era bella! Non la vedevo ma doveva esserlo senz’altro! Fu allora che estrassi dalla tasca del mio cappotto un preziosissimo dolcetto di marzapane che avevo barattato con una compagna di classe durante la ricreazione e me ne separai con un gesto di piena, sincera generosità, infilandolo senza farmi notare dentro la borsa appoggiata a terra.
Suor A. volle conoscere i nostri nomi. Per ogni nome raccontò brevemente la storia della Santa che lo portava. Mamma raccontò un po’ di noi, con commozione e fra mille riverenze, nominando la Madonna, Santa Rita e Nostro Signore. Fu una delle rare occasioni in cui sentii parlare mia madre senza terminare il suo discorso con una battuta e una risata come era solita fare. Questo fatto conferì grande senso di sacralità alla circostanza.
Il bussolotto cilindrico che stava al limite della parete traforata si aprì come per magia e potemmo depositare all’interno le borse con i nostri doni. Uscimmo tutte alleggerite, e non solo dal peso delle borse! Ma come poteva essere che delle persone così buone scegliessero di stare rinchiuse tutta la vita dentro al Monastero?! Avevamo bisogno di spiegazioni comprensibili. Mamma disse semplicemente che avevano avuto la “vocazione”, la chiamata di Nostro Signore, un avvenimento che non si può spiegare ma che rende quelle persone felici di dedicare la propria vita alla preghiera per il Bene del prossimo. Rita ed io ci guardammo negli occhi in cerca di un chiarimento. Né io né lei avevamo capito bene e quando corremmo avanti sulla fondamenta, libere dal peso delle borse, ci augurammo reciprocamente che a Nostro Signore non venisse mai in mente di chiamarci perché lei voleva fare la hostess e io volevo sposarmi. Avevamo altri programmi noi! Mamma ci sentì e ci ammonì : “L’Uomo propone e Dio dispone..!” E in effetti, col senno di poi, aveva proprio ragione! Anche Dio ha i suoi programmi e spesso non coincidono con i nostri!
Mentre tornavamo indietro, la udimmo mormorare a Rina che sapeva di una giovane suora finita lì a causa di un grosso dispiacere, e di un’altra che si era fatta suora di clausura dopo una delusione amorosa. La nostra ricerca di comprensione si complicava...
Tornammo in calle del Forno a comprare i panini con l’uvetta e ci dirigemmo verso la Madonna dell’Orto. Suonammo il campanello vicino ad uno stretto e basso cancelletto di ferro attraverso il quale si accedeva ad una zona di corridoi all’aperto, affiancati da larghi muri perimetrali di mattoni umidi e verdi di muschio. Guardando dritto si intravedeva la laguna a nord verso Murano. Girammo a destra e un altro cancello più grande si aprì per farci entrare nel cuore della fonderia dove un impressionante buco conteneva un liquido incandescente. Quel luogo, tutto grigio con al centro un cratere arancione, poteva essere benissimo la fucina del Diavolo, ma per fortuna non lo era! Era il posto dove mamma si riforniva di piccoli oggetti di ferro per il suo negozio: fermacarte a forma di forcola, gondoline, tagliacarte col ferro da gondola, leoncini di San Marco, pomoli e battiporta di tutte le forme. “Senti che bel caldetto! Pararia l’ inferno e ‘invesse xè un paradiso” commentò la Rina sciogliendo un brivido in un sorriso mentre la luce le arrossava il volto e rendeva i capelli simili a fili di rame. Tirò fuori dal sacchetto i nostri panini con l’uvetta e ci fece sedere su una panchetta semicircolare che sembrava fatta apposta per assistere ad uno spettacolo. E fu veramente uno spettacolo affascinante! Facemmo merenda davanti a quel liquido incandescente che veniva preso con dei grandi mestoli e colato dentro a contenitori dalle forme diverse. Cominciammo a toglierci cappottini e sciarpe e mamma si tolse il collo di pelliccia e si sedette vicino a noi. In quella calda atmosfera, ricca di odori forti, di tradizione e di gesti antichi, i nostri occhi fissavano unanimi il crogiolo con le orecchie tese a rumori nuovi, e mamma cominciò:
“Me ricordo el me primo Nadal a Venessia... mariavergine quanti ani che xè passà! Gera el milenovesentotrentadò e mi gero ‘na putea de sìe ani. Se gavévimo trasferìo a luglio da Mestre parché mio zio gera deventà capotreno e el gaveva tolto in afito la casa ai Tolentini, sul ponte de la Croxe, propio in fassa a la stassion.
A la vigilia ghe gera tanto caìgo, proprio come ancùo. Vostra nona Isetta, santa dona, ne ga portà, mi e vostro zio Nino, a vedar i banchetti de Nadal. Ghe ne gera tanti da San Bortolomio fin San Felice e da staltra parte fin San Stefano. Ghe gera de tuto: vestiti, stofe, golf, cravàte, veri de Muran, merleti, batarìa da cuzina, séste de vimini, zogàtoli e libri, tanti, tanti libri! Se vedeva chi ghe gaveva zà comprà qualcossa parché i ghe regalava i balonsini de caucciù. Sui banchi de marmo del marcà de Rialto i bisati gera butài là in massi sue caséte e i se rampegàva uno sora de staltro, bei e vivi, finchè queo del bancheto no ghe ne inciodàva uno sùa tola e lo verzeva in dò che te fasseva vegnir moti de stomego. Ghe gera grumi de schie nele corbe che saltava de qua e de là; ghe gera scampi, passarini e sfògi. E ghe gera anca tanta spussa de alghe, de salso e de freschin.Pien de zente che fasseva la spesa! Quei che se podeva permetter, comprava el ben de Dio e chi che no podeva, ‘tornava casa col so tochéto de bisatelo. Vostra nona ga tolto un poche de sardee da far in saor, un toco de bacala da far mezo mantecato e mezo a la vicentina e un tocheto de pesse da brodo par far el risotin. Noialtri putei gerimo impressionài da tante pòvare bestie che ‘ndava copàe: ghe gera parfin teste de dìndio col limon in boca e nè fasseva tanto pecà. Ghe gera anca boteghe de dolsi co de quee strisse de mandolato de tuti i colori che pareva i marmi de San Marco. La mama Iseta ne ga tolto un bastonsin coa fruta in caramèo e gèrimo fora de nialtri dala gioia! Tanto poco ne bastava a quel tempo!
Ghe gèra profumi che vegniva dai ristoranti dove che i siòri ‘ndava a far la séna dea vigilia. Mia mama dixeva che ‘desso, a Venessia,i ristoranti serviva i spaghéti. Ghe lo gaveva contà la Zanze, la parona de l’osteria dei Tolentini. Parchè i foresti che rivàva, i credeva che qua fusse compagno che a Napoli. Eora ghe ne gera restà pocheti che fasseva ‘ncora la cuzina dei nostri vèci.
“Ma Suor Clemente mi ha raccontato che è stato Marco Polo a portare gli spaghetti a Venezia!” – obiettò Rita.
“Ciò, cossa vusto ..., se vede che Marco Polo el sarà passà par Napoli prima de tornar a Venessia..!”
“Vegnarà un dì” – la dizeva to nona Iseta - “ che no se ricordaremo gnanca altro cossa che xè un bon brodo de colombin, un risotin col go’ e un bon piato de risi e bisi”. La gaveva razon!
Pian pian caminando, sensa comprar tante robe parché nostra mama la ne dixéva che bisognava tegner duro el franchéto, semo rivài fin Sa’ Marco. La ciésa la gèra piena de mòcoli impissài che risciaràva i mosaici. Un spetacolo! Sull’iconostasi gèra puxài tanti bei veri de Muran che gaveva oferto i maestri e tanti fiori sul’altar magior. El patriarca selebrava el “Pontifical solenne in Nocte Nativitatis Domini” intanto che i sonava la musica de Nadal e i cantori dea Capea Marciana cantava. E dopo ga cantà anca le “voci bianche” – quando doveva dire qualcosa di culturale, mamma scandiva bene le parole in un italiano enfatico . I ga cantà “Adeste fideles” e i paréva come dei angeli, creature de Dio! Savé cossa che dixe Adeste fideles? Le parole in latin, le dixe che xè nato el Salvator del mondo. Eora tuti, dentro la ciésa, gaveva i lagrimoni de commosion.
Po’ el Patriarca gà parlà come un pàre: el ga dito de volerghe ben ai “umili, ai buoni e alla gente che soffre”.
Verso le nove de sera, el caìgo che ghe gèra da tanti giorni, el xè sparìo completamente. Pareva un miracolo!
Nostra mama nè ga manda in leto presto perché rivava Gesù Bambin a portar i regài, ma mi digo che co me zio i voleva scoltarse in pàxe la radio intanto che i sbateva el bacalà nea terina par mantecarlo. Quea sera i faséva el concerto de Coreli e po’ a mezanote ghe gèra la messa del Papa dal’Ara Celi.
La matina de Nadal, ne ga svegià le campane. Sbatociàva da tuti i campanili de Venessia e ghe gera un bel sol. Gavemo trovà soto al presepio ‘na piavola par mi, che mia mama gaveva vestio co’ un vestitin a l’unicineto e un calamaio par Nino. Ma el toco groso de quel Nadal xé sta ‘na machina da cuzer nova, ‘na Pfaff chel zio Leonida ghe ga fato trovar in cuxina a la so Iseta. La gaveva comprà da Achile Bon chel ghe ne gaveva de tute le sorte nel so magazen. No ve digo la Iseta co le lagrime ai oci dala sorpresa. “Mariavergine, Leonida, cossa te gastu pensà de farme un regalo cussì grando!”
Po’ i ne ga mandà in ciésa ai Tolentini ‘ntanto che i pareciava el pranso e mi e Nino, de corsa, gavemo fato in tempo a ‘ndar vedar anca el presepio de San Francesco dela Vigna chel gera el più beo de Venessia parchè i frati xè tanto bravi a far el presepio.
Co semo tornai casa gerà rivà, insieme coi parenti, i ospiti de Nadal: Bepi gobo e Nane orbo. Vostra nona Iseta la fasseva parte dela Congregassion dela Carità pal Sestier de Santa Croxe e un disgrassià no mancava mai a la so tòla de Nadal. La dizeva sempre che i puareti i xè i veri santi su sta tera. Bepi e Nane rivava compagnai da qualche bona donèta del sestier che li gaveva pareciai ben, co tanto de ogio de macassar sui cavei come Rodolfo Valentin e profumo de Lavanda. I gaveva in man el so sacheto de bagigi da metar in tola par tuti e in boca tante benedission par vostra nona. Mi e Nino ridévimo e li toévimo pal sésto, come che fa i putei quando che i xè ‘ncora un fià bauchéti. Nino fasséva finta de èsar gobo e mi caminavo come “la cieca de Sorento” e po’ ne xé vegnuo el borésso da perdar el fià. Quea santa dona de nostra mama Isetta ne dizeva “ Sté boni, putei!”, ma no gèrimo boni de star boni e ridévimo da farse pipì dòsso. E ela ’ncora: “ Ste boni putei che voialtri no savé gnancora cossa che xé la vita!” Cussì, finché a un bel momento el zio Leonida ne xé passà par dadrìo, el ne ga dà na’ pacheta sula copa e el ne ga dito in récia. “Sìti, baùchi!” E no gavemo ridésto altro.
La sua solita risata argentina siglò la fine del racconto e ci girammo tutte e tre verso di lei ridendo al pensiero della mamma e dello zio piccoli e bauchi, proprio come a volte lo eravamo noi.
Il Sig. Valese ci congedò con gli auguri di Natale e ci mise in mano due minuscoli leoncini alati in bronzo che rimasero a lungo dentro la vetrinetta del mobile in salotto.
Al ritorno, passammo da Rialto a mangiare una mozzarela in carrozza da Gislon. Poi prendemmo il vaporetto. Il Canal Grande risplendeva di mille luci. Troppe luci, troppa bellezza! Fra la passeggiata in quello scenario da favola,gli incontri, il monastero, il crogiolo, i racconti della mamma, e infine l’acqua nera scintillante del Canalasso, avevamo ormai fatto il pieno di emozioni ed eravamo stanche. Passammo a prendere papà al posteggio Grinfan, in Piazzale Roma, dove si fermava a “fare i conti”, rientrando dal suo lavoro alla Cassa di Risparmio, prima di tornare a casa. Sull’MV, il pulmann che collegava Venezia a Mestre, ci sedemmo in braccio. Mamma parlava ancora. Raccontava a papà della nostra giornata. Parlava, parlava...
Mi svegliai sul letto mentre papà mi infilava la camicia da notte. Gli dissi con gli occhi chiusi: “Papà, io non voglio avere la vocazione!”. Lui rise di gusto e non commentò. “Buonanotte e sogni d’oro! Pensa a Gesù Bambino che fra poco arriva!” Mi abbracciò, lasciandomi sulla pelle un po’ di aroma del suo tabacco Clan.
“Se chiudo gli occhi lo sento ancora quel profumo!”
I ragazzi mi ascoltano col sorriso sulle labbra, sorseggiando il loro spritz, con lo sguardo fisso sull’ acqua nera del Canalasso cosparsa di guizzi luminosi.
Non fa freddo e la nebbia se n’è andata, dopo tanti giorni, come tanti anni fa, come per miracolo, in questa Venezia che oggi si è mostrata a noi attraverso gli occhi di generazioni passate e che, finché vivrà, trasmetterà il suo messaggio di bellezza alle generazioni future.S

NARRATIVA
 I MORTI E LE FAVETTE



Il giro al cimitero, a trovare parenti, amici e conoscenti è sempre   stato un “must”, come si dice oggi, per la nostra famiglia, un rito   irrinunciabile e un’occasione di ritrovo che rinsaldava i rapporti umani   fra i vivi, messi umilmente a confronto con i morti ai quali si può   parlare solo attraverso la preghiera, la rimembranza ed un mazzolino di   fiori. Una gita che piaceva tanto a noi bambine e che facevamo con la   mamma soltanto, perché papà preferiva evitare, così diceva, una   “ingrumada de fredo”, sostenendo con una risatina, che avrebbe avuto   tanto tempo, in futuro, per stare in cimitero a far compagnia agli   altri. Mamma rideva e commentava: “Ti ga razon, caro, sta in leto al   caldo che te li saludemo nialtre.” Prendevamo il pulmann dal viale San   Marco a Mestre, dove la famiglia si era trasferita nel 1962. Mamma   mostrava al bigliettaio il suo abbonamento A.C.N.I.L , contenuto in una   cornicetta di alluminio e prendeva i due biglietti ridotti per noi. Ci   sedevamo nei posti più avanti possibile,vicino all’autista, evitando   quelli sopra le ruote che erano più alti degli altri e considerati   pericolosi in caso di frenata.

Il mio tram arriva adesso sul Ponte della Libertà e la Laguna è   inquadrata su ambo i lati dalle ampie vetrate brunite. Allungavamo il   collo, a quel tempo, per guardare fuori dai piccoli finestrini dell’MV,   il doppio autobus blu, con la fisarmonica centrale, che collegava il   centro di Mestre con Venezia. Quando arrivavamo sul Ponte della   Libertà,mamma Giovanna cominciava anche lei ad allungare il collo mentre   si accendeva un sorriso sul suo volto: “Ecco Venezia!!” esclamava con   entusiasmo come se non la vedesse da tanto tempo, lei che ci andava per   lavoro anche due volte al giorno. E aggiungeva: “La mia Venessia! Quanto   bea, quanto ben!” Poi i suoi occhi si inumidivano e cacciava giù un   singulto. Mia sorella non se ne accorgeva, seduta davanti a noi,   occupata a contare i sandoletti e le gondole che solcavano la laguna   gelata. Io chinavo la testa nel suo grembo e l’abbracciavo. Mamma si   passava un fazzolettino sugli occhi e poi mi sorrideva intonando   sottovoce una canzoncina che ci piaceva: “Venezia rassomiglia ad una   sposa, vestita di merletti di Burano, sorride fra le gondole festosa,   dal Lido alla Laguna, sposi ed amanti buona fortuna” Noi ci univamo al   suo canto, ma anziché “amanti”, parola sconosciuta al nostro   vocabolario, cantavamo “diamanti”. Lei non ci correggeva. Seguiva il bel   ritornello che cantavamo tenendoci per mano, una volta scese a Piazzale   Roma, mentre ci incamminavamo: “Voga e va, voga voga e va, Gondolier,   vecio gondolier, canta ancor, non posso andar più via, perchè Venessia   mia, mi hai fatto innamorar!”

Capitava di incontrare parenti e c’era sempre un pranzo organizzato per   le festività, ma la visita al cimitero era faccenda intima e ogni   famiglia vi si recava per conto proprio.

Arrivavamo a piedi alle Fondamente Nuove, gelate, fermandoci al Ponte   delle Paste per comprare un sacchettino di favette dei morti, dei   dolcetti rosa, beige e marroni che mamma infilava nella sua borsetta e   che sarebbero stati una specie di premio per essere state brave, al   rientro dal cimitero. Prendevamo il motoscafo gremito di persone e di   fiori: chi piangeva, chi rideva, un brusio coperto dal rumore del motore   e dello scafo che solcava l’acqua densa della laguna fino all’approdo a   San Michele. Si scendeva in silenzio nell’Isola dei Morti, dove   l’atmosfera rarefatta aveva l’odore nauseabondo di fiori già marciti.

Il percorso in cimitero era un vero e proprio tour guidato fra i   sepolcri. Mamma puntava le fotografie dei morti e li faceva rivivere nei   suoi succulenti racconti, fatti a voce bassa, per rispettare la   sacralità del luogo. Noi tendevamo le orecchie ai suoi sussurri che   avevano il sapore di segreti rivelati. “Quel sior lo conossevo, el   abitava in Campo de la Lana, el fazeva el Ganser, quanta miseria   poareto, ma el gera tanto un bon omo!...la siora Gilda, cara, vàrdela   qua, benedetta! Dele volte,in tempo de guera, la ne slongàva qualche   tòco de carbon in più par scaldarse...Quel puteo el xè un angelo,   compagno de l’angelo de marmo che i gà messo su la so tomba piccenina.   Quanti pianti so mama e so papà coi lo ga perso! Robe da ‘ndar via de   zàgola e finir coi màti a San Servolo dal dispiassér!” Noi ascoltavamo   tutte le storie, chiedendo, a volte, maggiori dettagli. Scoprivamo che i   morti non erano stati proprio tutti brave persone, ma adesso erano tutti   uguali. Mamma citava Totò e “La Livella” e azzardava qualche commento in   uno stentato napoletano. Davanti alle tombe e ai loculi dei parenti, le   storie si infittivano. Lì rimanevamo più a lungo, recitando i “L’eterno   riposo” mentre lei sistemava i fiori. Immancabile, era la visita alla   ricca tomba della Siora Fontana, la sua “paròna” per i dieci anni in cui   aveva lavorato alla tabaccheria della Stazione di Santa Lucia. Quella   donna ebrea le aveva insegnato il mestiere e quindi meritava un grande   rispetto e un affettuoso ricordo, poco importa che l’avesse licenziata   dopo sposata, all’annunciarsi dei primi problemi causati da sfortunate   gravidanze. Le doveva tanto!

Ogni volta che andavamo al cimitero, si poteva star sicure che ci   sarebbe stata una storia nuova e con l’andar degli anni ci venivano   rivelate storie di vite inenarrabili, prima, a due bambine, ma adatte,   poi, a due adolescenti. Era allora la volta di un distinto signore   immortalato con un elegante foulard al collo “...el gera un nobile   venessian, ti lo vedevi a la finestra del so palasso, in Campo de la   Bragora, co la so vestàgia da camara, impomatà de brillantina sui cavéi   grizi. ‘Na bea matina, un vigile lo ga visto sentà fora da ‘na casa de   Casteo, col capeo storto sul muso. Lo gà ciamà ma lu no gà parlà. El   gèra morto. Pararìa chel fusse morto dentro la casa de ‘na signorina de   quee, fatostà che la fantesca lo gà ciapà, lo gà vestìo e lo gà sentà   fora dea porta col capeo fracà in testa...”

Prima di tornare all’imbarcadero, attraversavamo la parte più antica del   cimitero, quella in cui erano sepolti, mappati per confessione   religiosa, personaggi importanti di cui parlava con confidenza: “La   Giustina, la nevoda del doge che la gà manda via da casa sò marìo   parch’el gera cativo! E la ga fato ben, ostrega!... Leopoldo, un pitor   francese chel se gà tagià la gola col corteo parch’el gera scontento.   Noooo! Noo savé, putee mie! Qualsiasi dispiassér nea vita, vardè sempre   ‘vanti!...Ara qua Giacinto Gallina, la me scuola elementar se ciamava   cussì! El stava a Rialto, el scriveva comedie in venessian, da rider e   da pianzer!... Vardè, là, dentro quea cassettina co’ quel nome longo,   ghe xè un foresto, inglese, me par. El gera tanto un bel toso, vostra   nona se lo ricordava ben, chel ‘ndava in giro par Venessia. Ma el gera   uomosessuàl, poaréto! “ “No mamma, si dice omo” facevamo noi,   signorinette saccenti. “Va ben, queo che xé, ma mi digo che se’l Signor   lo ga fato cussì na razòn ghe sarà! E pararìa chel gàbia tanto soferto   parchè el voleva farse prete ma i preti no i lo voèva parchèl gèra   strambo. In mosca anca i preti! I lo ciamàva Baron Corvo....e Dal Zotto   gà fato el monumento de Goldoni in Campo San Bortolomio, ... e Igor el   gèra un musicista russo, ...e la Emma Ciardi la gèra sorea de Bepi e i   piturava insieme, la siora Gorleri gaveva un so quadreto ...e qua ghe xè   Cesco Baseggio, caro, quante ridae, el xè morto che no xè tanto, e Ezra   Pound anca se el nome finisse co ‘na “a”, el gera un omo, un scritor,   chel stava vissin ae Sàttere.

Tutte persone che avevano avuto Venezia nel cuore. Mamma pronunciava i   loro nomi con tono declamatorio ma ad una indagine più approfondita, si   capiva che di loro sapeva ben poco. Li riteneva, comunque, degni di   ammirazione per il solo fatto di aver amato la “sua” Venezia. Quei nomi   rimanevano impressi e le indagini sul loro conto, mi capitò di condurle   da sola, in biblioteca, quando ne ebbi occasione. Dopotutto, erano   persone che un po’ già conoscevo!

Dal silenzio solitario del cimitero, si tornava a bordo del motoscafo   del rientro, pressato di gente con nasi rossi e narici fumanti.   Cominciavano a sciogliersi le articolazioni bloccate dal freddo, ci   toglievamo i guanti e il berretto. Anche le lingue si scioglievano e   cominciava un leggero brusio di voci sommesse. Si incontrava sempre   qualcuno che si conosceva e spesso si formavano gruppetti che, appena   scesi alle Fondamente Nuove, si infilavano direttamente nel Bar in una   calca ancora più pressata che lottava per avvicinarsi al banco urlando   da lontano: “un caffè corretto graspa che me slargo el stomego giassà;   un’ombra de bianco; un’ombra de rosso; ‘na marsaletta; un vermout; un   punch al mandarin; un petrus per l’uomo forte.” Ci si sedeva intorno ai   tavolini e gli adulti ciacolavano mentre i bambini sgranocchiavano   finalmente le loro favette dei morti. Si sentivano storie di morti   recenti e di malattie paurose e allora c’era sempre qualcuno che   commentava:”Magna e bevi che la vita xè un lampo!” Arrivavano panini e   cicchetti per tutti i gusti e la vita riprendeva.

L’ultima volta che andai al cimitero con la mamma, nel 2002, arrivate in   Piazzale Roma, mi mandò a fare i biglietti: “Anna, domandighe al   biglietter se se pol far andata e ritorno pal cimitero!” Anche se   abbiamo quarant’anni, alla mamma si ubbidisce sempre ciecamente! Me ne   resi conto quando mi arrivò la prevedibile, tipica veneziana, ironica   risposta: “Ciò! Dipende! Ghe xè chi che fa solo che andata!” E allora   giù a ridere tutte e due, mentre lei commentava: “E me racomando, co   morirò mi no ste’ pianzer, ve prego! Va ben cussì! Chi more el mondo   lassa e chi vive se la spassa, va ben cussì!”

VIGNOLE, ISOLA DI TESORI E DI   AVVENTURE



La scuola era finita. Le divise da Balilla e   Piccola italiana, col fez e la bustina, furono riconsegnate all’Ufficio del Ministero dell’Educazione Nazionale e per Athos e   Giovannina si preannunciava una bella estate di gite al Lido, ma   soprattutto alle Vignole, dove Edvige, sorella di mamma Isetta,   viveva col marito Antonio Vianello e i tre figli, coetanei dei   cugini.

Era stato un anno scolastico triste per   Giovannina, quel XVI di Era Fascista: a veva assistito   all’allontanamento della sua maestra, l’ormai matura signorina   Myriam Calimani, a causa delle nuove leggi che “liberavano” da   insegnanti ebrei le scuole italiane. Far prevalere l’amore patrio su   quello per la maestra fu un vero strazio per lei, ma era abbastanza   intelligente e mansueta da comprendere che una ragione valida doveva   pur esserci. L’ubbidienza non richiede tante spiegazioni,,   specialmente quando, essendo giovani, non si può sapere tutto.   Inoltre, un pessimo esempio di disobbedienza, lo viveva già con una   certa ansia proprio all’interno della sua famiglia e si rendeva ben   conto di come costituisse un grosso problema per la povera mamma   Isetta: Leonida, suo zio e tutore, era socialista e si ostinava a   criticare aspramente il Duce, nonostante gli accorati “Te prego,   Leonida, i te còpa!” della Isetta. Adorava lo zio, uomo buono e   giusto, e aveva risolto il suo gran dilemma, separando l’amore per   il Duce – nobile guerriero la cui immagine troneggiava fra   Crocefisso e Re sulla parete dell’aula scolastica – da quello per   amici e familiari. La faccenda della maestra, però, aveva aperto una   ferita nel suo cuore, e poi c’era anche Silva, l’amichetta ebrea che   viveva nel ghetto e che non avrebbe più potuto andare a scuola!   Fortunatamente, a Silva non piaceva per niente studiare: da grande   voleva fare la pasticcera come i suoi genitori e perciò l’aveva   presa bene. A Giovannina rimaneva la preoccupazione di che fine   avesse fatto la sua maestra, dato che nessuno l’aveva più incontrata   in giro per Venezia. La sua casa in Campo della Lana era chiusa “da   notte” e si diceva che fosse andata a vivere con la sorella a   Trieste.

Per fortuna, la nuova maestra, una solida e   allegra feltrina, gigantesca come le montagne da cui proveniva, pur   essendo di bacchetta facile, si era fatta subito benvolere. E, per   fortuna, erano arrivate le agognate vacanze estive. Era tempo di   buttarsi alle spalle la tristezza e pensare a divertirsi, sguazzando   nelle acque limpide e fresche della laguna assieme ai cugini Silvio,   Sante e Maria in quella specie di Isola del Tesoro, ricca di   sorprese e di avventure che era, per lei e per il fratello Athos, Le   Vignole.

Durante la settimana , nel periodo delle   vacanze, Athos e Giovannina aiutavano mamma Isetta nelle faccende   domestiche e poi scendevano dallo zio Gino nella tabaccheria   sottocasa, sul Ponte de la Crose, per confezionare a mano le   sigarettine che all’epoca si vendevano singolarmente. Era un   lavoretto che ad Athos piaceva molto: conosceva tutti i nomi dei   diversi tipi di tabacco che provenivano dalla manifattura di   Piazzale Roma e imparava a far di conto assistendo lo zio nella   vendita al banco.

Quando a Leonida, capotreno delle ferrovie,   toccava il turno lungo con pernottamento a Calalzo, Isetta mandava i   figli con uno scritto all’Hotel Danieli, in Riva degli Schiavoni,   dove il cognato Antonio consegnava quotidianamente le verdure   fresche del suo orto delle Vignole, per avvisarlo di andare a   prenderli col suo sandoletto alle Fondamente Nuove alle 10 di   mattina del sabato successivo.

La sera prima della partenza preparava il   borsone- non dimenticando di metterci dentro qualche pezzo di buon   formaggio della latteria della Zanze per la sorellae qualche   sigaretta per il cognato- mentre i ragazzi andavano in soffitta a   prendere le ceste di vimini destinate a raccogliere una buona scorta   di ortaggi e frutta al ritorno, non dimenticando, a loro volta, di   metterci dentro il quaderno dei compiti delle vacanze e il libro   sussidiario.

La mattina del sabato, partivano di buon’ora   per una bella passeggiata a piedi fino alla fondamenta a lato della   Chiesa dei Gesuiti, e dal vicino ponte scrutavano la laguna verso   Murano per scorgere la barca dello zio in arrivo.

L’isola delle Vignole era, allora come oggi,   meta preferita per le gite in barca dei veneziani. Offriva la   molteplice prospettiva di divertirsi vogando, pescando , facendo il   bagno nei ghebi in mezzo alle barene, osservando una fauna   incantevole di uccelli: garzette, cavalieri d’Italia, germani reali.   C’erano persino volpi che abitavano la campagna della laguna. Si   mangiava un risottino di bosega e del pesce fritto o arrostito sotto   le frasche della trattoria dei Vianello, seduti ai tavoli di legno   scuro, impregnati di vino e di odori, con “un’ombra de queo bon”   davanti al naso, appisolandosi nell’aria tiepida, in compagnia del   quieto sciabordio dell’acqua che separava l’isola dalla frenesia   della città di fronte, divenuta silente nella sua silhouette di   chiese e campanili. C’era chi si fermava solo per farsi sporgere   sulla barca,da Edvige, un “scartosso” fatto con le foglie di   pannocchia piegate a cono, traboccante di frittura mista di pesce   “mollo” di barena e un bel fiasco di vino. La sera, si rientrava in   città con ceste e cestini di prodotti dell’orto,fra cui spiccavano   le castraure, i carciofi violetti ,albicocche e pesche profumate,   secondo la stagione, in un viaggio di ritorno silenzioso, a remo   lento, assecondando la corrente, seduti sulle stiore con la testa   appoggiata al trasto, gli occhi rivolti all’orizzonte, l’orecchio   teso allo scricchiolio dell’asta sulla forcola e allo sciacquio   della pala che fendeva la distesa oleosa, cullati dal moto   dondolante della barca gravida, davanti allo spettacolo del sole che   calava lento nell’acqua irrorando cielo e laguna, fondendoli nel   rosa e poi nel rosso, in contrasto col lilla delle barene fiorite a   distesa di limonium da cui levavano il volo stormi scuri di uccelli   in formazione, prima alti nel cielo infuocato e poi bassi sullo   scintillare prismato della linea d’acqua.

Ma quel giorno non sarebbe finito con un   ritorno a Venezia per Isetta e i suoi ragazzi. Loro avrebbero avuto   il privilegio di fermarsi per ben due notti alle Vignole, dormendo   tutti e tre insieme sull’ampio materasso di “paion”, nel granaio   della casa degli zii.

La casa e i campi erano di proprietà di un   ricco veneziano a cui Antonio doveva, stagionalmente, un modesto   affitto e parte del raccolto.

Silvio, Sante e Maria, fra i dodici e i   sedici anni di età non vedevano l’ora di giocare con i cugini   cittadini e li aspettavano frementi sul pontile, davanti alla   frasca.

Antonio attraccò guardandosi intorno e   indicando alla cognata la foresta di paline che erano state   scelleratamente piantate dai barcaioli, per pura comodità, intorno   alle barene. “Palo fa palù”, sentenziò sconsolato: c’era il rischio   di creare insabbiamenti, spiegò, di far prendere all’acqua dei giri   diversi e malsani, “I rovina Venessia stì disgrassiai che no capisse   gnente!” Isetta lo esortò a pazientare e a moderarsi, com’era   abituata a fare quotidianamente col marito che si appassionava alla   politica. “Cossa vustu, Toni, no xé più el tempo dei Dogi che ghe   voleva ben a la nostraVenessia!”

La sorella e i nipoti si fecero incontro per   accoglierli.

Mentre le due donne si perdevano in   convenevoli, i ragazzi guizzarono fuori dalla barca e si misero a   correre insieme ai cugini. Ce n’era di spazio sull’erba delle   Vignole! Manon era ancora venuto il momento di giocare liberamente:   Silvio, il più grande, fu richiamato dalla madre che lo mandò a   prendere del pesce da cucinare per il pranzo. Giovannina e Athos gli   corsero dietro con entusiasmo: l’avventura cominciava. Tutti insieme   si diressero dietro la casa dove un ghebo si insinuava nel prato e   finiva ramificato in quattro vasche cieche . In una c’era una   moltitudine di pesci diversi, in un’altra solo granchi, in un’altra   ancora anguille e nell’ultima un mucchio di cocci di vetro destinati   a Murano. Silvio allungò nell’acqua , delicatamente, un canestro di   bambù e tirò su un po’ di vivaci orate.

Nella grande cucina, Isetta, seduta davanti   ad un banco di granito con già addosso il suo più bel grembiule,   puliva l’insalata mentre la sorella Edvige le raccontava la ricetta   del risotto col gò, una novità culinaria che aveva appreso da una   siora buranela. Sul retro della cucina, una porticina immetteva in   un portego riparato da un tetto di canne diviso in tre zone: da una   parte si friggeva il pesce in un enorme padellone; dall’altra lo si   arrostiva sopra la griglia dell’ampio camino; di fronte c’era una   lunga scafa di granito su cui arrivavano i piatti sporchi che   venivano strofinati con una pasta di cenere e farinaccio di polenta,   per poi essere sciacquati dentro ad un largo tinozzo di legno con   due manici laterali.

Giovannina e Athos fecero un giro   d’ispezione. Gli aiutanti di cucina erano quattro tipi un po’   strani, con la pelle nodosa, scura, solcata da profonde rughe,   secchi come baccalà e arruffati come cani randagi. Il più arruffato   aveva uno sguardo strano, luccicante da dietro folte sopracciglia.   Un altro, glabro, allampanato, rideva con la bocca larga e sdentata.   Un terzo era molto strabico e lo chiamavano “frize el pesce varda el   gato.” Il quarto era seduto con una lunga barba su un trespolo e   farneticava parole incomprensibili, ma quando li vide entrare in   cucina disse “Ara che bei!” Facevano quasi paura. Davanti alla scafa   dei piatti, di spalle, una donnina incurvata, dall’aspetto fragile   aveva un che di familiare. Non poteva essere…Sì, invece! Il cuore di   Giovannina fece un balzo quando capì che si trattava proprio della   signorina Myriam, la sua maestra., la quale, sentendo la sua voce si   voltò con un viso radioso e, tendendole le braccia, le si fece   incontro. Giovanna non l’aveva mai abbracciata prima. La figura   della maestra, in quegli anni era quella di un’autorità massima, una   capitana inavvicinabile seduta in cattedra sopra una pedana, una che   entrava in contatto con le sue allieve solo per bacchettarle. Ma la   signorina Myriam non aveva mai bacchettato nessuna: non era stato   necessario perché le sue allieve la seguivano come si segue il   Pifferaio magico. Persino la Dina Suma, la Iole Tagliapietra e la   Maria Mangialardo - note ribelli indisciplinate che la nuova   maestra, in preda alla disperazione, chiamava “disutili” oppure   “Barabba”, prima di bacchettare - persino loro erano state agnellini   con la maestra Myriam , soggiogate dal suo incantesimo.

In quella cucina, dove la donna vestiva un   umile grembiule al posto del sobrio ed elegante abito scuro, e nelle   mani rovinate dalla lisciva teneva i piatti sporchi anziché il libro   di testo, un puro sentimento che il ruolo istituzionale aveva tenuto   lontano si rivelò in un abbraccio.

Ma allora non era andata dalla sorella a   Trieste? Ma allora era ancora lì a Venezia?

Isetta accorse, con gran stupore, a salutare   la maestra e si abbracciarono con le lacrime agli occhi.

Edvige raccontò poi, alla sorella, che   l’avevano accolta disperata. Ora, oltre ad aiutare in cucina, Myriam   si adoprava ad insegnare ai ragazzi dell’isola, dove non c’erano le   scuole elementari. Molti bambini poveri che non disponevano di una   barca, non potevano recarsi in città per frequentare le scuole.   Inoltre, sembrava avere un forte ascendente su quei quattro matti   che tutti conoscevano bene in laguna, e che navigavano insieme su   una barchetta, senza meta,fermandosi a a volte a Sant’Erasmo, a   volte alle Vignole per elemosinare un piatto di qualcosa. Edvige non   aveva mai avuto cuore di mandarli via e dava loro da mangiare in   cambio di lavoro in cucina. Quando avevano finito, di solito, se ne   tornavano spontaneamente sulla loro barca e ripartivano per chissà   quali mete, ma da quando erano approdati con Myriam a bordo, non se   n’erano più andati . Si erano costruiti una piccola baracca in legno   dove ripararsi la notte e di giorno aiutavano nei campi e in cucina:   tutti tranne Barbassa, che si rifiutava di “rubare alla terra”, come   diceva lui, o di fare qualsivoglia altro lavoretto perché Dio non   voleva che gli animali lavorassero e l’Uomo, secondo lui, era un   animale disobbediente. Era una specie di filosofo fautore dell’ozio.   Myriam sembrava l’unica in grado di tenerli tranquilli ed era   davvero incredibile come, con la sua guida, affrontassero qualsiasi   compito con serenità. Nell’isola si favoleggiava su Myriam   l’incantatrice, tanto che molti la chiamavano “Biancaneve dei 4   matti”. Quando arrivavano le autorità o il padrone di casa a fare   ispezioni, li facevano scappare, i 4, a nascondersi in mezzo ai   campi: c’era il rischio che rispondessero male a qualcuno e che   andasse a finire a botte, o peggio a “a cortei”! Qualcuno di loro   era già stato a San Servolo e nessuno voleva farceli ritornare,   soprattutto Myriam che voleva loro molto bene e li proteggeva,   contraccambiata con abbondanza. Nessuno sapeva come si chiamassero   veramente e quale fosse la loro storia Avevano soprannomi, questo   sì: c’era Caronte, secco e arruffato, che traghettava sulle barene e   raccoglieva mazzi di limonium da rivendere poi ai gitanti come fiori   semprevivi adatti al cimitero; c’era Pampalugo, un individuo alto e   glabro, con un solo dente al centro di una bocca enorme,   perennemente aperta in un’espressione ebete, e poi c’erano Barbassa   e Frize el pesse, lo strabico con una particolare capigliatura   riccia che gli cresceva come una siepe di bosso sopra la testa ,   finendo quasi a punta.

Myriam aveva raccontato a Edvige che il   giorno in cui aveva raccolto le sue cose e lasciato per sempre la   scuola dove aveva insegnato una vita, lo sconforto aveva preso il   sopravvento su di lei e si era diretta verso Sant’Alvise con l’idea   di buttarsi in laguna e farla finita. Non aveva famiglia e quelle   scolarette erano il suo mondo. Si trovava senza di loro, senza   insegnare, senza quattrini: era troppo per continuare a vivere.   Seduta sulla fondamenta con le gambe a penzoloni, la testa pesante e   lo sguardo perso nell’acqua, non sapeva dire quanto tempo era   rimasta lì a piangere. Ad un certo momento, le si era parata davanti   quella “Stultifera navis”, così l’aveva battezzata: una barca con   quattro matti a bordo che la guardavano inteneriti. Disse di aver   avuto una specie di illuminazione, di ave r visto in loro purezza e   bontà, di aver sentito il suo dolore disperato condiviso, di non   essersi sentita più sola al mondo. Pampalugo l’aveva invitata a   salire col suo irresistibile sorriso a un dente solo e lei non aveva   avuto esitazioni: quella era senz’altro la sua barca della Salvezza.   Non aveva pensato minimamente a dove sarebbe finita quella sera. Non   era importante. Approdarono alle Vignole quando faceva già buio. Il   resto della storia lo conosceva.

La figlia di Edvige, Maria, adorava Myriam e   aveva deciso che un giorno avrebbe fatto la maestra. Nella borsa che   aveva portato con sé, la signorina aveva tanti libri per ragazzi e   la sera, prima di dormire, Maria leggeva le storie ai matti e ai   fratelli. Una sera un racconto dal libro “Cuore”, un’altra un   capitolo da “Tom Sawyer”, un libro proibito.

Quello stesso pomeriggio, i ragazzi andarono   a giocare nel campo vicino all’officina di paline. Ci arrivarono   attraverso il sentiero che tagliava in due i campi coltivati, le   carciofaie e le pescherie. Lì, trovarono Dino, il figlio undicenne   dei contadini che vivevano nella casa verso il Forte di Sant’Andrea.   Era lui che teneva l’erba tagliata bene su una superficie minima per   giocare a calcio la domenica. Aveva annodato con le sue mani una   rete e l’aveva legata fra due arbusti per fare da porta. Si divisero   in due squadre facendo la conta e ogni squadra si prese una femmina.   .

Dino era l’ultimo di dieci fratelli. Sua   madre era stata premiata dall’ONMI, alla sua nascita, il 23 dicembre   dello stesso anno, nella Giornata della madre e del fanciullo. Le   era stata data perfino una medaglia. Ora, però, non lo mandavano più   a scuola: entrambi i genitori si erano lamentati perché il Duce   voleva tante braccia ma poi non le lasciava ai genitori che avevano   bisogno di aiuto nei campi. Dino era ben contento perché non gli   piaceva per niente la scuola. Preferiva di gran lunga andare a   pescare in laguna col papà, anche se, raccontava, una volta, mentre   staccava cozze da una bricola, gli era capitato che una di queste   richiudesse le valve pizzicandogli il pìpi nudo. Era finito in   ospedale ma disse che, comunque, era meglio di prendere cento   bacchettate sulla schiena dal maestro.

Con lui, raggiunsero la sponda davanti alla   chiesetta di Sant’Erosia e si tuffarono nelle profonde acque del   canale. Ma non Giovannina e Athos che erano paurosi e non sapevano   nuotare bene. Sante si offrì di andare a casa a prendere le   tavolette per loro e poi si adoprò per aiutare la sua diletta cugina   a calarsi nell’acqua. Era un ragazzino gracile e timido Sante, tanto   “bon” e con modi gentili . A sei anni si era ammalato di febbre   tifoide ed era stato in pericolo di vita. Mamma Edvige, disperata,   aveva fatto un voto a Sant’Antonio e quando il bambino guarì, per   grazia ricevuta gli fece fare la chierica in testa e lo mandò in   giro per un anno intero vestito di saio e sandali. Da allora, il   bimbo fu chiamato da tutti “Santo”.

I ragazzi delle Vignole erano bravissimi a   nuotare e mostrarono ai cugini tutte le loro prodezze: tuffi   spericolati con capriole in aria dalla riva e “bori” con permanenza   di anche un minuto sott’acqua.

Fu durante uno di questi bori dimostrativi,   quando Sante se ne stava con la testa sott’acqua e non riaffiorava   più, che Giovannina, preoccupata, con gran coraggio ficcò la testa   sotto per guardare. E fu lì che Sante, approfittando del momento e   della situazione appartata, le allungò un bacetto sulle labbra.   Riaffiorarono entrambi tirando un gran respiro col cuore in gola e   non si guardarono più per il resto del pomeriggio.

Salirono tutti sul barchino di Dino e i   ragazzi più grandi si diedero il cambio a vogare per raggiungere la   barena grande, quella vicino alla “zenzìva” del canale profondo,   dove passavano i vaporetti diretti a Burano. Dino faceva le sue   considerazioni sull’andamento della corrente e sulla marea. Era   abbastanza bassa e lui conosceva una velma dove si potevano prendere   tante corbole, da usare poi come esche per branzini, passarini e   anguille. Scese dalla barca adagiata sul fango e immerse le gambe   premendo per sprofondare fino al ginocchio. Si guardò introno e   indicò entusiasta tutta una serie piccoli buchi che disegnavano dei   pois sulla distesa di sabbia e fango.. Premeva il fango vicino al   buchino ed emergeva una specie di gamberetto: era lei, la preziosa   corbola! Athos imparò presto la tecnica e si divertì un mondo,   mentre le ragazze, schifate, si dedicarono alla raccolta di mazzetti   di “’sparagetti salati” con cui fare uno spuntino sulla via del   ritorno. Quando il secchio fu pieno di corbole, Dino fu soddisfatto   e ripartirono. Avrebbe fatto una sorpresa a suo padre e il mattino   dopo, molto presto, sarebbero andati insieme a pescare: lui col   parangal e suo padre con la lenza.

Al rientro, si presero tutti un sacco di   parole di rimprovero da Isetta e Edvige perché non avrebbero dovuto,   mai e poi mai, fare il bagno senza la loro supervisione e tantomeno   andarsene in giro per la laguna senza avvertire. La serata si   concluse facendo un po’ di compiti per le vacanze e tutti insieme   aiutarono Athos a risolvere un problema di geometria: si trattava di   calcolare la superficie totale delle province italiane in Libia.

Il giorno dopo fu loro permesso di sguazzare   con la tavoletta a riva, sotto l’attenta supervisione di mamma e zia   che si godevan o una fetta di anguria fresca all’ombra,   chiacchierando del più e del meno.

Quando risalirono dal bagno, ricevettero una   fetta d’anguria per merenda e fu loro raccomandato di rimanere lì   tranquilli mentre le donne si sarebbero occupate di una faccenda in   giardino. L’ingenua proposta accese curiosità e sospetti. Finirono   in fretta l’anguria e seguirono da lontano mamma e zia, attenti a   non farsi scoprire.

Le due sorelle si diressero verso il   “sambugher” sul prato vicino al piccolo stagno retrostante la casa.   Edvige aveva un badile in mano. Appoggiò la schiena all’albero e   rivolgendosi verso la piccola serra, avanzò contando a voce alta   dieci passi. Poi si fermò, fece cenno a Isetta di raggiungerla e   mentre lei sbadilava, la sorella toglieva di mezzo la terra con un   rastrello. Affiorò un bussolotto di vetro col coperchio di stagno,   pieno zeppo di enormi banconote e poi un altro che conteneva tutti   gli “ori de famegia”. Edvige estrasse preziosi anelli, collane e   orecchini. Perle, smeraldi, rubini, lapislazzuli, c’era di tutto!   Assieme ad Isetta se li provarono e riprovarono tutti facendosi   reciprocamente i complimenti, mentre i ragazzi le guardavano e   ridevano sottovoce per non farsi sentire. Infine, li riposero nel   bussolotto. Edvige estrasse un rotolone di banconote e lo infilò nel   petto riassestandosi il corpetto. Sotterrarono bene tutto e   appoggiarono un vaso di gerani sopra la terra smossa. Rientrarono in   casa e i ragazzi continuarono a spiarle dal buco della serratura. A   turno, videro Isetta mettere le bronse dentro al ferro da stiro e   poi stirare le preziose banconote una ad una. Edvige ne fece un   pacchetto ordinato che annodò con una fettuccia. Uscirono dal retro   della casa e si diresso alla cavana, dove Antonio, seduto in barca,   appisolato, le stava aspettando per prendere in consegna il   pacchetto e partire vogando alla volta di Venezia.

I ragazzi tornarono alla frasca, consapevoli   di spartire ora un gran segreto e di avere delle responsabilità di   mutu o silenzio al riguardo.

Giovannina li lasciò e andò in cucina a   trovare la sua maestra. Aveva un peso sullo stomaco per via di quel   bacio rubato. Myriam aveva appena finito di lavare tutti i piatti e   chiamò Caronte e Pampalugo per svuotare il tinozzo dell’acqua di   risciacquo in laguna. I due a malapena ce la fecero. Giovannina li   seguì.Osservava l’acqua sudicia e maleodorante, e si tappò il naso.   Myriam, allora, le insegnò che quell’acqua dall’aspetto putrido era,   in realtà, un vero toccasana per la Laguna: conteneva la cenere che   la purificava , la farina di granoturco che nutriva le piante e i   molluschi e gli avanzi di tutto il cibo che sarebbero stati una vera   leccornia per i pesciolini. Occorreva fare attenzione e non fidarsi   mai di giudicare le cose dalla loro apparenza.

La domenica volgeva ormai al termine.   Passarono le ultime ore insieme sotto le frasche ascoltando il canto   dei grilli e giocando a briscola. Sante aveva il muso e guardava   Giovannina, ma lei si girava imbronciata dall’altra parte. Prima di   ritirarsi nel granaio, Athos passò a farsi dare da Silvio la bugia   con la candela e la lozione a base di aceto e chiodi di garofano con   cui inumidirsi la pelle per non essere divorati dalle zanzare. Nel   buio del granaio,dopo la preghiera e a candela spenta, Giovannina si   avvicinò all’orecchio di Isetta: - “Mama, Santo me ga dà un baso!”

“Cossa che ti me conti, mariassantissima!” –   esclamò Isetta. Ma lo disse con quel tono che usava per le cose di   poco conto. Poi aggiunse: “Dormi, dormi, Giovana mia, che doman sarà   già tuto passà e desmentegà!”

Giovannina dormì tranquilla.

La luce cominciava a filtrare dai fori della   parete del granaio quando si sentì un canto provenire dalla Laguna.   Era l’alba e le donne sui sandoleti vogavano in coppia sospingendo   barche traboccanti e di verdure e frutta da consegnare agli alberghi   a Venezia.

Isetta cominciò a rassettare la stanza: era   arrivato il momento di tornare a casa. Svegliandosi, Giovannina si   accorse di non essersi dimenticata del bacio di Santo, però, se   mamma Isetta aveva detto così, non c’era da preoccuparsi, prima o   poi se ne sarebbe dimenticata.

Il sandolo si allontonò scivolando dalla   riva delle Vignole mentre le sorelle si mandavano baci e saluti.   Silvio e Maria si sbracciavano per salutare anche loro, ma Sante era   imbronciato. Giovannina dalla barca lo chiamò: “Ciao Santo!” E gli   mandò un bacio accompagnato da un sorriso che accese il viso del   ragazzino sulla sponda.

Passarono un paio d’anni, fra scuola, vita e   altre vacanze alle Vignole. Un bel giorno di primavera, Sante si   presentò a casa Cappellari ai Tolentini tirato a lustro e con una   preziosa scatolina in mano: conteneva l’anello da infilare al dito   della cugina, nel caso questa avesse acconsentito a diventare la sua   fidanzata. La sorpresa per una visita così inaspettata e con una   motivazione così importante, subito dichiarata, fu davvero grande.   Isetta non potè trattenere uno dei suoi “Mariabambina!”. Fece sedere   comodo il giovanotto che era sudato per la tensione, e cominciò col   chiedergli notizie della sorella Edvige. Giovannina era concentrata   sulla scatolina. Arrotolandosi nervosamente le trecce, si domandava   quale dei preziosissimi anelli della zia fosse stato destinato   all’occasione e pensava in particolare al suo preferito: uno   smeraldo squadrato, incorniciato nell’oro giallo. Mentre la mamma e   il cugino chiacchieravano del più e del meno sbottò: “Santo, fàme   vedar l’anèo!”. “Ehh…nnò !” rispose Sante con la sua vocina ancora   bianca e flebile. Passandosi una mano sulla fronte continuò:-“Gà   dito cussì mia mama che te fàsso vedar l’aneo se ti me dìzi de sì,   sennò gnente!”. “Dai Santo mio, no stà far el rochèo e fàme véder   l’anéo” insistette la ragazza. Sante afferrò con uno scatto la   scatolina che aveva appoggiato sul tavolo, la chiuse nel pugno e   girò entrambe le braccia dietro la schiena alzandosi in posizione   “riposo”. “Giovana, ti vol deventar mia morosa sì o no?”.

“Dai Santo, mi no vogio esser to moròsa e   po’ so ‘ncora massa zòvine, no xè vero màma?”

“Sì, benedèta, gavé tempo par l’amor”,   giunse in suo soccorso la Isetta.

Sante rimase a pranzo. Parlarono,   scherzarono e l’argomento non fu più toccato. Quando ripartì per le   Vignole, Giovannina si lamentò con la Isetta per non aver insistito   a farsi mostrare l’anello. Isetta le spiegò che i sentimenti delle   persone sono mille volte più preziosi dell’anello più prezioso e non   bisogna ferirli. “Ma dime, Giovanina mia” – aggiunse poi – “par   cossa no ti vol far l’amor co’ Sante chel xè un toso cussì bon?” “Ti   schersi mama? Mi ghé vògio tanto ben, ma nol me piàze”.

“Va ben, va ben cara! Al cuor no se   comanda!”

Sedute sotto la frasca, davanti ad un caffè,   nei primi anni Sessanta, Maria e Giovanna ricordavano gli episodi   della loro infanzia alle Vignole. Erano passati tanti anni .   Giovanna si era sposata e quel giorno aveva portato con sé le sue   due bambine piccole. Era diventata commerciante, aveva aperto un   negozietto di Ricordi di Venezia sotto casa; Maria era diventata   maestra e aveva ottenuto di organizzare una classe elementare unica   per i bambini delle Vignole, fatto di cui era molto orgogliosa.   Raccontò alla cugina come fosse riuscita ad utilizzare una stanza   all’interno dell’idroscalo. Dalla prima alla quinta, tutti insieme   ad imparare. La signorina Ines le dava una mano: in qualità di zia,   bidella e addetta al trasporto, partiva alle cinque e mezza del   mattino col sandoletto, e andava ad accendere la stufa di terracotta   a tre piani per rendere accogliente la stanza. Alle sette, il   sandoletto si trasformava in “scuola bus” e imbarcava i bambini dai   pontili lungo il canale. Cera chi aveva il grembiulino e chi no, chi   metteva un fiocco e chi la cravatta, non aveva grande importanza.   Bastava un abito pulito e una testina ben pettinata per presentarsi   con decoro al cospetto dell’Istruzione, almeno per come la intendeva   Maria…. E risero insieme!

Ricordarono la maestra Myriam. In tempo di   guerra, quando gli ebrei erano ricercati, fu costretta a scappare   dalle Vignole. Salì piangente sulla sua “Stultifera navis” che i   fedeli matti avevano riverniciato e su cui avevano dipinto,   orgogliosi, quell’altisonante nome latino. Avevano intenzione di   risalire la laguna fino a Marano per nascondere la loro fatina in   qualche casone, ma di loro non si erano avute più notizie. Anche   all’ amichetta di Giovanna, Silva, non era toccata buona sorte:   nessuno della sua famiglia era tornato dalla Germania, dove erano   stati costretti a trasferirsi.

Edvige e Antonio non c’erano più e Silvio   aveva preso in mano, assieme alla moglie Rina, la trattoria e i   campi. Sante li aiutava, lui non si era ancora sposato. Aveva grossi   problemi di salute e, in più, ogni tanto gli cedeva la mascella, per   cui dovevano legargli un fazzoletto intorno al viso per sostenerla e   portarlo, di corsa, in ospedale a fargliela assestare.

Mentre parlavano, arrivò correndo un   bambinetto biondo e ricciolino. Era Antonio, figlio di Silvio,   Tonino per tutti. Prese per manina le bambine, di qualche anno più   piccole e insieme fecero una corsa. Ce n’era di spazio sull’erba   delle Vignole. C’era spazio per tutti.

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