Ho vinto numerosi premi in concorsi letterari nazionali ed internazionali fra cui “la Fiabastrocca” e “Quattro passi con” della Montegrappa Edizioni, “Napoli Cultural Classic”, “Incostieraamalfitana”, “Rino Gatti”, “Torquato Tasso”.
CHIARA
Settembre 2015 L’incontro
“Il lavoro mi ha portato lontano. Ho goduto, soprattutto nell’entusiasmo giovanile, della conoscenza di tanti posti diversi, lingue, culture. Ho imparato, all’inizio con curiosità, poi sempre più con passione, che ogni popolo soffre o sorride in modo diverso. Ho apprezzato la bellezza della vecchia Europa, ma soprattutto ho potuto constatare di persona quanta disinformazione ci sia sulle città e sui popoli dell’est. Ho visitato città bellissime come Praga, Bratislava, Lubiana, Cracovia, Budapest, Varsavia. Ho conosciuto e apprezzato la cultura, l’umanità e la dignità di questi popoli meravigliosi. Ma quando torno nella mia terra, l’atmosfera, gli odori, il fischio del vento, lo stormire delle fronde, tutto mi sembra unico e inimitabile e mio, profondamente mio. Apro il balcone della mia casa e guardo il verde che mi circonda, sento il crepitio degli arbusti secchi che un contadino sta bruciando in una terra vicina e l’inconfondibile odore delle foglie di lauro.
Siamo legati ai luoghi in cui abbiamo vissuto i momenti che contano. Ai profumi, ai sapori, alle meravigliose nostalgie.”
“Meravigliose nostalgie? Non ti sembra una contraddizione?” –intervenne Chiara.
“Hai ragione, se usiamo il termine nel significato che gli diamo normalmente e che in patologia medica viene definito “dolore del ritorno” e che, in alcuni casi, diventa anche una malattia grave. Mi riferivo più a quella che Baudelaire ha chiamato “anelito indefinito”.”
“Vuoi dire che il ritorno nei tuoi luoghi d’origine ti stimola reazioni positive?”
“Proprio così”
Il treno intanto aveva preso velocità e il paesaggio del Bel Paese correva davanti ai loro occhi senza tuttavia perdere il suo fascino.
Bruno aveva incontrato Chiara per la prima volta solo quella mattina, alla stazione di Napoli Mergellina. Si era sentito chiamare: “Bruno, ehi Bruno, ma sei proprio tu?”
Si era girato trovandosi di fronte l’Avv. Burelli, suo tutor del periodo della pratica legale. Abbracciò con affetto il vecchio collega, rinnovando il ricordo di un periodo bellissimo. I suoi giovani colleghi gli avevano parlato molto male dei loro tutor, professionisti avidi che anziché insegnare ai giovani la professione li sfruttavano per i più svariati adempimenti in giro per uffici, senza alcun rispetto per la loro dignità. Si era perciò avvicinato a questa esperienza con titubanza, ma era stato fortunato, l’Avv. Burelli era un autentico galantuomo, gli aveva insegnato il mestiere e quando gli chiedeva di partecipare a udienze al suo posto o fare altri adempimenti lo retribuiva adeguatamente.
“Cosa fai di bello Bruno, è tanto che non ti vedo.”
“Carissimo Antonio, hai ragione sono imperdonabile neanche una telefonata in questi anni, eppure ti devo tanto. Non esercito la libera professione, mi occupo del servizio legale di una grande azienda e sono molto soddisfatto del mio lavoro”.
“Sono molto contento per te, lo meriti. Ma la tua sede non è a Napoli?”
“Giro un po’ per l’Italia, adesso sono a Firenze e mi ci fermerò per molto tempo”.
L’Avv. Burelli si girò: “Chiara vieni, ti presento un vecchio amico. Bruno questa è mia figlia Chiara, va a Roma per sostenere le prove di un concorso, potreste fare il viaggio insieme, così magari sono più tranquillo”
“Papà ho venticinque anni, così mi fai passare per una ragazzina!”
“Mi fa piacere” – disse Bruno – “così chiacchieriamo un po’ e il viaggio ci sembrerà più breve”.
Ma ora quel treno gli sembrava che corresse troppo, non aveva più voglia di arrivare presto, la conversazione con quella ragazza sensibile e intelligente era per lui un autentico regalo. Degna figlia di quel padre, si scoprì a pensare.
Chiara, dal canto suo, pensava: temevo un giovane rampante borioso e arrogante e mi predisponevo ad un viaggio noioso, invece è tutt’altro. Non una sola parola sul lavoro, ma tanti racconti di viaggi e di esperienze gradevoli.
“Non prendermi per sfacciata” – disse ad un tratto Chiara, allungandogli il cellulare – “registra il tuo numero sulla mia rubrica, magari così abbiamo occasione di risentirci”.
Bruno sorrise e nel prendere il telefono le diede il suo per la stessa operazione.
“Finora ho parlato quasi solo io, ti sarai annoiata, adesso, se vuoi, dimmi cosa esattamente vai a fare a Roma”.
“Si, mi sono annoiata moltissimo” – rispose Chiara con un sorriso che esprimeva il contrario – “sono diplomata in pianoforte al conservatorio, una grande passione che spero diventi anche un lavoro. Domani e dopodomani ci saranno due audizioni per il concorso ad un posto in una grande orchestra. Incrocio le dita”.
“Le incrocio anch’io per te. Ma adesso mi spiego da dove deriva la tua spiccata sensibilità: sei una musicista!”
Con il dispiacere di entrambi l’altoparlante annunciò l’arrivo alla Stazione Termini. Si salutarono con una vigorosa stretta di mano, ciascuno portando dentro di sé il piacere di una conoscenza inaspettata.
Gennaio 2018 L’incidente
L’aereo era decollato in orario dall’aeroporto di Adelaide. Chiara guardava il bel panorama dal finestrino, era serena, il concerto all’Adelaide Art Festival era stato un successo. Non vedeva l’ora di raccontarlo a Bruno. Certo si erano sentiti per telefono, ma aveva voglia di stare fra le sue braccia e raccontargli tutto. Non gli avrebbe detto dell’acquisto che aveva fatto nell’atelier più importante della città, un abito da sposa favoloso. Quello è un segreto che lo sposo non deve scoprire prima di avviarsi sull’altare.
Chiuse gli occhi e pensò alla fortuna di quell’incontro casuale di tre anni prima alla stazione, è proprio vero che è il caso che orienta la nostra vita. Nel mese di settembre del 2015 aveva realizzato il sogno di entrare in una grande orchestra e aveva incontrato l’uomo della sua vita.
Dopo circa due ore dal decollo, si accese la spia che invitava ad allacciare le cinture e il comandante dall’altoparlante annunciò una perturbazione.
L’aereo cominciò a ballare, prima con brevi vibrazioni, poi sempre più forte, un vuoto d’aria risucchiò violentemente l’apparecchio verso il basso. I passeggeri iniziarono ad urlare, alcuni si alzarono nonostante gli ammonimenti dell’equipaggio. L’altoparlante gracchiò di nuovo, lo steward invitava i passeggeri a prendere il giubbotto di salvataggio che si trovava sotto ogni sedile raccomandando di gonfiarlo solo fuori. Non finì neanche la frase che si ebbe lo schianto dell’aereo sull’acqua.
Si aprirono i portelloni e furono fatti uscire gli scivoli, a bordo regnava il caos. Chiara era completamente frastornata, si alzò, aprì la cappelliera e prese la scatola che conteneva il vestito stringendola al petto. Una hostess le disse di non fare stupidaggini e cercò inutilmente di strapparle il pacco e di indirizzarla verso lo scivolo, poi presa anche lei dal panico fuggi verso l’uscita e salì su uno dei gommoni di salvataggio.
Tutti i passeggeri e i membri dell’equipaggio riuscirono a salire sulle imbarcazioni e alcune ore dopo furono raccolti da una corvetta della marina inviata in loro soccorso. Tutti tranne una.
Chiara era rimasta avvinghiata allo scatolone marrone, poi la fusoliera, priva ormai delle ali che si erano staccate nell’impatto, cominciò ad inclinarsi e ad inabissarsi. Solo allora si rese conto di cosa stesse succedendo, indossò il giubbotto e si tuffò nell’oceano.
Il mare era calmo, ma la notte nera come la pece. Si rassegnò al peggio.
Le prime luci dell’alba la trovarono ancora vigile, si guardava intorno ma vedeva solo acqua, mare in tutte le direzioni. Il giubbotto la teneva a galla, chiuse gli occhi vinta dalla stanchezza e desiderò di non aprirli più, pregando di passare dal sonno alla morte.
Fu svegliata dallo stridio di un grosso uccello marino, aprì gli occhi ma la luce abbagliante dell’alba, la stanchezza e gli occhi incrostati dal sale non le consentivano di mettere a fuoco alcuna immagine.
Sentì un lieve sciabordio, poi quattro braccia possenti la tirarono su e l’adagiarono sul fondo di un’imbarcazione. Non fece in tempo a vedere chi fossero perché in quel momento svenne.
Al suo risveglio, molte ore dopo, si ritrovò sdraiata su una stuoia davanti alla porta di una capanna. Aveva ancora il vestito e il giubbotto di salvataggio, ma il sole l’aveva asciugata. Un’indigena dalla pelle scura e i capelli molto ricci, appena la vide sveglia, si avvicinò con una grossa foglia su cui era della frutta di una varietà e di una forma che non aveva mai visto prima.
La ringraziò, ma questa non rispose, evidentemente non comprendeva la lingua. Provò allora in inglese e poi in francese, ma non ottenne alcuna reazione.
Mangiò un po’ di frutta, ma lo stomaco ancora non accettava cibo, sapeva di non doverlo forzare, si sarebbe riabituata un po’ alla volta. Si sentiva debole e confusa, tolse il giubbotto e si riaddormentò.
Bruno e Antonio, il padre di Chiara, non si davano pace: 124 passeggeri e 5 membri dell’equipaggio tutti in salvo, solo il 125° passeggero, Chiara, mancava all’appello.
Dall’Ambasciata di Sidney si erano dati da fare, avevano interrogato più volte il comandante dell’aereo, gli esperti della compagnia, ma nessuno era in grado di dare una spiegazione. Erano entrambi decisi a non darsi per vinti, ma non sapevano cosa fare.
Un pomeriggio Bruno ricevette una telefonata concitata da Antonio: “Presto vieni a casa mia, c’è qualcosa che devi vedere”
Per fortuna Antonio non abitava lontano, altrimenti Bruno avrebbe fatto di sicuro un incidente: correva come un pazzo sullo scooter. Dopo pochi minuti entrò trafelato nel portone, non ebbe la pazienza di aspettare l’ascensore e fece le scale a quattro a quattro.
Quando lo vide così esagitato e con il respiro corto, Antonio gli disse. “siediti e ascolta la storia che racconta questa ragazza”.
Sujong Kim, l’hostess coreana della compagnia aerea era molto imbarazzata e sedeva sulla punta della sedia, si rendeva conto del dramma che vivevano in quella famiglia e si disse che aveva fatto la cosa giusta andando in quella casa.
“Alcuni giorni fa mi ha chiamato una collega che era con me su quel volo, informandomi che erano stati recuperati molti bagagli galleggianti ed erano a disposizione presso il deposito della Compagnia, così decisi di andare a vedere se per caso ci fosse anche la mia borsa da viaggio. In realtà c’erano poche cose, quelle leggere che non vanno a fondo e c’era questo scatolone marrone” – Così dicendo l’hostess indicò una scatola rivestita di plastica marrone, tutta rovinata dalla permanenza in acqua. “Allora mi sono ricordato dell’episodio della passeggera Chiara Burelli”.
“Quale episodio?” – saltò su Bruno.
Dopo il racconto, Antonio restò seduto in poltrona distrutto, Bruno si inginocchiò vicino al pacco, lo aprì temendo di trovare quello che trovò: completamente rovinato dall’acqua e dalla salsedine, ma quello era inequivocabilmente un vestito da sposa. Si era sacrificata per salvare il vestito, era come se avesse dedicato a lui la sua giovane vita. Non riuscì a trattenere un pianto disperato.
Chiara, recuperate le energie, cominciò a guardarsi intorno. Le prime due cose di immediata evidenza furono: gli abitanti di quell’isola sperduta nell’oceano non conoscevano i vestiti, vivevano completamente nudi, con disinvoltura, senza tabù o falsi pudori. La seconda cosa, ancora più incredibile, non parlavano. Comunicavano fra loro solo per cose indispensabili e solo a gesti. Non udì un solo suono uscire da quelle bocche. Per questo quando aveva tentato di parlare non avevano reagito, si persuase che fosse un popolo di sordomuti, non trovava altra spiegazione.
Nei suoi confronti erano gentili e sereni, non la trattavano come un’estranea, ma si rivolgevano a lei come se fosse una di loro da sempre.
Per adeguarsi, anche se con un certo sforzo, si tolse i vestiti, compresa la biancheria intima. Poi, piano piano, cercò di interpretare i segni per comunicare, comprendere e farsi comprendere. In questo le fu di grande aiuto essere musicista, un’arte che prima di produrre suoni sublimi è fatta di segni e di matematica.
Cercò di capire qual era il ruolo delle donne in quella società, in modo da adeguarsi e rendersi utile, facendo le cose che facevano le altre. Ma qui ebbe ancora un’altra sorpresa: non c’era divisione di ruoli e di compiti in base al genere: uomini e donne erano uguali.
Si trovò proiettata in una specie di paradiso scevro da qualsivoglia sovrastruttura personale o sociale, senza l’ipocrisia tipica della cosiddetta società civile. Non esisteva il concetto della proprietà privata, tutto era di tutti e nessuno ne approfittava: non ce n’era motivo, visto che era tutto a disposizione. Tuttavia non c’era accenno di promiscuità, alla fine di ogni giornata le famiglie si ritiravano nella capanna nel reciproco rispetto dell’intimità.
Pensò: se un giorno ritorno nel mio mondo e lo vado a raccontare nessuno mi crederà, questo è sicuro.
Gli indigeni erano bravi contadini e Chiara imparò presto a dissodare, seminare e curare le piante.
Anche se avevano delle canoe, non andavano a pesca perché erano totalmente vegetariani: i pescatori, se vogliamo chiamarli così, andavano a raccogliere alcune alghe commestibili che facevano parte della loro alimentazione.
Nonostante questa esperienza positiva, ogni volta che pensava a Bruno e a suo padre sentiva una fitta violenta, un dolore sordo e inestinguibile. Aveva perso la cognizione del tempo, cosa facile in un posto dove non esistono orologi o calendari, ma pensò che ormai dovevano essere passati sei o sette mesi dall’incidente.
Novembre 2018 Bruno e Antonio partono
Erano entrambi tesi, avrebbero voluto coltivare una speranza, ma era davvero difficile, a spingerli in questo tentativo era stata la disperazione null’altro che la disperazione. Ma era meglio tentare e fallire piuttosto che stare a Napoli a macerarsi. Magari dopo avrebbero potuto trovare una strada di rassegnazione.
All’aeroporto di Adelaide Mr. Crown li accolse e dopo un breve saluto li condusse nel suo ufficio, ai margini della zona aeroportuale riservata ai velivoli privati non di linea.
Spiegò una grossa cartina sulla scrivania: “Ecco disse” – indicando con l’indice un punto in mezzo all’oceano – “l’aereo è precipitato in questo punto. Tutt’intorno acqua e solo acqua per oltre milletrecento miglia. Ho sorvolato più volte quella zona, per cui ne ho esperienza diretta, signori in quella zona non c’è nient’altro che mare”.
Andarono via distrutti. “Non mi arrendo” – riprese Bruno che non si rassegnava – “ci vorrà molto più tempo ma con una buona barca viaggiando a 18 nodi ci vorranno sei giorni. Antonio, se non te la senti vado io, tu mi fai da supporto da terra”.
“Si facciamo così, ormai alla mia età non sopporto il mare a lungo”
Noleggiarono una buona imbarcazione con pilota e marinaio. Bruno scoprì che poteva fare anche 22/23 nodi e quindi raggiungere la zona in meno di sei giorni. Partirono. Inserirono le coordinate del punto in cui si era inabissato il volo 1247 Adelaide - Londra e raggiunsero il punto il quarto giorno di navigazione. Da questo momento iniziarono ad esplorare la zona con una rotta ellittica che li portava gradatamente ad esplorare lo spazio circostante.
Spossato, Bruno andò a riposare un po’ nella cuccetta, ma dopo poche ore senti un urlo del marinaio: “Comandante, c’è qualcosa a ore dieci”
Saltò giù e corse come un pazzo sulla coperta: l’isola era lì davanti ai suoi occhi: “Lo sapevo, lo sapevo!”
Il comandante osservò: ”Non mi ero mai spinto tanto lontano dalla costa, ma questa è un’autentica sorpresa”.
Poi aggiunse: “E’ molto frastagliata, dobbiamo circumnavigarla per trovare un punto di approdo”
Gli abitanti dell’isola osservarono l’arrivo della piccola nave con evidente preoccupazione, poi corsero da Chiara e le fecero segno di indossare i vestiti, poi la condussero sul lato nord dell’isola dove c’era una spiaggia, unico punto dove poteva accostarsi un’imbarcazione.
Chiara vide la nave e restò inebetita per la sorpresa e l’emozione, poi si riebbe e capì il perché di tutta quella concitazione da parte di gente sempre tranquilla e comprese perché le avevano fatto indossare i vestiti: la sopravvivenza di quella piccola tribù era legata al loro isolamento da un mondo che non potevano condividere.
Vide che portavano via le canoe e ogni segno della loro presenza, poi scomparvero tutti verso l’interno.
Dalla piccola nave si staccò una scialuppa che raggiunse rapidamente la riva.
Ne discesero tre uomini, davanti a tutti Bruno. Non appena la vide corse verso di lei e la prese fra le braccia senza parlare, le lacrime che venivano giù copiose glie lo impedivano.
Poi si staccò e le chiese: “Come stai? Non vedo nessuno sei sola su quest’isola?”
Chiara non parlò, fece solo segno di si con la testa e poi indicò la barca per dire che voleva andare via.
Bruno non chiese altro. Aveva visto che stata bene e per il momento questo gli bastava. Attese con pazienza che facesse la doccia e indossasse dei pantaloni e una maglietta pulita forniti gentilmente dal comandante che le chiese: “Come ha fatto a sopravvivere tanti mesi da sola su quest’isola?”
Chiara ingoiò vistosamente e tentò di parlare: “N-o-n p-a-p-a-r-l-o d-a-d-a t-a-a-n-t- o” – poi si fermò spossata.
“Hai ragione” – intervenne Bruno – “dieci mesi da sola senza parlare con nessuno, adesso devi recuperare lentamente”.
Intanto si chiedeva e se lo chiedeva anche il comandante come non fosse impazzita e come avesse trovato cibo e acqua per sopravvivere. Ma avrebbe rimandato le domande fino a che non si fosse lentamente ripresa.
Poi andò nella cabina di comando e chiese di allacciare una comunicazione con la Capitaneria dove c’era Antonio, glie lo passarono e l’informò con tatto del ritrovamento sperando che non gli venisse un colpo per l’emozione.
Chiara abbracciò il padre, riabbracciò Bruno, pianse, rise, ma non parlò.
Tutti pensarono che avrebbe avuto bisogno di tempo. Il medico di turno all’ospedale di Adelaide la trovò in buone condizioni fisiche e mentali.
Arrivati a Napoli Antonio invitò Bruno a trasferirsi nella loro casa, Chiara avrebbe recuperato più velocemente con lui vicino.
Non si fece pregare.
Chiara intanto aveva ripreso completamente l’uso della parola, ma parlava sempre a bassa voce e portava costantemente tappi di cera nelle orecchie. Restava sempre in casa e pregava tutti di non accendere radio o televisore.
Una sera, rimasti soli, Bruno la vide più turbata del solito e le chiese: “Cosa c’è, vuoi parlamene?”
Chiara fece un lungo sospiro: “si è venuto il momento di parlartene “.
Così Bruno conobbe la storia di quei lunghi mesi e fu contento di sapere che era stata bene, accolta da gente speciale.
“Capisco perché sono spariti alla vista della nave, compiendo un estremo atto di altruismo lasciandoti andare, fidandosi di te”.
“Già, e noi non li tradiremo”.
“Quando pensi di uscire da questo isolamento?”
“Devo farlo con cautela, ti confesso che ho una gran paura. Penso a quando mi troverò nella calca della città, fra gente che parla, urla, che discute, che litiga, dicendo con tante inutili parole molto meno dei silenzi dei miei amici dell’isola, senza riuscire a coprire con tanti vestiti semplici o griffati le proprie vergogne, sconosciute alle caste nudità dei miei Maori Silenziosi.”
“Si, mi rendo conto che è come passare dal paradiso al purgatorio”.
“Sarà dura anche per chi mi è vicino”
“Sono venuto a prenderti e tu potevi nasconderti come gli altri, non ti avremmo trovata”
“La mia vita è con te, questo è il mio mondo”
“Hai saputo trasferire a me questa tua straordinaria esperienza, una lezione che potrà renderci migliori, la nostra vita da questo momento sarà diversa”.
Quando devo andare in un ufficio pubblico lo faccio sempre malvolentieri: troppo spesso trovo persone scorbutiche, maleducate, sfaticate che con motivazioni assurde mi fanno tornare più volte anche per un adempimento semplicissimo.
Per questo, anche quella mattina mi avvicinai allo sportello del comune di malumore. Mi indirizzarono in un ufficio interno: sulla porta c’era la targhetta Dott.ssa Ada Vespri.
Bussai e fui invitato a entrare. Dietro la scrivania, con il capo chino su una pratica che stava firmando, una giovane funzionaria con un caschetto di capelli neri al mio ingresso alzò la testa e con un sorriso m’invitò a sedermi. Mi guardai in giro perplesso.
“Cosa c’è?” – mi chiese.
“Niente. Mi stavo solo domandando se avevo sbagliato posto: questo è un ufficio comunale, vero?”
Si rabbuiò in volto, ma non disse niente.
“Mi scusi, non sono abituato ad essere ricevuto con gentilezza…”
“Si, mi rendo conto di quello che vuole dire ma, mi consenta, lei non è migliore di quelli che critica, visto che fa di tutta l’erba un fascio!”
“Touché, madame, touché. Chiedo venia”.
“Ecco, bravo, adesso mi dica cosa posso fare per lei”
Dopo pochi minuti avevo in mano il documento richiesto. Mi alzai e lei fece altrettanto porgendomi la mano. “Mi sa che domani avrò bisogno di un altro certificato e anche dopodomani” – dissi con un sorriso.
Sorrise anche lei, capendo che quello era un modo per chiederle scusa per la gaffe di prima.
Passavo davanti al municipio alcuni giorni dopo e sorrisi ancora pensando a quell’episodio, ma la mia attenzione fu attirata bruscamente da un vociare confuso che proveniva da un gruppetto di persone radunate sulla piazzola antistante l’edificio.
Incuriosito mi avvicinai per capire di cosa si trattasse. In effetti la mia è una piccola città e non è facile vedere manifestazioni di protesta davanti agli uffici pubblici, come avviene nelle grandi metropoli. In quel mentre dai manifestanti partirono delle urla all’indirizzo di una persona che usciva dal portone, una giovane snella con un caschetto di capelli neri: la mia gentile funzionaria!
Un vigile urbano allargò le braccia con fare protettivo, ma uno dei più esagitati si staccò dal gruppo avventandosi urlando nella direzione della donna che, nel frattempo, era giunta all’angolo del marciapiede dove mi ero fermato. Istintivamente mi frapposi fra i due e dissi all’uomo: “Non faccia stupidaggini di cui potrebbe pentirsi”.
Questi, preso alla sprovvista, si fermò e io ne approfittai per condurre con delicatezza la giovane, che appariva sconvolta, verso la mia auto parcheggiata poco più avanti, facendola accomodare sul sedile del passeggero.
Solo dopo aver percorso alcuni metri, la donna sembrò accorgersi di me: “Ah, è lei!”
“Praticamente lei è salita nell’auto di uno sconosciuto. E se fossi stato un rapitore con cattive intenzioni?”
“Ha ragione, la paura di un’aggressione non mi ha fatto ragionare”.
“Comunque sono contento che si sia ricordata di me! Ma ora, mi dica, cosa sta succedendo là fuori?”
Si girò a guardarmi forse chiedendosi se poteva fidarsi di un quasi sconosciuto. Compresi il suo stato d’animo e le dissi: “Mi perdoni, sto diventando troppo intrusivo, mi dica dove devo accompagnarla.”
“Lei è gentile, mi lasci alla prima fermata del bus, in piazza Italia.”
Arrivati al posto indicato, la giovane afferrò la maniglia della portiera, ma esitava. Io capii che aveva bisogno di parlare: “E’ quasi ora di cena e io non ho nessuno che mi aspetta a casa, che ne dice di continuare il discorso davanti a una bella minestra calda, conosco un posticino semplice e tranquillo qui vicino.”
“Andiamo” – disse semplicemente.
Per rompere il ghiaccio ci presentammo parlando un po’ di noi. Io le raccontai del mio lavoro come informatore scientifico per una nota casa farmaceutica, lei mi parlò del suo trasferimento dalla sua città di origine solo sei mesi prima, dopo aver vinto il concorso come dirigente al comune.
“Perché ce l’aveva con lei quell’energumeno?”
“Già, non mi aspettavo questa reazione…in realtà mi avevano avvisato di procedere per gradi…ma il mio carattere deciso non mi consente di ricorrere a compromessi. Il fatto è che ho messo gli impiegati della mia ripartizione sotto stretto controllo: niente più assenze ingiustificate, niente orario ridotto, osservanza delle regole e, soprattutto, ho sospeso un impiegato che aveva timbrato il cartellino per un collega.”
“Ma non avrebbe dovuto sanzionarli entrambi?”
“Il secondo provvedimento è in corso di notifica e quel tipo esagitato è proprio uno dei due”.
“Ha fatto il suo dovere”.
“Si” – disse con uno sguardo deciso e con energia recuperata – “e continuerò a farlo, non mi faccio intimorire…perché sorride adesso?”
“Posso parlare con franchezza?”
“E allora diamoci del tu, così ti viene meglio, del resto ci siamo conosciuti e possiamo togliere le barriere formali”.
“Accidenti, e mi chiedi pure perché sorrido, sei una persona rara: carattere forte e gentilezza e sei pure molto bella”
“Ehi, dico, ci stai provando?”
“Non ancora, è presto, ci siamo appena conosciuti!”
“Devo dire che con questo tuo modo leggero e, comunque, rispettoso, mi hai fatto riprendere alla grande.
Adesso che ho ripreso lucidità, credo che sia il caso che io vada alla polizia per far verbalizzare l’accaduto”.
“Ti accompagno in Commissariato”.
Non volevo sembrare pressante, per cui feci passare tre giorni, ma friggevo per la voglia di chiamarla. Al quarto giorno andai direttamente al municipio.
C’erano delle persone dentro e io aspettai fuori che si liberasse, poi entrai.
“Ho bisogno di un documento che attesti la mia idoneità ad un invito per questa sera”.
“Lo consideri fatto, sarà pronto per le ore 20,30”
Dopo questo breve scambio di battute mi girai e uscii senza aggiungere altro, sicuro che Ada avrebbe apprezzato la mia discrezione sul posto di lavoro.
Gli spaghetti con le vongole erano da oscar e noi li gustammo scambiando solo poche parole, poi in attesa del secondo, le chiesi: “Come sta andando sul lavoro, se ti va di parlarne”
“Si mi va, anche perché non ne parlo con nessun altro, sindaco e assessore mi ascoltano quasi irritati…”
“…certo, gli fai perdere consensi, che è poi l’unica cosa che gli interessa”.
“A me invece interessa quello che dice la gente comune, e più d’uno mi ha ringraziato perché è già evidente il miglioramento dei servizi”.
“E allora ci vuole un brindisi” – dissi con enfasi, riempiendo due bicchieri di falanghina.
“Mi viene un’idea” – dissi dopo un po’ – “un medico mio cliente che si occupa in modo fattivo di una onlus, mi ha invitato ad una serata in cui si tratteranno temi importanti. Se la cosa non ti annoia…”
“No, tutt’altro, vengo volentieri”.
Stette per un po’ pensierosa, poi parlò: “Vai anche alle riunioni delle onlus, stai accumulando un sacco di punti, ho paura che di colpo esca fuori la tua vera natura, magari di folle maniaco…”
Per continuare nello scherzo canticchiai la canzone di Zucchero: “Perché c’è un diavolo in me, baby, forse c’è un diavolo in me…”
“Ah, ah, sei proprio un matto simpatico”.
Al convegno l’intervento di presentazione del medico mio cliente fu breve ed efficace. Le tematiche e i programmi dell’associazione meritevoli d’attenzione. Poi…e già poi…Il fatto è che per avere contributi pubblici bisogna invitare politici influenti e il personaggio che salì sul palco era di uno squallore unico. Questi cominciò a pontificare sui suoi meriti personali perché avrebbe procurato quanto necessario per l’acquisto di carrozzine e altri presidi. Poi si girò verso un invalido in prima fila e recitò una parte che certamente aveva imparato a memoria per l’occasione: “Abbiam deciso che alla sua condizione/si attribuisca un più appropriato nome/Non più invalido, termine innominabile/Ne’ handicappato e neanche disabile/Bensì un più giusto: diversamente abile”.
Dalla platea dei lecchini partì un applauso entusiasta, mente io e Ada ci guardavamo sgomenti. Ma fu a questo punto che l’uomo senza una gamba dal carrozzino replicò: “E no onorevole, quando è troppo e troppo/non era meglio quando mi chiamavi zoppo?”. Mentre si levava qualche timido applauso di approvazione, io e Ada tenevamo la testa abbassata per non far notare il nostro scoppio di ilarità. Mentre poi uscivamo dalla sala, Ada gli diede una pacca sulla spalla, io gli feci segno con il pollice alzato, lui sorrise per questa nostra manifestazione di solidarietà.
Decidemmo di andare a piedi a una pizzeria in centro e, mentre camminavamo immersi nei nostri pensieri, ruppi il silenzio: “Devono stare attenti questi politici sull’uso del ‘diversamente’, ecco ad esempio io potrei dire che quel politico veneziano è diversamente alto”
“E io potrei dire” – continuò Ada stando al gioco – “che quello toscano è diversamente simpatico”
“…o che quello pugliese è diversamente coerente”
“…o che quello campano è diversamente colto”
“…o che tanti di loro sono diversamente onesti”
“Basta, basta, altrimenti solo a nominarli mi passa l’appetito.”
E così, inaspettatamente, quel famoso giorno del certificato al municipio avevo conosciuto la mia compagna ideale. Seria quando era necessario, ma anche gioiosa, simpatica e affettuosa.
Ci volle tempo per superare una timidezza che faceva parte del carattere di entrambi e forse anche una sorta di remora, probabile retaggio di vecchie delusioni, ma solo dopo due mesi di uscite serali, teatro, concerti, lunghe passeggiate, riuscimmo a trovare la sintonia giusta per concederci un amore dolce e delicato.
“La prossima settimana devo andare per tre giorni a Losanna ad un meeting della mia azienda per un aggiornamento su nuovi medicinali, vieni con me?”
“Magari potessi! Ma in questo periodo non posso lasciare il lavoro neanche per tre giorni, ma appena possibile ci concederemo il lusso di una bella vacanza insieme”.
Ritornai da questa breve assenza che era ormai sera e andai direttamente a casa di Ada. La mia brava marchigiana aveva preparato una cenetta tipica della sua terra che andava dalle olive ascolane alle lasagne vincisgrassi. Dopo cena sedemmo sul divano a sorseggiare un buon verdicchio.
“E allora, com’è andata, è stata la solita riunione noiosa.”
“Non mi sono annoiato, tutt’altro, ma la cosa più interessante è stata la conoscenza di Pedro, un collega di origini brasiliane che vive a Udine e soprattutto straordinaria la storia che mi ha raccontato. Per caso ci siamo trovati a pranzo allo stesso tavolo e, chiacchierando del più e del meno, siamo entrati in confidenza e quando gli ho chiesto com’è che dal Brasile si trova in Italia, mi ha detto che la sua storia non l’aveva mai raccontata a nessuno, ma ora aveva voglia di parlarne.”
“Stai accendendo la mia curiosità, continua. Aspetta solo che prendo la bottiglia e riempio di nuovo i bicchieri”.
“Ecco, mi ha detto che viveva in una povera favela a Tatuì, una piccola città nello stato di San Paolo. A quindici anni aveva da tempo abbandonato gli studi e viveva già di espedienti. Un giorno un compagno lo convinse a fare un furto in una casa, ma i due furono scoperti. L’amico, più scaltro riuscì a fuggire, lui fu invece catturato dalla polizia.
Il giorno del processo, la vittima del tentato furto, tale Cristina Garbin, di lontane origini friulane, era fuori l’aula in attesa di essere chiamata per la testimonianza. Si avvicinò a lei una ragazza poco più che ventenne dall’aspetto molto dimesso, in lacrime, era la sorella di Pedro: “Signora, mi aiuti, io e mio fratello siamo orfani, se Pedro va dentro ne uscirà come un autentico delinquente senza più speranze”.
“Sono una madre e ti capisco, rispose Cristina Garbin, ora ne parlo con il giudice”.
Il magistrato disse che c’era una possibilità attraverso un nuovo sistema di giustizia sociale”.
“Interessante” - interloquì Ada – “di che si tratta?”
“La Corte di Giustizia dello Stato spiegò il giudice, aveva di recente deciso di applicare quella che viene definita la “giustizia riparatoria”: l’autore del furto viene messo a confronto con le sue vittime, partecipa ad una sorta di autoanalisi con la comunità del luogo, spiega i motivi del suo gesto, racconta i suoi problemi, accetta di ricompensare il maltolto. Alla fine, con il consenso del giudice, entra a far parte di un programma che prevede dei lavori socialmente utili nel quartiere dove ha commesso il furto, attività sportive e di studio, campagne di sensibilizzazione nelle scuole, corsi di educazione civica. Fino alla possibilità di essere “adottato” dalle stesse persone che ha derubato.
Cristina Garbin era vedova e aveva un figlio di 10 anni, aveva un lavoro che la teneva impegnata tutto il giorno. Ciononostante decise di adottare Pedro. Più volte ripensò nei giorni successivi a questa decisione presa d’istinto, magari non era stata una bella idea quella di mettere vicino al suo piccolo un fratellastro più grande che aveva manifestato una certa tendenza a delinquere.
Pedro invece rispose molto bene a questo programma, riprese a studiare e conseguì il diploma alle scuole superiori e andò sempre d’accordo con il fratello piccolo. Quando Pedro aveva vent’anni, arrivò da Udine la notizia della morte di un vecchio zio di Cristina che non aveva altri parenti, per cui ereditò la casa e un discreto patrimonio, per questo decisero di trasferirsi in Italia.”
“E’ una bellissima storia” – concluse Ada – “sono colpita soprattutto dal bel progetto della giustizia riparatoria. Magari non funziona sempre, ma tanti ragazzi possono essere salvati. Ancora una curiosità, dimmi, questo Pedro, che tipo è?”
“E’ un tipo posato, che sa proporsi bene. Del resto lo sai la mia azienda è molto rigorosa nella scelta dei collaboratori. Adesso ha trentadue anni, due figli che adorano nonna Cristina e tutto questo lo deve alla buona idea di un politico che, una volta tanto, ha fatto una legge straordinariamente utile”.
“Sai Guido, anch’io ho qualcosa da raccontarti, anzi ho bisogno di sentire il tuo parere”
“Di che si tratta?”
“Al tempo delle superiori avevo una carissima amica, con cui studiavo e passavamo quindi molto tempo insieme facendoci buona compagnia. Poi si trasferì a Roma con la famiglia e ci siamo un po’ perse di vista. L’altro giorno la madre di Alessandra, così si chiama la mia amica, mi ha chiamata e mi ha raccontato che è molto preoccupata perché la figlia da un po’ di tempo si è chiusa in se stessa e rifiuta qualsiasi contatto. E’ andata a trovarla a Firenze dove vive e lavora, ma non è riuscita a farla aprire. Un giorno che era da sola in casa, ha aperto il pc della figlia e ha trovato questo file che mi ha inviato. Leggilo anche tu poi ne parliamo.”
FILE DI ALESSANDRA
Lunedì mattina Carla mi ha telefonato per dirmi che non poteva venire con me alla segreteria per l’iscrizione ai corsi. Ci sono rimasta un po’ male, ormai non facevo niente senza di lei e non sopportavo la sua assenza anche se breve. Dopo l’esame di maturità, brillantemente superato da entrambe, ora si prospettava per noi una nuova vita: gli studi universitari. Ho deciso di andare lo stesso da sola, avrei preso i moduli anche per lei. Confesso che l’enorme salone dell’ateneo mi ha messo in soggezione, come pure le alte statue di marmo e l’aura quasi mistica del luogo. Mentre me ne stavo impalata lì a bocca aperta si è avvicinato un ragazzo: “Matricola, eh?!” –
“Cosa?” – ho risposto un po’ spaventata e anche imbarazzata.
“Ce l’hai scritto in faccia. Ma non ti preoccupare hai la stessa espressione che probabilmente avevo io lo scorso anno. Che facoltà hai scelto?”
Parlare con questo sconosciuto un po’ mi intimidiva, ma poi ho pensato che fra giovani è così che deve essere e poi eravamo in una sede istituzionale. “Scienze politiche” – risposi.
“Ah, bene” – replicò con un gran sorriso – “siamo colleghi allora. Io mi chiamo Giovanni, vieni andiamo in segreteria.”
La fila era lunga e siamo rimasti insieme a lungo a parlare e lui si è dimostrato un ragazzo educato e allegro. Mi ha raccontato il suo primo anno di università dicendo che potevo fare tesoro della sua esperienza in modo da evitare alcuni errori da matricola inesperta. Carla ha preso una fastidiosa influenza che l’ha tenuta a letto per diversi giorni e così io, inventando le scuse più varie, ormai passo le mattine a parlare con Giovanni. Quando lo vedo arrivare da lontano, con la sua andatura un po’ dinoccolata, provo un’emozione sconosciuta. Adesso la cosa più difficile sarebbe stato parlarne con Carla e infatti, appena le ho accennato l’argomento, cercando di essere più delicata possibile, si è subito infuriata come un’erinni. “Hai messo la testa fuori da sacco, ti stai comportando come una puttanella qualsiasi, mi fai schifo” e si e messa a piangere con una disperazione che mi ha lasciato senza parole.
Sono andata via pensando che era meglio farla calmare prima di riprendere il discorso, ma da quel giorno non ha voluto più incontrarmi. Due anni dopo, quando più ormai non ci pensavo, mi ha richiamato. Sono rimasta muta con il telefono in mano, non sapevo cosa dire. “Ale, ci sei” – “S…i, s…i, ciao Carla”.
“Devo incontrarti per dirti due cose. Ci vediamo fra un’ora al Bar Clovis”. Dio com’era cambiata! La ragazza magra e ossuta che conoscevo aveva lasciato il posto ad una bella donna formosa, ben vestita e dagli occhi limpidi, quasi non la riconoscevo.
“La prima cosa che devo dirti è: scusa, amica mia, scusa, vieni qua fatti abbracciare e perdonami. La seconda cosa è che, ecco, ho fatto anch’io il tuo percorso, nel momento in cui la vita si è presentata per quella che è sono uscita dal pantano, avevi ragione tu che l’avevi capito prima di me. Adesso sto con Giorgio, un ragazzo meraviglioso.”
“E…e lui sa…lui sa…?
“Si, non è stato facile, ma non avevo alternativa, non si può instaurare un rapporto nascondendo quello che sei, o meglio: quello che sei stata. All’inizio è stata dura, ma lui ha capito e la cosa ha reso ancora più forte il nostro rapporto. E tu? Con Giovanni va bene?”
“E’ da un po’ che non ci vediamo e non ci sentiamo. Non ho avuto la forza che hai avuto tu e non sono riuscita a parlargliene, mi sono chiusa in me stessa e questo mio atteggiamento ci sta allontanando. Sono disperata, cosa devo fare?”
“Trova il modo giusto per raccontargli tutto, non hai alternative. Se ti capirà allora è l’uomo giusto per te.”
Il racconto di Alessandra a questo punto si interrompe, ma è chiaro ormai il motivo della sua depressione.
Ada e io avevamo deciso di comune accordo di non iniziare subito una convivenza, anche se desiderata, per cui mi fermavo la notte da lei solo nel fine settimana. La mia attività mi portava spesso fuori sede, per cui passarono cinque giorni prima di incontrarci di nuovo. Ma ci sentivamo spesso e il fatto di esistere l’uno per l’altra era già una straordinaria compagnia. Ripensavo continuamente ad Alessandra e leggevo più volte la sua storia che Ada mi aveva lasciato. Fin dalla prima lettura avevo avuto la sensazione di conoscere la persona che l’aveva scritta e dopo ogni rilettura questa impressione ne usciva confermata, ma per quanto mi sforzassi non riuscivo a ritrovarla fra i volti presenti nella mia memoria.
Ada era sempre misurata, eppure appena entrai mi venne incontro e mi abbracciò con un trasporto inusuale, mi strinse a lungo senza parlare. “Scusa” – poi disse – “non ti ho fatto nemmeno posare la borsa e togliere il soprabito”.
Qualcosa non andava, la voce era tremolante e aveva il viso molto pallido e due profonde occhiaie.
Non dissi nulla e andai a fare la doccia mentre lei preparava la cena. A tavola mangiammo per un po’ in silenzio, finché cominciai a raccontarle del mio breve viaggio e delle persone che avevo incontrato. Cercavo in tal modo di rompere quella strana atmosfera, ma non feci domande. Lei continuò nel suo atteggiamento cupo e silenzioso.
Andammo a letto presto, Ada mi venne vicino e strinse il suo corpo al mio abbracciandomi con forza.
“E’ venuto il momento di buttare fuori tutto, liberati”.
“Non voglio perderti” – disse velocemente, quasi senza fiato, e affondò la faccia nel mio collo.
“Questo non accadrà mai perché tu sei…tu sei, ecco: diversamente banale” – dissi cercando di riprendere quel giochino che ci aveva tanto fatto divertire, nel tentativo di sdrammatizzare quell’atmosfera cupa.
“Di-ver-sa-men…” – cominciò a sillabare lei molto lentamente, poi continuò, sempre parlando piano e guardando nel vuoto davanti a sé: ” Di-ver-sa…si mi si addice”.
Le misi una mano sotto il mento, costringendola a guardarmi egli occhi.
“Perché dovresti avere paura di perdermi? E poi se tu perdi me io perdo te e non ho nessuna intenzione di vivere senza di te.”
“Ma tu mi conosci bene?”
“Quel che finora ho imparato di te mi piace, e poi ci conosciamo da abbastanza tempo per non temere sorprese.”
“C’è ancora qualcosa che non sai, ma è venuto il momento di togliere ogni velo”.
“L’hai già fatto, stai tranquilla, l’hai già fatto e la cosa non mi ha sconvolto.”
“Cosa…?”
“Lo sai bene cosa. Fin dall’inizio ho percepito un messaggio subliminale, ma solo piano piano ho capito qual era”.
“E…”
“E allora adesso mettiti qui vicino a me, serena, e raccontami tutto, così te ne liberi una volta per tutte mia cara Ada…o preferisci che ti chiami Alessandra?”
“Si, c’era una volta Alessandra e c’era anche Carla. Lei si chiamava proprio così, ho cambiato solo il mio nome nella storia. I nostri genitori erano all’antica: scuola solo femminile e a casa a studiare. Poi i permessi extra erano solo per la palestra e per il laboratorio di teatro, ma alle otto di sera dovevamo stare a casa.”
“Vi sentivate diverse dalle vostre coetanee e la cosa sicuramente vi angustiava”.
“L’unica concessione era che potevamo restare a dormire l’una a casa dell’altra. I nostri genitori si conoscevano e quindi si fidavano”.
“Una promiscuità e un’intimità che, nel tempo, temo sia diventata qualcosa di più”.
“Proprio così. Poi all’università le cose sono cambiate, anche se non subito. Quando Carla se n’è andata con Giorgio, un nostro collega di corso, mi sono sentita impazzire. Ma la vicenda, pur dolorosa, mi ha costretto ad aprire gli occhi e, piano piano, sono uscita da una dimensione che in effetti non mi apparteneva. Poi sono stata fortunata, perché tu hai rispettato i miei tempi lunghi e le mie titubanze…”
“Che avevo preso per timidezza estrema, ma ti è andata bene perché anch’io avevo bisogno dei miei tempi. Adesso che ti sei tranquillizzata, vieni qua e non ci pensare più.”
“Non puoi immaginare come mi senta bene”
“Comunque devo dirti che , insomma, che diversa …sei diversa”
“Che vuoi dire” – saltò su Ada allarmata.
“Che mi piaci proprio perché sei diversa da tutte le altre, per questo mi piaci. Diversamente…”
“Diversamente…?”
“Non staremo qui, così bene, insieme”.