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Paola Pozzolo
Nata a Genova 55 anni fa, laureata in lettere con indirizzo artistico e la passione per il Medio Evo.
Da giugno 2018 vive e lavora a Cavallino Treporti.
É la sua terza partecipazione al Concorso.

NARRATIVA
L’ISOLA DEL SEPOLCRO IMBIANCATO



Guai a voi, scribi e farisei ipocriti

che rassomigliate a sepolcri   imbiancati,

essi all’esterno sonbelli a vedersi,   ma dentro

sono pieni di ossa di morti e di ogni   putridume

(Matteo cap. 23 versetto 27)



PROLOGO


La barca scivolava lenta sull’acqua: complice la fitta nebbia invernale   che smorzava i suoni, lo sciabordio del remo sembrava un’eco lontana   sospesa sopra la laguna.

Seduta, avvolta in un ampio e caldo mantello foderato di vaio, un   altrettanto ampio cappuccio che le nascondeva il volto e la proteggeva   dal rigore notturno, una donna attendeva pazientemente di raggiungere la   meta.

Aveva viaggiato per giorni, attraversando i domini della Serenissima in   terraferma: Verona, Vicenza, Padova, sempre attenta affinché non   trapelasse nulla del suo passaggio che potesse giungere alle orecchie   del Doge e soprattutto dei Dieci, timorosa di ritrovarsi a udire la   frase “Recordève del pòvaro Fornaretto”: non era ancora certa che,   nonostante il lungo tempo trascorso, la Serenissima potesse aver   dimenticato.

Sicché, giunta in laguna, aveva atteso occultata alla città grazie a   persone compiacenti e era approdata fin li, complice una notte senza   luna e la nebbia che sembrava attutire tutti i rumori più pericolosi.

Non alzava lo sguardo, conosceva bene il paesaggio che la circondava,   nonostante il buio fitto: quei luoghi erano stati la sua dimora per   lungo tempo.

Dimora? Prigione semmai, non dissimile dalla “cisterna” di Palazzo   Ducale, un inferno in terra, anzi un sepolcro, un freddo sacello per   giovani donne ingombranti, sorvegliate da donne che tali più non erano,   invecchiate senza conoscere dolcezza e gelide come le pietre che le   circondavano.

Da troppo tempo a Venezia giovani donne erano sacrificate affinché i   beni di famiglia non si disperdessero e soprattutto le doti non   intaccassero seriamente i patrimoni. Per la verità c’era anche chi   lamentava questo stato di cose che, col tempo, avrebbe potuto condurre   all’estinzione di molti nobili casati del patriziato veneziano, ma si   trattava di poche voci fuori dal coro.

Ricordava voci rapprese, graffianti, una cacofonia di suoni che ferivano   le orecchie, rimbombavano tra quelle pareti, in quelle sale dove   avrebbero dovuto albergare dolcezza e misericordia.

La barca raschiò sul basso fondale sabbioso e si fermò con un rumore   sordo contro la barena.

Il barcaiolo scese e si apprestò a aiutare la donna a fare altrettanto.

«Aspettami qui»

«Siora, la staga atenta che xe pien de bisse»

Incurante dell’avvertimento, si allontanò dalla riva.

Procedeva sicura lungo un sentiero a lei noto, che poteva vedere con gli   occhi della memoria, impassibile ai fruscii simili a sussurri che si   andavano moltiplicando al suo passaggio.

Era alta, il fisico asciutto; i lineamenti del volto, celato dal   cappuccio, spigolosi, induriti dal tempo e dalle prove a cui la vita   l’aveva sottoposta: ne era uscita vittoriosa e l’esperienza le aveva   donato quel suo incedere superbo e regale.

Non era sempre stato così però, rifletteva con un sorriso tra l’ironico   e l’amaro, ricordava ancora con stupefacente lucidità i giorni in cui   tutto era accaduto: conservava nella memoria ogni attimo, parola o   espressione.

Si fermò, gli occhi abituati al buio della notte sapevano cogliere i   particolari necessari per comprendere in quale punto dell’isola fosse   giunta.

Superando il terreno basso e fangoso, aveva raggiunto ciò che rimaneva   del monastero di Sant’Ariano di Costanziaco, fondato nel   Millecentosessanta dalla beata Anna Michiel.

Riconosceva quella parte della struttura, era stato un ampio locale   realizzato ad ovest dell’area cortilizia dopo il disastroso incendio del   Millequattrocentodieci che aveva quasi distrutto il convento: con la   riedificazione avevano posto qui il refettorio e il dormitorio.

Si sedette su un tratto di basso muro, stringendosi nel caldo mantello   di panno scarlatto, rabbrividendo non per l’aria pungente, né tantomeno   per la nebbia che avvolgeva come un sudario ciò che rimaneva dell’isola,   ma per i ricordi a lungo sopiti che ora riaffioravano prepotentemente   alla memoria.

Figura solitaria e pensierosa, in quel silenzio di morte, avvertiva   l’originaria nobiltà di quei luoghi, ora lugubri e desolati.

La decadenza di quelle isole, abbandonate negli anni a causa   dell’impaludamento provocato dalle acque dolci dei fiumi che sfociavano   in laguna, aveva il sapore di una punizione divina: Dio aveva reso   sterile, mortifaffiere e desolate quelle terre emerse per colpa della   malvagità e avidità degli uomini e donne che le avevano abitate,   nonostante fossero servi del Signore.

Rise sottovoce, di un riso secco e amaro, tornando con la memoria agli   accadimenti di quei giorni ormai lontani.


I


Un vento fortissimo si era sollevato sulla laguna in quella notte   d’estate del Millequattrocentotrentatré, all’alba la pioggia aveva   iniziato a scrosciare e la grandine picchiava sui fragili vetri di   Murano con una tale violenza che all’interno del palazzo ci fu chi   temette potessero frantumarsi.

Il clima in quegli anni aveva messo a dura prova gi abitanti della   laguna: il Millequattrocentoventiquattro aveva portato caldo e siccità   estremi sui già provati veneziani dall’epidemia che l’estate precedente   aveva falcidiato la popolazione, tanto che la Serenissima aveva creato   un hospitale per gli appestati sull’isola di Santa Maria di Nazareth,   utilizzando edifici che in passato aveva ospitato i pellegrini in   transito per la Terrasanta; nel Millequattrocentotrentuno invece,   l’inverno era stato così freddo che anche la laguna era ghiacciata.

Costanza, incapace di prendere sonno, guardava la violenza del cielo   riversarsi sul Canal Grande: nel suo animo si agitava una tempesta non   dissimile a quella che infuriava sulla città.

Aveva diciannove anni compiuti, essendo nata nel maggio del   Millequattrocentoquattordici, suo padre, Marino Contarini, aveva scelto   il suo nome in omaggio alla città di Costanza, ove si svolgeva in quel   tempo il concilio che poneva fine allo scisma di Occidente in seno alla   chiesa cattolica e dove la Serenissima aveva inviato il padre Antonio,   quale ambasciatore.

Marino Contarini era infatti un uomo profondamente religioso e poiché la   discendenza della famiglia era stata assicurata da ben tre figli maschi,   Leonardo, Zuanne e Francesco e una figlia femmina, Maria per la quale   aveva a suo tempo stipulato un buon contratto matrimoniale, quando la   piccola era venuta al mondo, aveva decretato che sarebbe stata destinata   al chiostro.

Gli anni erano trascorsi, Costanza aveva raggiunto ormai l’età che suo   padre riteneva adeguata per prendere i voti e ritirarsi dal mondo,   sicchè il giorno successivo, o meglio ormai quel giorno stesso, il dieci   luglio, la giovane avrebbe lasciato l’abitazione di famiglia per essere   rinchiusa in monastero.

Non provava particolari emozioni all’idea di abbandonare quel gran   palazzo affacciato sul Canal Grande, nel Sestiere di Cannaregio, che   rappresentava il fasto e l’opulenza di cui si circondava suo padre, in   aperto contrasto con la fede professata: la “Ca’ d’Oro”, la chiamavano a   Venezia, per la sua facciata con alcune parti rivestite del metallo   prezioso ma ancora più impressionanti apparivano al visitatore, i   pavimenti del primo piano; coloro che erano ammessi a palazzo rimanevano   abbagliati dalla lucentezza dei quadri di geometrie realizzati con i   marmi più pregiati, dal porfido rosso, al serpentino, pavonazzetto,   luculleo. Era stato l’ideale a cui suo padre aveva guardato per tutta la   vita, era stato ideatore e mente del progetto: somme ingenti vi erano   state investite, persino la dote della moglie.

Sapeva che non le sarebbe mancato quello sfoggio di ricchezza, ad   eccezione della biblioteca di casa, che solo lei frequentava   assiduamente.

Era infatti una giovane singolare, amava profondamente la lettura, era   versata nelle lingue, latino e greco compresi e anche nella matematica;   aveva una mente pronta e curiosa, capace di appropriarsi delle nozioni   più disparate, comprese quelle sulla mercatura e la partita doppia,   degna figlia di suo padre, abile mercante che aveva altresì saputo   diversificare le sue attività.

Era insomma tutto ciò che avrebbero dovuto essere i suoi fratelli, ma   che non erano mai stati, non perché fossero pigri o indolenti, ma   semplicemente perché disinteressati e convinti che non avrebbero mai   avuto necessità di apprendere simili noiose materie, poiché al momento   c’era chi lavorava per loro, che preferivano trascorrere il loro tempo   tra osterie e sollazzi di ogni genere.

A Costanza poco importava che i fratelli non avessero ingegno per gli   affari di famiglia, in realtà poco le importava di tutti loro, maggiori   di lei.

In famiglia pensavano che quella giovane così riservata, fosse solo   fredda e scostante, incapace del più semplice gesto d’affetto: era   invece solo molto timida e poiché il padre, così come la madre Soradamor   mai le avevano riservato quelle attenzioni che le sarebbero state   dovute, che venivano invece riversate tutte sugli altri figli, si era   ritirata in un mondo interiore tutto suo.

Il subbuglio che ora albergava in lei, era soprattutto dovuto   all’eccitazione del momento, all’idea del cambiamento a cui andava   incontro,in particolare a quali piani avrebbe concepito per fuggire,   perché di questo era certa, non avrebbe trascorso il resto della sua   vita sepolta viva in un chiostro.

«Madonna Costanza, è ora che vi prepariate, tra poco il vostro signor   padre passerà da voi,» la voce di Zanetta, la sua cameriera personale,   la riportò alla realtà.

«Di già? Credevo fosse ancora presto, aiutami dunque» e spogliatasi   della lunga veste bianca da notte, permise a Zanetta di lavarla e   asciugarla vigorosamente.

Avvolta in un candido telo, si sedette vicino alla finestra per farsi   acconciare, mentre un’altra domestica si faceva avanti con la colazione:   latte caldo con miele, pane imburrato, frutta dei loro orti di   Sant’Erasmo.

Apparentemente senza alcun interesse per il cibo che aveva dinanzi,   iniziò a sbocconcellare del pane per scoprirsi affamata, in poco tempo   ripulì il vassoio; nel frattempo, anche i suoi capelli erano stati   raccolti in due grosse trecce fissate sulla nuca.

Si osservò nel riflesso del vetro, aveva un aspetto modesto, che bene si   addiceva al luogo ove sarebbe stata condotta, ma in contrasto con la   pericolosa luce che accendeva i suoi occhi.

In piedi, Zanetta l’aiutò ad indossare il semplice abito che era stato   scelto per l’occasione, privo di gioielli, ricami e passamanerie: era di   un bel tessuto di cotone grigio, che si accordava con il colore   metallico dei suoi occhi.

Un tocco imperioso alla porta, si girò: «sono pronta.»

Sull’uscio apparve Marino Contarini.


II


Si era sempre sentito a disagio di fronte alla figlia, sin da quando   questa era una bimbetta appena in grado di reggersi sulle gambe e di   pronunciare le prime confuse parole; la colpa era di certo di quegli   occhi, grigi color del piombo, a tratti con lievi pagliuzze dorate,   sembravano emanare pericolosi bagliori quando sapeva fosse irata: era   l’unico segnale di collera, peraltro mai manifestata.

Non era mai stato in grado di comprendere quali pensieri attraversassero   la mente di sua figlia, in realtà la riteneva priva di sentimenti.

Queste frettolose e superficiali considerazioni, gli avevano consentito   di accantonare qualsiasi remora circa il futuro che le aveva riservato.

In realtà si sentiva continuamente giudicato, aveva la sensazione che lo   sguardo di Costanza si posasse su di lui ogni qualvolta prendeva una   decisione, sia riguardo la famiglia che in merito agli affari,   rinchiuderla lo avrebbe finalmente affrancato.

“È ridicolo” pensò tra sé, “un uomo come me che si sente in soggezione   di fronte a una ragazzetta”: liquidò la questione con una impercettibile   alzata di spalle e si rivolse alla figlia che attendeva in silenzio di   fronte a lui.

«Bene figliola, oggi state per avviarvi a una nuova vita e poiché non   avete manifestato contrarietà, devo dedurne che si tratti di una scelta   consapevole la vostra.»

«Se è quanto fa piacere a voi e alla famiglia,» fu la lapidaria   risposta, il tono monocorde.

Contarini non indugiò oltre, «falle indossare un mantello, è ora che   scenda. Accompagnala alla porta d’acqua, dove l’attendono la sua signora   madre e i suoi fratelli,» fu il secco ordine che impartì alla cameriera,   dopodichè lasciò la stanza senza ulteriori commenti e senza degnare di   una occhiata la giovane.

Come ebbe indossato il mantello, alzò il cappuccio sul capo e uscì dalla   stanza senza nemmeno un breve sguardo a quel luogo che era stato per   anni il suo rifugio e scese al piano terra dove la madre e i fratelli   l’attendevano, mancava sua sorella, che da cinque anni aveva lasciato la   casa di famiglia per andare sposa a Pietro Bragadin: non ne provò   dispiacere, come non ne aveva provato quando si era sposata, troppi anni   le separavano, non avevano nulla in comune.

Non ci furono parole di commiato né lacrime di commozione, non un gesto   di tenerezza: Costanza porse le guance a ognuno di loro e seguì il padre   sul pontile per prendere posto sulla grossa barca che l’avrebbe condotta   verso la sua nuova vita.

La barca lentamente si mosse, in principio lungo il Canal Grande, per   addentrarsi in un rio secondario; l’acqua pressochè ferma, esalava   fetidi odori, Costanza si coprì il volto con il cappuccio.

Poi, come d’incanto, fu un’esplosione di luce, l’imbarcazione aveva   lasciato il rio alle spalle per scivolare sulle ampie acque di fronte a   Murano: in lontananza, complice la limpidezza della mattina, in seguito   al temporale notturno, si scorgevano le vette delle cime più alte,   alcune ancora innevate, che si stagliavano sullo sfondo di un cielo   terso che pareva lavato di fresco.

La voga proseguiva sostenuta, una lieve brezza accarezzava il viso della   giovane che respirava a pieni polmoni di quell’aria salsa, che sapeva di   mare.

Lasciarono alla loro destra l’isola di San Michele, proseguendo verso   l’isola del vetro.

Costanza non aveva idea di quale fosse la sua destinazione, né intendeva   dare soddisfazione al padre chiedendoglielo. Quest’ultimo, seduto di   fronte a lei, evitava di guardarla in viso per non dover sostenere una   qualunque conversazione, in realtà non avrebbe saputo che dirle, non   avevano mai avuto argomenti in comune, né tantomeno ricordi da   condividere.

A Murano il legno imboccò il canale dei Marani, dirigendosi sempre verso   nord. L’acqua scorreva veloce, mentre il paesaggio si faceva a mano a   mano sempre più rarefatto e se possibile ancora più silenzioso, la pace   della laguna era rotta solo da rauche grida di gabbiani.

Uscirono dal canale per trovarsi nuovamente in uno specchio di laguna   dai riflessi accecanti.

Costanza vide davanti a sé il profilo di un’altra isola che intuì essere   Torcello, di cui aveva letto: la storia narrava che qui fossero   approdati gli Altinati in fuga dai barbari; sapeva che l’isola e quelle   limitrofe erano ricche di chiese e monasteri.

Dunque suo padre aveva deciso di seppellirla lì, non troppo lontano   dalla città, sì da poter essere tenuta sotto controllo, ma in un luogo   apparentemente privo di vie di fuga a meno che non si possedesse   un’imbarcazione e soprattutto la si sapesse governare.

Per la prima volta fu colta dallo sconforto, ma si riprese rapidamente,   fu un attimo, la debolezza di un momento.

Superarono anche Torcello, imboccando il canale della Dolce, sino a   quando giunsero a Sant’Ariano, un’isola circondata da ghebi e barene,   collegata alla maggiore Costanziaca da alcuni ponti.

La barca infine accostò ad uno stretto pontile.

Senza profferire parola, padre e figlia scesero a terra, seguiti dal   barcaiolo con il poco bagaglio di Costanza.

Il sole era ormai alto nel cielo, quando giunsero alle porte del   monastero di Sant’Ariano, uno dei più antichi e ricchi, avendo accolto   tra le sue mura numerosi nobili veneziane e ricche donne della classe   mercantile, sia come monache che come converse, che avevano portato in   dote orti, terreni e vigneti.

Seppur restio, anche Contarini aveva dovuto dotare la propria figlia   affinché potesse essere accolta in quel cenobio e a malincuore aveva   ceduto una grossa porzione degli orti di Sant’Erasmo di sua proprietà,   con la clausola però, che qualora la figlia in seguito avesse scelto un   altro romitaggio, i terreni sarebbero tornati nella sua disponibilità.

La badessa, in quegli anni Caterina Michiel, avvezza a contrattare   nonostante il fervore religioso di cui si ammantava, accondiscese dietro   però il versamento di una cospicua somma di denaro, che avrebbe dovuto   compensare l’eventuale perdita della rendita.

Costanza era venuta a conoscenza della trattativa spiando gli incontri   di suo padre con l’avvocato del convento, convincendosi una volta di più   che uomini e donne di chiesa erano pur sempre solo uomini e donne e che   nemmeno un briciolo di santità si avvertiva in loro.


III


Alle porte del convento la monaca portinaia li fece accomodare in una   stanza che la ragazza immaginò essere il parlatorio, diverso da come lo   aveva immaginato, privo di quei divisori che avrebbero dovuto impedire   alle monache contatti diretti con chi proveniva dal mondo esterno:   alcune panche addossate a dei muri bianchi di calce, un unico ornamento   sopra la porta, un grosso crocifisso ligneo, plasticamente intagliato   nella figura del Cristo, che rifletteva tutto il dolore di quella atroce   tortura.

Alla calura esterna faceva da piacevole contrasto il fresco della stanza   in penombra.

Costanza rifletteva che se il caldo li non giungeva nemmeno in piena   estate, in inverno sicuramente le temperature sarebbero state rigide   anche all’interno, sperava dunque che i locali in uso a monache,   converse e novizie fossero opportunamente riscaldati, dal momento che,   ne era certa, in quel convento non vigeva certo la regola del rispetto   della povertà: in realtà non aveva mai udito che a Venezia e non solo ci   fossero molti religiosi che rispettassero tale regola, a cominciare dal   vescovo di Roma…

La badessa giunse senza farsi annunciare, Costanza e suo padre si   alzarono contemporaneamente, quasi come se qualcuno avesse impartito   loro un ordine.

«Madre badessa.»

«Prego messer Contarini, tornate a sedere, staremo più comodi» e rivolta   a Costanza, «ben arrivata mia cara.»

«Madre,» disse chinando il capo in segno di rispetto, per rialzarlo   immediatamente e fissare i propri occhi nei suoi.

La badessa fu colta di sorpresa da quell’atteggiamento così insolito in   una ragazza così giovane, quasi risentita si volse verso Contarini,   mentre Costanza continuava ad osservarla, quasi stesse soppesandone il   valore: era una donna non più giovane, nonostante la pelle del viso   risultasse bianca e liscia, aveva naso aquilino e bocca sottile, zigomi   sporgenti e mento leggermente appuntito. I contorni del volto erano   delimitati dal velo scuro che acuiva quel senso di durezza che emanava   alla sola vista di lineamenti così scabri.

Le mani, rivelatrici della sua età, si muovevano senza posa mentre   parlava, tradendo così il suo nervosismo.

«Dunque Costanza, affronterai un anno di noviziato prima di prendere i   voti, è la regola, dobbiamo essere certi che tu faccia la tua scelta in   piena coscienza,» si era rivolta a lei così all’improvviso che la   ragazza, presa dalle sue considerazioni, si era quasi sentita colta in   fallo, ma si era ripresa immediatamente ed era certa che né la donna, né   suo padre si fossero accorti del suo estraniamento, né tantomeno del   fuggevole sorriso che le era comparso sulle labbra quando la monaca le   aveva parlato di un anno di noviziato prima di prendere i voti. A lei   invece non era sfuggita l’espressione di stizza del padre a quella   notizia.

«Sia come voi dite Madre.»

«È sempre così accondiscendente e remissiva?»

«Non ci ha mai dato pensieri.»

«Molto bene, non avete idea dell’angoscia in cui verso quando ho a che   fare con giovani donne recalcitranti, convinte di poter fare sempre a   modo loro.»

«Non è il caso di mia figlia.»

«Andremo d’accordo allora» e così dicendo prese le mani di Costanza tra   le sue, sfoggiando un incerto sorriso verso quel viso impassibile dagli   occhi freddi come pietra e si voltò verso il mercante, «credo sia ora   che prendiate commiato da vostra figlia.»

Contarini si alzò, imitato da Costanza che chinò lievemente il capo,   mentre il padre, impacciato, le baciava delicatamente la fronte.

Non aggiunse parole, né lo fece lei, si allontanò senza voltarsi, ma   Costanza già aveva lasciato il parlatorio, sui passi della badessa.

Fu un passaggio del tutto inusuale: nessuna processione dalla chiesa   alle porte del convento, né corteo di parenti e amici, né tantomeno le   domande di rito del padre confessore. Nulla quindi, dell’abituale   cerimonia che accompagnava l’ingresso di una giovane in convento, tutto   si era svolto nel massimo riserbo.

Insieme attraversarono un breve corridoio, sino a una spessa porta di   quercia: tutto il legno usato in quel convento pareva essere di quercia.


IV


La badessa sospinse la massiccia anta che si aprì senza alcuna   difficoltà, né cigolii sinistri, si fece da parte e permise a Costanza   di passare per prima: la giovane fu investita da un fiotto di luce.

«Questo è il nostro chiostro.»

Era uno spazio meraviglioso, di ampie dimensioni, con una gigantesca   vera da pozzo al centro, un prato verdeggiante e alcuni alberi di pesco   si estendevano tutto intorno, in un’area delimitata da una galleria con   una bassa balaustra e archi sorretti da lievi colonne di marmo e   capitelli a foglie d’acanto.

Il pavimento della galleria era di grosse lastre di pietra d’Istria   posate ravvicinate, che quasi l’occhio non percepiva la fuga, l’effetto   era quello di un pavimento uniforme.

Osservando dagli archi, si avvide di come i raggi del sole filtravano   nello spazio aperto: la luce colpiva la vera da pozzo e una miriade di   minuscoli grani di pulviscolo si libravano nell’aria, simili a polvere   d’oro.

Proseguirono oltre, «questo è il nostro giardino dei semplici,» Costanza   le rivolse uno sguardo interrogativo «si tratta di un giardino dove   coltiviamo erbe aromatiche e medicinali, con le quali prepariamo dei   medicamenti, sia per il convento che per coloro i quali non hanno la   possibilità di rivolgersi a un medico: è nato subito dopo la grande   epidemia del Milletrecentoquarantotto.»

Le era parso di cogliere un lampo di interesse nel suo sguardo, si   ripromise di affidarla alla monaca che si occupava del giardino,   affinché la introducesse a quella conoscenza.

La visita al convento intanto proseguiva: dalla chiesa pievana, ai   locali di servizio e quelli d’uso della comunità, rivolti a sud, dove   potevano godere di una maggiore esposizione al calore del sole e la   cucina, con un enorme focolare.

Giunsero infine a un ampio ambiente a ovest del grande cortile, dove   erano il refettorio e il dormitorio.

Le fece strada in un vasto locale rischiarato da finestre ogivali poste   in alto lungo i due muri longitudinali: sotto, erano posti dei letti,   uno a fianco all’altro, vicino ad ognuno, un inginocchiatoio e ai piedi   del letto una piccola cassapanca, priva di qualsiasi ornamento, solo le   monache avevano diritto a una propria cella.

«Questo è il dormitorio delle novizie, al momento siete solo sette, ma   come vedi la stanza ne può accogliere molte di più, quello è il tuo   giaciglio,» le indicò uno stretto letto coperto di una ruvida coperta e   altrettanto ruvide lenzuola, a destra della porta di ingresso.

«Lasciamo alle novizie un piccolo baule per conservare le loro cose che   abbandoneranno nel momento in cui prenderanno i voti: un piccolo rito di   passaggio, dalla condizione mondana, a una vita dedicata a Dio, alla   preghiera e per quel poco che è nelle nostre possibilità, a far del bene   al nostro prossimo. È un modo per prendere coscienza del cambiamento. Ho   visto che hai bagagli veramente esigui, cosa hai portato con te dal   mondo?»

«Poche cose madre, soprattutto libri, scelti con il confessore di   famiglia e con l’ausilio del mio precettore.»

«Questo ti fa onore mia cara, la mente è un campo che va coltivato in   continuazione. Al momento potrai riporre nel baule anche abito e   mantello, da oggi dovrai indossare quello da novizia con la cuffia, anzi   a tale proposito, dobbiamo procedere al taglio dei capelli»

«No, i capelli no,» Costanza si portò le mani sul capo, quasi a voler   far scudo con le mani della sua chioma e d’istinto arretrò di un passo.

«Ma figliola, è la regola…»

«Vi prego madre, li terrò in ordine e costantemente raccolti, nascosti   sotto la cuffia, ma permettetemi di tenerli così sino a quando prenderò   i voti.»

La notizia del taglio dei capelli l’aveva sgomentata, se fosse fuggita   con i capelli corti, chiunque avrebbe compreso quale fosse il suo stato   e non avrebbe perso tempo a denunciarla alle autorità ecclesiastiche.

«Via che sciocchezza è mai questa?»

«Lo avete detto anche voi prima, in fondo di questo si tratta, un   simbolo, tagliare con la propria vita precedente…»

«No, questa è solo vanità, Dio non ammette…»

«Allora perché Dio mi avrebbe fatto dono di questa chioma, se poi per   compiacere Lui devo mortificare me stessa tagliandola?» La interruppe   Costanza.

La badessa rimase interdetta, scosse il capo e sorrise: «sei una   impudente e anche presuntuosa, ma apprezzo il tuo modo di argomentare,   hai una bella mente, se ti impegnerai otterrai ottimi risultati e forse,   chissà, un giorno potresti diventare badessa. E sia, ti concedo di   conservare i tuoi capelli, ma non farmi pentire di questo mio atto di   misericordia nei tuoi confronti, sii obbediente, studia e andremo   d’accordo. Cambiati ora e raggiungi il refettorio, lì ti presenterò al   resto della comunità.»

Rimasta sola Costanza potè finalmente rilassarsi: aveva ottenuto ciò che   voleva e per giunta le permettevano di conservare quanto aveva portato   con sé, abito compreso; si accinse dunque a cambiarsi: non le occorse   molto tempo, l’abito da novizia era di fattura molto semplice, quasi   frugale, la cuffia, appena un po’ larga, ben si adattava alla sua   acconciatura.

Si ricompose psicologicamente, assunse un’espressione neutra e si avviò,   pronta ad incontrare la sua nuova famiglia.


V


L’inizio della nuova vita colse Costanza di sorpresa.

Aveva paventato lunghe giornate tutte uguali, dedite alla preghiera,   alla contemplazione e alla meditazione, invece aveva scoperto una   comunità operosa, dove ognuna aveva compiti precisi.

Le donne del convento non erano solo monache: c’erano le novizie, come   lei, tutte più giovani, poco più che bambine, forse alcune di loro   infine avrebbero lasciato il chiostro per contrarre qualche matrimonio   politicamente importante, c’erano poi le vedove che avevano preso   l’abito vedovile dinanzi al vescovo e pur vivendo in convento potevano   portare avanti i loro commerci, infine c’erano le converse, donne allo   stato laicale che vivevano nel convento e si occupavano di differenti   attività all’interno del convento stesso, anche di natura amministrativa   e commerciale; una in particolare, Sidiana, godeva della stima e della   benevolenza della badessa, che spesso le affidava compiti delicati.

Di norma dormivano in zone separate dalle monache e prendevano i pasti   dopo di loro, ma nella quotidianità le loro vite si incontravano.

La badessa esercitava una autorità assoluta, ogni monaca era soggetta al   suo imperio.

Costanza comprese molto presto quali fossero i meccanismi che regolavano   la vita a Sant’Ariano, era un cenobio composto da una allargata cerchia parentale che gravitava intorno alla badessa: Beatrice, Agnese, Maria,   Corradina e Benvenuta appartenevano alla famiglia Michiel e a altre   imparentate con questa.

La giovane quindi evitò qualsiasi scontro con queste monache, senza   peraltro compiacerle in modo particolare.

Aveva inoltre sviluppato interesse per Marchesina Foscari, una conversa   di pochi anni maggiore di lei.

Perché proprio lei? Istinto, poi la vicinanza di età e la comunanza per   certi aspetti nella sorte famigliare: Marchesina era infatti figlia   illegittima dell’attuale doge e la madre, dal momento che il nobiluomo,   pur avendola riconosciuta come sua, non intendeva occuparsene, l’aveva   spinta a cercare sostegno all’interno di un convento, non potendo   organizzare per lei nozze adeguate.

La giovane non aveva più saputo nulla della madre da quando quattro anni   prima aveva varcato la soglia del convento, pur non avendo voluto   prendere i voti, in cuor suo aveva comunque detto addio al mondo, da   esso si era separata.

Costanza non voleva seguire il suo stesso destino: la conversa era il   suo memento quotidiano, si sentiva accomunata a questa donna dalla   stessa carestia affettiva che aveva caratterizzato la sua vita fino a   allora, purtuttavia molte erano le differenze di carattere e di animo   tra le due giovani.

Aveva scelto di non condividere la propria vita con il resto del   cenobio: pur essendo monache erano tutto fuorchè sante donne, l’invidia   e il sospetto convivevano quotidianamente nei loro rapporti.

Il peggio di loro si esprimeva quando, durante la congregazione delle   colpe, le monache proclamavano i peccati commessi: più erano gravi e più   le loro sorelle che avevano ascoltato le loro confessioni erano   soddisfatte all’idea delle punizioni che quelle avrebbero dovuto subire.

Coloro che non facevano parte del circolo ristretto della badessa,   dovevano prestare attenzione al loro comportamento, ivi comprese le   visite che ricevevano, le delazioni erano all’ordine del giorno.

La badessa, agendo con cautela, non avendo ancora inquadrato il   carattere della giovane, l’aveva affidata a suor Berta perché la   introducesse alla conoscenza delle erbe officinali così, ogni mattina,   dopo la preghiera, la raggiungeva nel gipresentuosaardino dei semplici.

«Guarda, questo è iperico, le foglie aiutano a cicatrizzare le ferite,   lì invece trovi la melissa e la lavanda che sono ottimi calmanti.»

«Quella, sorella, cos’è?»

«Salvia, si masticano le foglie e calma il mal di denti, oltre profumare   l’alito, mentre quello è biancospino, utile quando il cuore incomincia a   ballare troppo, s usano sia le foglie, che i fiori e i frutti. Ora   andiamo in laboratorio» e qui le mostrava i vasi che contenevano la   radice di mandragola, la polvere di liquirizia, le foglie di faggio, la   corteccia di salice…

Il tempo trascorreva veloce per la giovane, le giornate sembravano non   bastare mai, tante erano le cose da apprendere.

Aveva preso l’abitudine di compilare un diario, con gli usi di tutte le   erbe, teneva poi un registro di quante ne venivano usate, poiché molte   venivano acquistate da mercanti che venivano appositamente in convento.

Costanza si rese presto conto di come la vita del mondo esterno ruotasse   intorno al convento.

C’era intanto la gestione dei beni patrimoniali, affidata a un avvocato,   Steno Candiano, legato alle famiglie nobili che avevano interessi nel   cenobio: Costanza lo aveva veduto con la badessa, era giunto in un   pomeriggio d’agosto, sofferente per il caldo, paludato nel suo abito   nero, si trattava della medesima persona che aveva preso accordi con suo   padre. Allora non vi aveva prestato molta attenzione, questa volta,   poiché era stata lei a introdurlo nello studio della Madre, aveva avuto   modo di osservarlo più attentamente e non le era piaciuto: non troppo   alto, pingue, capelli radi, di un biondo slavato, la carnagione pallida,   ma di un pallore malsano, occhi piccoli e scuri che saettavano ovunque,   come per timore di essere aggredito.

Aveva mani piccole e grassocce, non molto maschili e la voce nasale: per   un qualche motivo a Costanza parve più un chierico che un uomo di legge   e soprattutto che di uomo avesse ben poco.

Liquidò questi suoi pensieri con una alzata di spalle, poiché riteneva   che non avrebbe mai avuto bisogno dei suoi servigi, preferiva dedicarsi   allo studio assiduo sotto l’occhio vigile di suor Berta, l’unica monaca   di cui si fidasse realmente; aveva avuto modo di vederla incidere ferite   in suppurazione, le aveva insegnato a fare le suture, a far partorire   una giovane puerpera e a salvare un neonato di una donna sfiancata dalle   troppe gravidanze: aveva praticato un lungo taglio nel ventre della   donna ormai morente e ne aveva estratto il piccolo, un taglio netto al   cordone ombelicale e due vigorosi colpi sul dorso e aveva emesso il suo   primo rabbioso vagito.

Le era toccato assistere impotente alla morte di un’altra per una   emorragia dopo il parto.

«Spesso ci chiamano quando è troppo tardi, raggiungere da qui chi ha   bisogno di noi, spesso non è agevole, ma c’è anche un altro elemento: la   pulizia.»

«Ovvero?»

«Queste povere donne si affidano a delle altre donne perché pensano che   noi monache non siamo in grado di aiutarle a partorire, in realtà il   nemico più subdolo è la mancanza di pulizia, non mi chiedere per quale   motivo, ma ho potuto constatare che le donne che hanno partorito qui e   gli uomini che ho curato qui, sono sopravvissuti: io mi limito a lavarmi   le mani quando li tocco e a pulire bene i ferri ogni qualvolta li uso,   passandoli anche sul fuoco.»

«Chi vi ha insegnato tutto ciò?»

«Un lontano parente che frequentava la nostra casa aveva trascorso molto   tempo in Terra Santa e a Bisanzio, dove aveva conosciuto dei medici   arabi e da loro aveva appreso queste informazioni e molto altro che mi   trasmise, vedendo quanto fossi interessata» e le mostrò una serie di   fogli non più grandi di una mano, rilegati con una copertina in pelle   sulla quale era inciso a fuoco il suo nome.

«Raccontatemi,» la incitò.

«Ero così presuntuosa da credere che avrei avuto credito nella mia opera   come guaritrice, invece da subito il nostro confessore prese a criticare   il mio operato e dopo aver parlato con i miei genitori, si recò anche   dal vescovo. Rischiavo di dover andare in giudizio, discolparmi da sola,   poiché nessun avvocato avrebbe mai patrocinato la mia causa, la gente mi   avrebbe visto come una strega. Così chinai la testa, dissi che ero stata   una sciocca e presuntuosa e che avrei abbandonato quelle pratiche. Fui   io a chiedere di prendere i voti: i miei genitori la considerarono una   idea eccellente, avevano altre figlie da maritare, io poi ero diventata   imbarazzante, così accondiscesero alla mia richiesta.

Venni qui, la madre badessa, era già colei che anche tu hai conosciuto e   le chiesi di affidarmi il giardino dei semplici. Con lei non avevo   bisogno di dissimulare, anzi mi incoraggiò ad utilizzare le mie   conoscenze, seppure con discrezione, cosa che faccio ancora oggi: chi   viene qui ha buone probabilità di salvarsi, le nostre monache godono di   buona salute, nonostante l’ambiente diventi ogni anno sempre più   malsano.»

Si allontanò da Costanza che teneva ancora in mano il piccolo diario e   da uno scaffale prese un volume, grande come uno dei quaterni che   costituivano i registri del convento, ma con molti più fogli.

«Questo è il “Libro di Isacco Giudeo degli alimenti e dei rimedi   semplici”, riuscii a celarlo nel mio bagaglio quando fui condotta qui,   ancora oggi nessuno sa che lo possiedo, nemmeno la badessa.»

«Perché io?»

«Perché mi ricordi me stessa alla tua età, non che siano trascorsi   moltissimi anni, ma rivedo in te la stessa curiosità e la voglia di   imparare.»

«Grazie per la fiducia che mi accordate.»

«Studiali attentamente.»

In realtà Costanza fece molto di più, si procurò dei fogli che tagliò in   fogli più piccoli e la notte, dopo compieta, quando le piccole novizie   dormivano profondamente, con l’ausilio di una candela di sego, ricopiava   i due libri che la monaca le aveva dato: scriveva sino a quando la   candela era ridotta a un mozzicone, allora si risolveva a dormire… per   svegliarsi subito dopo per il mattutino.

Non sentiva la stanchezza, tanta era la voglia di imparare e custodiva   gelosamente i suoi piccoli quaterni in fondo al baule, occultati in un   piccolo doppio fondo dove erano anche pochi gioielli e monete che aveva   trafugato da casa, pensando alla sua fuga.

Si era resa conto che ancora non l’aveva pianificata, tanto era stata   assorbita dallo studio e dal lavoro e intanto il tempo correva via   veloce, già sei mesi erano trascorsi.


VI


Era pieno inverno, le nebbie che salivano dalla laguna avvolgevano   l’isola agli occhi del mondo, tuttavia non si percepiva un acuirsi   dell’isolamento: operai lavoravano ai guasti prodotti dall’acqua e dalla   pioggia, artigiani venivano a versare i canoni d’affitto, parenti, e non   solo, di monache e converse, facevano loro visita.

Fu proprio durante questo periodo che scoppiò uno scandalo: complice la   nebbia, suor Faustina una notte aveva lasciato aperta la porta sotto   l’altare della chiesa che conduceva all’esterno del convento; una suora   più anziana, insospettita dal suo comportamento ambiguo, fece irruzione   nella sua cella e la trovò in compagnia di un uomo.

La monaca fece grandi strepiti, ma i due riuscirono a fuggire prima che   lei potesse dare l’allarme.

Si venne poi a sapere che suor Faustina era incinta e che l’uomo che   l’aveva concupita era sposato e aveva altri figli, ma per lei aveva   rischiato la galera: insieme avevano abbandonato i domini della   Serenissima.

Nonostante tutto la badessa riuscì a mettere a tacere lo scandalo   versando alla moglie tradita una considerevole somma di denaro per il   mantenimento dei figli e facendo altresì una donazione in suo favore,   garantendole così una rendita.

Fu in un tetro pomeriggio di dicembre in cui Costanza era impegnata con   Marchesina Foscari a ricamare una tovaglia per l’altare di Santa Fosca,   che al convento giunse una visita inaspettata.

Il giovanissimo Federico da Montefeltro, in allora ostaggio della   Serenissima, si presentò al convento: avendo saputo della bravura di   quelle monache nel preparare medicamenti, cercava qualcosa che lo   guarisse dalla tosse che da tempo lo affliggeva.

La badessa, lusingata dall’interesse del figlio di Guidantonio da   Montefeltro, lo condusse lei stessa nel laboratorio officinale e mandò   suor Berta a chiamare Costanza: aveva seguito con attenzione i progressi   della giovane e voleva premiarla facendo si che fosse lei a occuparsi   del giovane nobile, non immaginava di compiere così il destino della   ragazza.

«Costanza, vieni figliola, la madre badessa vuole che tu la raggiunga   subito in laboratorio.»

Senza fare domande la ragazza abbandonò l’opera a cui era intenta, non   senza un moto di soddisfazione, a lei non era mai andato a genio il   ricamo.

A passo lesto seguì Berta che invece correva, non comprendendo il motivo   di tutta quella fretta.

Sulla porta si bloccò interdetta, la badessa si stava intrattenendo con   un bambino a cui mostrava tutta la sua deferenza, o forse era per gli   uomini al suo fianco? Uno lo riconobbe immediatamente, si trattava di   Andrea Dandolo, nobile veneziano, l’altro le era invece sconosciuto: era   molto alto, aveva il fisico di un soldato, spalle larghe, braccia   possenti, gambe muscolose, frutto di lunghe ore in sella, capelli biondi   lisci e lunghi, un viso dai lineamenti regolari, espressivo.

Come se avesse sentito il suo sguardo, l’uomo si voltò e le puntò   addosso due iridi verdi come gli occhi di un gatto, stimò che avesse   almeno cinque, sei anni più di lei.

«Costanza venite avanti,» lei mosse alcuni passi verso la badessa.

«Mio signore, questa è la nostra giovane erborista e cerusica, sarà lei   a consigliarvi il rimedio migliore» e rivolta a lei «questi è messer   Federico da Montefeltro, figlio del signore di Urbino e il cavaliere che   lo accompagna…»

«Giorgio Ordelaffi da Forlì,» disse l’uomo inchinandosi.

Costanza, imbarazzata si limitò a un cenno del capo e si rivolse al   piccolo uomo davanti a lei, «posso sentire il vostro respiro?»

All’assenso del ragazzino, si chinò verso di lui e posò l’orecchio sul   suo dorso chiedendogli di respirare profondamente più volte.

«Avete catarro, vi darò della betonica da usare come infuso da bere più   volte al giorno, delle foglie di agrifoglio per un decotto da bere   anch’esso due volte al giorno e della valeriana: assumetela prima di   coricarvi, vi farà riposare impedendo alla tosse di tenervi sveglio,»   mentre parlava si era portata vicino agli scaffali e aveva cominciato a   armeggiare con i grandi vasi di ceramica.

«Tornate tra tre giorni o mandate qualcuno a prendere altri medicamenti»   e di istinto si voltò verso Ordelaffi.

Federico e il cavaliere si limitarono a un cenno di assenso e seguirono   la compiaciuta badessa.

A Costanza batteva il cuore: aveva forse trovato la soluzione ai suoi   problemi grazie a quei due personaggi.

Le notizie del mondo giungevano anche lì, sapeva chi fosse il signore di   Urbino, se avesse risolto il malanno di Federico, forse avrebbe potuto   domandare il suo aiuto, o almeno quello del cavaliere, per la fuga.

Furono giorni di spasmodica attesa, i sensi sempre all’erta nel   percepire voci e passi di estranei. Berta, che ormai la conosceva bene,   si era resa conto di qualcosa di anomalo nel suo comportamento e quando,   nel pomeriggio del terzo giorno, Ordelaffi si presentò in laboratorio,   vedendo l’impercettibile reazione di Costanza, comprese, o meglio   credette di averne compreso il motivo.

Sospirò, aveva sempre pensato che la giovane non fosse adatta alla vita   conventuale e aveva avuto anche l’intenzione di mettere a conoscenza la   badessa di questo suo giudizio, poi, per un qualche inspiegabile motivo,   aveva preferito tacere ora comprese il perché: la sua era una famiglia   importante, la badessa non avrebbe mai patrocinato la sua causa contro   Marino Contarini, solo con la fuga da quelle mura la novizia avrebbe   potuto liberarsi dal giogo di una professione estorta contro la sua   volontà e lei le avrebbe dato il suo aiuto, per quello che poteva, anche   se per tale azione rischiava il bando.

«Buonasera.»

«Buonasera messere, come sta il vostro giovane signore?»

«Molto meglio grazie, anche se non è completamente guarito, ha bisogno   ancora dei vostri rimedi.»

Berta era in imbarazzo, non le fu difficile capire come la sua presenza   fosse di troppo, «vado a vedere se la cuoca ha preparato i biscotti per   la badessa, così ne prendo per omaggiare il signore Federico» e senza   attendere risposta si allontanò dal laboratorio.

«Coltivate voi le erbe?»

«In parte, io e suor Berta, altre le acquistiamo.»

«E voi sareste anche un cerusico?»

«All’occorrenza.»

«Cosa siete in grado di fare?»

«Suturo ferite, estraggo denti, riduco fratture, aiuto le donne a   partorire…»

«Complimenti sorella.»

«Non sono una monaca.»

«No?»

«Sono una novizia, non ho fatto ancora professione…»

«Avete dunque preparato ciò che occorre al mio signore?»

«Si certo, ecco…» rispose consegnandogli un pacchetto di erbe avvolte in   un panno bianco: le loro mani si sfiorarono, Costanza arrossì   violentemente e abbassò gli occhi, Giorgio Ordelaffi si allontanò senza   parole di commiato.

Era confusa, per la prima volta una crepa si era aperta nella corazza   che si era costruita addosso negli anni, doveva assolutamente riprendere   il controllo delle proprie emozioni, ma soprattutto sperava che il   cavaliere tornasse nuovamente.


VII


La vita al convento sembrava trascorrere nella normalità: spesso era al   capezzale di suor Arcangela, una anziana monaca, entrata in convento   come educanda nello stesso anno in cui lei veniva al mondo.

Era stata obbligata alla monacazione a causa di una forte zoppia che   l’accompagnava da quando era nata, ma non si era mai rassegnata. Aveva   tentato più volte la fuga, vagando tra Sant’Ariano e le isole che   costituivano il nucleo di Costanziaco, per essere sempre ricondotta in   convento.

La sua mente era ormai offuscata: era una pena sentire i suoi gemiti di   disperazione, quando non erano urla strazianti.

Costanza aveva scoperto che le monache incaricate di sorvegliarla la   legavano per impedirsi di farsi del male e quando la situazione   degenerava, la imbavagliavano perché suore, novizie e converse non   fossero disturbate dai suoi lamenti; aveva quindi pregato la badessa di   lasciare a lei la cura della poveretta.

La reverenda madre aveva accettato, curiosa di vedere come avrebbe   risolto quello che per lei era diventato un problema serio e che ormai   faticava a tenere nascosto ai famigliari delle altre monache.

Con infinita pazienza Costanza le somministrava infusi di malva,   camomilla e lavanda per calmarla, decotto di erba di San Pietro per   farle espellere gli umori dai reni, su consiglio di suor Berta le   applicò degli impacchi di borragine sulle escoriazioni che le strette   corde le avevano provocato ai polsi e alle caviglie.

Era ormai trascorso anche il carnevale, la primavera era in fase   avanzata e la giovane novizia non aveva più avuto notizie né del piccolo   Federico, né del suo cavaliere, presto sarebbe giunto il mese di luglio   e con esso la cerimonia di professione.

Per non farsi sopraffare dalla disperazione, con la scusa di raccogliere   erbe selvatiche di laguna per il laboratorio, si attardava lungo il   perimetro dell’isola e riempiva la sporta di salicornia, santonico,   enula marina, porcellana di mare.

Spesso si attardava a guardare le fronde delle tamerici bianche di sale,   camminava a lungo fino a zone in cui maggiore era lo sbocco di acque   dolci e le barene cedevano il posto ai canneti dove nidificavano gli   scriccioli, oppure seguiva l’andamento sinuoso di un ghebo in barena,   fino a dove alimentava un chiaro.

Nelle giornate limpide il suo sguardo correva verso Torcello e di là,   come se si fosse trovata in volo con uno stormo di folaghe, vedeva   Burano, Murano e più in là ancora, Venezia.

Poi, la cacofonia dei versi delle beccacce di mare e dei chiurli quando   calava implacabile il falco di palude, la riconduceva alla realtà e   allora voltava le spalle alla libertà e tornava sui suoi passi, verso il   convento, sostando per una preghiera nel camposanto del monastero,   invidiando per un momento quelle povere anime che erano sfuggite alla   prigione.


VIII


Si era ormai rassegnata all’idea di dover immaginare un altro piano per   fuggire da lì prima dell’estate, ancora era titubante al pensiero di   renderne partecipe Marchesina, non era poi così certa che questa   l’avrebbe aiutata, invece di denunciarla alla madre badessa; un   pomeriggio fu proprio lei a venirla a informare che c’era una visita in   parlatorio.

Nemmeno per un momento immaginò che potesse essere il cavaliere, pensò   invece alla madre e al padre, curiosamente faticava a rammentarne i   volti.

Nel parlatorio invece, in piedi vicino a un’ampia finestra, era Giorgio   Ordelaffi.

«Sono venuto a prendere commiato madonna, a giorni il mio signore   Federico e io lasceremo Venezia, l’epidemia scoppiata in città non   lascia presagire nulla di buono, il signore di Urbino ha ottenuto dalla   Serenissima di far condurre il figlio a Mantova, come forse saprete,   poiché le notizie dal mondo giungono anche qui, Federico era stato   inviato a Venezia come ostaggio.»

«Comprendo.»

«Madonna…»

«Dite.»

«Non so per quale motivo sono venuto, proprio non lo comprendo.»

«Vi do io un motivo, conducetemi fuori da questo luogo.»

«Che idea è mai questa?»

«La mia sarebbe una monacazione forzata, vi sto chiedendo di aiutarmi a   ritrovare la libertà.»

«Cosa vorreste che facessi per voi?»

«Quando partirete?»

«Tra non più di cinque giorni lasceremo la residenza del doge Foscari.»

«Trovate una barca e tra due notti a partire da oggi a mezzanotte fatevi   trovare al pontile, io sarò lì.»

«E poi?»

«Sarà sufficiente che mi lasciate a Burano, da lì troverò più facilmente   chi mi possa condurre sulla terraferma.»

«È tutto madonna?»

«Si signore, non chiedo altro, saprò cavarmela… Almeno spero.»

Ordelaffi annuì, «sta bene, da qui a due giorni verrò a prendervi.»

«Dio ve ne renderà merito.»

«Ne siete certa?»

«Dio non può essere contento di una monaca a cui sono stati fatti   pronunciare i voti contro la propria volontà.»

«Ce ne sono molte.»

«Appunto, non è necessario che ce ne sia una di più.»

Senza aggiungere altro Ordelaffi le prese le mani, pose un lieve bacio   sui suoi polsi e si accomiatò.

Uscendo dal parlatorio incontrò Marchesina Foscari: Costanza non aveva   desiderio di intrattenersi, ma la conversa le si parò davanti,   bloccandole il passaggio, «dunque anche voi ricevete visite   particolari.»

«Che dite, era il cavaliere del signore Federico da Montefeltro, è   venuto a ringraziare per i servigi resi al suo signore e a accomiatarsi,   poiché a breve lasceranno Venezia.»

«E ha chiesto di voi e non della badessa?»

«Non so che dire, avrà parlato prima con la reverenda madre.»

«No, dal momento che l’ho accolto io e mi ha chiesto solo di voi.»

«Allora non so che dire.»

«Vi spiegherete con lei» e si allontanò.

Non trascorse molto tempo che venne convocata nello studio della   badessa.

«Dunque Costanza, come mai non sono stata informata di questa visita?»

«Sono spiacente madre, non immaginavo che il cavaliere Ordelaffi mi   avrebbe fatto visita.»

«E secondo quanto ha raccontato a Marchesina, sarebbe venuto per   ringraziare e accomiatarsi, di solito chi ringrazia non si limita alle   sole parole, reca dei doni.»

«A me non ha lasciato nulla, Marchesina mi ha incontrata all’uscita del   parlatorio e potrà confermarvi che in mano non avevo nulla.»

«Levati l’abito.»

«Come?»

«Hai capito, levati l’abito.»

Lacrime di rabbia e di vergogna le riempirono gli occhi ma non disse   nulla, serrando le labbra si spogliò completamente.»

La badessa comprese immediatamente di aver commesso un grave errore e di   aver dato dimostrazione di grettezza e avidità, ma il danno era fatto,   non poteva rimediare, né tantomeno domandare scusa.

«Bene, rivestiti e torna pure alle tue occupazioni.»

Costanza ubbidì e senza ulteriori commenti voltò le spalle alla monaca e   uscì dallo studio: fremeva di ira repressa, se avesse avuto la conversa   tra le mani… Ma non poteva, avrebbe rischiato di rovinare tutto.

Si impose la calma e tornò verso il laboratorio, nel corridoio lungo il   chiostro Marchesina attendeva, ma non ottenne soddisfazione.

Rabbia e eccitazione le impedirono di dormire quella notte, la mattina   dopo era distratta, Berta comprese immediatamente che c’era qualcosa di   strano.

«Figliola, cosa ti accade?»

«Nulla sorella, va tutto bene.»

«Non mentire con me, sei in questo stato di angoscia da quando è venuto   a farti visita messer Ordelaffi.»

«No, vi assicuro.»

«Gli hai chiesto di aiutarti a fuggire dal convento?»

«Cosa dite?»

«Non sono cieca e soprattutto sono consapevole del fatto che non saresti   una buona monaca, come pensi di fare?»

«Verrà domani notte, mi porterà via con una barca,» sussurrò Costanza.

«E come uscirai dal convento? Pensi sia sufficiente aprire il portone?»

«Pensavo di approfittare della porta vicino all’orto, oppure di quella   sotto l’altare.»

«No, su quel lato affaccia la stanza della badessa: la madre ha il sonno   leggero, se ne avvedrebbe, l’altra invece dopo lo scandalo di suor   Faustina è sprangata dall’esterno.

La superiora inoltre non potrebbe tacere il fatto alle altre consorelle   e Marchesina Foscari ne approfitterebbe per informarne il doge: tu hai   sempre pensato che quella conversa ti fosse amica, non hai capito che   stava al tuo fianco solo per trarne qualche vantaggio.»

La giovane non profferì parola, pensando all’episodio del giorno   precedente e che preferì tacere alla monaca, lo sconforto si leggeva sul   suo viso.

«Nessuno è al corrente che dal laboratorio si dirama un vecchio   cunicolo, retaggio della più antica costruzione del convento,   probabilmente esisteva già dai tempi dei primi abitanti di queste isole,   forse serviva in caso di attacchi nemici provenienti dalla terraferma,   arriva sino al pontile di attracco delle barche… Ecco vedi, è qui   l’ingresso,» disse spostando una botte.

«Ti lascerò una candela e un mantello pesante, questa è la seconda   chiave del laboratorio, la feci fare tempo fa da un fabbro che era   venuto a riparare dei chiavistelli, nemmeno la badessa ne conosce   l’esistenza, ero certa che prima o poi sarebbe servita.

«Sorella, io non so cosa dire.»

«Ricordati di portare con te i quaterni,» disse con un sorriso.

«Voi sapete…»

«Le altre non lo notavano, men che meno la badessa, convinta del tuo   carattere così mite, ma a me non potevano sfuggire le tue occhiaie, né   il fatto che mancassero delle candele dalla scorta, ho faticato non poco   a convincere Sidiana che aveva fatto male i conti. Ricordi che poi fosti   tu incaricata di tenere la contabilità dei prodotti di consumo del   convento?»

«Non dimenticherò ciò che fate per me.»

«Ne sono certa, ora però continuiamo a lavorare, aiutami con queste   preparazioni, così quando sarò nuovamente sola, il mio impegno non sarà   troppo gravoso,» riprese a lavorare come se nulla fosse e Costanza con   lei.


IX


E venne il giorno successivo, ad esso seguì la sera e poi la notte.

Dopo compieta si ritirò con le piccole novizie e si mise a letto   fingendo di dormire.

Una mezz’ora prima della mezzanotte, accertatasi che le novizie   dormissero profondamente e che nessun suono si sentisse tra le mura   conventuali, Costanza uscì dal dormitorio: aveva indossato il suo   vecchio abito e preso un fagotto contenente le monete, i gioielli, i   suoi quaterni e un paio di pianelle con la suola in legno per quando   fosse stata all’aperto, in mano teneva salda la chiave del laboratorio.

Attraversò il giardino dei semplici, aprì con cautela la porta, era ben   oliata e non fece rumore, la richiuse immediatamente dietro di sé con la   chiave che nascose in un vaso vuoto vicino al bancone; si avvicinò alla   botte che le aveva mostrato il giorno precedente suor Berta, sopra erano   appoggiate due candele e un piccolo pacchetto che la giovane suppose   fossero erbe.

Spostò la botte, entrò nel cunicolo e accese una candela, ricollocò la   botte al suo posto e si avviò.

Il percorso non era lungo, ma a lei parve eterno, temeva che il rumore   dei suoi passi rimbombasse all’esterno, nella quiete del chiostro. Vide   una luce farsi sempre più vicina, finalmente fu all’aperto, proprio a   fianco del vecchio pontile su cui aveva attraccato l’imbarcazione che un   anno prima l’aveva condotta lì.

Non dovette attendere a lungo, sentì, prima che vedere, lo sciabordio   del remo, poi ecco comparire una barca: riconobbe la figura del   cavaliere in piedi al centro dello scafo, dietro di lui a poppa, un   unico vogatore.

La barca finalmente attraccò, Ordelaffi scese sul pontile.

«Madonna voi tremate.»

«Ho solo un abito leggero sotto il mantello, è tutto ciò che possiedo.»

«La barca ci condurrà a Burano, lì sarete ospite del mio barcaiolo,   Vittore, non temete, non ne farà parola con alcuno, avrebbe troppo da   rimetterci. Salite ora, presto saremo arrivati e potrete riposarvi.»

Costanza prese posto sull’imbarcazione, stretta nel pesante mantello di   ruvida lana, ancora incredula all’idea di essere davvero riuscita nel   suo intento, fuggire dal monastero; il pensiero corse fugacemente a suor   Berta: si augurò in cuor suo che la monaca non dovesse subire ritorsioni   o peggio ancora, che venisse accusata di complicità. Temeva inoltre che   la potessero rintracciare e rabbrividiva all’idea di quale avrebbe   potuto essere la pena da scontare per aver osato tanto.

Le parve di essersi appena assopita, quando due braccia la scrollarono   dolcemente, «Costanza siamo arrivati, ancora un piccolo sforzo» e la   sollevò quasi di peso per farla scendere a terra. Lei era ancora   intorpidita e lo lasciò fare, a terra seguirono Vittore che li condusse   alla propria abitazione, ironia della sorte, non troppo distante dal   monastero della Valleverde: pochi rapidi colpi e la porta si aprì, una   donna li accolse, sul viso rughe di preoccupazione.

«Questa è mia moglie, Cantaruta, si occuperà di voi signora.»

«Santo cielo, ma è poco più di una bambina.»

«Ho quasi vent’anni,» fu la debole protesta.

«Sembrate più giovane, venite ora, vi preparo una tazza di brodo caldo e   un bicchiere di vino: lo produciamo qui a Mazzorbo» e le versò una dose   generosa di liquido ambrato, poi scodellò della zuppa.

«Dormirete meglio dopo,» le disse, porgendole la scodella fumante e   indicandole il giaciglio vicino al fogher.

«Io tornerò domani per vedere come state,» poi Ordelaffi posò una   piccola borsa di pelle sul tavolo e se ne andò.

Costanza assaporava il brodo e con esso la ritrovata libertà, mentre   marito e moglie la osservavano in silenzio, intimiditi dalla presenza di   quella giovane che, seppur nella semplicità del suo abbigliamento, si   intuiva essere di buona famiglia.

«Grazie ancora dell’ospitalità e perdonate l’incomodo…» iniziò a dire.

«A messer Ordelaffi non si può negare nulla, ora distendetevi al caldo e   cercate di riposare,» la interruppe Cantaruta accompagnandola al   giaciglio.

I due si ritirarono nella stanza attigua, lasciandola sola.

Fu allora che prese realmente coscienza della sua nuova situazione:   lentamente portò le mani alla nuca e sciolse i capelli, le due trecce   caddero pesantemente sulle spalle e a poco a poco liberò i capelli   dall’intreccio, infine scrollò il capo, la sua chioma riprese corposità,   le parve di essersi tolta un peso che da troppo tempo gravava sulla sua   testa.

Si distese e si dispose a dormire, temeva di non riuscirvi, per via   della tensione che l’aveva accompagnata e che ora a poco a poco andava   sciogliendosi, ma appena chiuse gli occhi scivolò in un sonno profondo e   senza sogni.

«Madonna è ora di levarsi,» Cantaruta con un tocco leggero come una   piuma, svegliò Costanza, «se volete potete andare nell’altra stanza per   sistemarvi.»

Ancora intontita Costanza fece un cenno affermativo con il capo, si alzò   e si diresse con le sue cose nell’altra camera: qui regnava un piacevole   tepore, aprì il pacchetto che le aveva lasciato suor Berta, c’era un   piccolo pezzo di sapone odoroso di verbena, una fiala ben chiusa e tanti   altri piccoli pacchetti con erbe diverse.

Fece le sue abluzioni, aprì l’ampolla, era acqua di rose, ne passò con   parsimonia sul viso e sul collo, con un paio di foglie di menta si   strofinò denti e gengive, poi si sciacquò la bocca.

Si rivestì, prese una spazzola che era appoggiata vicino alla brocca   dell’acqua e diede lunghi colpi di spazzola alla sua capigliatura, sino   a farla diventare lucente.

Raccolse le sue cose e tornò nell’altra stanza, nel frattempo era giunto   Giorgio Ordelaffi: stava parlando con Vittore quando lei fece il suo   ingresso in cucina, il giovane si interruppe bruscamente, la fissò,   «buongiorno madonna.»

«Buongiorno signore.»

«Vi vedo fresca e riposata.»

«Si, ho dormito profondamente.»

«Data la stagione, vi ho portato abiti più adeguati,» ammiccò a quanto   aveva appoggiato sul tavolo: una lunga camicia di spesso cotone, una   camora in velluto con maniche pesanti blu scuro, calze di panno   scarlatto e pianelle solate in velluto.

«Grazie, come potrò ricambiare la vostra gentilezza?»

«Non mi dovete nulla.»

«Quando partirete?»

«Dopodomani al più tardi.»

Cadde il silenzio tra loro, Giorgio incantato guardava i capelli della   giovane sciolti morbidamente sulle spalle, le fiamme del camino le   donavano riflessi ramati che sembravano dare vita alla chioma.

«Messere, conducetemi con voi.»

«E con quale ruolo di grazia?»

«Conosco le erbe, ho esperienza come cerusico, so ricamare…»

«Madonna, non è una corte quella che si sposta, ma un gruppo di uomini   in arme.»

«Avete detto che andate a Mantova, permettete che io faccia il viaggio   sotto la vostra protezione e quella del vostro signore, in città lui   stesso potrà raccomandarmi presso qualche nobile famiglia.»

Implorava, era angosciata all’idea di venire abbandonata, ora che si   ritrovava nel mondo da sola, aveva perso tutta la sua sicurezza.

«Andate a cambiarvi o vi buscherete qualche malanno.»

Costanza si allontanò, Giorgio Ordelaffi in piedi al centro della stanza   pareva riempirla tutta con la sua sola presenza.

Vittore e Cantaruta in un angolo, avevano assistito in silenzio al loro   dialogo, dopo un breve cenno d’intesa, la donna prese coraggio e parlò:   «signore, noi la ospiteremmo più che volentieri, ma già si sarà sparsa   la notizia della fuga. Di certo non la cercheranno subito qui a Burano   perché è troppo vicino e penseranno che si sia allontanata di più, ma   l’isola è piccola e un viso nuovo si nota subito e anche noi potremmo   passare dei guai, sarebbe davvero meglio se la conduceste via con voi.»

L’uomo non controbattè, nel frattempo Costanza era rientrata nella   stanza.

«Spero di non dovermene pentire. Vittore, prendi la tua barca subito e   accompagna madonna Costanza verso Venezia, poi proseguirai verso la   terraferma lungo il Canal Salso, là all’approdo troverai una locanda,   sull’insegna è intagliata una grande barca dipinta di bianco e rosso con   un drago come polena: il locandiere mi conosce, gli consegnerai questo   denaro e questo biglietto con il mio sigillo» e prese dalla scarsella un   pezzo di pergamena e della ceralacca, vi impose il suo anello, lasciando   impresso lo stemma della casa degli Ordelaffi, poi riprese «gli dirai   che nessuno dovrà sapere della presenza di madonna Costanza, che si   unirà a noi appena giungeremo in terraferma.»

Vittore fece un cenno affermativo e si apprestò a uscire.

«Grazie signore.»

«Andate con lui ora, siate cauta, quando giungerete a destinazione non   uscite dalla vostra stanza sino a quando arriverò e vi manderò a   chiamare.»

Costanza non ribatté, si limitò a indossare il mantello, coprì la sua   vistosa chioma e seguì Vittore.

Il tragitto fu molto più lungo di quello dell’anno precedente e questa   volta trascorse il tempo riflettendo sul futuro.

Non le era certo mancato il coraggio, ma adesso era piena di dubbi: per   vent’anni aveva vissuto protetta, ora sarebbe stata in balia di se   stessa e degli accadimenti che il fato avrebbe messo sulla sua via.

Improvvisamente sentì una forte nostalgia per la sicurezza del suo   laboratorio e per sorella Berta, ma soffocò sul nascere quello stato,   doveva guardare avanti.


X


Al monastero nel frattempo la comunità era in fermento, avevano scoperto   la sua assenza quando non si era presentata al mattutino e dopo averla   fatta cercare in tutti gli edifici di cui era composto il convento, la   badessa era giunta a conclusione che fosse fuggita, ma non riusciva a   comprendere come potesse esserci riuscita.

Suor Berta, temendo di venire convocata e di subire un controllo nel   laboratorio, vi si era recata immediatamente: aveva sistemato la botte   in modo tale che l’ingresso al cunicolo fosse completamente occultato,   recuperato la chiave, messo a posto il vaso. Si guardò in giro e   soddisfatta, uscì.

Era nella galleria attorno al chiostro, quando vide Marchesina Foscari   venirle incontro; fece un profondo respiro, atteggiò il viso a una   sicurezza che non provava e attese.

«Suor Berta, la madre badessa vuole parlare con voi subito.»

Certamente quella vipera doveva averle instillato il sospetto che lei   fosse al corrente di qualcosa o che addirittura l’avesse aiutata a   fuggire.

Entrò nello studio della badessa, la conversa con lei.

«Entrate suor Berta, Marchesina chiudete la porta.»

La monaca si dispose a ascoltare, sul suo viso traspariva la più   completa serenità.

«Suor Berta, la nostra conversa sostiene che voi siete al corrente dei   piani di fuga di Costanza e che in qualche modo l’avete aiutata.»

«Non vedo come avrei potuto reverenda madre.»

«Voi le dovete aver indicato una via di fuga,» intervenne la conversa.

«E quale? Conosco il convento quanto voi e non mi risulta ci siano   uscite segrete, voi reverenda madre siete al corrente di qualcosa di   simile?»

«No, da che il monastero è stato costruito e ricostruito dopo   l’incendio, non sono mai venuti alla luce passaggi segreti.»

«Ma proprio l’altro giorno Costanza si è intrattenuta con il cavaliere…»

«Via Marchesina, non penserete che un cavaliere del seguito del signore   Federico si sia lasciato coinvolgere in una vicenda simile e comunque   non posso certo scomodare il signore per tale questione, il doge stesso   fermerebbe ogni mia azione,» la interruppe la badessa.

Calò il silenzio, la conversa appariva contrariata, Berta non potè fare   a meno di sorridere tra sé.

«Bene, poiché a breve il vescovo mi chiederà conto di questa vicenda e   messer Contarini anche, dovremo farci trovare preparate: parlate con   tutti coloro con cui Costanza può aver avuto a che fare, magari   scoprirete qualcosa.»

«Reverenda madre, se posso, suggerirei di sentire soprattutto coloro che   vengono da Lio Bianco.»

«E perché mai?» Si intromise la conversa.

«Perché sarebbe stato più facile per lei guadagnare la terraferma verso   quel tratto di costa che non transitando per Venezia dove rischierebbe   di essere riconosciuta,» rispose suor Berta, guardando la madre badessa   e ignorando volutamente Marchesina.

«Avete ragione suor Berta, è da li che inizierete le vostre ricerche, ve   ne occuperete insieme, andate ora.»

Suor Berta e Marchesina Foscari lasciarono lo studio della badessa.

«Non mi incantate, vi controllerò, prima o poi commetterete un passo   falso,» le sibilò la conversa appena oltre la porta, la monaca fece   mostra di non aver raccolto l’avvertimento.


XI


A Ca’ Zoiosa Federico ebbe modo di forgiare il suo carattere, di   approfondire la sua erudizione e di migliorare le sue condizioni   fisiche: studiava filosofia, retorica, ma anche aritmetica e geometria,   latino, greco, musica canto e disegno, oltre all’attività fisica   quotidiana.

La scuola di Vittorino da Feltre, dove era stato accolto, si situava tra   il castello di San Giorgio e la Magna Domus ma isolata da questi due   edifici.

Quando giunsero a Mantova, Costanza per volere di Federico venne   ospitata proprio nella Magna Domus, che era la parte più antica della   cittadella gonzaghesca: le stanze che occupava erano al secondo piano e   le sue finestre, a sesto acuto, affacciavano a est, dove si trovava il   Palazzo del Capitano, che al pari della Magna Domus, era la parte più   vetusta del complesso: quando l’aveva veduta per la prima volta, ne era   rimasta impressionata, con la facciata che poggiava su un portico gotico   sul quale si affacciava un primo ordine di piccole finestrelle   sormontato da un secondo di bifore gotiche; al primo piano erano le   gogne, gabbie dove venivano esposti i condannati al pubblico ludibrio,   in tutto simili alle chebe veneziane.

In questo edificio aveva preso dimora Giorgio Ordelaffi, per essere   vicino al suo signore con una protezione discreta.

Federico aveva accettato di buon grado la sua presenza, senza domandare   spiegazioni a Giorgio Ordelaffi: apprezzava la discrezione di Costanza,   la sua riservatezza e soprattutto le sue qualità di erborista quando   andava da lei acciaccato dai colpi ricevuti durante le esercitazioni.

Dal canto suo lei cercava di farsi notare il meno possibile.

In principio quella compagine completamente maschile l’aveva atterrita,   ma la costante presenza del forlivese aveva evitato spiacevoli   incidenti.

Capitava che venisse convocata a Ca’ Zoiosa per impartire i rudimenti   della scienza erboristica ai giovani che frequentavano il convitto, tra   cui Federico e approfittava di quelle occasioni per prendere in prestito   qualche volume e approfondire così le sue conoscenze mediche.

Aveva inoltre fatto amicizia con alcune giovani donne della corte   gonzaghesca: furono loro a condurla per le vie della città, fino alla   bottega di Bonforte da Concorezzo, famoso mercante di lana e stoffe.

Quando giunse di fronte alla bottega, Costanza rimase interdetta: a   Venezia non aveva mai avuto modo di vedere botteghe così sontuose,   l’edificio era su tre piani, la bottega era sotto il portico, le   decorazioni in rilievo in cotto di finestre e colonnine pensili erano   ricoperte di foglie d’oro su fondo rosso e in parte le ricordavano il   palazzo sul Canal Grande della sua famiglia.

Sotto il portico vi era un’iscrizione con inciso il nome del   proprietario, mentre sull’architrave sopra l’ingresso della bottega vi   era un bassorilievo con riprodotte le merci in vendita.

Costanza varcò la soglia della bottega, il mercante stesso le venne   incontro, avendo visto la giovane in compagnia con delle dame di corte,   immaginò trattarsi di una persona facoltosa.

In quel frangente la figlia del mercante emerse in tutta la sua   prepotenza: la donna non si fece intimidire né confondere, soprattutto   nella scelta delle stoffe, poiché ben sapeva cosa cercava; in ultimo   contrattò sul prezzo con tale accanimento e abilità da farla credere una   consumata commerciante veneziana.

Tornò verso palazzo con i suoi acquisti, lieta di essere riuscita nel   suo intento e soprattutto di aver superato la prova del rapporto con   persone a lei sconosciute in maniera brillante.

Quando il cavaliere ne venne a conoscenza si infuriò e recatosi alla   Magna Domus la redarguì malamente, la giovane ne fu mortificata.

Avendo compreso di aver esagerato, Ordelaffi cercò di correggere il   tiro, «dovete capire che un simile atteggiamento potrebbe divenire un   fatto noto e finireste per essere sulla bocca di tutti e essendo   veneziana, la notizia potrebbe giungere alle orecchie   dell’ambasciatore.»

«Non avevo riflettuto su questo aspetto.»

«Il signore Federico è stato armato cavaliere, tra pochi mesi lasceremo   Mantova per rientrare a Urbino dove saranno celebrate le nozze di   Federico con Gentile Brancaleoni: la sua futura sposa è vostra coetanea,   verrete al seguito, potrete diventare una delle sue dame di compagnia.»

Costanza, già al corrente della prossima partenza del giovane signore,   non aveva osato sperare in una simile fortuna, fu un sorriso di   autentica gioia più che di gratitudine quello che rivolse a Ordelaffi   lasciandolo interdetto.

Federico era però un uomo d’arme e trascorse ben poco tempo con la sua   giovane moglie, entrando nella compagnia di ventura di Niccolò   Piccinino.

Nel Millequattrocentotrentotto ottenne la sua prima condotta, sotto le   insegne del duca di Milano Filippo Maria Visconti: furono anni di   intensi combattimenti, aspre battaglie, sino alla fine del   Millequattrocentotrentanove quando, ferito seriamente durante l’assedio   di Campli, dovette rientrare frettolosamente a Urbino per curarsi.

Fu Costanza, su precisa richiesta di Federico, a prendersi cura di lui:   la donna non si risparmiò, mettendo a frutto tutto quanto aveva appreso   da suor Berta, dall’osservazione dei medici della corte gonzaghesca e   soprattutto quanto aveva studiato sui libri che Vittorino da Feltre le   aveva permesso di leggere durante il soggiorno mantovano: utilizzava   quotidianamente dell’olio di iperico per accelerare la cicatrizzazione,   controllava le suture e cambiava le bende dopo aver disinfettato con   aceto le ferite, preparava impiastri di emula per evitare le piaghe, gli   somministrava infuso di foglie di erba stella dalle proprietà calmanti.

Giorgio Ordelaffi, saputo dell’incidente, aveva abbandonato Forlì per   rientrare a Urbino: quando Federico nel maggio dell’anno precedente si   era fermato a Forlì prima di raggiungere Milano, nel suo incontro con   Antonio Ordelaffi aveva chiesto espressamente al signore della città che   Giorgio fosse definitivamente posto al suo servizio.

L’incontro con Costanza avvenne in maniera insolita, fu quasi uno   scontro: lei usciva dalla camera dell’infermo, l’altro era appena giunto   e aveva urgenza di raggiungere il suo signore, quando nel corridoio di   palazzo si trovarono l’uno nelle braccia dell’altro; Costanza ebbe la   peggio, andando letteralmente a sbattere sul torace dell’uomo, rivestito   della corazza.

«Madonna vi domando perdono, vi siete fatta male?»

«Colpa mia cavaliere, ero disattenta, ben tornato a Urbino.»

«Come state dunque?»

«Io bene, ma credo sia il caso che andiate dal nostro signore, vi   attende.»

«Si certo, a dopo.»

Costanza si sentiva sottosopra e non per il colpo infertole, da tempo   non vedeva il cavaliere e non immaginava che ritrovarselo dinanzi   all’improvviso le avrebbe provocato una simile reazione, né poteva   sapere che la stessa sensazione l’aveva provata Giorgio Ordelaffi.

La reazione di quest’ultimo fu alquanto repentina e per nulla ponderata;   gli avvertimenti del Montefeltro furono lettera morta, così come le   accorte considerazioni di madonna Gentile, aveva intenzione di fare di   testa sua, come sempre.

Dopo aver preso commiato dal Montefeltro, si recò nella sala dove le   dame di corte erano solite riunirsi.

Quando fece la sua comparsa, il leggero chiacchiericcio si smorzò di   colpo, Costanza sollevò lo sguardo per capire cosa fosse avvenuto e si   avvide della sua presenza.

«Madonna Costanza dovrei parlarvi,» senza aspettare si voltò e uscì   dalla sala, la giovane appoggiò il ricamo e lo seguì: le tornò   improvvisamente alla memoria una scena analoga avvenuta diversi anni   prima e curiosamente, anche allora Giorgio Ordelaffi ne faceva parte.

Si ritrovarono fuori dal palazzo comitale, sulla piazza su cui aggettava   anche il duomo cittadino. Era una tiepida giornata di sole di fine   dicembre, fu Giorgio Ordelaffi a rompere il silenzio.

«Costanza, avrei dovuto domandarvelo subito quando vi ho conosciuta, ma   per qualche motivo me ne è sempre mancato il coraggio, volete diventare   mia moglie?»

«Ma la vostra famiglia…»

«Sono un figlio illegittimo che ha scelto di mettersi al servizio dei   Montefeltro, nessuno pensa a me.»

«In fondo ci assomigliamo, io praticamente sono senza famiglia.»

«Allora costruiamo il nostro sodalizio.»

«D’accordo.»

«Non vi pentirete di avermi dato fiducia.»

«Ve la diedi sei anni fa, lo avete dimenticato?»


XII


Per Costanza gli anni della tranquillità erano improvvisamente   terminati: con il matrimonio aveva iniziato a seguire il marito che   combatteva nell’esercito mercenario di Federico da Montefeltro.

Più volte si trovò a ridosso del campo di battaglia, impegnata con altri   cerusici a soccorrere i feriti: abito, mani e viso imbrattati di sangue,   i capelli raccolti alla bene e meglio, si prodigava sino allo strenuo,   senza dimenticare le nozioni impartitele da suor Berta, anche se a volte   doveva improvvisare a causa della mancanza di bende e altro.

Al termine di ogni scontro si sentiva svuotata, sia per la fatica fisica   che psicologica: in ogni soldato che vedeva aveva timore di riconoscere   le fattezze del marito, paventava il momento in cui avrebbe dovuto   soccorrerlo perché ferito, o per ricomporre le sue membra straziate da   una bombarda, ma Giorgio pareva invincibile.

«Ho promesso di non deludervi, non posso abbandonarvi,» era solito dire   quando, nella calma innaturale che seguiva a ogni battaglia, avevano   modo di ricongiungersi.

Costanza non riusciva a comprendere come si potesse vivere in quel modo,   a volte lo pregava di smettere, che la generosità di Federico li aveva   resi benestanti se non ricchi, ma l’uomo ribatteva che non conosceva   altro mestiere che quello delle armi.

A luglio del Millequattrocentoquarantaquattro Federico si trovava a   Pesaro quando fu assassinato il fratellastro Oddantonio: informato   dell’accaduto, alle prime luci dell’alba partì alla volta di Urbino,   Giorgio e Costanza al suo seguito.

Giunto a Urbino si fece immediatamente proclamare signore della città,   amnistiò i partecipanti alla congiura e allontanò le sorellastre,   Violante Agnesina e Sveva, facendoloro contrarre buoni matrimoni.

«Ma non capite che così facendo dà forza alle voci che lo indicano come   il mandante dell’omicidio del fratello?»

«Via Costanza, Oddantonio era crudele e odiato dalla sua gente, nessuno   lo rimpiangerà e Federico ben presto farà dimenticare queste voci.»

Anni dopo Giorgio Ordelaffi fu smentito in questa sua affermazione: il   signore di Urbino si vide costretto a reprimere nel sangue la congiura   ordita da parenti e amici del fratellastro e in seguito dovette sedare   la rivolta di Fossombrone, sobillata dal Malatesta la sua spina nel   fianco; per tre giorni la città fu messa a ferro e fuoco da seicento dei   suoi migliori balestrieri.

Era un uomo d’arme, che sapeva essere crudele e violento, ma Costanza   gli riconosceva un mecenatismo senza eguali: grazie alle innumerevoli   condotte che lo avevano reso ricco, aveva iniziato tra l’altro una   collezione di manoscritti, prodromi di quella che sarebbe diventata una   delle più grandi biblioteche del loro tempo, a cui Costanza aveva avuto   da subito libero accesso.

Nonostante le innumerevoli battaglie combattute, rischiò la vita durante   un torneo a Urbino, nel Millequattrocentocinquantuno: durante il secondo   combattimento nella giostra venne ferito da un colpo di lancia che,   sollevatagli la visiera dell’elmo, gli tranciò l’osso nasale e gli si   conficcò nell’occhio destro.

Costanza, consapevole di non potergli salvare l’occhio, si prodigò   affinché la ferita non suppurasse. Federico non era un bel vedere in   quei giorni e il forte dolore la obbligò a sedarlo a lungo con un infuso   di semi di papavero.

A poco a poco l’uomo riprese vigore e tornò alle sue normali attività;   la palpebra era rimasta pendula e si vedeva il bianco del bulbo oculare,   così risolse di portare una benda sull’occhio offeso.

Anche il suo profilo ora era singolare, il colpo, tranciando l’osso   nasale, aveva creato un angolo retto: ben presto nacque la leggenda che   si fosse fatto togliere apposta quella parte di naso per avere una   visione migliore con l’occhio sano.

Costanza aveva con lui il suo bel daffare, nonostante l’età non avanzata   Federico soffriva anche di gotta, il dolore a un piede spesso gli   impediva di dormire: così le scriveva, pentito di non aver seguito la   rigida dieta che lei gli aveva prescritto né di aver bevuto con   continuità la tisana di ribes nero e ciliegio, promettendole di porvi   rimedio… Fino alla volta successiva.

La sua corte stava diventando un ricettacolo di artisti, letterati,   teologi, maestri d’arme: bisognava realizzare una dimora adeguata, che   non fosse da meno rispetto alle regge più fastose dell’epoca.

Iniziò quindi ad acquistare alcune abitazioni limitrofe alla proprietà   di famiglia, facendole inglobare in una nuova costruzione, ma non era   ancora ciò che voleva.

In questo suo desiderio di donare alla città e a se stesso un luogo che   li rappresentasse, Costanza rivedeva suo padre.

Occorsero anni e il genio di un arista dalmata: la novità, lo splendore   del palazzo stava nel non essere chiuso in una strada e neppure in una   città, la parte che affacciava sulla piazza aveva una invitante   rientranza, un cortile da cui si accedeva alla biblioteca e allo scalone   d’onore; la parte aggettante all’esterno, affacciata sul paesaggio   urbinate, era la prima cosa che si mostrava al viaggiatore prima che   entrasse in città.

Costanza ne aveva seguito con interesse le fasi costruttive, nulla di   simile si era mai visto in laguna: se il palazzo dei dogi rappresentava   la magnificenza, questo riproduceva forza e eleganza, era il simbolo del   signore di Urbino, lo connotava appieno.

Aveva apprezzato inoltre le splendide decorazioni realizzate da Paolo   Uccello, il pittore aveva soggiornato a Venezia, ma in anni lontani   quando lei ancora era una ragazzina e solo ora poteva ammirarne appieno   il genio.

Finalmente Giorgio si arrese alle continue richieste della moglie di   abbandonare la vita del soldato, lei aveva desiderio di tranquillità e   sebbene non avessero avuto figli, potevano ora godere della compagnia   reciproca, avviarsi a una serena vecchiaia insieme.

Di tanto in tanto Costanza tornava con la memoria al convento di   Sant’Ariano, a quell’isola persa tra i canneti e le acque della laguna   da cui aveva avuto la fortuna di trovare infine la sua strada.

A volte rileggeva i suoi quaterni a cui aveva aggiunto nuove pagine   fitte di appunti, frutto dell’esperienza fatta sul campo nei lunghi anni   di guerra al seguito del marito.

Ripensava alla sua famiglia, ai suoi fratelli: non aveva modo di sapere   se avessero dissipato o meno la fortuna di famiglia.

Si domandava se un giorno sarebbe potuta tornare nella sua città, più il   tempo trascorreva, e più si acuiva la nostalgia di Venezia, dei suoi   palazzi affacciati sul Canal Grande, dei colori che le diverse stagioni   disegnavano tra acqua e cielo sulla laguna.

Si era trovata bene a Mantova che in parte era una città d’acqua,   essendo nata sul Mincio, il fiume che intorno ad essa formava quattro   laghi, dove era possibile vedere ranuncoli d’acqua e poi folaghe e   germani reali.

Urbino invece era una rocca formidabile, il paesaggio intorno di un   verde brillante, ma mancava l’elemento con cui lei aveva convissuto da   quando era venuta al mondo.

Federico, pensando di farle cosa gradita, le aveva donato splendidi vasi   e bicchieri di vetro di Murano finemente lavorati e in ultimo aveva   fatto giungere espressamente per lei alcuni volumi a stampa, i primi del   loro genere, realizzati proprio a Venezia.

Il marito si avvedeva di questa sua malinconia, «non credo sia una buona   idea tornare a Venezia.»

«Ma chi volete che rammenti la fuga di una novizia di venti anni fa? Il   doge allora in carica è morto da tempo, non sappiamo nemmeno se messer   Dandolo che vi accompagnò quel giorno al convento, sia ancora vivo.   Porto il vostro nome e la mia chioma non è più fulva come allora.»

«Gli occhi e i vostri lineamenti però non sono cambiati signora, a me   sembrate ancora la giovane che mi trafisse con il suo sguardo la prima   volta che ci incontrammo nel laboratorio erboristico.»

«Questa poi.»

«Non credete alle mie parole?»

«Considerando quanto ho dovuto penare per convincervi a portarmi con   voi.»

«Questo è ciò che credete.»

«Che intendete dire?»

«Che avrei accettato una qualsiasi soluzione pur di portarvi con me,   anche quella di andare da vostro padre per convincerlo a non obbligarvi   a prendere i voti.»

«Certo signore che siamo una coppia inusuale, una monaca mancata e un   figlio illegittimo.»

«Eppure mia signora, abbiamo dimostrato di essere persone per bene e   affidabili nonostante le nostre origini.»

«Si avete ragione, ciò non toglie però che abbiate sviato il discorso.»

«Ne riparleremo più avanti madonna, ora poi avete il vostro bel daffare   con la nuova signora di Montefeltro, che mi dite di lei piuttosto?»

«È giovane, ha una mente pronta, eccelse doti culturali e una naturale   attitudine al governo.»

«Di questo è consapevole anche Federico, poiché è lei che governa   durante le sue assenze.»

«È anche molto pia sapete? È terziaria francescana, ha un cuore   generoso, ha allevato i figli naturali di Federico come se fossero   suoi.»

«E vi è molto affezionata, tanto che una delle loro figlie porta il   vostro nome.»

«Mi hanno fatto questo onore, si.»

Calò il silenzio, fu Costanza a romperlo: «vorrei che faceste qualche   ricerca sul monastero e sulla mia famiglia.»

«D’accordo, se questo può servire a farvi stare tranquilla.»


XIII


La monotonia non aveva spazio nella vita di Costanza: c’erano i giovani   figli del duca da seguire, la salute di questi, della duchessa e quella   di Giorgio: era il più anziano di tutti loro e andava lentamente   declinando, lo aveva compreso Federico, che sempre meno di frequente lo   convocava agli incontri preliminari di qualche nuova battaglia, lo aveva   compreso lui stesso e accettava di buon grado la situazione, non potendo   porvi rimedio.

Il vecchio cavaliere trascorreva gran parte delle sue giornate nello   studiolo che Costanza aveva fatto approntare nella loro abitazione: era   una piccola riproduzione dello studio di Federico, anche qui il soffitto   era a cassettoni, sebbene fossero di legno naturale e privi delle   imprese, le pareti erano coperte da tarsie lignee, che creavano effetti   illusionistici di continuazione dell’architettura; lo schema della   decorazione prevedeva nella parte superiore un alternarsi di sportelli   semiaperti, che rivelavano armadi con oggetti, mentre la parte inferiore   imitava degli appoggi, sulle quali erano disposti strumenti musicali ed   altri oggetti.

Gli oggetti ritratti negli armadi alludevano alle Arti, in particolare   alla medicina e alla letteratura, le passioni di Costanza.

Da qui, seduto a uno scrittoio vicino all’ampia finestra che affacciava   sul verde paesaggio urbinate, l’anziano Ordelaffi intratteneva rapporti   epistolari con molte parti d’Italia.

Fu così, che tramite l’ambasciatore di Urbino a Venezia, era venuto in   possesso delle notizie che potevano interessare Costanza.

In un freddo pomeriggio di fine dicembre dell’anno del Signore   Millequattrocentosettantaquattro, marito e moglie, seduti davanti al   camino acceso nel salone della loro dimora, vennero a conoscenza delle   notizie riguardo la famiglia di Costanza, il convento e altro ancora.

«Ecco Costanza cosa riferisce il nostro ambasciatore: vostra madre morì   pochi anni dopo la vostra fuga e vostro padre si risposò con madonna   Lucia Correr, da cui ebbe un figlio, Pietro. Fu lui a ereditare il   patrimonio di famiglia alla morte di vostro padre, giacchè anche i   vostri fratelli erano morti. Il monastero invece è stato soppresso dal   papa nel Millequattrocentotrentotto, ufficialmente per l’aria malsana e   le serpi che infestavano l’isola, ma in città si mormorava che la   badessa Caterina Michiel fosse caduta in disgrazia in seguito alla fuga   di una novizia della quale, nonostante le ricerche, non si seppe più   nulla.

L’ambasciatore scrive anche che il padre di questa fece un tale strepito   che la badessa fu condannata a reclusione: venne trasferita nel   monastero di San Girolamo dove visse fino alla morte sotto stretta   sorveglianza e senza mai ricevere visite, se non il proprio confessore.»

«Non vi dice nulla di suor Berta?»

«Lei e alcune altre furono accolte nel monastero di Santa Caterina a   Mazzorbo.»

«È il monastero che si trova vicino all’abitazione di colui che fu il   vostro barcaiolo di allora, rammentate?»

«Si.»

«Ma è viva?»

«Non ha saputo dirmelo,» vedendo che la moglie non replicava, continuò,   «Sant’Ariano pare sia ormai un covo di ladri che si nascondono tra le   rovine del monastero, ne hanno profanato anche il cimitero, pensando di   trovarvi chissà cosa. Inoltre, nel susseguirsi delle epidemie l’isola è   stata usata come cimitero di appestati: i corpi erano stati lasciati a   marcire tra i rovi e le rovine, ora ovunque vi sono ossa che brillano al   sole, persino l’erba è bianca,»

Costanza taceva guardando le lingue di fiamma che danzavano nel camino,   il calore e il movimento ipnotico l’avevano estraniata.

Giorgio si alzò e si allontanò, reputando dovesse riflettere da sola su   quelle notizie, solo lei poteva realmente sapere quali fossero i moti   del suo cuore e della sua mente, alle notizie ricevute.


XIV


«Ma vi rendete conto dell’atrocità che ha commesso?»

«Costanza calmatevi.»

«Come ha potuto farsi coinvolgere in una simile enormità?»

«Sapete bene come fossero tesi i rapporti tra lui e Lorenzo de Medici da   un po’ di anni a questa parte.»

«Ciò non giustifica l’assassinio.»

«Il papa lo ha nominato gonfaloniere della chiesa.»

«Il papa! Un francescano del tutto dimentico del suo voto di umiltà e   povertà. Voleva Firenze e ha coinvolto Federico proprio perché a   conoscenza del suo malanimo nei confronti del Medici e ora che la   congiura è fallita? Cosa pensate che accadrà? Lorenzo non è uomo da   dimenticare, gli è stato assassinato il fratello.»

«Nessuno sa del coinvolgimento di Federico.»

«Ma se la lettera che vi ha fatto inviare ai suoi ambasciatori   indirizzata al papa fosse stata scoperta?»

«Era in codice Costanza, ho usato il codice che ci fece avere Cicco   Simonetta quattro anni fa, nessuno è in grado di decifrarlo, se non io e   messer Simonetta stesso.»

Costanza era comunque in apprensione, la vendetta di Lorenzo sarebbe   stata tremenda.

I suoi più cupi presentimenti si avverarono, Lorenzo aveva catturato i   congiurati, tra questi vi era Giovanni Battista da Montesecco, un   soldato al servizio di Girolamo Riario nipote del papa, che dopo il   fallimento della congiura si era rifugiato in un monastero benedettino.

Questi, prima di essere messo a morte, rilasciò una piena confessione in   cui faceva riferimento anche al coinvolgimento del duca di Urbino che fu   resa pubblica successivamente alla sua esecuzione, nel mese di agosto:   il nome di Federico non vi compariva, ma nelle ambascerie d’Italia si   sapeva che la parte che lo riguardava era stata stralciata per volere   dello stesso Lorenzo, in questo modo lo teneva in pugno.

«Andiamo via da qui Giorgio, il rischio è grande,» l’angoscia traspariva   dalle parole di Costanza.

«Dove vorreste andare? »

«Andiamo a Forlì, poi da lì ci trasferiremo a Venezia, in laguna potremo   vivere tranquilli. »

«E voi è lì che volete concludere la vostra vita è vero? »

«Si…»

«Avete ragione, ognuno dovrebbe poter morire nel luogo dove è nato. Sta   bene signora, occupatevi di organizzare la nostra partenza, io nel   frattempo manderò un po’ di lettere che preannunciano il nostro arrivo.»

Occorse del tempo, Federico opponeva resistenza, ma questa volta era   Costanza a tenergli testa: era la sua città che voleva rivedere e non   glielo poteva impedire nemmeno il signore di Urbino.

Infine Federico capitolò e diede loro il permesso di lasciare Urbino: ad   aprile, in una primavera funestata già da sinistri presagi, Giorgio e   Costanza si misero in viaggio per Forlì.

Vi giunsero stanchi, in particolare Giorgio, sempre più affaticato, era   stato colto dalla febbre malarica e nonostante Costanza lo curasse con   decotti e infusi di artemisia, non ne traeva alcun giovamento.

A Forlì trovarono alloggio in una abitazione messa a disposizione   dall’ambasciatore urbinate: per i signori di Forlì, suoi parenti, lui   era nessuno.

La loro nuova abitazione faceva parte di un complesso edilizio di   recente costruzione lungo la via maestra, le case della famiglia Orsi:   abitazioni e botteghe tutte in relazione tra loro, con un ampio cortile   porticato, su cui aggettavano le abitazioni nobiliari

Costanza si risolse ad attendere che le sue condizioni migliorassero per   poter riprendere il viaggio: lo curava personalmente, non si staccava   mai dal suo capezzale, dormiva seduta su una poltrona vicino alla sponda   del letto, ogni giorno lo detergeva e gli somministrava i medicamenti.   Gli preparava infusi di ortica e rosa canina per arginare il sangue che   perdeva dalle vie respiratorie, decotto di mela per farlo riposare, gli   poggiava pezze imbevute di decotto di fiordaliso sugli occhi.

In preda alla disperazione era giunta a procurargli un salasso,   nonostante fosse contraria a tale pratica che debilitava ancora di più   l’infermo, ma la situazione non migliorava.

Fu la mattina del tredici maggio che peggiorò drammaticamente: appena   svegliatasi Costanza aveva potuto constatare che il suo respiro si era   fatto affannoso e aveva perso lucidità.

Comprese che ormai era giunta la fine: con calma ammirevole lo lavò,   cambiò le lenzuola, spalancò le finestre per far entrare aria pulita e   luce e si dispose seduta al suo fianco, a attendere.

Era da poco trascorsa l’ora sesta, quando il sole si oscurò per una   eclissi, gli uccelli tacquero repentinamente, un silenzio inusuale si   propagò per la città, fino ad allora operosa.

«Costanza,» Giorgio Ordelaffi aprì gli occhi, in un ultimo sprazzo di   lucidità le strinse la mano con il poco vigore che ancora gli rimaneva e   spirò, gli occhi infine chiusi, una espressione di serenità sul viso.

Costanza rimase immobile, la sua mano in quella del marito, lentamente   la spostò, lo compose e gli depose un bacio sulle labbra ormai esangui.

Lo guardò ancora una volta con dolcezza, poi uscì per andare a dare   disposizioni per il funerale.

Il sole stava lentamente riapparendo, un raggio si fece strada tra i   vetri spalancati della grande bifora, sino a illuminare il letto,   scaldando per l’ultima volta il corpo del cavaliere.

Fu lei sola a accompagnarlo alla sua ultima dimora: avvolto in un   sudario candido, chiuso in una semplice bara senza orpelli, su cui aveva   fatto incidere il nome, la data della morte e più in basso anche il suo,   di nome, lo fece seppellire nel camposanto vicino al duomo, in un caldo   mattino di maggio, in cui l’aria profumava di fiori.


XV


Aveva abbandonato la città poco tempo dopo, con un messo ne aveva   inviato notizia a Federico, informandolo anche della sua intenzione di   proseguire per Venezia. Non aveva atteso risposta.

Il viaggio era stato lungo e disagevole, al caldo opprimente dell’estate   padana ormai prossima, si aggiungevano gli strascichi dell’epidemia che   ancora imperversava in diverse zone della pianura, per cui doveva fare   deviazioni continue per non rischiare la quarantena.

La lettera firmata dall’ambasciatore urbinate a Venezia le fu in questa   situazione di grande aiuto.

Era luglio, quando, dalla terraferma in barca si avviò lungo il canal   salso prima, la laguna aperta e infine il Canal Grande per giungere a   destinazione, in una piccola abitazione messa a sua disposizione in quel   di Cannaregio, non troppo lontano dalla Ca’ d’Oro.

Si trattava di una abitazione di testa, con grandi bifore, nella stretta   calle del Pistor, parte del lungo percorso commerciale che attraversava   Cannaregio parallelamente al Canal Grande.

Era una dimora con un sotoportego, una curia con il proprio pozzo, la   cucina al piano terra, vicino alla scala che portava al piano superiore   dove erano altre tre stanze, una delle quali Costanza fece adibire a   studiolo, avendo portato con sé i libri che aveva raccolto in quegli   anni, i documenti del marito; da Urbino poi, aveva fatto giungere le   tarsie che ornavano le pareti dello studio della loro casa, lo scrittoio   e la poltrona di suo marito: le sembrava ora di aver allestito   nuovamente quella piccola stanza che tanta soddisfazione aveva dato a   Giorgio Ordelaffi.

Aveva compiuto a ritroso lo stesso percorso di molti anni prima. Non   aveva usato il suo nome e tantomeno era intenzionata a presentarsi a   quel fratello tanto più giovane di lei che sicuramente non era nemmeno   al corrente di chi fosse.

Aveva conservato i gioielli trafugati in allora, non per desiderio di   farsi riconoscere, ma per timore che se li avesse venduti a suo tempo,   avrebbero potuto risalire a lei.

Non sentiva il desiderio di far parte di una famiglia che l’aveva   rifiutata anni prima, i Contarini non le dovevano nulla e lei non doveva   nulla a loro: era una donna facoltosa senza problemi per vivere   decorosamente, inoltre, pur avendo vissuto in una corte brillante come   quella di Urbino, non sentiva la necessità del lusso, era sufficiente la   comodità.

E l’alloggio scelto per lei lo era, comodo e soprattutto discreto, con   un proprio ingresso indipendente, in una zona ricca di botteghe, dove   nessuno faceva caso a un viso nuovo.

Quando finalmente si fu sistemata, decise di farsi accompagnare fino al   monastero di Santa Caterina in Valleverde, a Mazzorbo.

Non aveva più varcato la soglia di un convento dalla notte della sua   fuga, le tremavano le gambe, aveva un irrazionale timore di essere   scoperta.

Chiese di suor Berta e grande fu la sua gioia nel sapere che era ancora   in vita, godeva di buona salute e continuava la sua professione di   erborista: la suora portinaia le fece strada verso la farmacia, come   pomposamente chiamava il locale dove Berta preparava i suoi medicamenti.

Entrò in un locale ampio e ombroso, odorava di erbe secche di colpo le   sembrò di essere catapultata indietro nel tempo, in un luogo simile a   quello.

«Suor Berta…»

La monaca si girò di scatto, Costanza si avvide di come il suo viso   fosse uguale ad allora, fatte salve qualche ruga in più.

«Costanza, sei davvero tu?»

«Mi avete riconosciuta.»

«E come potrei aver dimenticato la tua voce e anche se fosse, i tuoi   occhi parlano per te.»

«Ho pensato a voi molte volte, ho sempre temuto delle ritorsioni nei   vostri confronti, soprattutto a causa di quella serpe di Marchesina   Foscari, ma come avevo potuto credere fosse mia amica? L’avevo mal   giudicata, anzi troppo ben giudicata.»

«Ci fu un tentativo da parte della badessa, probabilmente su istigazione   di quella stessa conversa, ma non ottenne nulla. Lo stesso vescovo dopo   aver sentito la mia versione, ritenne che non fosse il caso di procedere   oltre e rivolse le sue attenzioni sulla badessa e sul suo modo di   gestire l’andamento del convento. Per sicurezza comunque chiesi di   venire qui, adducendo come scusa il clima ormai malarico dell’isola, il   resto…»

«Lo conosco, sono stata informata in questi anni, solo non ero mai   riuscita ad avere vostre notizie.»

«Era importante per te?»

«Si, molto, voi eravate tutta la mia famiglia.»

Suor Berta la strinse a sé Costanza riconobbe l’odore pungente delle   erbe che da sempre aveva accompagnato il ricordo che aveva della monaca.

«Raccontami di te ora.»

«È una storia lunga.»

«Abbiamo tempo.»

Costanza uscì dal convento che il giorno volgeva al termine, la barca la   attendeva lungo il canale di Mazzorbo per riportarla a Venezia.

Iniziò dunque la sua vita nella sua città, da donna libera, ma con   grande riservatezza e discrezione.

Abituata al fermento artistico della corte di Urbino, Costanza fu   piacevolmente sorpresa dal movimento culturale cittadino. Sempre con   molta prudenza, iniziò a frequentare le botteghe d’arte, in particolare   quella di Giovanni Bellini, in cui la donna rivide l’influenza di Piero   della Francesca da lei conosciuto a Urbino, anche se con uno stile più   affine ai gusti veneziani e con suo sommo stupore, ai suoi.

Tornò ancora a trovare suor Berta, sino a quando una mattina di   dicembre, la portinaia la condusse dalla badessa invece che alla   farmacia, Costanza comprese immediatamente.

«Reverenda madre.»

«Madonna Ordelaffi, mi duole informarla che suor Berta questa notte ha   reso l’anima a Dio,» vedendo il dolore dispiegarsi sul suo volto,   proseguì rapidamente, «è morta in grazia del Signore e prima di spirare   mi ha chiesto di consegnarvi questo pacco. Desidero dirvi una cosa, era   malata da tempo, ma resisteva pervicacemente all’avanzare del male,   sembrava attendere la venuta di qualcuno. Poi, quando voi siete apparsa,   in principio è sembrato che si riprendesse, infine ha ceduto.»

Costanza non fece alcun commento, si limitò a prendere il pacco che la   badessa le stava porgendo.

«Credo, se ho ben inteso la situazione, che forse vi farà piacere   ritirarvi ad aprirlo nella farmacia, che è stata il suo regno.»

Incapace di profferire parola Costanza si limitò a un cenno affermativo   e seguì la badessa nella farmacia.

«Ecco, prendetevi tutto il tempo che vi occorre.»

Quando la porta si chiuse dietro la monaca, Costanza aprì il pacco   avvolto in tela bianca: fasciati nella stoffa trovò i quaterni di suor   Berta, il Libro di Isacco Giudeo, una serie di pacchetti di stoffa più   fine e ampolle ben chiuse, una chiave e infine una lettera.

Con gli occhi velati dalle lacrime ruppe il sigillo e si apprestò a   leggere le ultime parole della monaca.

“Mia cara Costanza, se leggi queste parole vuol dire che io ormai sono   nel Regno di Dio. Non essere triste, da qui potrò guidarti ancora, come   feci per tutto il tempo che trascorremmo insieme a Sant’Ariano. Tutto   ciò che trovi nel pacco è ciò che rimane del nostro convento.

Conservalo a futura memoria, perché nessuna donna sia più obbligata a   scegliere il chiostro dal volere di altri o per la propria   sopravvivenza, ma solo perché è il suo cuore che lo desidera.

Ti abbraccio con tutto il mio amore.

Tua sorella in Cristo,

Berta Grimani”

Solo in quel momento realizzò che non aveva mai saputo a quale famiglia   appartenesse la monaca.


EPILOGO


La luce del sole lentamente rischiarava le acque della laguna, rendendo   visibili i contorni di isole e barene, non troppo lontano si intuiva la   sottile linea della terraferma.

Lasciò vagare lo sguardo, intorno a sé lugubri resti umani spiccavano   sulla vegetazione di un innaturale colore biancastro: Sant’Ariano era   ormai solo un cimitero, un sepolcro senza soluzione di continuità, che   lentamente stava affondando, ricoperto dalle acque sempre più alte.

Era il luogo in cui la laguna, lontana dalla città di meravigliosi   palazzi che si specchiavano nei canali, tornava a essere se stessa,   piena di spiriti: non vi era isola, barena o canale in cui non   aleggiasse qualche anima.

Era un luogo spoglio, privo di argini: se esisteva l’Ade, pensava   Costanza, questo lembo di terra ormai prossimo a scomparire, ne sarebbe   potuto essere il giusto ingresso.

Venezia sembrava lontana, immensa e lontana, oltre i canneti, alle   spalle di Costanza era un ginepraio di spine e cespugli, veri custodi   dell’isola di anime perse.

Costanza infine si alzò, percorse a ritroso il sentiero che l’aveva   condotta sin lì, sotto i suoi piedi conchiglie calcinate producevano un   lugubre suono, come se la terra sommessamente esprimesse tutto il   proprio dolore.

La barca era attraccata e il barcaiolo rannicchiato all’interno a   proteggersi dal freddo notturno.

Si avvicinò al punto in cui sapeva esserci l’imbocco del cunicolo che   quarantasei anni prima l’aveva condotta verso la libertà: era invaso   dalla vegetazione e dall’acqua.

Salì sul pontile, tra le mani era comparsa una vecchia chiave   arrugginita, la lasciò scivolare nell’acqua.

Il lieve tonfo, amplificato dal silenzio del primo mattino, svegliò il   barcaiolo.

Costanza salì a bordo, «andiamo, voga verso San Francesco del deserto.»

Il barcaiolo ubbidì e lentamente si portò verso il punto della laguna   che lei gli aveva indicato.

Improvvisamente il silenzio della laguna fu riempito dal suono argentino   della campana di San Francesco del deserto.

Si poteva udire il frusciare dei piccoli animali oltre la cortina dei   cipressi che difendeva l’isola.

In alto, il richiamo roco dei gabbiani in volo.

Con gli occhi dell’immaginazione poteva vedere le distese di barene   ricoperte di limonio e salicornia, che d’estate le coloravano di viola,   oltre le sembrava di scorgere i profili di antichi edifici, quei   chiostri tra le acque che lentamente stavano affondando, laddove la   natura si stava riprendendo ciò che l’uomo aveva tentato di far proprio,   inutilmente.

Costanza si sentiva avvolta nella natura, accompagnata verso l’oblio,   come dal canto delle sirene.

«Torniamo a Venezia.»


NOTE

La storia non ha alcun riferimento con la realtà.
Alcuni personaggi sono realmente esistiti.
Marino Contarini fu realmente l’ideatore e progettista della Ca’ d’Oro,   anche se la sua costruzione e ultimazione è posteriore agli anni in cui   è ambientato l’inizio della storia, i nomi dei suoi figli e della moglie   gli appartengono, solo a una delle due figlie è stato modificato il   nome, da Samaritana a Costanza, l’interprete del racconto.
Il coinvolgimento di Federico da Montefeltro nella congiura dei Pazzi è   stato accertato dal prof. Marcello Simonetta, discendete di quel Cicco   Simonetta, segretario alla corte sforzesca, ideatore del codice segreto   utilizzato da Federico.
È vero altresì che il Magnifico ordinò lo stralcio dalla deposizione di   Giovanni Battista da Montesecco delle accuse riguardanti il duca di   Urbino.
RACCONTO
ELEONORA ED IO



    Fermo sulla linea della battigia, là dove si infrangono le onde, guardavo il mare ormai tranquillo.
Era stata una notte terribile: già dalle prime ore del pomeriggio il cielo si era fatto improvvisamente cupo, spesse nuvole nere si erano addensate sopra la nostra imbarcazione.
Lontano verso l’orizzonte, lampi di luce parevano rischiararle e una linea biancastra delimitava il cielo dal mare, cupo e agitato.
    Un forte vento di maestrale si era levato all’improvviso, scrosci di pioggia si erano riversati sul ponte della nave, colpivano con violenza i miei occhi impedendomi di vedere oltre la linea di prua.
    La grossa caracca compariva e scompariva tra le alte onde, a tratti illuminata da squarci di luce, per sprofondare nel buio più fitto.
    Nessuno, nemmeno io, si era reso conto di essere pericolosamente vicino alla linea di costa, quando il rumore del fasciame fatto a pezzi per aver strisciato il basso fondale, superò il ruggito degli elementi.
    All’improvviso fui sbalzato in acqua: l’impatto gelido mi lasciò intontito e senza respiro, ma lo spirito di sopravvivenza ebbe la meglio e iniziai a nuotare verso il lembo di terra che ero riuscito a scorgere.
    Sentii delle urla provenire dalla mia destra: era Eleonora che chiedeva disperatamente aiuto.
    Con fatica la raggiunsi e insieme, avvinghiati ad un pezzo dell’albero maestro, guadagnammo la riva.
    Eleonora toccò terra, carponi arrancò verso l’asciutto e con un gemito si lasciò cadere sulla sabbia ansante e incurante della pioggia e del vento che ancora ci flagellavano, chiuse gli occhi e sprofondò in uno stato di incoscienza.
    Seduto al suo fianco, il respiro ancora affannoso, il dorso mi doleva, le membra mi bruciavano per lo sforzo, mi disposi a vegliarla e così feci per tutto il resto della notte e del giorno successivo, quando il sole scacciò le ultime nubi e il mare, come assecondando una volontà sovraumana, parve placarsi.
    Rimasi vicino a lei, di tanto in tanto la sfioravo, sentivo il suo respiro seppur debole, osservavo i suoi lineamenti e la sua espressione così mutevole nel sonno agitato in cui versava e mi tranquillizzavo.
    Nessun rumore proveniva dal lembo di terra alle nostre spalle, nessun naufrago ci raggiunse nelle ore successive, sembrava che solo a noi fosse toccato in sorte di avere salva la vita.
    Non riuscivo a capire dove potevamo esserci arenati, avevo le narici ancora piene del salso acre del mare che penetrava nei polmoni lasciando un sapore crudele in bocca.
    La sera del giorno prima che la tempesta ci investisse, avevamo avvistato un’isola, che il capitano della nave aveva detto essere l’isola d’Elba: mi era rimasto impresso il nome, giacché il padre di Eleonora ci aveva raccontato di come poco meno di un secolo prima, i genovesi con l’aiuto della casa d’Aragona avevano tentato di occupare l’isola, ma il tentativo era miseramente fallito; dovevamo quindi essere sulle spiagge di Tuscia, quella terra che la famiglia fiorentina dei Medici aveva reso celebre.
    La giornata scivolò via lenta, il caldo sole di fine estate ci aveva infine asciugati entrambi, Eleonora però non pareva volersi destare, ogni tanto si agitava nel sonno, smaniava, chiamava il padre o il fratello, faceva il mio nome e allora mi accostavo a lei ancora di più, perché percepisse la mia presenza, ma nulla, non accennava ad aprire gli occhi.
    Il sole stava ormai tramontando, era una palla di fuoco che aveva inondato di un chiarore soffuso mare e cielo, a breve il buio sarebbe repentinamente calato su noi.
    Non riuscivo tuttavia a staccare lo sguardo da quella colata incandescente che tanto mi rammentava la brillantezza dei colori di messer Raffaello Sanzio: con Eleonora avevo avuto il privilegio di vedere da vicino l’opera sua realizzata nelle stanze vaticane.
Speravo che quei maledetti ‘Lanzi’ le avessero risparmiate.
Eravamo riusciti a fuggire da Roma, ma avevamo fatto in tempo a vedere come i mercenari dell’imperatore avessero ridotto la città: nessuna campana suonava più, non si apriva chiesa, non si diceva messa, non c’era domenica né giorno di festa.      
Le botteghe dei ricchi mercanti erano divenute stalle per cavalli, palazzi devastati, abitazioni incendiate, le strade trasformate in concimaie.
Orribile il fetore dei cadaveri: uomini e animali avevano uguale sepoltura.  
Roma fu massacrata e dissacrata: chiese violate e saccheggiate, inermi cittadini torturati e uccisi, prelati rapinati, strade percorse da soldati schiamazzanti e ubriachi che trascinavano bottino e prede.
All’azione predatoria si aggiungeva spesso l’odio religioso e la blasfemia: le chiese furono trasformate in bivacchi, mentre mirabili opere d’arte attendevano di essere depredate senza che alcuno opponesse resistenza.
Ben poche furono le donne, di qualunque età e condizione sociali, a cui fu risparmiata la violenza, Eleonora fu tra queste, grazie anche alla costante presenza dei suoi famigliari e della loro scorta.
La città, in quel maggio del 1527, aveva un aspetto cadaverico.
La morte prematura di Giovanni dalle Bande Nere a soli ventotto anni, aveva liberato la via verso Roma ai lanzichenecchi del Frundsberg: non avevano più avversari, nessun ostacolo, tranne la scarsità di cibo e la mancanza del denaro …
    La notte del cinque maggio la campana del Campidoglio aveva suonato a stormo per chiamare i romani alle armi, ma invano.
La mattina successiva favoriti da una fitta nebbia, i Lanzichenecchi mossero all’assalto delle mura, tra Sant’Onofrio e Santo Spirito. Gli invasori scemarono sulla città: alla Porta del Torrione e a Porta Fornari ci fu l’attacco degli spagnoli.
    Con la mia giovane compagna, ci trovavamo in compagnia di messer Benvenuto Cellini, ed eravamo stati testimoni del primo assalto e, come lei aveva poi raccontato al padre, anche del propizio colpo di archibugio sparato dal Cellini che aveva ferito a morte il conestabile Carlo di Borbone.
    La morte del conestabile però non aveva fermato l’avanzata, i Lanzi erano riusciti a dilagare in città: superato ponte Sisto si erano riversati nelle vie cittadine, simili ad uno sciame di cavallette, dando libero sfogo ad ogni sopruso per gli otto giorni successivi.
    Una parte della Guardia Svizzera del papa fu massacrata sui gradini dell’altare maggiore di San Pietro assieme a più di cento persone che ivi si erano rifugiate.
    Fummo informati che al seguito dell’esercito imperiale erano anche truppe italiane al comando di Sciarra Colonna e di Luigi Gonzaga Rodomonte.
    Noi fummo fortunati: riusciti ad abbandonare indenni il luogo dei primi assalti degli imperiali, il padre di Eleonora grazie alla marchesana di Mantova che aveva interceduto per noi e per altri nobili, a seguito del versamento di un riscatto di cinquantaduemila ducati, avevamo avuto salva la vita e ci eravamo rifugiati a palazzo Colonna, il suo palazzo: tutto ciò grazie al fatto che suo figlio Ferrante era a capo di una milizia di imperiali.
    Ci fu però da parte della nobildonna un’ulteriore richiesta: l’avida marchesa Isabella d’Este aveva voluto in pegno dei piccoli oggetti realizzati dal Cellini per Eleonora, due piccole riproduzioni, un fauno e una ninfa in argento e smalto mirabilmente cesellati.
    La giovane aveva cercato di opporre un netto rifiuto e suo padre aveva offerto altri doni: stoffe francesi, vetri di Murano soffiati a mano, zecchini veneziani, ma la nobildonna era stata irremovibile e alla fine, pur di aver salva la vita, a malincuore avevano dovuto cedere alla cupidigia della marchesana, così come altri prima di loro.
    Il caldo dell’estate romana aveva portato la peste, che già stava mietendo vittime in altre parti della penisola e benché molti soldati, ormai sazi del bottino arraffato, fuggivano dalla città morente, il padre di Eleonora non certo della ritirata delle truppe tedesche, decise di lasciare l’Urbe.
    Fu così che con gli ultimi contanti rimasti, riuscì ad organizzare la fuga: complice la prima notte senza luna, avevamo abbandonato la città.
    Io, Eleonora, suo padre e il fratello di lei, portando quel poco che si era riuscito di salvare del bagaglio che ci seguiva sin dall’inizio del nostro viaggio, avevamo raggiunto Ostia dove ci eravamo imbarcati sulla caracca genovese che avrebbe dovuto condurci in salvo lasciandoci alle spalle quei mesi di orrore, lunghi tutta la primavera e l’estate del Millecinquecentoventisette.
    Allontanandoci dalla costa laziale, ci sentivamo tutti più sollevati, ancora increduli per la buona sorte che ci era toccata.
    Il destino però aveva deciso diversamente, al largo della costa toscana eravamo incappati in quel fortunale e in breve Eleonora era diventata un’orfana.
    Incominciavo a sentire il peso alla stanchezza, gli occhi mi dolevano, forse avrei fatto meglio a stendermi a fianco della giovane… Avremmo condiviso un po’ di calore.
    Mi distesi ma nonostante la stanchezza, il sonno tardava a venire.
    Chiusi gli occhi e seguendo il filo dei ricordi, tornai con la memoria a quando suo padre Nicolò nelle sere del mite inverno chiota, ci raccontava la nostra storia.
    Giunsi nella loro dimora una tiepida sera di fine maggio: avrebbe dovuto essere una sera felice, allietata dalla nascita di una bimba attesa per anni, ma si tramutò ben presto in tragedia.
    Luchineta, moglie di Nicolò e madre di Eleonora, non più giovanissima, non aveva superato le traversie del lungo travaglio ed era spirata prima ancora di poter tenere tra le braccia la piccola.
    Inizialmente il dolore aveva allontanato l’uomo dalla bimba, che fu subito affidata ad una balia, Antonina, questa, donna di buon cuore, aveva già me in affido, ugualmente privato dalla nascita dell’affetto materno: nessuno sapeva da dove venissi, né chi potesse essere mia madre, era stato il marito di Antonina a trovarmi.
    Nel silenzio serotino di maggio, l’uomo aveva udito un debole suono, lo aveva seguito e aveva trovato me, abbandonato all’ombra del sagrato di una piccola chiesa di Kampos, tremante, che gemevo per la fame.  
    Così la piccolina ed io crescemmo accomunati dalla mancanza della mano carezzevole di una madre.
    Nicolò tuttavia si ravvide molto presto nei confronti della sua figliola, conquistato dai suoi grandi occhi azzurri e dal sorriso così simile a quello dell’amata consorte.
    Crescendo, la bimba divenne la pupilla di tutta la gente di casa, io la sua ombra, il suo amico inseparabile: dove era uno era anche l’altra.
    La nostra vita trascorreva lieve, senza problemi.
    Giorni vissuti a rincorrerci tra gli alberi di mastice nel nostro vagabondare nella parte meridionale dell’isola, tra le viuzze strette dei villaggi della ‘Mastichocoria’, con le case a ridosso tra loro e le alte volte che in parte coprivano le vie che conducevano alla piazza centrale, aspirando il sentore particolare che emanava la resina dei lentischi.
    Spesso passeggiavamo lungo le spiagge di ciottoli neri di lava, qui all’improvviso Eleonora si metteva a correre: «corri Jago, vedrai che ti batto anche questa volta,» mi sfidava e io iniziavo la lunga corsa, per rallentare in vista del traguardo, lasciandola vincere come desiderava lei.
    A volte vagabondavamo lungo le banchine del porto, in attesa della galea che riportava a casa Nicolò e il figlio maggiore Pietro.
    Erano una famiglia di mercanti da generazioni i Vegetti, da quando nel Millequattrocentocinquanta il nonno della mia piccola amica si era trasferito nel Vicino Oriente da Genova e si era dedicato al commercio del mastice, della seta e dell’allume.
    Nicolò aveva ampliato la sua attività dedicandosi alla compravendita delle merci più disparate, dalle spezie e dal cotone provenienti dall’Oriente, al grano siciliano, di Salonicco e Negroponte che rivendeva a Genova, intrattenendo anche rapporti con i Turchi che avevano conquistato Costantinopoli nel Millequattrocentocinquantatrè: era noto che i Genovesi fossero riusciti in qualche modo a conservare i loro fondaci a Pera, al di là del Corno d’Oro, nonostante la strenua difesa della città guidata proprio da un genovese, Giovanni Guglielmo Giustiniani Longo, vituperato dai veneziani mentre gli stessi Turchi nelle loro cronache avevano riconosciuto il suo coraggio; la costa turca poi,  era così vicina, che non aveva senso inimicarsi quel popolo così combattivo.
    Quando Nicolò e Pietro tornavano a Chios dai loro viaggi che li conducevano fin nelle nebbiose isole del Nord, era sempre una gran festa: la casa si riempiva di risa, grida gioiose, esplosioni di stupore da parte di Eleonora alla vista dei doni che le venivano offerti.
    Poi la sera seduti nel frondoso giardino della villa dell’’Archontika’ genovese a Kampos, costruita con la pietra rossa delle miniere di Thymiano, celato ad occhi indiscreti dai rigogliosi alberi di agrumi, Nicolò e Pietro ci raccontavano le loro avventure e quanto accadeva in madrepatria; intanto il sole calava sugli alberi di mastice più a sud e gli ultimi raggi colpivano le lacrime di resina dando l’impressione che una manciata di stelle si fosse staccata dal cielo e avesse preso dimora di fronte a casa, mentre il silenzio era rotto dal rumore costante del torrente che scorreva vicino.
    Fu proprio durante una di quelle sere, al rientro da una lunga permanenza a Pera, che suo padre ci diede la notizia.
    «Si parte Eleonora, torniamo a Genova dove celebreremo il tuo fidanzamento. Prima però faremo in modo che tu conosca un po’ del mondo che c’è lontano da qui: ci fermeremo per un periodo a Roma, poi proseguiremo via terra, andremo a Firenze e infine raggiungeremo Genova.»
    La giovane non ebbe alcuna reazione, fui io a guardare dritto negli occhi suo padre.
    «Si Jago, verrai anche tu con noi, era sottointeso. Lo so che mia figlia non va da nessuna parte senza di te.»
    Ci guardammo, io e la mia giovane compagna: lei mi sorrise, si fece più vicino e mi abbracciò, di rimando sorrise al padre.
    «Quando partiamo?»
    «Appena saranno terminati i preparativi per il tuo corredo, ti concedo comunque non più di tre mesi,» sorrise a sua volta l’uomo.
    E fu da allora che venni un po’ messo da parte: Eleonora fu presa da un ardore che non le conoscevo, era un continuo visionare stoffe, studiare modelli di abiti, controllare i ricami sulla biancheria, discutere con gli orafi per i suoi nuovi monili…
    Provai per la prima volta in vita mia un senso di abbandono.
    Spesso mi rifugiavo in un angolo della stalla, lo stesso dove ci andavamo a nascondere quando eravamo più piccoli entrambi per fare dispetto alla balia; quasi mi nascondevo ancora, sperando che lei preoccupandosi per non avermi visto mi venisse a cercare.
    Fu Pietro invece a trovarmi, in un uggioso pomeriggio di febbraio: comprese quello che stavo provando e per tutto il periodo in cui la pazzia offuscò la mente della mia giovane amica, mi volle al suo fianco.
    Lei però mi mancava terribilmente e io continuavo ostinatamente a sperare che si ricordasse di me.
    Poi, d’improvviso, arrivò il mese di aprile e con esso la nostra partenza.
    Quella mattina scendemmo al porto: una lunga teoria di carri con tutte le cose più preziose di casa, ci seguiva.
    Quando giungemmo sulla banchina Eleonora mi venne incontro, quasi non la riconoscevo per quanto era cambiata.
    «Eccoti Jago, forza saliamo a bordo, stanno già imbarcando le nostre cose.»
    Per lei era come se ci fossimo salutati il giorno prima, ero confuso, guardai Pietro che sorrideva ironicamente “donne”, sembrava dirmi.
    Mentre la grossa nave genovese si allontanava da Chios, osservai quell’isola che fino ad allora era stata tutto il mio mondo: una mezza luna di terra rossa, foreste e sabbie nere lambite da un mare azzurro intenso.
    Salutai mentalmente le sessanta torri che correvano lungo il profilo dell’isola, sui promontori e sulla punta delle numerose insenature: erano tutte visibili tra loro, collegate da differenti sistemi di segnalazione, silenziose sorveglianti di spiagge e baie.
    Così ebbe inizio il nostro viaggio: una lunga teoria di giorni di navigazione tutti uguali, persi tra l’azzurro cupo del mare e il blu brillante del cielo, spesso abbagliato dal riverbero accecante del sole.
    La caracca, costruita sulle spiagge del ponente ligure, solcava veloce le acque del Mediterraneo, con i suoi tre grandi alberi e il bompresso inclinato a prora.
    Spesso ci attardavamo sul castello di poppa, ad osservare quella vasta distesa di blu, senza soluzione di continuità.
    Fino a quando giungemmo in vista delle coste italiane: Eleonora era eccitata all’idea di visitare Roma, vedere i suoi tesori, partecipare a quella vita di società di cui tanto il padre le aveva raccontato e su cui lei aveva a lungo sognato; scese a terra in preda all’eccitazione e non fece altro che subissare il padre di domande su Roma e i romani, lungo il tragitto che da Ostia ci separava dalla Città Eterna.
Roma invece fu il nostro peggiore incubo, ancora oggi non capisco come il padre di Eleonora non avesse avuto sentore dei funesti fatti che si stavano per abbattere sulla penisola italiana: papa Clemente  temeva che il sovrano asburgico impossessatosi dell’Italia del Nord e avendo già nelle sue mani l'intero Sud come eredità spagnola, potesse essere indotto a unificare tutti gli Stati della penisola sotto un unico scettro, a danno dello Stato della Chiesa che rischiava, in tal modo, di rimanere isolato.
Si era composta così una Lega a cui avevano aderito oltre al papa e il re di Francia, anche il Duca di Milano, la repubblica di Venezia, Genova e la Firenze dei Medici.
L'imperatore tentò allora di riconquistare l'alleanza con il pontefice, ma non avendo avuto successo, decise di intervenire e fece in modo di scatenare contro il papa la famiglia dei Colonna, da sempre nemica dei Medici.
La rivolta dei Colonna produsse i suoi effetti: Clemente VII, assediato a Roma fu costretto a chiedere aiuto all'imperatore con la promessa di cedere in cambio la propria alleanza ai danni del re di Francia, rompendo la Lega. Pompeo Colonna si ritirò a Napoli e il papa, una volta libero di decidere per il meglio dello Stato pontificio, non mantenne il patto stipulato.
A questo punto l'imperatore dispose l'intervento armato contro Roma, mediante l'invio di un contingente di lanzichenecchi, al comando del Conestabile di Borbone, uno dei più grandi condottieri francesi, inviso al re di Francia.
    Preferisco non rammentare ulteriormente quei giorni terribili, nascosti a Palazzo Colonna, la fuga di notte, verso Ostia dove attendeva la caracca che doveva portarci in salvo, non lontana dalla torre che era posta lungo la linea della spiaggia…
    Accoccolato vicino a lei, mi parve che fosse trascorsa un’eternità quando la sua mano finalmente si mosse, percepii, più che sentire nitidamente, un gemito e finalmente aprì gli occhi dalle iridi così azzurre che avevano incantato più di un giovane romano e che io amavo tanto.
    Eleonora si mise a sedere, la testa le girava, un lungo taglio sulla fronte, ancora macchiato di sangue rappreso, le faceva pulsare il capo.
    Con studiata lentezza iniziò a guardarsi intorno, cercando di ricordare cosa fosse accaduto, le labbra spaccate per l’arsura, la gola riarsa dalla sete.
    Osservò il proprio abito ridotto in condizioni miserevoli, le belle maniche di velluto operato stracciate, la fine tela sottostante a brandelli, rabbrividì; dei gioielli che aveva avuto indosso erano rimaste solamente le due gocce di perle appese ai lobi, quelle ricamate sul corpetto dell’abito erano state strappate via dalla furia dei marosi.
    Percepii come il silenzio che ci avvolgeva, rotto solamente dalla risacca del mare, le stava provocando un profondo senso di angoscia, sembrava prossima a cadere nello sconforto.
    Mi mossi cautamente per non spaventarla, si voltò verso di me, sapere che ero al suo fianco le impedì di cedere alla disperazione: ero con lei da sempre, non ricordavo un giorno della mia vita in cui non le fossi stato vicino.
    Osservò i miei occhi scuri e conquistati e sorrise, avvicinò il suo viso al mio piccolo muso peloso e con le mani mi accarezzò il capo e le orecchie, la mia gioia era incontenibile, la lunga coda sbatteva ritmicamente sulla sabbia compatta, ero incapace di stare fermo e sollevavo la fine sabbia sulla quale poggiavamo.
    «Siamo rimasti noi due soli amico mio,» mi sussurrò: pensava al padre e al fratello, consapevole che dovevano essere periti nel naufragio, una lacrima scivolò lungo la gota, ma fu questione di un attimo, si riprese immediatamente.
    «E’ ora di mettersi in cammino e andare a cercare aiuto.»
    A fatica si alzò, ripulì quanto rimaneva dell’abito che la rivestiva, fui subito al suo fianco e insieme ci avviammo oltre le dune che separavano la spiaggia dal territorio retrostante.
    Il destino aveva fatto si che per ben due volte, da sempre inseparabili, avessimo avuto salva la vita: le nostre orme affiancate disegnavano una prolungata linea retta sulla sabbia, unica prova del nostro passaggio, mentre ci avviavamo attraverso l’oscurità incombente, incontro ad un incerto futuro, lungo un cammino che avrebbe dovuto condurci al sicuro tra le mura avite, anche se non avevamo certezza che ciò sarebbe stato possibile.
ALL’OMBRA DEL MADACCIO


PROLOGO

Il tono spensierato della voce di mia figlia si contrappone al mio, fatico a nascondere una certa angoscia e lei, dall’altro capo del telefono, lo percepisce.
«Tutto bene mami?»
«Certo, perché me lo chiedi?»
«Hai un tono di voce strano…»
«No, solo mi era parso di aver visto una persona che conoscevo ma in realtà mi sono sbagliata.»
«Questa persona ti fa paura?»
Ma quanto è perspicace? “Proprio degna nipote tua. Si penso anch’io che sarebbe stata un ottimo commissario di Polizia. Come? Anche questore? Certo, magari capo della Polizia eh?
    «Mamma ci sei?»
«Si scusa, stavo solo pensando a come impiegare questa prima giornata di vacanza.»
    «Non ti mancano le opportunità, da quello che mi hai sempre raccontato. Ci sentiamo presto, buona giornata.»
La conversazione termina qui, ora sono di nuovo sola e una vaga percezione di deja vù si fa strada in me, avverto la sgradevole sensazione di una scena già vissuta, ho come il presagio di sapere come andrà a finire.
I
La sveglia ha suonato alle quattro questa mattina. Non ho indugiato oltre sotto le lenzuola: doccia, te bollente, abiti già pronti, alle cinque ero fuori casa.
Pochi passi ed eccomi sulla rotonda che affaccia sulla mia città, una finestra sull’alba di Genova: ho spalancato diverse finestre in questi ultimi anni e da ognuna di esse il mio sguardo ha catturato sprazzi di realtà differenti ma sempre entusiasmanti, parimenti ho chiuso alle mie spalle alcune porte ma non sono pentita, ne valeva la pena e oggi ho la possibilità di riaprire una porta rimasta chiusa a lungo, preservando in un luogo inaccessibile a molti, alcuni tra i miei ricordi più cari.
Non mi attardo, mi piace camminare la mattina presto, quando è ancora buio, il rumore delle rotelle del mio trolley, amplificato nel silenzio mattutino, accompagna i miei pensieri lungo la ‘crosa che da casa conduce direttamente in stazione.
Arrivo con un certo anticipo e mi porto direttamente al binario; alle cinque e quarantacinque sono seduta al mio posto a lato del finestrino, la stazione scorre via, rapidamente Genova è alle mie spalle.
In lontananza percepisco più che vedere la sagoma scura di ciò che resta del ponte Morandi, un buco nero nel buio del primo mattino, laddove solo poco più di un mese fa i fari degli automezzi in transito disegnavano scie di luce.
Più a mare la strada con il suo caotico andirivieni di mezzi mentre lì, sotto ciò che resta di quel tratto autostradale, il silenzio assordante di un quartiere fantasma dove la vita pare essersi fermata a quel tragico quattordici agosto, cristallizzata sotto la pioggia scrosciante: anche il cielo allora ha pianto le sue lacrime di rabbia.
Un dolore sordo monta per questa mia città una volta di più maltrattata e dimenticata.
Socchiudo gli occhi, ora voglio solo pensare ai prossimi giorni, in cinquantaquattro anni è la prima vacanza che mi concedo da sola, senza alcuna compagnia, mi sento eccitata come una scolaretta in gita, affrancata dai genitori.
Mia figlia non era molto d’accordo per la verità, ma ho finto di non vedere il suo sguardo di disapprovazione e forse anche di preoccupazione.
Il treno giunge in perfetto orario a Milano, la prima tappa del mio viaggio: con calma mi dirigo verso il binario dove di li a poco salirò sul Freccia Rossa direzione Verona, lì mi attende un altro treno questa volta verso Bolzano, poi Merano e infine Spondigna.
Quando bambina con la mia famiglia intraprendevamo questo viaggio, in realtà partivamo la sera: per me era un’avventura, viaggiavamo tutta la notte, seduti nello scompartimento di una carrozza che a Milano veniva staccata dal convoglio per essere aggregata ad un altro, destinazione Brennero, per giungere alle sei del mattino a Bolzano.
In prossimità della stazione d’arrivo, mamma apriva una delle nostre valige e porgeva ad ognuno un maglione: era la fine di agosto e ne venivamo dal caldo della riviera, ma qui la temperatura, soprattutto la mattina presto, era più rigida.
A Merano salgo sull’ultimo regionale che mi conduce alla meta: sono le tredici, ma l’emozione è tale che il mio stomaco è completamente chiuso; in passato quel treno era composto da littorine marroni, con sedili in finta pelle, penso a tutte le fermate che farà e mi torna in mente ‘Generale’, la canzone di De Gregori.
Il viso incollato al finestrino, ecco comparire i nomi già noti dall’infanzia: Lagundo, Naturno, Laces, Silandro, Lasa… La prossima fermata è la mia, Spondigna.
Mi avvicino alle porte della carrozza, il treno rallenta, si ferma e scendo.
Chiudo gli occhi, respiro a fondo e mi avvio fuori dalla piccola stazione, dove mi attende il pulmino dell’hotel, il treno intanto prosegue la sua corsa verso Malles, ultimo baluardo italiano prima del confine.
L’autista gentilmente preleva il mio bagaglio e mi fa salire a bordo. Sono l’unica passeggera, non sono molti coloro che salgono quassù in treno, in realtà anche la mia famiglia ed io, quando mio fratello acquistò l’automobile cominciammo a viaggiare in auto in carovana con altri amici che facevano il nostro stesso tragitto.
Seduta, mi godo appieno quest’ultima parte del viaggio: imbocchiamo la statale dello Stelvio, alcuni punti della strada hanno subito delle modifiche, ma sostanzialmente è tutto come allora.
Ecco, davanti a me si staglia la mole del Madaccio, ormai la meta è prossima, mi guardo intorno e gli occhi si velano per la commozione.
Quanti anni sono trascorsi, l’ultima volta la mia bimba non aveva ancora un anno e con noi c’erano ancora mio padre e mia madre.
L’hotel è quello più elegante del paese: non è cambiato, in pietra, con i balconi in legno ricoperti di azalee bianche e fucsia, il tetto con le immancabili cupole a cipolla…
Entro nella hall, lo stile è tipicamente montano: legno ovunque, boiserie, tappeti, moquette morbidissime, l’ambiente è caldo e accogliente.
Finalmente prendo possesso della mia stanza, è piccola, ma ha una vista mozzafiato sul Madaccio e sull’Ortles, sotto di me l’abitato di Trafoi, con la chiesa nell’architettura tipica di queste valli, con annesso il piccolo cimitero e a fianco il sentiero che conduce alla strada che porta alle Tre Fontane: qui in una valle franosa ma ricca di corsi d’acqua e cascate che scendono dai ghiacciai dell’Ortles e dalle tre cime del Madaccio, all’ombra di questi monti, sorge un piccolo santuario su una stretta scia erbosa, su cui vigilano abeti giganteschi.
Esco sul balcone della mia stanza, è un’esplosione di colori: il verde acceso dei prati, in contrapposizione a quello più cupo dei boschi che ammantano i fianchi delle montagne, il grigio delle vette dolomitiche, affiancate dal bianco dei ghiacciai, riprende le macchie bianche delle case che costellano la valle e su tutto impera l’azzurro intenso di un cielo terso che pare appena dipinto con mani spesse di colore uniforme, spatolato. Non una nube rompe l’incanto.
Ancora una volta chiudo gli occhi e respiro profondamente e come per magia ritrovo suoni e odori che temevo di avere perduto.
Resto così, per un tempo indefinito, la mente sgombra di pensieri vaga in un vortice di ricordi lontani.
Mi riscuoto, le nove ore di viaggio iniziano a farsi sentire: oggi mi concedo una pausa, indosso costume e accappatoio e vado in piscina, due bracciate e una sauna non possono farmi che bene, da domani incominceremo a godere appieno di questi luoghi.
II
La luce sta calando, la valle di Trafoi è stretta, il sole scompare in fretta, le giornate sono anche più corte in questo mese di fine estate, decido comunque di fare una passeggiata verso le Tre Fontane, il buio non mi spaventa.
Il silenzio è rotto solo dai rumori del bosco: fruscii, versi di animali, le acque turbolenti del Rio Trafoi che scorrono verso valle, in lontananza lo scroscio delle cascate sotto il Madaccio...
Non ho timori, non ne ho mai avuti in questi luoghi, anche sola.
La strada non è molta, sono poco più di due chilometri.
Quando ero ragazzina non era asfaltata, era una ‘strada bianca’ e la sera, complice la luce della luna, facevamo lunghe passeggiate verso il paese.
Prima di giungere al santuario, in un’area recintata, vi era il Centro Montano della Polizia di Stato, la meta di tante vacanze estive, mie e di molti amici, provenienti da più parti d’Italia, tutti figli di quei servitori dello Stato che qui potevano godere di un soggiorno con tutta la famiglia che i magri stipendi di allora non avrebbero potuto permettere; oggi purtroppo versa in stato di abbandono.
Giungo davanti al cancello chiuso: si stringe il cuore, ma i miei sensi vanno ben oltre gli edifici dismessi, sento la campana della piccola cappella che chiama a raccolta per la messa la domenica mattina, le voci allegre di bimbi sull’altalena, anche quella di mia madre, con i capelli cortissimi e il suo sorriso sbarazzino, di adulti al campo di bocce in un acceso tifo durante il torneo annuale.
Nell’ombra mi sembra di scorgere la figura di Niero l’infermiere, che si staglia sulla soglia del piccolo edificio che fungeva da astanteria.
Incomincio a girare intorno al perimetro per vedere se riesco a trovare un varco per entrare; osservo la palazzina più nuova, dove al piano terra c’era la ‘stube’, che era stata teatro di molte nostre serate: esilaranti partite a carte, accese sfide a ‘Risiko’, Milena china sulla sua chitarra, assorta a cantare con la sua splendida voce di contralto.
Oltre, la palazzina più vecchia, retaggio austroungarico, dove sempre al piano terra c’erano la sala da ping pong e quella del biliardo.
Proseguo, ricordo che più avanti c’era un punto da cui si poteva entrare indisturbati…
Eccolo… No anche qui è tutto chiuso, vedo il campo da pallavolo, quello che resta del minigolf, la palazzina del bar.
Mi sembra quasi di scorgere i tavolini fuori, quando dopo pranzo spesso ci si attardava al sole come lucertole: eccolo là, il babbo, con i suoi pantaloni alla zuava di velluto chiaro a coste, la camicia di flanella a scacchi, il cappellino di lana verde e l’immancabile sigaretta ai lati della bocca che sta smazzando le carte, meritato riposo dopo una mattinata in cerca di funghi, più in là mamma che chiacchiera con le sue amiche, la camicetta slacciata sul petto generoso per cogliere qualche raggio di sole.
Ripenso a tutte le fotografie scattate in quegli anni, lieta che non siano andate perdute: sono istanti di vita catturati e che resteranno per sempre, per quanto molto sia impresso nella mia mente e nei miei ricordi.
Il giorno sta lasciando il posto alle prime ombre della sera, non ci sono lampioni qui, ma la luce della luna rischiara i dintorni, è ora però che torni sui miei passi, alle Tre Fontane tornerò domani.
Percorro a ritroso il perimetro del Centro Montano, alla mia sinistra il Rio Trafoi prosegue la sua rumorosa corsa nella notte, quando giunta all’altezza del cancello principale sento un urlo agghiacciante, disperato, quasi di belva ferita.
Il sangue si gela nelle vene: ricordo serate intorno al fuoco acceso sui grossi massi del greto del torrente, quando si narravano episodi di altri tempi, storie di fantasmi, di streghe arse vive durante l’inquisizione, di druidi celtici che qui istruivano gli allievi ai loro riti misteriosi, l’apparizione della Madonna, la leggenda delle Tre Croci, secondo la quale quando la terza croce ricomparirà le tre fonti smetteranno di versare acqua e la fine del mondo sarà vicina, nessuno di noi però era mai stato testimone di un evento soprannaturale.
Mentre penso a tutto ciò, sento dei passi che si avvicinano: istintivamente mi nascondo dietro la piccola abitazione che si trova di fronte al cancello principale, già residenza del colonnello che gestiva il Centro.
Appiattita, il viso appoggiato al ruvido intonaco esterno, vedo passare un uomo: alto, vestito con maglione dolcevita e pantaloni neri che mettono in risalto un fisico decisamente atletico; deve essere sulla quarantina, capelli biondi radi, viso dai contorni decisi, si avvicina ad un’auto parcheggiata poco oltre la casa, una Golf nera con targa tedesca, non l’ho notata quando sono arrivata o forse è sopraggiunta dopo, mentre stavo effettuando il mio giro di ricognizione.
Sale a bordo, con una rapida inversione si avvia verso il paese. Non si è guardato in giro, presumeva quindi che nei dintorni non ci fosse nessuno.
Rimango nascosta per un tempo che mi pare lunghissimo e comunque sino a quando il rumore dell’auto scompare e anche oltre, accoccolata con la schiena appoggiata al muro della casa, poi mi riscuoto e mi avvio verso il luogo dove ho sentito provenire l’urlo: la curiosità è più forte della paura.
La luce della luna guida i miei passi, attraverso il ponte che conduce al santuario, la chiesa è lì, immutata negli anni, vicino la piccola cappella che ricorda l’apparizione mariana e la casupola in legno che preserva le tre fonti.
Mi guardo intorno, poi, poco distante, sul greto del torrente, vedo una sagoma scura.
Con cautela mi avvicino, per scoprire che si tratta del cadavere di un uomo.
Non è la prima volta che vedo un morto e mi era capitato anche di vederne uno di morte violenta, quando molti anni prima, nel palazzo che ospitava la facoltà che mi accingevo a frequentare, un ragazzo era precipitato o si era buttato dalla tromba delle scale, ma mai avevo visto un morto ammazzato.
Azzardo qualche passo, non troppi però… E’ o no la scena di un crimine? “Troppe serie tv Daniela,” dico tra me e me, “questo non è CSI,” no ma il morto è vero: è un uomo, pressoché dell’età di colui che ho visto allontanarsi, riverso di schiena, la testa in una posizione innaturale, gli occhi e la bocca spalancati, in una muta e rabbiosa protesta.
Durante gli ultimi istanti di vita, in realtà è come se il cervello si rifiutasse di morire, si chiama ‘tempesta neurovegetativa’: il cuore che smarrisce il ritmo ma ancora non si ferma, la pressione arteriosa che s'impenna, un’ultima scarica di adrenalina, poi più nulla; così muore il cervello, si consuma l'ultimo minuto della vita, prima che venga stabilita la morte cerebrale, un luogo da dove è impossibile tornare.
Cosa avrà pensato costui alla fine? E ancora mi sovviene una canzone, ‘La guerra di Piero’, solo che qui non ci sono papaveri rossi né lucci argentati, ma solo fredde pietre sotto una fredda luna e anche se non è maggio ma settembre, ci vuole comunque molto, troppo coraggio per morire.
Sento dei rumori in lontananza, sobbalzo: lo sconosciuto non sarà tornato indietro?
Corro allora oltre il ponte: il rimbombare dei miei passi sulle assi di legno si fonde nello scrosciare dell’acqua del torrente vicino e nell’eco delle cascate poco lontane; mi nascondo ancora una volta, in mezzo agli alberi, e aspetto, il battito accelerato, ma non vedo nessuno, dunque è stata solo suggestione.
Respiro profondamente, cerco di calmarmi e a passo svelto mi avvio verso la strada che porta in paese.
Sono di nuovo di fronte al cancello del Centro Montano: vorrei poter entrare, aprire la porta della piccola cappella e sedermi lì, sulla panca di legno, ma è meglio proseguire, se dovessi sentire il rumore di un’auto posso sempre nascondermi nel bosco al lato della strada.
E ora cosa faccio? Chiamo il centododici? Si e se poi pensano sia stata io? O forse è meglio che chiami mia figlia… No mi pare di sentirla «te lo avevo detto io!» non potrei sopportarlo.”
Alzo gli occhi al cielo, “lo so che mi stai guardando e mi sembra di vedere il tuo sorriso sornione, ma io non sono un poliziotto e questa non è finzione, è realtà, dimmi tu cosa è meglio che io faccia.” Nessun segno, mi avvio a passo spedito, il cuore accelerato.
Con questo stato d’animo arrivo in prossimità del paese, invece di percorrere la strada scelgo di procedere lungo il sentiero che dal campeggio conduce vicino alla chiesa: se dall’hotel mi avessero visto arrivare, sarebbe sembrato che risalissi dall’inizio del paese e non che provenissi dalle Tre Fontane.
Risalgo il tornante e giungo infine all’hotel, il mio stomaco ora sta reagendo, le mani tremano, ho bisogno di qualcosa di caldo e magari anche qualcosa di forte.
Le luci alle finestre mi rinfrancano, mi sento ormai al sicuro, quando mi fermo di botto al parcheggio delle auto degli ospiti dell’hotel: li è parcheggiata la Golf nera, quella su cui ho visto salire l’assassino.
No, il presunto assassino,” mi correggo, nessuno è colpevole fino a prova contraria, c’è sempre la presunzione di innocenza.
Entro nell’hotel e mi dirigo verso il bar, ho desiderio di un te bollente e forse anche un cognac, nella stessa sala vedo un uomo in dolcevita e pantaloni neri, capelli biondi e mascella volitiva, apparentemente tranquillo, solleva su di me uno sguardo color dell’acciaio, sento i capelli rizzarsi in testa.
III
Con noncuranza mi avvicino al bar, chiedo un tè bollente e dopo un attimo di indecisione un bicchiere di cognac, il barista solleva verso di me uno sguardo tra lo stupito e l’incuriosito, ma non fa commenti: «un extra old le va bene?»
Mi limito ad assentire con il capo: mentre tamburello nervosamente con le dita della mano destra, mi avvicina un calice a tulipano in cui versa un profumatissimo ‘Trijol’.
Resisto alla tentazione di ingollarlo in un sol sorso, lo scaldo tra le mani e comincio a sorseggiarlo, nel contempo mi avvicina anche teiera e tazza.
«Che strano connubio.»
La voce alle mie spalle, pacata, dall’impercettibile accento tedesco, mi fa quasi sobbalzare dallo sgabello.
Ostentando una calma che non provo, mi volto, «il tè è per il freddo, il cognac è un vezzo.»
«Freddo?»
«Sono appena rientrata…» e mi morderei la lingua, ma si può essere più idiota? “Adesso digli pure che sei andata a passeggiare alle Tre Fontane!”
Infatti si fa più attento: «è uscita a quest’ora sola?»
“Stupida, stupida. Mantieni la calma, non far tremare la voce.
«Una semplice passeggiata verso Gomagoi, per smaltire l’abbondante cena.»
«Francamente non mi sembrava che avesse mangiato molto,» il mio sguardo, probabilmente allarmato, lo induce a proseguire: «lei era seduta al tavolo di fronte al mio, l’ho osservata perché ero incuriosito dalla presenza di una donna sola e per giunta italiana da queste parti.»
«Si mi rendo conto che può sembrare anomalo, anche lei è qui da solo?» Avrei voluto mordermi nuovamente la lingua, “ma che ti prende?”
Sorride in maniera quasi amichevole: «no sono venuto con Friedo, il mio compagno, anche lui come lei ama passeggiare solo, di notte»
Si, ma io non farò la sua stessa fine” penso, “domani mattina andrò alle Tre Fontane e fingerò di scoprire il corpo e chiamerò i carabinieri.”
Il cognac è terminato e mi accingo a bere il te evitando così di proseguire quella penosa conversazione.
«La lascio al suo tè, a proposito mi chiamo Dieter,» e mi porge la mano.
È una mossa che non mi aspetto e ci manca poco che mi strozzi con il liquido bollente, appoggio la tazza e gli porgo la mano “Dio fa che non mi tremi!”  «Io Daniela.»
«Allora buonanotte, Daniela.»
«Buonanotte Dieter.»
Lo guardo allontanarsi, apparentemente rilassato, di sicuro non uno che abbia appena commesso un omicidio, ma lo ha poi fatto davvero?
Inizio a pensare di essere stata preda di allucinazioni.
Termino il mio tè e salgo in camera, improvvisamente mi rendo conto di essere stanchissima, mi dolgono le gambe, il collo e le spalle, una lieve emicrania incomincia a serpeggiare.
Purtroppo in bagno non c’è la vasca, ma una grande doccia, così mi butto sotto il getto di acqua bollente, la mente sgombra da ogni pensiero, cerco solo di immaginare una tavolozza di colori che mi scorre sulla pelle: dal viola, al blu-indaco-azzurro al verde, in tutte le tonalità e sfumature, poi mi caccio sotto il piumone e mi volto verso la finestra da cui proviene la luce della luna che illumina fiocamente la stanza.
Nonostante tutto, mi addormento rapidamente: forse perché sono sotto l’effetto dell’alcool?
La mattina successiva mi sveglio piacevolmente riposata e rilassata: guardo l’ora sul display del cellulare, ho dormito a lungo, poi mi torna memoria di ciò che è accaduto, l’immagine del corpo esanime sul greto del torrente si riaffaccia prepotentemente nella mia mente.
Quando esco dalla mia stanza non ho ancora preso una decisione in merito.
Sono francamente restia a chiamare la stazione dei carabinieri di Prato allo Stelvio: “d’accordo papà, dovrei sentire le autorità, ma lo sai quanto io sia allergica alle divise no? Ogni volta corro il rischio di beccarmi una denuncia… E non farmi la paternale, cosa ci posso fare? E se andassi dal parroco e mi confessassi? Ma sarà poi vero che sono vincolati dal segreto del confessionale? Si hai ragione, temo che l’influenza di tutte queste serie poliziesche in tv sia un po’ nefasta, però è anche colpa tua lo sai? A parte i film western e quelli bellici, anche tu eri piuttosto limitato…
Nel frattempo raggiungo la sala della colazione, scopro di avere un certo appetito e mentre mi servo al buffet osservo un po’ intorno: poche coppie, soprattutto anziani, di Dieter nemmeno l’ombra.
Mi sono appena seduta al tavolo, quando si sente del trambusto e delle voci concitate provenire dalla hall.
Ecco, ci siamo,” penso “qualcuno ha rivenuto il corpo”; appoggio la tazza, come gli altri ospiti mi mostro incuriosita, mi alzo anch’io e seguo il gruppo verso la hall.
Lì, il tedesco apparentemente sconvolto, sta discutendo animatamente con il direttore dell’albergo, non capisco una parola perché parlano tedesco, ma per me, che sono a conoscenza di quanto accaduto, il senso è chiaro: ha finto di rinvenire il corpo e ora recita la scena madre.
Di lì a poco sentiamo delle sirene: alcune si perdono in lontananza, altre si spengono davanti all’hotel.
“Eri solito dire che non ha senso arrivare a sirene spiegate, perché quando arrivano le forze dell’ordine, il danno è già stato fatto... Come al solito, avevi ragione.
IV
Entrano in tre, riconosco i loro ruoli dalle mostrine: maresciallo capo, appuntato e carabiniere scelto, tutti giovani e questo non mi stupisce, non mandano certo in una stazione di confine chi è all’apice della carriera.
Sono fisicamente prestanti, il maresciallo ostenta una certa sicurezza, ma non sono certa che la provi realmente.
“Si lo so, sono prevenuta, non riesco a farne a meno, quindi non farmi la predica. Certo che non giudicavo così te e la tua squadra! Ma voi eravate diversi: il vostro lavoro vi portava nei vicoli genovesi, in mezzo a quella malavita così diversa da quella che oggi si è appropriata del centro storico della nostra città e scusami se te lo dico, sapevate adattarvi molto bene al contesto.
Il maresciallo si avvicina al direttore dell’albergo, non posso sentire le loro parole, ma i gesti sono inequivocabili: gli presenta il tedesco e con lui si allontana verso il suo ufficio.
Noi tutti restiamo lì, in attesa per un tempo che non mi pare eccessivamente lungo, considerata la situazione.
Mi sarei aspettata infatti che il maresciallo lo incalzasse un po’ di più.
Escono dall’ufficio, lui mi pare molto scosso, non avessi assistito alla scena della sera prima...
Ma poi in realtà, cosa ho visto? Nulla, cadavere a parte, ho sentito solo un urlo straziante e non poteva essere quello di Dieter che aveva rinvenuto il suo compagno? No, non credo sia così, quando l’ho visto allontanarsi non era per nulla scosso, anzi sembrava molto padrone di se e anche quando avevamo parlato ostentava tranquillità.
Il giovane maresciallo si pone di fronte a noi, al suo fianco un altrettanto giovane appuntato.
«Signori, vi chiedo un po’ di pazienza, questa mattina è stato rinvenuto il cadavere di un ospite dell’albergo: faremo alcune domande ad ognuno di voi, poi sarete liberi di muovervi, solo non lasciate la zona, almeno per un paio di giorni, non prima che siano stati effettuati i dovuti accertamenti.»
Ha parlato in italiano, con una lieve cadenza toscana, il giovane appuntato ha tradotto in tedesco.
Mi pare la scena di un film, non un giallo di Poirot, ma un vecchio film della fine degli anni Novanta, ‘Paradise Road, dove un gruppo di donne vengono internate in un campo di prigionia giapponese a Sumatra e c’è una scena in cui il comandante del campo le arringa  in giapponese, mentre un suo subalterno traduce… “No papà, non è una situazione analoga, noi non siamo certo vessati, è solo il riferimento alla traduzione… No non ricordo analoghe scene in film ambientati in campi di concentramento nazisti, perché se penso a ‘La Grande Fuga’ per esempio, parlano tutti la medesima lingua… Vabbeh, insomma, a me è venuto in mente quello d’accordo?
Qualcuno mi sta rivolgendo la parola, «signora…»
Mi riscuoto, è il maresciallo, l’appuntato sta per apostrofarmi in tedesco, ma il maresciallo lo blocca con un gesto della mano: «sono il maresciallo Neri, posso farle qualche domanda?»
«Piacere maresciallo, mi chiamo Daniela Olivieri, dica pure,» rispondo con un sorriso, in fondo si è dimostrato piuttosto perspicace, ha compreso che sono italiana.
«Si signora, salta subito agli occhi che lei è italiana,» risponde al mio pensiero e mi precede verso lo studio del direttore.
«Prego signora.»
Mi accomodo su una piccola poltrona, il maresciallo in quella vicino, evitando deliberatamente di sedersi dietro la scrivania, quasi a voler dare la sensazione di una chiacchierata amichevole.
«Ieri sera diversi ospiti l’hanno vista chiacchierare con Dieter Von Hinten dopo cena, anzi per la verità dopo il suo rientro.»
«Si, è vero, dopo cena ero uscita per fare due passi verso Gomagoi,» auspico che la mia voce non tradisca alcuna incertezza, «quando sono tornata sono andata al bar ho ordinato un te e un cognac, questo ha colpito il signor Von Hinten, con il quale ho scambiato qualche parola.»
«Un binomio curioso, te e cognac…»
«Come ho spiegato anche al signor Von Hinten, il te per scaldarmi, il cognac, un vezzo.» Annuisce.
«Il signor Von Hinten era solo?»
«Si mi ha detto che il suo compagno, il signor …»
«Friedo Bachmann.»
«Lui appunto, era uscito per una passeggiata dopo cena.»
Il maresciallo non aggiunge altro, rimaniamo alcuni minuti in silenzio, mi sforzo di sembrare tranquilla, ma non riesco a guardarlo negli occhi.
«Signora, è sicura che sia tutto?» Mi domanda, fissandomi con insistenza, annuisco senza profferire parola.
«Bene se le viene in mente qualche particolare che al momento può esserle sfuggito,» sottolinea l’ultima frase «non esiti a chiamarmi» e mi tende un biglietto da visita.
«D’accordo maresciallo Neri, lo farò,» rispondo alzandomi e porgendogli la mano, ha una stretta sicura, decisa.
Esco dallo studio per lasciare il posto ad una rubiconda coppia di attempati austriaci accompagnati dall’appuntato; nell’atrio Dieter Von Hinten è in piedi, a fianco del direttore, mi scocca un’occhiata che potrei definire indagatrice.
Mi allontano rapidamente dall’albergo, una bella camminata è proprio quello che ci vuole per schiarirmi le idee.
V
Mi incammino lungo la strada delle Tre Fontane.
Il silenzio è quello dei rumori del bosco, la natura continua il suo corso.
Ad un certo punto mi fermo: alla mia destra al lato della strada, in una piccola radura vedo un giovane capriolo, l’animale alza il capo, i nostri sguardi si incontrano; non oso muovermi per timore di spaventarlo, poi un refolo di aria gli porta alle nari il mio odore e con un balzo si allontana.
Il momento magico è svanito e riprendo il cammino.
Quando sono in prossimità del Centro Montano, imbocco il sentiero a fianco della cascata che si rovescia in uno stretto orrido.
Posso fare quel sentiero ad occhi chiusi, tante sono state le volte che l’ho avevo percorso.
Salendo, ogni tanto mi soffermo a guardare gli edifici abbandonati del Centro Montano, in passato anche da quella altezza si potevano chiaramente udire i segnali di vita provenire dalle palazzine; all’altezza del Ponte dell’Orso, lo sguardo mi cade più lontano, verso le Tre Fontane.
Proseguo nel bosco, fino a sbucare sulla strada del Passo dello Stelvio, in prossimità del rifugio Rocca Bianca.
Il rifugio è una semplice costruzione bianca con una lunga balconata in legno, sullo spiazzo di fronte all’ingresso il monumento dedicato a coloro che scalarono per la prima volta l’Ortles, la cima che si staglia alle spalle del monumento stesso: una stele bianca, contro una massa grigia striata di bianco e verde, sullo sfondo di un cielo blu cobalto.
Vicino alla Rocca Bianca, una targa ricorda l’assassinio di Madaleine Tourville, avvenuto il sedici luglio del Milleottocentosettantasei: il marito Henry la uccise per entrare in possesso di tutti i suoi beni, ma un pastore fu testimone della scena e lo denunciò alla polizia locale. Il fatto mi ha colpito, non ne afferro il motivo, ma vedo in esso alcune similitudini con il delitto di cui sono stata in parte testimone, forse per ciò che Dieter mi ha raccontato ieri sera?
Mi siedo a un tavolino con il viso rivolto al sole, una breve sosta prima di tornare indietro lungo i tornanti, fino ad imboccare il canalone che mi avrebbe condotto sul ponte all’imbocco della strada per le Tre Fontane.
Una cameriera in costume tirolese viene a prendere l’ordinazione: il ‘radler’ alla Rocca Bianca è sempre stato una tradizione.
Sto sorseggiando la mia bibita, quando due signore che riconosco come ospiti dell’hotel, si avvicinano: «buongiorno,» mi saluta quella che apparentemente sembra la più anziana tra le due, in un italiano fortemente accentato.
«Ci scusi ma ieri sera abbiamo notato che lei e il signor Von Hinten avete scambiato qualche parola e la cosa ci ha molto colpito, conoscendo le sue inclinazioni, poi dopo quello che è accaduto…»
«Prego, accomodatevi,» rispondo rassegnata, non se lo fanno ripetere una seconda volta.
«Allora, che impressione ha avuto?»
«Ma…Non saprei, abbiamo scambiato poche parole, più dei convenevoli che altro, mi è sembrata una persona piuttosto rigida.»
«In effetti i Von Hinten sono una famiglia di mercanti d’arte, ma piuttosto conservatori, quando Dieter ha manifestato le sue preferenze, l’hanno cacciato dall’attività di famiglia e lui ne ha aperto una propria, grazie anche al suo compagno, Friedo Bachmann, sa lui è… Era ordinario di storia dell’arte all’università Ludwig Maximilian di Monaco, ed era anche un critico d’arte molto famoso e di rilievo in Germania, quindi è stato molto partecipe all’avvio dell’attività di Dieter.»
Non sapevo cosa dire, non ero in grado di fare eventuali congetture tra le loro vicende personali e quanto era accaduto.
«Tra i due è Dieter lo spiantato, inoltre come mercante d’arte è piuttosto mediocre.»
Davvero poteva essere stato un omicidio maturato per motivi di interesse.
«Ma come mai erano venuti qui in vacanza?»
«E’ stato Friedo ad insistere, stava seguendo le orme di un pittore olandese che era stato in Italia all’inizio del Cinquecento e con ogni probabilità era passato da queste parti e lui era convinto che vi avesse lasciato qualche suo contributo.»
Le guardo incuriosita, «ma come fate ad essere a conoscenza di tutti questi fatti?»
«Siamo di Monaco anche noi e loro sono una coppia molto conosciuta e chiacchierata, così abbiamo fatto un po’ di conversazione, soprattutto con Friedo, anzi il professor Bachmann, come ci teneva ad essere chiamato, soprattutto con lui dicevo, perché Dieter era molto riservato.»
«Ma avrete riferito tutto al maresciallo Neri immagino.»
«Certo. E quell’affascinante giovane militare è sembrato molto interessato.»
L’occhio mi cade sull’orologio: termino velocemente il mio radler e mi congedo in fretta, è quasi l’ora di pranzo, anche le due simpatiche signore si alzano e si offrono di darmi un passaggio in hotel con la loro auto, ma declino l’invito, preferisco fare ancora quattro passi e riflettere.
“Tu cosa ne dici papà? Ti sembra plausibile la storia dell’assassinio per interesse? Si anch’io sono convinta che sia meno banale di quello che sembra, ma chi e cosa possa essere capitato qui nel Cinquecento che possa aver condotto ad un omicidio oggi, non riesco ad immaginarlo.
Nel frattempo giungo in hotel, la sala da pranzo è già occupata, ho preso posto al mio tavolo, quello di fronte a me, dove la sera precedente sedeva la coppia di tedeschi è vuoto, Von Hinten evidentemente non se l’era sentita di unirsi al resto degli ospiti.
A fine pranzo ho deciso di indugiare per un po’ su una sdraio nel solarium dell’hotel, il sole settembrino è caldo, soprattutto a quest’ora.
VI
Mi sono forse appena assopita, quando lo sento parlare concitatamente al telefono: è poco distante da me, ma non sembra preoccuparsi che possa ascoltare, d’altronde sta parlando in tedesco “Adesso non mi dire che con tutti gli anni che siamo venuti qui in vacanza, avrei dovuto imparare il tedesco”, sembra più alterato che affranto.
La telefonata pare concludersi bruscamente, lui si porta verso l’ingresso dell’hotel e io ne approfitto per alzarmi.
Mi allontano incamminandomi lungo i tornanti a scendere: la forza dell’abitudine mi conduce sulla strada che porta alle Tre Fontane, può essere l’occasione per andare alle Tre Cascate…
Sono ormai giunta in prossimità del ponte di legno che conduce sull’altra riva del torrente, in prossimità del piccolo santuario: l’immagine che si presenta davanti ai miei occhi è di quelle che ti mozzano il fiato per la sorpresa, il sole inonda la piccola radura e la chiesa bianca sembra staccarsi dal fondo scuro della montagna retrostante, mentre i raggi solari, luce pura e colore, si spandono intorno.
Resto bloccata a riempirmi gli occhi e il cuore delle sensazioni che questo luogo continua a regalarmi, ma anche questo momento magico viene interrotto, eccolo, lo vedo dirigersi con passo deciso verso la chiesa, ignorando il punto in cui è stato ritrovato il corpo, ancora recintato: evidentemente ha lasciato l’hotel subito dopo di me e siccome io ho preso il sentiero che si snodava a fianco della chiesa, non ho visto l’auto transitare, né l’ho riconosciuta tra le altre parcheggiate.
Incuriosita lo seguo a distanza, entra in chiesa, a mia volta entro nella casupola di legno dove sgorgano le tre fonti, bevo ad ognuna delle tre, come sono sempre stata solito fare, poi esco e mi dirigo verso la chiesa, butto un occhio alla finestra a sinistra dell’ingresso: sta guardando con attenzione il libro delle firme, richiude con stizza il volume, poi si guarda intorno, come se cercasse altro e infine si accinge ad uscire.
Svelta, mi allontano dalla porta dirigendomi verso il sentiero che conduce al rifugio Borletti, sperando che non mi abbia visto ed attendo finché non si allontana oltre il ponte di legno.
A quel punto torno verso l’ingresso della chiesa e mi introduco rapidamente in essa.
Il libro delle firme del santuario, chissà cosa contiene di così importante,” quindi davvero l’assassinio non si è consumato per motivi passionali, ma ha avuto motivazioni più recondite.
Entro nella piccola chiesa e mi volgo subito alla sinistra dell’ingresso, dove sul davanzale della finestra, tra gli ex voto, è appoggiato il grande libro: lo sfoglio pagina per pagina, ma non trovo nulla che possa in qualche modo giustificare un delitto così efferato; osservo l’interno della chiesa, alla ricerca di uno spunto, di un’idea, prendo in mano una delle piccole guide del santuario a disposizione dei fedeli: a casa ne ho una identica, ma la rileggo, sperando di trovare qualche suggerimento utile.
Poi mi viene in mente che possano esistere altri libri che raccolgono le firme di chi si è recato in pellegrinaggio al santuario, sicuramente più antichi, avrei chiesto al parroco in paese.
Guardo l’ora, il pomeriggio avanza inesorabile, e io per quanto volessi anticipare le mosse di Von Hinten, per quel giorno avrei potuto fare ben poco, così decido di rientrare.
Con passo rapido percorro i pochi chilometri che separano le Tre Fontane dalla parrocchiale, giungo quando le prime ombre della sera stanno calando sulla nostra piccola, stretta valle.
La tentazione è forte, rallento impercettibilmente, poi proseguo oltre, verso l’albergo, se fossi entrata in chiesa a quell’ora avrei messo in allarme il parroco e magari non solo lui: ho la netta sensazione di essere osservata, ma preferisco fingere con me stessa che si tratti solo di un’impressione, per non spaventarmi ancora di più.
Il buio sta sopraggiungendo rapidamente, sembra che un ignoto pittore stia rovesciando mani di colore nero su un dipinto di cui non è convinto.
Sapevo che con il buio il cielo si sarebbe trasformato in una volta luminosa, solo in un posto come questo era possibile vedere l’universo in tutta la sua magnificenza, anche qui, come in Irlanda, “il cielo si ubriaca di stelle di notte”, sempre per restare in tema musicale.
Non sono mai stata sull’”Isola di smeraldo”, nonostante sia uno dei luoghi che più mi affascina, ma ho quasi la sensazione che esistano delle assonanze tra la natura di quel territorio e la magia di questi luoghi, non so se dipenda dall’asperità del territorio: penso alle grandi scogliere lambite dal mare e frustate dai venti e le cime scabre e silenziose che mi circondano o se sia la fierezza degli abitanti, in passato forse anche l’isolamento, l’Irlanda in quanto isola, questa valle perché poco conosciuta e non facilmente raggiungibile.
Ricordo, quando i primi anni venivamo qui in vacanza, come non ci fosse la possibilità di vedere televisione, così come era difficile reperire un quotidiano in lingua italiana; per due settimane eravamo letteralmente tagliati fuori dal mondo, c’era quasi un senso di spaesamento quando si tornava a casa, che per me si trasformava in un senso di vuoto, come se in realtà mancasse qualcosa e inconsciamente attendevo il settembre successivo per rivivere la magia di quei giorni.
Da bambina non riuscivo a cogliere le problematiche che questa regione viveva: percepivo la diffidenza, se non l’ostilità degli abitanti nei confronti di noi “italiani”, ricordo come ogniqualvolta si entrava in un negozio e si salutava in italiano, si veniva ignorati. Tutto ciò per me non era molto rilevante, quelle erano le “mie” montagne e tanto mi bastava.
Sono ormai giunta all’entrata dell’albergo, dopo un’ultima occhiata alla volta celeste entro dirigendomi verso la sala che ci ospita per la cena: sono già tutti seduti, anche Dieter, che apparentemente non pare interessarsi al mio ingresso.
Prendo posto, mi pare che tutti ci stiano osservando, siamo gli unici ad occupare da soli un tavolo per ognuno, ho come la sensazione che ci stiamo studiando, come due pistoleri pronti a sfidarsi a duello, il brusio di sottofondo ricorda il vento che alza la polvere e crea mulinelli nell’aria altrimenti ferma della “Main Street”… “Si papà,  la mia immaginazione corre, anzi galoppa, per restare in tema, in fondo anche la mia insegnante alle elementari diceva che avevo una fervida fantasia, un ricco mondo interiore,  per usare le sue parole.
La cena è eterna, ma non voglio essere la prima a lasciare la sala; con un certo sollievo vedo finalmente un paio di coppie allontanarsi, attendo ancora qualche minuto e li imito.
Mi costringo ad andare al bar per il caffè, sperando che la bevanda non mi impedisca di dormire, già una sottile emicrania si sta affacciando lungo la linea degli occhi, rendendo leggermente sfocata la mia vista, ormai non più perfetta.
Ordino il caffè che bevo molto rapidamente, rischiando di ustionarmi le labbra con la tazzina bollente, ma ho visto avvicinarsi pericolosamente le due tedesche che ho incontrato alla Rocca Bianca, quindi batto in ritirata.
No papà non sono una codarda, mai sentito parlare di ritirata strategica?”
Un moto improvviso di nostalgia mi assale, ripensando al mio padrino e ai racconti di suo padre sulla guerra di trincea… Mi sento terribilmente sola, priva di quel porto sicuro che erano stati per tanti anni lui e mio padre.
Sono sui primi gradini della scalinata che conduce al piano superiore, nella hall Dieter guarda oltre la porta d’ingresso il nero della notte: mi volge le spalle, quando la nota voce mi apostrofa, «sale già in camera?»
«Si, la sera mi piace leggere per rilassarmi un po’.»  
Adesso però non dirgli che leggi polizieschi…”
«Cosa le piace leggere?»
«Romanzi storici, oppure saggi, biografie…»
«C’è un periodo storico in particolare che la interessa?»
«L’arco temporale che prediligo va dall’alto medioevo al rinascimento.»
«Si interessa di pittura?»
Mi pare di sentire un campanello d’allarme che risuona nelle mie orecchie, le pulsazioni aumentano, mi sembra quasi che le palpitazioni rimbombino in gola, istintivamente vi porto la mano.
«Quella italiana,» rispondo debolmente «sempre legata al periodo storico che le ho citato,» aggiungo.
Fa un leggero cenno d’assenso con il capo e si gira nuovamente verso il buio notturno. «Buona serata.»
«Grazie,» riesco non so come a rispondere, ho l’impressione che dalla mia bocca sia uscito un suono simile al gracchiare di un corvo.
Riprendo a salire le scale con studiata lentezza, ho la sensazione che mi stia osservando, ma resisto alla tentazione di voltarmi.
Fatico a prendere sonno, ad un certo punto odo dei passi nel corridoio, mi sembra che si smorzino davanti alla mi porta: non mi muovo, gli occhi spalancati sulla maniglia, ma non accade nulla, “ho capito papà, sono un po’ tesa me lo concedi? Non capita tutti i giorni di trovarsi coinvolti in una simile situazione… Me la sono cercata dici? Con te non si può ragionare, però non eri così perentorio nei tuoi giudizi quando eri... Si insomma, quando eri con noi.
VII
Mi sveglio presto, dopo un sonno agitatissimo, decido di indugiare ancora sotto il leggero piumino, la luce del primo mattino filtra dalle tende: ben sapendo quanto la temperatura esterna sia tutt’altro che mite a quell’ora, trovo molto rilassante crogiolarmi nel piacevole tepore del mio letto e mi può aiutare a fare il punto della situazione.
Intanto devo comportarmi come qualsiasi turista, magari oggi avrei preso la seggiovia che porta al rifugio Forcola, poi di ritorno nel pomeriggio, sarei andata direttamente in chiesa, il parroco avrebbe certamente potuto dare delle risposte alle mie domande, sperando che nessun altro potesse aver fatto altrettanto.
A quel punto, tranquilla mi assopisco per risvegliarmi di soprassalto quando è ormai mattina inoltrata, troppo tardi per salire al rifugio e pensare di ridiscendere a piedi in tempo per andare dal parroco.
Avrei quindi passato un tranquillo pomeriggio tra piscina e sauna, in attesa dell’ora adeguata per andare in chiesa.
In fondo, meglio così, la piscina e la sauna sono molto frequentate dagli ospiti dell’albergo e non solo e io da quando sono arrivata trascorro troppo tempo sola con me stessa, la mia mente ha bisogno di riposo.
Ho fatto la scelta giusta, le ore in piscina trascorrono piacevolmente, conversando con diversi ospiti dell’albergo: il mio inglese maccheronico mi ha comunque permesso di integrarmi in un gruppo di gioviali tedeschi che sembrano fare poco caso ai miei strafalcioni grammaticali.
Mi sento un po’ Alberto Sordi, però a mano a mano che la conversazione procede, divento sempre più sciolta; sono sempre più convinta che non avere timori di fare brutte figure, aiuta sicuramente nei rapporti interpersonali, laddove la lingua può rappresentare uno scoglio.
Nei momenti in cui mi ritrovo sola però tutta la vicenda si ripresenta prepotentemente nella mia mente.
Rifletto soprattutto sulla pittura rinascimentale, non rinvenendo assolutamente nella mia memoria artisti né italiani né tedeschi, che potessero aver influenzato il territorio altoatesino, dove nemmeno Albrecht Durer, che oltretutto aveva soggiornato in Sudtirolo sul finire del Quattrocento, aveva scalfito la tradizione pittorica locale, poco incline alle novità.
A pomeriggio inoltrato, piacevolmente rilassata, lascio l’albergo e procedendo lungo il tornante, mi avvio verso la piccola chiesa.
Questa è poco discosta dalla via principale: giunta all’altezza dell’hotel Bellavista, imbocco il largo sentiero che tra l’altro conduce alla strada per le Tre Fontane, la chiesa è li, immutata nel tempo, una macchia banca in mezzo al verde brillante dei prati e a cui fanno da sfondo le grigie cime dolomitiche e i cupi boschi di conifere.
È strano, ma in tanti anni è la prima volta che ne varco la soglia, non per mancanza di fede, “no, non sono atea lo sai benissimo, solo ho un modo tutto mio di pormi nei confronti di Dio, penso di non aver bisogno di intermediari e comunque a noi bastava la nostra piccola cappella del Centro Montano oppure quella delle Tre Fontane…
La chiesa è aperta, entro ma è vuota, vado allora verso la canonica, entrando vedo un sacerdote, di spalle, in clergyman, appoggiato pesantemente ad un imponente tavolo rettangolare in cimolo e abete decisamente antico, accostato alla parete.
L’effetto è particolare, la forma geometrica scura crea un piano perpendicolare alla parete bianca di calce e la figura leggermente curva, scura anch’essa, si staglia sull’insieme, dando la sensazione di ira repressa, anzi no, contenuta dalla tensione di spalle e braccia.
«Padre?»
Il sacerdote si volta di scatto, ergendosi in tutta la sua figura: è alto, il fisico asciutto, la pelle scurita dal sole, i tratti del volto spigolosi, come avevo sempre notato nella gente di montagna, forse che anche la fisionomia umana si adatta alla natura che la circonda?
Due iridi blu scure come il mare in tempesta, le pupille come due capocchie di spillo, mi squadrano rapidamente.
«Chi è lei?» Domanda sospettoso in un italiano un po’ incerto.
«Le chiedo scusa per l’intrusione, sono una turista, avevo alcune domande da farle, ma forse sono capitata in un momento poco opportuno…»
«Mi scusi lei signora, sono don Florian, il parroco, mi ha colto alla sprovvista, ho appena constatato che qualcuno si è introdotto qui furtivamente e ha cercato di forzare quell’armadio.»
Mi indica un antico stipo degli inizi dell’Ottocento a due ante con ottagoni decorati, la ferramenta si vede chiaramente che è originale dell’epoca.
Il cuore comincia a martellarmi in petto, il tedesco ha avuto la mia stessa idea e mi ha preceduto, ma fortunatamente il rientro improvviso in canonica di don Florian lo ha obbligato ad abbandonare le ricerche.
«Cosa contiene l’armadio?» Credo di conoscere già la risposta.
«Sono tutti gli atti della parrocchia, compresi i volumi con le testimonianze di chi è stato al santuario delle Tre Fontane.»
«Questi volumi sono molti?»
«Non molti, sebbene alcuni piuttosto antichi, che risalgono all’inizio del XVI secolo.»
«Addirittura?»
«Il santuario è molto antico, la prima ricostruzione risale al Milleduecentoventinove, fu poi riedificato nel Millesettecentouno.»
«Sono venuta in vacanza in questi luoghi per molti anni, don Florian e conosco la storia delle Tre Fontane, ma non avevo idea che si fossero conservati documenti così antichi,» poi, presa da un’intuizione domando, «potrei vedere il volume più antico?»
Don Florian mi guarda come se avessi appena proferito un’eresia.
«Sono documenti molto delicati.»
«Ne sono certa, ma se sono conservati qui, evidentemente non corrono grossi rischi se vengono maneggiati con cura.»
Don Florian abbozza e si avvicina al grosso stipo, lo apre, rivelando tre ripiani colmi di volumi, ne estrae uno di dimensioni considerevoli e lo appoggia con cura sopra un antico cassettone a ribalta verde e rosso decorato, che sta sulla parete opposta: l’insieme dell’arredamento, così disomogeneo per epoche e stili, dà all’aspetto della stanza un che di singolare.
Mi porge un paio di guanti in cotone, «usi questi.»
Evidentemente lui li consulta spesso e sa come vanno maneggiati.
Apro il volume con timore reverenziale: è la prima volta che tocco con mano un documento così antico, sono emozionata.
Con delicatezza inizio a voltare le pagine, non mi soffermo sulle pagine scritte, per lo più in volgare germanico, non so nemmeno io cosa sto cercando, quando trovo un foglio staccato.
«Padre, questo è staccato.»
«Si, da sempre, vede che il foglio è leggermente diverso? È più spesso degli altri che compongono il volume. Il foglio è stato inserito da qualcuno che visitò il santuario.»
Si tratta di un disegno, uno schizzo… No a ben guardare è qualcosa di più, pare quasi un disegno preparatorio: mi soffermo con attenzione sul disegno d’insieme, osservo il tratto, si tratta di una madonna, decisamente monumentale, con in braccio il Bambino, una figura solida, geometrica, con un manto il cui tratto scuro della matita, crea spessore e profondità.
Torno con la memoria ai molteplici pomeriggi trascorsi alle Gallerie dell’Accademia a Venezia: ogni prima domenica del mese l’ingresso è gratuito e io approfitto dell’occasione ogniqualvolta sono in città per poter andare a rivedere quello che sono solita definire “il mio quadro”, La Tempesta di Giorgione.
Per raggiungere la sala dove è esposta, passo davanti a diverse opere di Hieronymus Bosch, ormai lo conosco a memoria e quei tratti, quelle linee, le forme, il modo di costruire la scena…
Tutto in quel disegno mi ricorda l’artista olandese.
Guardo con attenzione il bordo del foglio, in basso a destra, vergati frettolosamente, un anno e un cognome: Millecinquecentotre, ‘Bosch’ … Sono senza parole, Bosch non datava mai le sue opere e raramente le firmava, evidentemente per lui questo disegno doveva avere un valore differente.
Il pittore che aveva saputo mettere in scena i conflitti dell’animo umano rispetto alle regole imposte dalla morale religiosa, era venuto fino in questa valle, a visitare un piccolo e sperduto santuario per lasciarvi la propria preghiera.
Il sacerdote mi osserva, devo avere una ben strana espressione: «strano, ora che mi ci fa pensare, anche quel tedesco che è stato trovato ucciso era venuto qui e mi aveva chiesto di vedere proprio questo volume. Sapevo che si trattava di un importante professore dell’università di Monaco e quindi gli permisi di consultare il volume.»
Le parole di don Florian mi portano alla realtà, ma certo Bachmann era stato professore e critico d’arte, mentre il suo compagno è un mercante d’arte…
«Grazie don Florian, riponga pure il volume.»
Ripongo con cura il foglio tra le pagine dove l’ho trovato e chiudo il voluminoso tomo, restituisco i guanti senza aggiungere parole mi congedo con un cenno del capo.
Dalla canonica mi avvio verso l’albergo: la luce del giorno va scomparendo e persa nelle mie elucubrazioni non mi sono accorta che qualcuno sembra seguire con interesse i miei movimenti.
Altro che delitto passionale! Probabilmente il professore doveva aver messo a conoscenza Dieter di quello che aveva scoperto con le sue ricerche: Bosch era stato a Venezia in quegli anni e forse aveva voluto fare un pellegrinaggio al santuario che vantava delle apparizioni mariane, lui che all’epoca era già da diversi anni un confratello della Confraternita di Nostra Diletta Signora e lasciato un suo speciale pensiero.
Aver rinvenuto il disegno aveva confermato la sua tesi, ma evidentemente i due non erano d’accordo sul da farsi: la vittima voleva informarne le autorità e la comunità scientifica, mentre l’assassino, o meglio il presunto tale, voleva appropriarsi del disegno e rivenderlo al mercato nero… Valeva certamente milioni, benché fosse solo un disegno, se era autentico era comunque un inedito…
“Si papà grazie, lo so che il mio ragionamento è ineccepibile, manca che tu aggiunga ‘elementare Watson’, ma siamo solo nel campo delle ipotesi, anzi delle illazioni, non ci sono prove… Non posso dire che lo ha ucciso lui, io non l’ho visto commettere l’omicidio, l’ho solo visto allontanarsi e per inciso, ti ricordo che anch’io mi sono allontanata di li.
Come cosa vuol dire… Potenzialmente se il maresciallo Neri sapesse che ero lì potrebbe sospettarmi. Esagero? Forse, ma preferisco non appurare per ora.
Con questi pensieri arrivo nella hall dell’albergo, c’è molto silenzio, gli ospiti, a cui è stato chiesto di non allontanarsi dai dintorni si muovono nelle sale limitrofe con cautela, quasi che il parlare sia sconveniente.
Non è ancora ora di cena, perciò salgo in camera mia, accendo il tablet, mi collego con il WI FI dell’albergo e inizio a guardare immagini dei dipinti di Bosch: ad un certo punto ne trovo uno che mi ricorda in parte il disegno che ho veduto in canonica, si tratta del Trittico dell’“Adorazione dei Magi” e la parte centrale è molto simile a quello del disegno che ho tenuto in mano.
Il trittico aperto, mostra nella parte centrale l’Adorazione dei Magi: il punto focale della composizione è la monumentale Vergine con in grembo il Bambino, appoggiato su un drappo bianco, in contrapposizione con la figura di Gaspare, in abito bianco che contrasta con la sua pelle nera.
La scena ha un’aurea di favola e mistero, immerso in un paesaggio dorato dai toni che sfumavano verso i colori azzurrini del cielo per effetto della foschia, un paesaggio arioso e luminoso, con boschi ondulati, acque e piccole valli; la firma di Bosch compare in questo scomparto in basso a sinistra.
Lo aveva dipinto poco tempo prima del disegno che ho visto nella canonica.
Mi viene da pensare che durante il suo viaggio a Venezia abbia portato con se il disegno preparatorio, doveva quindi aver programmato il suo pellegrinaggio alle Tre Fontane e la data sotto il disegno doveva essere riferita a quest’ultimo, non alla realizzazione del disegno.
Non sono un’esperta, ma per quel poco che posso capirne, quel disegno potrebbe essere davvero un Bosch, a questo punto sono obbligata ad avvisare i carabinieri.
“Si papà, lo faccio subito, non posso correre il rischio che Von Hinten tenti nuovamente il furto in canonica, anzi secondo me ora anche don Florian corre dei rischi, non oso pensare cosa gli potrebbe accadere se dovesse scoprirlo in flagranza di reato… Parlo bene? Hai ragione, ma ho avuto un buon insegnante no?
Istintivamente vado sul motore di ricerca e digito i nomi dei due tedeschi.
Eccoli, i siti però non sono in italiano, utilizzo allora il traduttore, anche se non è particolarmente brillante: sono articoli dedicati alla galleria d’arte e…. “Ma guarda, chi lo avrebbe detto? Il professore pare sia stato coinvolto in una serie di aste clandestine. Queste mi mancavano, avevo sentito parlare di corse clandestine, scommesse clandestine, ma mai di aste. Si hai ragione, in effetti se si tratta di opere d’arte trafugate non si possono certo rivendere alla luce del sole.”
Mi avvicino alla borsa e recupero un biglietto da visita con un numero di telefono.
«Stazione dei carabinieri? Sono Daniela Olivieri, sono ospite in hotel a Trafoi, vorrei parlare con il Maresciallo Neri, devo riferire sull’omicidio delle Tre Fontane.»
VIII
«Eccomi signora Olivieri, mi dica.»
La telefonata è stata immediatamente trasferita all’interessato, una volta di più mi stupisco della perspicacia di Neri: deve aver dato ordini precisi.
«Buonasera maresciallo, perdoni l’ora, ma credo che sarebbe opportuno che lei metta sotto sorveglianza la canonica della parrocchiale di Trafoi, poi domani mattina le spiego ogni cosa.»
«Perché mai dovrei fare una cosa simile?»
«Si fidi di me maresciallo.»
«Dovrei?» Touché accidenti!
«Ha ragione e le chiedo scusa, domani le racconterò ogni cosa, ma ora è necessario agire, anche per il bene di don Florian.»
«D’accordo, do immediatamente ordine a due miei sottoposti di salire per trascorrere la notte in canonica, ma domani mattina lei mi dovrà chiarire ogni cosa.»
«Certamente, sarò da lei alle nove.»
«Non vuole che venga io?»
«No no, assolutamente no,» un brivido mi corre lungo la schiena all’idea che Von Hinten possa vedermi in compagnia del maresciallo.
«D’accordo, facciamo così, ci vediamo alle nove all’ingresso della ‘Konditorei’ in piazza a Prato allo Stelvio, la conosce?»
«Ovviamente si.» Sorrido, quante fette di torta alla ricotta e cioccolate calde vi avevo consumato?
Mai notte è stata più lunga: dalla mia finestra posso vedere la chiesa del paese, mi alzo dal letto in continuazione, sono agitatissima e preoccupata per cosa mi potrebbe accadere.
Si papà hai ragione, dovevo raccontare subito tutto a Neri ma… Cosa fatta capo ha, quindi inutile recriminare no?”
Meno male che ho taciuto con mia figlia, altrimenti non mi avrebbe dato tregua…
Mia figlia: è già da diversi giorni che non ci sentiamo, le sembrerà strano, noi che ci chiamiamo almeno una volta al giorno, ma probabilmente con la sensibilità che la contraddistingue, deve aver pensato che volessi godermi questa vacanza speciale in solitudine.
Sorrido, come mi manca il suo “ciao mami”, con quel tono a volte un po’ infantile, a cui io rispondo volutamente in maniera altrettanto infantile: è il nostro modo di sentirci più vicine, ora che anche lei è cresciuta e ci confrontiamo da pari a pari.
“Si ma per me è sempre la mia bambina papà, così come io lo sono stata per te sino a quando è nata lei. No, non sono gelosa della mia piccolina, non lo sono mai stata, era bello vedere con quanto amore la osservassi e quanto fossi orgoglioso di lei e dei suoi progressi, purtroppo la tua presenza le è… Ci è mancata troppo presto…
Mi alzo presto, anche troppo.
Indugio davanti alla finestra, la valle è ancora in ombra, ma il sole sta inondando di una luce ancora soffusa i ghiacciai che assumono una lieve tonalità rosata, mentre i massicci rocciosi sembrano brillare di luce propria: è uno spettacolo che mai mi stancherei di rivedere.
Mi riscuoto e mi avvio in bagno: indugio un minuto di troppo davanti allo specchio, vanità? “Si lo so, assomiglio molto a mamma, lei però aveva il volto più rotondo e questo le conferiva un’espressione ben più dolce. Lei poi sorrideva sempre, sia con gli occhi che con le labbra.”
Alle otto sono già in sala per la colazione, ancora nessuno è sceso, in realtà a me interessa una sola persona e dal pomeriggio precedente non è più apparsa…
Bevo rapidamente un bicchiere di succo di arancia e mi dirigo alla reception, dove chiedo circa l’opportunità di un passaggio a Prato allo Stelvio; l’impiegata si allontana per informarsi, nel frattempo le due simpatiche signore con cui avevo scambiato informazioni alla Rocca Bianca si avvicinano, «noi andiamo a Glorenza, se vuole un passaggio, andiamo via subito.»
Colgo al volo l’occasione, ringraziando l’impiegata che era tornata in postazione e mi allontano con le mie nuove amiche, per il ritorno avrei chiesto a Neri un passaggio, sarebbe stato sufficiente lasciarmi all’ingresso del paese, ben lontano dall’hotel e da sguardi indiscreti.
A Prato allo Stelvio faccio fermare l’auto in piazza e schizzo letteralmente giù, ben contenta della brevità del tragitto, mai abbastanza però!
Sono sempre stata una convinta assertrice del fatto che i tedeschi siano autisti prudenti fino alla noia, la mia nuova amica in pochi tornanti ha scardinato questa certezza, emula di Schumacher, ha dato una bella shakerata al mio stomaco.
Declinando il più gentilmente possibile l’offerta di un passaggio di ritorno, ancora un po’ provata, decido di fare quattro passi intorno alla piazza, in attesa che giunga l’ora dell’appuntamento: non ci sono stati moltissimi cambiamenti negli anni e anche gli odori rimandano ai periodi vacanzieri trascorsi qui con la mia famiglia: Prato era una tappa obbligata, per un semplice giro in paese o per andare verso Glorenza, la splendida cittadina ancora racchiusa dalle mura medievali, oppure a Sluderno per una visita a Castel Coira o ancora fino al lago di Resia, per l’immancabile foto davanti al campanile, oggi un’attrazione turistica, in realtà simbolo di dolore e sofferenza, il campanile infatti è tutto ciò che rimane dell’antico borgo di Curon, un paese cancellato da una storia di avidità industriale: almeno centocinquanta famiglie contadine persero case e terreni e molte di esse furono costrette ad emigrare.
Alcuni mesi fa in libreria ho visto un libro con in copertina il campanile e il lago: senza nemmeno conoscere l’argomento che trattava, l’ho acquistato e leggendolo sono venuta a conoscenza di un mondo diverso e della storia dolorosa di questa terra che nessun libro di scuola ha mai raccontato; ero rimasta stupita, perché io che per anni avevo frequentato quei posti, mai avrei supposto cosa si celava dietro l’atteggiamento poco amichevole nei confronti degli italiani, né tantomeno di aver trascorso le mie vacanze in una potenziale polveriera, “certo, se ci fosse stato del pericolo effettivo per noi magari tu lo avresti saputo vero?” Non posso credere che mio padre abbia agito con tale leggerezza, soprattutto quando, negli anni Ottanta nuovi attentati colpirono questo territorio.
Torno rapidamente sui miei passi, Neri è già vicino all’ingresso della pasticceria, anche lui in largo anticipo, mi avvicino.
«Buongiorno maresciallo, grazie per la sua attenzione.»
«Buongiorno a lei signora, avrà molto da spiegare.» Faccio un cenno d’assenso con il capo mentre entriamo in pasticceria.
Ci sediamo in un angolo appartato, nonostante la sala sia ancora vuota, data l’ora; una cameriera ci raggiunge immediatamente per raccogliere la nostra ordinazione: non posso fare a meno di chiedere una fetta di torta alla ricotta e una cioccolata calda. Neri mi guarda incuriosito, non ho nemmeno dato un’occhiata al listino: «sono venuta qui per anni in vacanza con la mia famiglia,» gli spiego.
Le nostre ordinazioni arrivano rapidamente, a quel punto, mentre attacco voracemente la fetta di torta, inizio il mio racconto, questa volta senza omettere alcun particolare.
Con l’ultimo sorso di cioccolata, ho anche concluso la mia storia.
«Avrei preferito che si fidasse di me da subito.»
«Ha ragione maresciallo, le rinnovo le mie scuse.»
«Proprio lei, con il suo trascorso famigliare,» sollevo di scatto il capo: «mi perdoni, ma io seguo sempre il mio istinto, così mi sono preso la libertà di prendere informazioni su di lei. Suo padre era una personalità nelle forze di polizia, chi più di lei avrebbe dovuto fidarsi?»
«Si Neri, ritengo che mio padre fosse davvero un uomo eccezionale, sia dal punto di vista umano che professionale, ho sempre fatto fatica a trovare qualcuno che fosse alla sua altezza.»
«Non deve fare di tutta l’erba un fascio Daniela.»
«E’ vero ma, vede, a Genova il G. Otto ha lasciato segni profondi: mio padre al tempo era già molto malato, di li a poco se ne sarebbe andato e ormai viveva da recluso, i suoi unici contatti con il mondo esterno erano i quotidiani e i telegiornali, ricordo ancora il suo sguardo di profonda delusione alla visione degli avvenimenti di quei giorni e il rammarico e l’amarezza nella sua voce, lui che aveva lottato e rischiato il posto di lavoro per quello in cui credeva e questo, credo mi abbia profondamente condizionato.»
«Capisco…»
Rimaniamo alcuni minuti in silenzio, Neri immerso nelle sue riflessioni, io persa nei miei ricordi.
In realtà in questi luoghi non ho più pensato a questo aspetto della vita da poliziotto e sindacalista di papà, l’aura benigna che circonda queste  montagne, ha fatto si che il centro montano vivesse nei miei ricordi come un luogo immacolato, che poco aveva a che fare con i problemi della Polizia di Stato e le sue mille sfaccettature: qui erano prima di tutto padri di famiglia e mariti, poi poliziotti, ma di vecchio stampo, persone che avevano ben chiaro come “la democrazia avesse bisogno di una manutenzione quotidiana, soprattutto per chi indossava una divisa” per dirla alla Camilleri.
IX
«Credo sia opportuno contattare il Nucleo di Tutela del Patrimonio Artistico, la vicenda sta assumendo contorni ben più complessi.»
Le parole del maresciallo mi riportano brutalmente alla realtà.
«No Neri, aspetti.»
«Per quale motivo?»
«La presenza di nuovi investigatori potrebbe destare sospetti, è meglio per il momento mantenere un basso profilo, non deve trapelare ciò che è venuto alla luce.»
«Ha ragione, soprattutto dal momento che l’autrice della scoperta è lei, questo potrebbe metterla in pericolo.»
Un brivido scende lungo la schiena, le parole di Neri mi fanno accapponare la pelle, “accidenti papà, ma in che guaio mi sono andata a cacciare? Adesso è colpa mia che ho ficcato il naso in fatti che non mi riguardavano! Ma com’è che sei diventato omertoso? No, un momento, in famiglia ti accusavamo di esserlo per quello che riguardava il tuo lavoro: hai dimenticato quando durante gli anni del terrorismo delle BR la mattina uscivi da casa con la pistola tra le pagine del quotidiano, pronta a far fuoco? D’accordo hai ragione, non è questo il momento…
«Quindi, secondo lei cosa dovrei fare?»
«Partire per esempio?»
«Non se ne parla neppure: è la mia prima vacanza da tre anni a questa parte, non intendo rinunciarvi.»
«Non è un gioco Daniela.»
«Ne sono consapevole, ma potrei essere l’unica opportunità che avete per risolvere il caso.»
«Cosa vuol dire?»
«Se facessi in modo di far capire a Von Hinten cosa ho trovato in canonica?»
«Non starà parlando sul serio, lei ha visto troppi polizieschi.»
«Colpa di mio padre.»
«Prego?»
«Lasci perdere e mi ascolti: io e il tedesco abbiamo già avuto diverse conversazioni, lui stesso mi ha domandato quali fossero i miei interessi, perciò non sarebbe così strano che io riveli a lui la mia scoperta, considerata oltretutto la sua professione. A quel punto si tratterebbe solo di osservare la sua reazione.»
«E’ troppo rischioso. Si rende conto che potrebbe metterla in relazione con quanto è avvenuto alle Tre Fontane? Sarà diffidente, lei stessa mi ha raccontato che quella sera l’ha vista rientrare in albergo.»
«D’accordo, ma a lei viene in mente qualcosa di diverso?»
«Non insista, ha già ucciso un uomo.»
«Questa è una sua illazione: io l’ho solo visto allontanarsi da una zona relativamente vicina a dove è stato rinvenuto il cadavere.»
«Sottigliezze.»
«Mi meraviglio di lei, rifletta, il cadavere era sul greto del torrente, su pietra. Avete trovato eventuali tracce della presenza di una seconda persona?»
«Non ho ancora ricevuto il referto autoptico ma…»
«Sono certa che troverà ben poco per avvalorare la sua tesi: è probabile che i due abbiano litigato e magari il professore sia semplicemente scivolato.»
«Perché allora non informare immediatamente le forze dell’ordine?»
«Lei gli avrebbe creduto?»
Il maresciallo non controbatte.
«Mi ascolti, è l’unica soluzione.»
«Potrei finire nei guai per averla coinvolta.»
«Ma se funziona magari per lei potrebbe essere l’occasione per un avanzamento di carriera.»
«Non sono così opportunista.»
«Non lo metto in dubbio, non mi dica però che non aspira a fare carriera e che si sente appagato del suo ruolo qui. Io amo questi luoghi, ma sono altrettanto realista da riconoscere che non essendoci nata non sarei in grado di viverci a lungo.»
Ancora una volta non ha argomenti da contrapporre.
«Come vorrebbe comportarsi allora?»
«Mi limiterei a dirgli cosa ho trovato in canonica: ci tornerà e sarà sufficiente che i suoi uomini piantonino discretamente la chiesa perché lo colgano sul fatto.»
«La fa facile lei.»
«Ma lui sa cosa c’è in canonica, perché il suo compagno lo aveva già trovato e probabilmente gliene aveva accennato, alle Tre Fontane non ha trovato nulla, quindi sicuramente farà un tentativo nella chiesa del paese, andrà a colpo sicuro.»
«Cosa le fa pensare che voglia recuperare il disegno?»
«Vale una fortuna e lui finanziariamente pare sia in crisi.»
«E’ quello che hanno affermato le sue due concittadine.»
«Non riesce ad ottenere informazioni da Monaco?»
«La burocrazia è il sistema migliore con il quale sospetti e colpevoli spesso riescono a sfuggire alla giustizia.»
Annuii.
«Comunque continuiamo a non prendere una decisione.»
«Continuiamo? Guardi che la decisione è solo mia.»
«Ha ragione, allora credo che la dovrebbe prendere.»
Si papà, gli sto forzandola mano, ma il gioco vale la candela: un disegno di Bosch sarà riportato alla luce e un probabile assassino arrestato. Se dovesse andare male? Preferisco non pensarci.”
«D’accordo allora, ma secondo lei come potrò tenerla sotto controllo? Non ho attrezzature tecnologiche a mia disposizione e la stazione conta non più di quindici uomini oltre il sottoscritto.»
«Le lascio il mio nome utente, che è poi il mio indirizzo e-mail e la password: lei o chi per lei si colleghi a ‘Google dashboard’ e lì potrà seguire tutti i miei spostamenti nell’arco della giornata.»
«Forse può funzionare e va bene, io e tre dei miei uomini a turno ci apposteremo in canonica a partire da questa sera e attenderemo gli eventi. Lei mi faccia sapere quando avrà parlato con Von Hinten: è sufficiente un messaggio.»
«Bene, adesso però è ora che vada. Può darmi un passaggio fino a Trafoi?»
«Sicuramente, l’accompagno con la mia auto.»
Ci alziamo e insieme usciamo dalla Konditorei; attendo Neri all’angolo della strada che conduce verso Glorenza, guardando, senza vederle, le vetrine del negozio: è cambiato negli anni, una volta era una cartoleria, ora è un’enoteca o qualcosa di simile.
Un discreto colpo di clacson mi fa sobbalzare: è il maresciallo alla guida di una Mercedes Classe “A”, “come sono cambiati i tempi papà, noi con il tuo solo stipendio faticavamo ad arrivare alla fine del mese, ma forse lui non ha una famiglia di cui farsi carico.”
Mi siedo al suo fianco, in silenzio percorriamo i pochi tornanti che mi separano dalla mia meta.
Finalmente compare la mole del Madaccio, quel massiccio per me è un mantra, inspiegabilmente sotto la sua ombra mi sento al sicuro: mi rilasso in maniera così evidente che al mio autista sfugge un sorriso ironico, ma tace.
«Le chiedo scusa.»
Mi guarda con aria interrogativa: «mi sono rilassata in maniera così plateale alla vista del Madaccio che devo averle dato l’impressione di non essere a mio agio per via della sua guida, mi creda se le dico che lei non c’entra nulla.»
Continua a guardarmi: «quel monte, è un simbolo per me, per anni ho avuto la sensazione che fosse li, guardiano silenzioso, a protezione di un luogo che ho sempre ritenuto incantato… Capisco che possa sembrare assurdo, ma quando compare alla mia vista mi tranquillizza,» si limita ad annuire, ma non sono certa che abbia capito veramente.
Accosta vicino al nuovo albergo costruito da pochi anni al posto della precedente struttura, prima di scendere ci scambiamo i rispettivi numeri di cellulare.
«Presti attenzione.»
Di nuovo mi limito a un cenno affermativo con il capo e mi allontano lungo la strada, verso l’albergo dove alloggio.
Anche oggi non avrei potuto fare alcuna escursione, è ora di pranzo e il pomeriggio sarebbe stato troppo breve.
Questa storia incomincia a innervosirmi, non era così che avevo immaginato le mie vacanze. Si lo so, non sempre possiamo prevedere ciò che accade, sicuramente mai avrei immaginato di restare coinvolta in un omicidio. Me la sono cercata? Forse hai ragione ma deve essere comunque colpa di quella famosa parte di dna sai? Non rispondi eh?
Nel frattempo sono di fronte all’hotel: la famigerata Golf nera è parcheggiata, quindi Dieter sarebbe stato a pranzo, una buona occasione, “magari pranza in camera? E perché mai?
Invece è già seduto al suo tavolo, al mio ingresso mi rivolge un breve segno di saluto, che ricambio con un sorriso incerto, poi mi siedo al mio tavolo fingendo di armeggiare con il cellulare: “si lo so è da maleducati, mi ricordo quanto ti infuriavi con mio fratello quando lui si sedeva a tavola con un fumetto, ma qui la situazione è un po’ differente non ho voglia di fare conversazione. Deciderò io quando sarà il momento di dirgli del disegno va bene?
La cameriera si avvicina con la prima portata, non ho molto appetito ma mi sforzo di inghiottire qualcosa.
Sono stata troppo impulsiva con il maresciallo? Comincio ad essere assalita dai dubbi e dai timori, “si papà lo so, ma credevo fosse la cosa giusta da fare.”
Sospiro, scosto il piatto e dopo averne aspirato l’aroma speziato e il sentore di frutti di bosco centellino un sorso di ‘Lagrein’, quando mi accorgo di non essere più sola al tavolo.
«Non ha appetito?»
«Per la verità stavo riflettendo,» non ho avuto bisogno di trovare una scusa per avvicinarlo, ha fatto tutto da solo.
«Su cosa se è lecito chiedere?»
«Lei sa che Bosch ha soggiornato qui a Trafoi?»
«Si, Friedo me ne aveva parlato.»
«Il parroco, don Florian, mi ha permesso di visionare gli antichi registri dei visitatori del Santuario delle Tre Fontane e nel più antico ho rinvenuto un disegno, o meglio uno studio preparatorio che credo sia del Trittico dell’Adorazione dei Magi: non sono un’esperta, ma apparentemente sembra autentico.»
L’uomo mi fissa intensamente, quasi a volermi indurre ad abbassare lo sguardo.
«Interessante, ne ha già parlato con qualcuno? E come mai questo interesse?»
«In realtà avevo letto qualcosa su Bosch e su un suo possibile soggiorno in Sud Tirolo, io frequento molto Venezia e spesso vado all’Accademia, quindi conosco abbastanza le sue opere…Comunque no, non ne ho fatto parola con nessuno, lei cosa mi suggerisce di fare?» Lo fisso dritto negli occhi, sperando che le mie menzogne siano sembrate verità.
«Perché lo domanda proprio a me?»
«Lei ha una galleria d’arte e il suo compagno è… O meglio era uno studioso di storia dell’arte, quindi penso che sia la persona più qualificata per darmi un consiglio.»
«Mi faccia fare qualche ricerca, poi le saprò dire.»
«D’accordo, grazie.»
Senza aggiungere altro si alza e esce dalla sala, proprio mentre viene portato in tavola il secondo piatto.
La cameriera si ferma al suo tavolo con il piatto in mano, mi guarda con aria interrogativa, io mi limito a alzare le spalle con un’espressione perplessa.
Molto pragmaticamente la giovane porge a me il piatto e prosegue oltre; mi è tornato l’appetito: ritengo di essermi comportata bene, il fatto che si sia avvicinato lui avrebbe dovuto pormi al di sopra di ogni sospetto, così invio un messaggio a Neri.
A pranzo concluso decido di spostarmi nel solarium: la giornata è magnifica, perché non approfittarne? Così mi accomodo su una sdraio: “certo se continuo così rotolerò invece di camminare!
Lentamente mi assopisco, riscaldata dai raggi del sole.
X
Deve essere trascorsa almeno un’ora quando esco dal mio torpore, a fatica mi alzo: voglio andare in piscina, perciò devo andare in camera per cambiarmi.
Nella hall incrocio il tedesco che non sembra fare caso a me, pare invece avere fretta di allontanarsi, non lo fermo.
La piscina mi sveglia completamente, la sauna subito dopo mi rilassa e le ultime bracciate sembrerebbero avere un effetto tonificante, in realtà credo di provare a tacitare la mia cattiva coscienza.
Torno in camera.
Avrei voglia di leggere un po’ ma sono assorta su altri pensieri, per distrarmi accendo il portatile e ascolto un po’ di musica: le note di “We will rock you” rimbombano nella stanza, è un crescendo con “We are the champions”, per raggiungere l’apice con “Somebody to love”, poi, lentamente, il crepuscolo, rabbioso, con “The show must go on” e infine malinconico con “Who wants to live forever”… intanto osservo la sera che cala sulla valle e cerco di individuare i carabinieri in appostamento ma non noto nulla di diverso dal solito.
Insomma, non sono mica tutti come quelli delle barzellette,” mi sembra di sentire la risata sarcastica di mio padre.
La serata vola via: dopo cena una coppia inizia a cantare e suonare e veniamo tutti catturati dall’atmosfera; non ho fatto caso se Von Hinten si sia unito al gruppo, in realtà l’ho temporaneamente rimosso, contagiata dall’allegria della serata.
Mi ritorna in mente, “no papà, non c’entra Lucio Battisti qui,” quando raggiungo la mia stanza ma per quanti sforzi faccia, non riesco proprio a ricordare se sia stato presente o meno.
Rifletto però che a tavola non c’era, quindi forse davvero sono stata convincente: “forse Neri mi chiamerà domani, a storia conclusa,” chissà perché però non sono del tutto convinta.
Mi sembra strano però che non risultino notizie di Bosch e di suoi soggiorni in questi luoghi, così decido di concedermi una gita a Bolzano al Museo Civico.
La mattina presto mi faccio accompagnare alla stazione di Spondigna, in tempo utile per prendere il primo regionale che mi conduca a Merano e di lì proseguo per Bolzano.
Ho pochissimi ricordi della città, confusamente rivedo me bambina con mio padre vicino ad una fontana, “si papà, era il primo anno che venivamo qui in vacanza, il Millenovecentosessantanove, era agosto e a Bolzano faceva un gran caldo… dopo tutto il freddo patito a Trafoi. Per la prima volta avevo visto nevicare a ferragosto e la mamma chiamava i nonni al telefono e augurava loro buon natale…
Mi avvio verso il centro storico, il museo è ai margini della zona pedonale, a meno di un chilometro dalla stazione.
È impossibile non distinguerlo, perché spicca con la sua torre merlata e il grande portale: costruito sulle fondamenta di una residenza medievale, conserva importanti collezioni tra le più ricche dell’Alto Adige, tra cui molte opere pittoriche a partire dal Cinquecento, ma non trovo nulla che possa ricondurre a Bosch e il responsabile del museo con cui ho un breve scambio di battute, me lo conferma.
Per scrupolo, non volendo lasciare nulla di intentato, consulto anche alcuni volumi presso la biblioteca annessa al museo che la sera prima avevo trovato visionando il catalogo online, ma non c’è nulla che avvalori le mie ipotesi: se non fosse che anche Bachmann e Von Hinten sono arrivati alle stesse conclusioni, penserei di aver preso un abbaglio.
Rassegnata esco dall’edificio e mi concedo un giro per il centro storico di Bolzano, con sosta in un locale tipico nella Via degli Argentieri, prima di prendere il treno.
Non è ancora ora di cena e sono nuovamente in albergo, mi accorgo che le mie giornate sono scandite dai pasti: tutto quello che posso fare deve necessariamente rientrare nell’arco temporale che va dalla colazione al pranzo e dal pranzo alla cena.
Di Dieter non vi è traccia nemmeno stasera, non ho notato se l’auto sia posteggiata o meno, non vorrei che intuendo il pericolo abbia pensato di allontanarsi: “no, hai ragione, sarebbe un’ammissione di colpevolezza e poi Neri non mi ha informata di nulla”, così un’altra sera trascorre senza colpi di scena e io mi ritiro presto, lieta di poter leggere per distrarmi un po’.
Di prima mattina sono già pronta per la colazione, in sala con mia grande sorpresa trovo il maresciallo: è senza divisa, con jeans, polo e maglione e da come mi viene incontro, direi che aspetta proprio me.
«Buongiorno Daniela, oggi sono di riposo e volevo andare a visitare Castel Coira, le andrebbe di accompagnarmi?»
Perché no? Sono un po’ perplessa, ma in fondo un po’ di compagnia potrebbe essere piacevole, comincio a pensare che non sia stata una buona idea venire in vacanza da sola, “ti prego, non dire nulla.”
La colazione è rapida, saliamo in auto e ci avviamo verso Sluderno, le note di “The show must go on” nella versione cantata da Elton John invadono l’abitacolo, sorrido: allora forse qualcosa in comune l’abbiamo.
Lasciamo la macchina al parcheggio e approcciamo la salita che porta all’ingresso del castello, il maresciallo si ferma all’improvviso, «dobbiamo andarcene, c’è Von Hinten.»
«Si, non è il caso che ci veda insieme.»
Risaliamo in auto, «peccato, per un motivo o per l’altro non riesco mai a visitare il castello, che mi incuriosisce moltissimo.»
«Peccato davvero, l’armeria conserva la maggiore collezione privata di armi antiche d’Europa.»
«Le farebbe piacere fermarsi a Glorenza?»
«Meglio di no, Sluderno e Glorenza sono limitrofe, rischiamo di incontrarlo nuovamente,» annuisce e si avvia verso Resia.
Ci fermiamo in riva al lago, di fronte al campanile: c’è vento, qui c’è sempre vento e le nubi corrono veloci in cielo, oscurando a tratti il sole, rabbrividisco.
«Non conoscevo l’esistenza di questo posto sino a quando mi hanno trasferito a Prato allo Stelvio.»
«Per me invece è parte della mia vita da quando avevo cinque anni. È strano, per lungo tempo ho conosciuto solo parte della storia di questi luoghi, pur venendo qui in vacanza ogni anno non avevo mai sentito la necessità di approfondire, è capitato per caso.»
Neri mi guarda incuriosito, inizio a raccontare la storia di Curon, il paese sommerso.
«Devono essere stati anni duri per la popolazione locale, laceranti.»
«Non erano austriaci né italiani, molti hanno ceduto al richiamo della Germania nazista e chi è tornato era un reduce, ma dalla parte sbagliata. D’altronde, questa era la loro Heimat, che altro potevano fare?» E il pensiero corre a tutte le forze in campo dalla fine del secondo conflitto mondiale in poi che a lungo hanno giocato con i sentimenti della popolazione locale, a causa dei due blocchi che si erano costituiti.
«E la sua Heimat qual è Daniela? Lei che mi pare di capire sia profondamente legata a questi luoghi, ma che nonostante tutto non saprebbe viverci.»
«La mia Heimat è se possibile, ancora più ideale, il connubio di tutti i luoghi in cui ho vissuto periodi più o meno lunghi e sono stata felice e la sua?»
«Io sono di San Giminiano.»
Annuisco, è ora di rientrare.
«Von Hinten non si è ancora avvicinato alla canonica, non so cosa stia aspettando.»
«Probabilmente è solo cautela, ha già rischiato di farsi sorprendere, attenderà che anche il parroco non stia più sull’avviso.»
«Si, forse ha ragione.»
La conversazione langue, in auto cala il silenzio, io persa nei miei ricordi, Neri attento alla strada.
Accosta, siamo arrivati a Trafoi all’ingresso del paese, per prudenza scendo qui.
«Procediamo secondo quanto abbiamo concordato,» non è una domanda, mi limito a salutarlo e a avviarmi verso l’hotel.
Salendo volgo lo sguardo verso l’unico negozio di generi misti che c’era in paese, ormai ha chiuso i battenti, un altro segnale di cambiamento, “certo non potevo sperare che tutto fosse come allora, io stessa sono cambiata, però è triste… forse se tu fossi ancora qui con me lo sarebbe meno,” mi sembra di udire una voce nel vento, ma forse è solo suggestione.
Il tempo si mantiene bello: la sdraio, un libro sulle ginocchia, anche questo può essere un buon modo per godere delle vacanze.
XI
Nonostante la scarsa attività, la sera mi ritiro presto; mi alzo che non è ancora giorno pieno ma ho dormito pochissimo: tensione, curiosità, forse entrambe.
Decido che oggi finalmente avrei raggiunto il Rifugio Forcola: salita in seggiovia e ritorno a piedi.
Mi appresto a fare colazione con calma, devo aspettare che la seggiovia si avvii.
In sala ci sono pochi ospiti presenti, lui non c’è.
Magari è già in stato di fermo, forse lo hanno già trasferito a Bolzano. Perché sei così scettico? Le cose non possono andare per il verso giusto almeno una volta? Cosa sai che io non so?
Silenzio.
È ora di andare, la seggiovia è già in movimento.
Fuori non vedo la Golf nera, ma non voglio preoccuparmi più di tanto: percorro il tornante fino alla biglietteria, sono fermamente decisa a godermi la giornata, finalmente le mie vacanze possono avere inizio.
Mi accomodo sola in seggiovia, iniziando la lunga risalita: anni prima in luogo della seggiovia c’era una “bidonvia”, ovvero un cestello in cui si saliva al volo e si stava in piedi per tutto il tempo che impiegava a raggiungere il rifugio. Ricordo l’apprensione con cui mi avvicinavo temendo di non riuscire a salire.
L’aria è decisamente frizzante, dal momento che i raggi del sole ancora non hanno raggiunto la stretta valle: mi stringo nel piumino e calco il cappello, al ritorno probabilmente nulla di ciò che ora indosso mi sarebbe servito ma ho un piccolo zaino.
Dopo una lunga teoria di alberi, su cui vedo arrampicarsi agili scoiattoli, ecco la sagoma del rifugio e la spianata antistante l’ingresso.
Ero ancora bambina e quando salivamo al rifugio, andavamo anche alla malga a bere il latte appena munto, caldo e con un dito di panna sopra: “se lo bevessi ora probabilmente starei male per giorni, forse non mi piacerebbe neanche, non siamo più abituati a certi sapori vero? Certo che mi ricordo di Cunegonda,” la piccola figlia dei proprietari di molti anni prima.
Come si può dimenticare una bambina con un nome simile?
Sono ormai le undici, decido di fare uno spuntino e avviarmi lungo il sentiero che mi avrebbe ricondotto a Trafoi, magari tagliando lungo la pista da sci, ora un prato verde in forte pendenza; ordino un tagliere di speck e una birra: il tagliere è accompagnato da cetriolini in agrodolce, la mia passione, un fragrante pane di segale esala il suo profumo.
Sto assaporandogli ultimi sorsi di birra, quando improvvisamente una mano dalla presa d’acciaio mi artiglia la spalla destra: sussulto e alzando lo sguardo incontro gli occhi di ghiaccio del tedesco.
«Buongiorno Daniela, ora io e lei facciamo una bella escursione.»
«Per la verità il mio programma era di rientrare a Trafoi.»
«Non se ne parla nemmeno e le consiglio di non fare resistenza, non ho una pistola, ma un coltello affilato e altrettanto efficace che so utilizzare con una certa perizia. Si alzi ora e venga con me.»
«Posso almeno pagare la consumazione?»
«Ho già provveduto io. Andiamo.»
Certo che vado con lui, cosa vuoi che faccia? Il coltello potrebbe essere un bluff, ma non mi sembra il caso appurarlo. Si proverò a farlo parlare.”
«Dove vuole andare?»
«Andiamo verso il Passo dello Stelvio.»
«Ma sono quattro ore di cammino come minimo. Arriveremo che inizierà a fare buio.»
«Pernotteremo lì, poi domani mattina proseguiremo insieme.»
«Per dove?»
«La Svizzera. Avanti adesso, basta domande.»
Ci avviamo lungo il sentiero che dal rifugio conduce al passo.
Il sentiero è stretto e sale costantemente, l’ambiente si è fatto aspro, la vegetazione va via via diradandosi: un deserto di pietre che si contrappone ai ghiacciai dell’altro versante della valle.
Sono io a tenere il passo, obbligata a camminare davanti a lui; continuiamo a salire, mentre il paesaggio diventa sempre più desolato, il fiato sempre più corto: “francamente non è il momento di pensare alla mia condizione fisica, fatti venire in mente qualcosa. Meglio aspettare di essere al passo? Si certo, si stancherà anche lui ma forse io cederò per prima.
Superiamo il Lago d’Oro e i resti delle postazioni belliche della Prima Guerra Mondiale, la fatica comincia a farsi sentire ma siamo ormai prossimi, un ultimo sforzo ed ecco la Cima delle Tre Lingue, al confine tra Italia e Svizzera: il Rifugio Garibaldi che appare come un piccolo castello, segna il punto in cui si incrociano i confini di Lombardia, Sudtirolo e Engadina svizzera.
«Trascorreremo la notte qui al rifugio e domani scenderemo verso la Svizzera,» dice ammiccando al Passo dell’Umbrail sotto di noi a ovest.
«E come pensa di arrivarci?»
«Ieri nel pomeriggio sono venuto al passo con la mia auto e l’ho parcheggiata, poi sono rientrato in serata in pullman, non farà altra strada a piedi.»
«Non pensa che non vedendo né me né lei per oltre un giorno in albergo possano allarmarsi?»
«Quando accadrà saremo già in Svizzera.»
«E quando saremo in Svizzera? Intende usare il coltello oppure a Santa Maria mi lascerà libera?»
Mi guarda stupito, «farà ancora un po’ di strada con me verso Saint Moritz, poi la lascerò libera non troppo vicina a un centro abitato. Non sono un assassino.»
Mi prende per un braccio e mi strattona verso l’ingresso del rifugio.
Riusciamo a trovare una sistemazione.
«Mi spiace, dovrà dividere la stanza con me: ci faremo preparare qualcosa da mangiare da portare in camera.»
Non replico, sto pensando a come poter comunicare con Neri.
Una volta in stanza con la nostra cena da asporto, tira fuori un tratto di corda.
«Devo assicurarmi che non faccia sciocchezze.»
«Posso andare al bagno prima?»
Mi guarda con sospetto.
«A lei la birra non produce effetti collaterali? A me si: mi accompagni fino all’uscio, diversamente sarò obbligata a…»
«D’accordo, andiamo.»
In bagno prendo il cellulare che tenevo nella tasca interna del piumino, ha la batteria ormai scarica.
Riesco comunque a inviare un veloce messaggio al maresciallo prima che si spenga definitivamente, assolvo le mie necessità e esco.
Mi guarda con sospetto, un pensiero, «mi dia il cellulare.»
Ubbidisco.
«E’ spento.»
«Evidentemente si è scaricata la batteria.»
Pare tranquillizzarsi, me lo restituisce e rientriamo in camera, dove mi lega una mano alla testiera del letto.
«Ora mangi, l’altra gliela legherò dopo.»
Sminuzzo un po’ del mio panino mentre lui addenta famelicamente il suo, il silenzio rotto solo dal rumore delle nostre mandibole.
Al termine mi lega anche l’altra mano, a quel punto pare rilassarsi e si distende sul suo letto.
«Perché mi ha preso come ostaggio?»
«Lei perché mi ha lanciato l’esca del disegno di Bosch? Sapeva che i carabinieri tenevano sotto osservazione la canonica?»
Taccio.
«Crede che sia stato io a uccidere Friedo vero?»
«Non è così?»
«E’ stato un malaugurato incidente.»
«Si, certo.»
«Abbiamo litigato: Friedo voleva appropriarsi del disegno e venderlo ad un collezionista americano con cui era già in contatto.»
«Friedo?»
«Si, lui. Non ne voleva più sapere dell’Università, mi rinfacciava i soldi che aveva investito nella galleria d’arte. La vendita del Bosch lo avrebbe reso ulteriormente ricco e gli avrebbe permesso di vivere di rendita, lasciare l’Europa e me…Mi ha rigettato in faccia tutto il suo disprezzo, mi ha chiamato fallito, nullità, poi mi ha aggredito: abbiamo lottato, io sono sempre stato più robusto e ho avuto la meglio, è caduto malamente e con violenza sul greto del torrente. Sono rimasto fermo lì, senza toccarlo, sperando che riprendesse i sensi, poi mi sono accorto che aveva gli occhi spalancati e del sangue all’orecchio, d’istinto ho urlato, poi mi sono imposto la calma e mi sono allontanato.»
Ancora silenzio.
«Mi sono solo difeso.»
«E il disegno?»
«Non mi aveva rivelato dove l’avesse rinvenuto, così dovevo cominciare a cercarlo. Tornato in albergo ho frugato tra le sue cose per trovare qualche indizio e ho trovato il nome del suo acquirente: avrei potuto approfittare della situazione, dando una svolta alla mia vita.»
Ancora silenzio, poi riprende «Invece lei ha cominciato ad interessarsi a questa vicenda, ripercorrendo anche i miei passi. »
Vede il mio sguardo stupito: «si, l’ho vista entrare nel santuario dopo che ne sono uscito e successivamente indugiare davanti alla parrocchiale di Trafoi, lei stava seguendo il mio stesso filo logico.» Dunque la sensazione di essere osservata era reale.
«Perché non ha raccontato tutto subito?»
«Non mi avrebbero creduto.»
«Aveva dei motivi per volerlo morto?»
«No.»
«Altri avevano già assistito a dei vostri litigi?»
«Mai.»
«E allora?»
«Non c’erano testimoni…»
«Ma se lei non aveva motivi di risentimento nei suoi confronti, perché avrebbe dovuto ucciderlo.»
«Ci sarebbero state delle indagini e la vicenda del Bosch sarebbe venuta alla luce se avessero vagliato i documenti di Friedo.»
«Quindi lei sarebbe rimasto con un pugno di mosche in mano, come ora, però avrebbe potuto distruggere i documenti.»
«Rimaneva il suo portatile. Mi sono comunque tutelato: sapevo che aveva un conto in Svizzera, lui non immaginava che ne fossi al corrente; si tratta di un conto dove depositava proventi di sue operazioni poco trasparenti. La notte stessa in cui è morto, ho disposto online il trasferimento di quei capitali su un altro conto a mio nome e dato mandato per acquistare azioni al portatore.
Contemporaneamente ho richiesto tramite la sua mail che fossero messi a mia disposizione dei diamanti che sono depositati a Saint Moritz. Nel tempo in cui lei, da dove la lascerò, impiegherà a raggiungere le autorità e a informarle, io avrò già fatto perdere le mie tracce.»
Mi sembrava eccessivamente ottimista.
«Lei è solo la mia assicurazione, non intendo farle del male.»
«A chi telefonava l’altro giorno, parlando in tedesco?»
Mi risponde, non senza una certa sorpresa: «pensavo fosse ancora assopita, stavo parlando con chi a Saint Moritz doveva mettermi a disposizione i diamanti.»
«Cartier?»
Di nuovo lo sorprendo, ma non mi dà soddisfazione, «lei è troppo curiosa, la smetta di fare domande inopportune, è già al corrente di quello che è importante.»
«Cosa ci faceva a Castel Coira? Ero lì anch’io, ma mi sono allontanata prima che potesse vedermi.»
«Immagino fosse in compagnia del maresciallo…»
Deve avere intuito tutto e io con la mia domanda sul castello gli ho fornito la conferma ai suoi sospetti.
«Non pensa che anche gli investigatori italiani sappiano ormai della sua pessima situazione finanziaria e dei coinvolgimenti del suo compagno in probabili ricettazioni di opere d’arte rubate e ne abbiano tratto le loro conclusioni?»
«Lei sta solo tirando a indovinare.»
«Assolutamente no, internet è una miniera di notizie e sul web il diritto all’oblio è di difficile applicazione.»
«Si tratta di storia vecchia comunque.»
Non ribatto e lui non aggiunge altro, chiude gli occhi e rapidamente si addormenta. Io mi dispongo a trascorrere una delle notti più assurde e scomode di cui ricordarmi.
Malgrado tutto riesco ad addormentarmi: incoscienza? Stanchezza? Forse entrambe.
XII
Nel dormiveglia sento armeggiare attorno ai miei polsi, è Dieter che mi sta liberando: appena provo a muovere le braccia sono sopraffatta da fitte lancinanti.
Mi alzo ancora leggermente obnubilata: «diamine non ho nemmeno lo spazzolino,» ironizzo, lui sembra non farci caso, apre la porta della stanza e si avvia, io dietro di lui, evidentemente non teme che possa fuggire, non dal Passo, io invece non ho in mente nient’altro.
Usciamo all’aperto.
Un nuovo giorno inizia al Passo dello Stelvio, il sole si sta levando e illumina la lunga teoria di tornanti che conduce a Trafoi, mentre il cielo blu scuro della notte, lascia il posto a un azzurro solcato da leggeri strati di nubi che corrono veloci verso il Palla Bianca.
Non posso lasciarmi condurre sino in Svizzera, devo assolutamente prendere l’iniziativa prima che arriviamo all’auto, da qui sono in grado di tornare verso Trafoi, non sono altrettanto sicura di riuscire a farcela se mi abbandona lungo la strada per Saint Moritz: mi guardo freneticamente intorno alla ricerca di uno spunto, quando vedo un badile appoggiato al muro.
Agisco d’istinto, la fortuna vuole che Von Hinten in quel momento continui a darmi fiduciosamente le spalle: afferro l’attrezzo, che mi sembra quasi un prolungamento del mio braccio, inarco la schiena quasi a voler prendere la rincorsa e con tutta la forza di cui dispongo, glielo calo in testa, una badilata violentissima, un suono osceno che mi riempie di nausea.
Il colpo si ripercuote lungo il mio braccio, lui si affloscia come un materassino da spiaggia bucato.
Ancora una volta mi guardo intorno, ma nessuno ha assistito alla scena, sono tentata di avvicinarmi per accertarmi che respiri ancora, ma ho paura.
Non indugio oltre, il braccio indolenzito lungo il corpo, scendo a rotta di collo dal rifugio e mi involo lungo i tornanti.
Corro come non ho mai fatto, nemmeno nel breve periodo in cui ho praticato atletica a scuola, non oso pensare a cosa possa essergli accaduto.
Non riesco quasi più a respirare, sento il sangue ronzarmi nelle orecchie per lo sforzo.
Rallento, nel mentre sento un’auto: mi volto, è un mezzo commerciale con targa italiana, mi sbraccio e si ferma.
«Dovrei arrivare a Trafoi.»
«Mi spiace, mi fermo a Sottostelvio.»
«Va bene lo stesso,» senza attendere altro apro lo sportello e mi accomodo al suo fianco: se non altro metto un po’più di distanza tra me e il tedesco, “non ho idea di cosa posso avergli fatto, spero sia ancora vivo. Si papà, lo so che il cranio è duro, ma il badile ha fatto un tale rumore quando gliel’ho calato sulla testa…Una mia impressione? Non saprei
A Sottostelvio imbocco un sentiero: un tratto di via già in uso durante la Grande Guerra, a passo spedito continuo a scendere verso la linea degli alberi, in alto un’aquila volteggia maestosa, mentre intorno sento lo squittire delle marmotte che segnalano l’una all’altra la presenza del rapace.
Mi pare di udire il rumore di passi dietro di me, forse è solo la mia immaginazione, ma non mi volto, allungo sempre di più la mia falcata fino a ricominciare a correre, cercando di non inciampare, adesso sento solo il suono del mio respiro, sempre più affannoso.
Corro, corro in discesa. Penso al legamento malandato del mio ginocchio sinistro: sicuramente per il mio crociato non si tratta di una passeggiata di salute.
Sento l’articolazione come se fosse compressa tra due mani, “stasera dovrò fare impacchi di argilla verde, meno male che l’ho portata. Cosa dici? Non è il momento di pensare a queste cose? Se penso a quello che mi sta succedendo mi metto a piangere.
Invece incomincio a ridere.
Che mi prende? Mi è tornato in mente quella volta che rientrasti dalla tua quotidiana spedizione per funghi con i pantaloni di velluto tutti rovinati sul posteriore e spiegasti a mamma che ti eri buttato giù da un canalone perché eri stato caricato… Da una vacca. Mamma ti guardò dalla testa ai piedi e osservando che avevi calzettoni rossi, camicia a quadri rossa e portavi la giacca a vento legata in vita al rovescio con l’interno rosso bene in vista, giunse alla conclusione che si era trattato di un toro! Dai papà e dire che da ragazzino portavi le vacche al pascolo. Con la giacca a vento che si agitava come una ‘muleta’, ci credo che ti abbia caricato! Però almeno in fondo al canalone trovasti dei porcini… Io mi accontenterei di trovare qualche divisa.”
Sono ormai nel bosco, è forte il sentore di sottobosco, respiro profondamente, ogni tanto mi appoggio ad uno degli abeti secolari, incurante della resina che si appiccica sulle mani.
Alzando lo sguardo intravedo la massa chiara della Rocca Bianca.
Continuo a muovermi velocemente, rivoli di sudore scendono lungo la schiena nonostante l’aria ancora frizzante di primo mattino: anche la paura ci sta mettendo del suo.
Avanzo in parallelo, più avanti dovrei trovare il canalone che arriva sino al ponte vicino al campeggio, “si papà, i canaloni sono indubbiamente la nostra ancora di salvezza.”
Eccolo, mi metto nuovamente a correre non più coperta dalle fronde del fitto bosco, ho timore di cadere e rovinare sui sassi che sporgono, mi sembra quasi che i piedi sfiorino l’erba invece di calpestarla ma non mi fermo sino a quando sono finalmente sul ciglio della strada, poco sotto intravedo il campeggio, sorto sui resti di un antico albergo dell’Ottocento.
Il ginocchio mi duole, sicuramente è gonfio, non l’ho mai sforzato in questo modo da sei anni a questa parte.
Zoppico, ma ostinatamente continuo a camminare, cerco di procedere più speditamente possibile per raggiungere il sentiero che corre vicino alla chiesa e sbuca sul tornante dove c’è l’albergo della famiglia Thoeni.
Ce l’ho fatta! Ora vado in albergo e chiamo immediatamente Neri. Chissà se ha visto il mio messaggio. Tu cosa ne pensi?”
In quel momento un’automobile inchioda, mi tornano i sudori freddi. Alzo lentamente lo sguardo…
«Daniela! Finalmente l’abbiamo trovata.»
«Maresciallo. È riuscito a leggere il mio messaggio?»
«Si, poi ho provato a chiamarla, ma non era più raggiungibile, comunque il dashboard e il messaggio che mi ha inviato sono stati sufficienti per rintracciarla.»
Giuro che non penserò più male dei carabinieri” e volgo lo sguardo verso un punto lontano, laggiù dove so essere il confine austriaco del passo Resia, con il suo lago e il suo campanile: ‘queste divise che tante volte ci vanno strette, specie da quando sono derise da un umorismo di barzellette’ la voce di Giorgio Faletti sembra provenire da lì, lontana e persa nel vento.
Nel frattempo il maresciallo mi ha fatto salire in macchina e accompagnata all’albergo dove entro sorreggendomi a lui.
Gli ospiti dell’albergo sono in attesa nella hall, quando entro l’applauso esplode spontaneo: mi sento profondamente intimidita e mi stringo ancora di più al maresciallo che nel frattempo mi conduce nell’ufficio del direttore dove restiamo soli.
«Vuole che le faccia portare qualcosa? Te, caffè, cibo…»
«No grazie, vorrei solamente raggiungere la mia stanza e fare una doccia bollente, ma prima mi racconti cosa è accaduto.»
«No, prima tocca a lei, quando ieri sera non ha fatto ritorno in albergo e il direttore mi ha informato, ho cominciato a preoccuparmi.»
«Dunque ero sorvegliata anch’io,» non ribatte.
Inizio il mio racconto dal momento in cui Dieter mi ha raggiunto al rifugio; lo metto al corrente di quanto il tedesco mi ha rivelato, per finire con la badilata e la mia fuga.
«Se avesse seguito i tornanti ci avrebbe sicuramente incrociati: avevamo già avvisato la polizia di frontiera e quando siamo arrivati al passo, lui era già sotto custodia, ancora in stato confusionale per il colpo che gli ha inferto.»
«Ho temuto di aver combinato qualcosa di grave.»
«Una leggera commozione cerebrale, se la caverà con un forte mal di testa e un po’ di nausea.»
«Ma cosa è accaduto in canonica?»
«Von Hinten non è uno sprovveduto, è arrivato con il buio, ha fatto un rapido giro intorno alla chiesa ma non ha azzardato alcuna mossa, alle ventitré si è portato verso l’albergo e ne è uscito dopo le nove del mattino successivo.»
«Per salire al rifugio. Cosa ne sarà di lui ora?»
«Ci sarà un’inchiesta.»
«E il disegno?»
«Presto arriverà un esperto della Soprintendenza, coadiuvato dal Comando per la Tutela del Patrimonio Artistico che valuterà il manufatto e l’eventuale originalità.»
«Bene, allora è tutto a posto.»
«Credo che il Sostituto Procuratore vorrà avere dei chiarimenti da lei, non sarà una cosa breve.»
«Dovrò andare a Bolzano?»
Fa cenno di si con il capo: «il Sostituto Procuratore è piuttosto… Come dire… Alterato nei suoi confronti.»
Osserva la mia espressione sconsolata e aggiunge, «non dubito che comunque lei non si lascerà intimorire.»
«Spero di non averle creato troppi guai.»
Sorride e scuote il capo, «non se ne curi, ora vada a riposare.»
Mi limito a un cenno d’assenso: sono stanca, da due giorni verso in uno stato di tensione continua, davvero anelo solo a una doccia calda, una cena veloce nella tranquillità della mia camera e dopo voglio seppellirmi sotto il morbido piumino e dormire almeno dieci ore filate.
«Grazie ancora maresciallo,» lo saluto porgendogli la mano.
«La saluto Daniela e cerchi di non forzare più gli eventi, la fortuna non è sempre dalla nostra parte.»
La sveglia del cellulare sta suonando con insistenza, mi siedo sul letto, cercando di mettere a fuoco la vista: sono le dieci… Del mattino successivo al mio arrivo!
Dunque è stato solo un sogno, o meglio ancora quasi un incubo: ma come è possibile che la mia psiche abbia partorito una simile storia? A volte la mente e il subconscio giocano brutti scherzi, mi rendo conto di aver sudato parecchio, anche il cuscino è ancora umido: decisamente ho vissuto intensamente questo sogno.
Dopo una bella doccia rigenerante, scendo per la colazione, lieta che la mia vacanza debba ancora cominciare.
Mi siedo al tavolo che mi è stato assegnato, con una tazza di cereali, uno yogurt e una spremuta, rilassata comincio a guardarmi intorno, osservo dettagli e aspiro profumi che mi riportano alla memoria altri momenti trascorsi in questi luoghi.
L’ingresso in sala di altre persone richiama la mia attenzione ed è allora che lo vedo: è incredibile, ma il tedesco del mio sogno è lì, in carne e ossa, con pantaloni e dolcevita neri.
I capelli si rizzano in testa, ma come è possibile?  
In quel momento squilla il cellulare: «buongiorno mami, com’è?»
«Ciao amore mio, che bello sentire la tua voce!»
NOTE
La storia è di pura fantasia.
Bosch non è mai stato a Trafoi né abbiamo notizie di ritrovamenti recenti di suoi disegni non noti al pubblico e agli storici dell’arte.
Trafoi invece esiste, è un piccolo paese in Val Venosta, famoso per aver dato i natali a Gustav Thoeni, campione dello sci azzurro, che spesso incrociavamo sul posto negli anni in cui con i nostri genitori io e mio fratello trascorrevamo le nostre vacanze estive presso il Centro Montano della Polizia di Stato.
Questo, non più in uso, versa in stato di abbandono, la speranza è che ci sia l’opportunità e la possibilità di vederlo in qualche modo tornare alla vita.
Il Madaccio è il massiccio che lo sovrasta.
Si tratta per me di un luogo magico, che ha sicuramente trovato posto anche nel cuore di molti che nel corso della propria giovinezza qui hanno trascorso settimane memorabili e ha lasciato ricordi indelebili, come le molte persone che insieme a noi lo hanno frequentato e che oggi purtroppo non sono più: a loro dedico questa mia ‘avventura’.
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