Di recente appassionato di scrittura.
Vigevano
Che ora è? Non ho sentito la sveglia, Sonia la punta sempre, sette giorni su sette. Da quando è in pensione pare ancor più impegnata.
Credo sia presto, davvero presto. Mi alzo, non riesco a stare coricato, i dolori si fanno sentire. Fino a qualche anno fa il primo pensiero era cibo e corsetta nel parco, libertà, aria di prima mattina, bagno di endorfine, poi il dovere.
Ora è tutto cambiato. Dacché abitiamo nella casa nuova, il verde non manca. Giardino gigantesco, curato, ombreggiato.
Sonia passa interi pomeriggi a curare le sue piante. Io mi occupo di osservarle, di catalogarne i profumi e gli odori, al massimo mi sono impegnato in un’estenuante caccia alla talpa.
Opto per una passeggiata tranquilla, mi godo l’alba. Sgranchisco le articolazioni. Dolore. Inizialmente sono goffo, poi pian piano mi sciolgo, il tepore del giorno mi aiuta, sparisce l’umido e io come fossi un buon motore comincio a girare bene. Tuttavia si tratta proprio di quattro passi, poi rientro alla base.
Si fa colazione, altra nota dolente. Da un paio d’anni la dottoressa mi ha levato i cereali, che mi piacevano. E ancora non mi sono abituato alla loro mancanza. Intestino delicato, vecchio, affaticato. Spinge per una dieta attenta, anche all’alba. Poteva andare peggio: Sonia è vegana, non so se mi spiego. Fortunatamente non ha provato a rifilarmi la sua ideologia, non è nella mia natura.
Sonia stamattina è strana, dacché si è alzata ha bofonchiato solo due parole, poi silenzio, un attimo mi pare euforica e un minuto dopo triste.
Comunque sia, si parte, saliamo in macchina, lei attiva il navigatore. Che stranezza ’sto affare che parla, non lo ascolto, non riesco a dedicargli attenzione. Sonia guida. Siamo solo noi due in macchina, che intimità, che serenità.
Da tempo l’auto la usiamo solo per piacere. L’odore è forte, pungente, anche se l’aria raffrescata, condizionata, è un piacere. Sono sempre stato delicato dal punto di vista olfattivo. Sopporto.
Eppure Sonia è strana, non parla, non risponde ai miei input. Guida, si ferma e rapida scende. Dove siamo? Non capisco, perché siamo qui? Mi ricorda qualcosa. Ansia. Mi agito, sono confuso, scendo dalla macchina e come una furia giro intorno a Sonia. Ora sono arrabbiato. Urlo perché, perché!
Sonia finge di non vedermi, cammina verso delle gabbie, dove ci aspetta un signore, alto, torvo. Io provo ancora. Salto, scodinzolo, cerco di portare Sonia verso la macchina, di tornare a casa. Il signore fissa il mio collare al suo guinzaglio. Sonia va via.
Il telefono squilla, ’sto maledetto, il vivavoce urla che è Zeno a chiamare. Non rispondo, sono a pezzi, sto piangendo a dirotto. Penso a Zed, lasciato in pensione, so che non capirà. Vorrei tornare indietro, eppure il piede non molla l’acceleratore, le mani sul volante, le curve. Gli occhi, bagnati, seguono quasi con cattiveria la strada. Mi calmo, è tutto programmato, è una mia scelta, sebbene in fondo non avessi alternativa. Continuo il viaggio. Il paesaggio inizia a trasformarsi, non c’è più traccia di neve a bassa quota. La bassa valle non m’interessa e lo sguardo continua a saltare dalla strada alle alte vette, cerco riferimenti, pareti, lontani squarci di alpinismo. Squilla di nuovo, Zeno è su di giri. «Sonia, come va, dove sei?»
«Per strada, tutto ok».
Silenzio.
«Tutto bene? Stai arrivando?»
Ovvio che sto arrivando, penso. E dico: «No, no, ho cambiato idea, sono quasi a casa».
Zeno: «O cazzo, no dai, hai lavorato sodo per questo progetto, dai Sonia!».
Dico: «Pirla, un’ora e sono al parcheggio, entro le 10 vi raggiungo al rifugio».
Zeno ride.
Arrivata, Courmayeur, salgo per la carrabile fino a Visaille, parcheggio, sono solo le 8, bene!
Zaino in spalla, leggero, il grosso del materiale l’hanno già portato su Zeno e gli altri. Parto a piedi, sono carica e in forma. Comincia la salita, non resisto, accelero, il cuore inizia a pompare, il respiro diventa veloce. Il cervello vorrebbe rallentare, la parte cosciente, arrogante, spinge. Rompo il fiato, il pensiero vola a Zed, in pensione, inconsapevole, imprigionato. Accelero, corro, è questo che faccio in montagna, corro. Non riesco a liberare l’anima e la testa. Una lunga discesa, accelero, salto, mi devo concentrare, non ho più vent’anni. Eppure volo, i piedi, felici, sfiorano appena il terreno, la neve. Ecco, ora va bene, sono nel mio paradiso. Panorami meravigliosi, che cambiano di intensità a seconda della luce, da sola corro verso un alto rifugio. Inciampo, salto su una gamba sola, rischio, ma va tutto bene. Dubito delle mie capacità e allora penso al doc, agli esami, alla diagnosi. La bestia nera è piccola, ma incredibilmente pronta a scatenarsi su diversi organi. Cazzo, una vita sempre in forma, atletica, sana. Ora il conto, più salato che mai. Se devo pagare prima voglio scalare il Monte Bianco, a modo mio. Nonostante sia vicino a casa, l’ho ignorato negli ultimi trent’anni. Devo farlo, lo sto facendo. L’unico aspetto positivo è stato il pre-pensionamento. Ho potuto spingere molto dal punto di vista sportivo. Zed, ormai vecchiotto, non riesce a starmi dietro, lo inganno, ma solo per riuscire ad allenarmi senza di lui. Due stambecchi saltano da una roccia sopra di me e si lanciano giù per il dirupo, in pratica mi hanno sorvolato, rido al pensiero, ungulati volanti. Affrontano la parte scoscesa in pochi secondi, un brivido mi corre lungo la schiena, è incredibile come si muovono, in un attimo non li vedo più. L’idea che riescano a correre, sfiorare la roccia e restare in equilibrio senza dita prensili mi dà un senso di precarietà, mi provoca ansia, come se potessero cadere da un momento all’altro. Il tratto di ferrata non mi dà alcun problema, non ho messo l’imbrago, mi muovo veloce in totale libertà. Rivedo in lontananza gli stambecchi su un’altra parete, esposta al vuoto, provo empatia. Ancora, dopo pochi secondi, temo una loro caduta, so che è raro eppure senz’accorgermi mi attacco al cavo della ferrata. Un minimo giramento di testa, percepisco il vuoto, la paura. Dura un attimo, guardo il cielo, sbircio ancora una volta gli ungulati e rifletto su quanto siano a loro agio. Riprendo confidenza con l’ambiente che amo, il posto in cui sono, e con naturalezza scalo la parete, senza altre esitazioni supero l’ultimo tratto con brio.
Ora percorro l’ultima salita con passo calmo, non voglio arrivare col fiatone.
Ecco il rifugio Monzino, lo vedo, Zeno e gli altri sono lì, riposati, carichi per l’avventura. Hanno portato cibo in abbondanza, il bivacco ci aspetta. Ovviamente al 5 di marzo ci siamo solo noi. La neve è alta. Siamo in ritardo sulla tabella di marcia, da qui normalmente in cinque ore si arriva al bivacco Lampugnani, al colle Eccles. Cominciamo a fare sul serio, la giornata è bella, fredda, poco vento. Ma le previsioni stanno cambiando, proviamo ugualmente.
Muoversi in cordata, in compagnia di altri alpinisti aumenta la sicurezza eppure rimpiango i momenti trascorsi da sola nella prima parte della giornata, quell’intimità mi fa stare bene, la ricerca di un mio equilibrio, non nascondere le mie debolezze, affrontarle da sola. Ne esco sempre arricchita. Fortunatamente durante la progressione si parla poco, riusciamo a godere dell’ambiente senza sentirci in obbligo di scambiarci opinioni inutili.
Il ghiacciaio non ci dà alcun problema, nonostante l’orario inconsueto, stranamente è ben tracciato, non deve aver nevicato negli ultimi giorni. In cinque ore arriviamo al piccolo bivacco, 3860 metri. Al riparo dal vento accendo il fornellino e metto su un tè, bere qualcosa di caldo ci fa bene. Inoltre è un piccolo festeggiamento, il primo obiettivo della nostra escursione è raggiunto.
Continua...
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