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Paolo Giuseppe Morabito
Autore di Articoli Scientifici ed editoriali su quotidiani locali.
Di recente appassionato di scrittura.

ROMANZO
 L’aria di Sonia


Vigevano

Che ora è? Non ho sentito la sveglia, Sonia   la punta sempre, sette giorni su sette. Da quando è in pensione pare   ancor più impegnata.

Credo sia presto, davvero presto. Mi alzo,   non riesco a stare coricato, i dolori si fanno sentire. Fino a   qualche anno fa il primo pensiero era cibo e corsetta nel parco,   libertà, aria di prima mattina, bagno di endorfine, poi il dovere.

Ora è tutto cambiato. Dacché abitiamo nella   casa nuova, il verde non manca. Giardino gigantesco, curato,   ombreggiato.

Sonia passa interi pomeriggi a curare le sue   piante. Io mi occupo di osservarle, di catalogarne i profumi e gli   odori, al massimo mi sono impegnato in un’estenuante caccia alla   talpa.

Opto per una passeggiata tranquilla, mi godo   l’alba. Sgranchisco le articolazioni. Dolore. Inizialmente sono   goffo, poi pian piano mi sciolgo, il tepore del giorno mi aiuta,   sparisce l’umido e io come fossi un buon motore comincio a girare   bene. Tuttavia si tratta proprio di quattro passi, poi rientro alla   base.

Si fa colazione, altra nota dolente. Da un   paio d’anni la dottoressa mi ha levato i cereali, che mi piacevano.   E ancora non mi sono abituato alla loro mancanza. Intestino   delicato, vecchio, affaticato. Spinge per una dieta attenta, anche   all’alba. Poteva andare peggio: Sonia è vegana, non so se mi spiego.   Fortunatamente non ha provato a rifilarmi la sua ideologia, non è   nella mia natura.

Sonia stamattina è strana, dacché si è   alzata ha bofonchiato solo due parole, poi silenzio, un attimo mi   pare euforica e un minuto dopo triste.

Comunque sia, si parte, saliamo in macchina,   lei attiva il navigatore. Che stranezza ’sto affare che parla, non   lo ascolto, non riesco a dedicargli attenzione. Sonia guida. Siamo   solo noi due in macchina, che intimità, che serenità.

Da tempo l’auto la usiamo solo per piacere.   L’odore è forte, pungente, anche se l’aria raffrescata,   condizionata, è un piacere. Sono sempre stato delicato dal punto di   vista olfattivo. Sopporto.

Eppure Sonia è strana, non parla, non   risponde ai miei input. Guida, si ferma e rapida scende. Dove siamo?   Non capisco, perché siamo qui? Mi ricorda qualcosa. Ansia. Mi agito,   sono confuso, scendo dalla macchina e come una furia giro intorno a   Sonia. Ora sono arrabbiato. Urlo perché, perché!

Sonia finge di non vedermi, cammina verso   delle gabbie, dove ci aspetta un signore, alto, torvo. Io provo   ancora. Salto, scodinzolo, cerco di portare Sonia verso la macchina,   di tornare a casa. Il signore fissa il mio collare al suo   guinzaglio. Sonia va via.

Il telefono squilla, ’sto maledetto, il   vivavoce urla che è Zeno a chiamare. Non rispondo, sono a pezzi, sto   piangendo a dirotto. Penso a Zed, lasciato in pensione, so che non   capirà. Vorrei tornare indietro, eppure il piede non molla   l’acceleratore, le mani sul volante, le curve. Gli occhi, bagnati,   seguono quasi con cattiveria la strada. Mi calmo, è tutto   programmato, è una mia scelta, sebbene in fondo non avessi   alternativa. Continuo il viaggio. Il paesaggio inizia a   trasformarsi, non c’è più traccia di neve a bassa quota. La bassa   valle non m’interessa e lo sguardo continua a saltare dalla strada   alle alte vette, cerco riferimenti, pareti, lontani squarci di   alpinismo. Squilla di nuovo, Zeno è su di giri. «Sonia, come va,   dove sei?»

«Per strada, tutto ok».

Silenzio.

«Tutto bene? Stai arrivando?»

Ovvio che sto arrivando, penso. E dico: «No,   no, ho cambiato idea, sono quasi a casa».

Zeno: «O cazzo, no dai, hai lavorato sodo   per questo progetto, dai Sonia!».

Dico: «Pirla, un’ora e sono al parcheggio,   entro le 10 vi raggiungo al rifugio».

Zeno ride.

Arrivata, Courmayeur, salgo per la carrabile   fino a Visaille, parcheggio, sono solo le 8, bene!

Zaino in spalla, leggero, il grosso del   materiale l’hanno già portato su Zeno e gli altri. Parto a piedi,   sono carica e in forma. Comincia la salita, non resisto, accelero,   il cuore inizia a pompare, il respiro diventa veloce. Il cervello   vorrebbe rallentare, la parte cosciente, arrogante, spinge. Rompo il   fiato, il pensiero vola a Zed, in pensione, inconsapevole,   imprigionato. Accelero, corro, è questo che faccio in montagna,   corro. Non riesco a liberare l’anima e la testa. Una lunga discesa,   accelero, salto, mi devo concentrare, non ho più vent’anni. Eppure   volo, i piedi, felici, sfiorano appena il terreno, la neve. Ecco,   ora va bene, sono nel mio paradiso. Panorami meravigliosi, che   cambiano di intensità a seconda della luce, da sola corro verso un   alto rifugio. Inciampo, salto su una gamba sola, rischio, ma va   tutto bene. Dubito delle mie capacità e allora penso al doc, agli   esami, alla diagnosi. La bestia nera è piccola, ma incredibilmente   pronta a scatenarsi su diversi organi. Cazzo, una vita sempre in   forma, atletica, sana. Ora il conto, più salato che mai. Se devo   pagare prima voglio scalare il Monte Bianco, a modo mio. Nonostante   sia vicino a casa, l’ho ignorato negli ultimi trent’anni. Devo   farlo, lo sto facendo. L’unico aspetto positivo è stato il   pre-pensionamento. Ho potuto spingere molto dal punto di vista   sportivo. Zed, ormai vecchiotto, non riesce a starmi dietro, lo   inganno, ma solo per riuscire ad allenarmi senza di lui. Due   stambecchi saltano da una roccia sopra di me e si lanciano giù per   il dirupo, in pratica mi hanno sorvolato, rido al pensiero, ungulati   volanti. Affrontano la parte scoscesa in pochi secondi, un brivido   mi corre lungo la schiena, è incredibile come si muovono, in un   attimo non li vedo più. L’idea che riescano a correre, sfiorare la   roccia e restare in equilibrio senza dita prensili mi dà un senso di   precarietà, mi provoca ansia, come se potessero cadere da un momento   all’altro. Il tratto di ferrata non mi dà alcun problema, non ho   messo l’imbrago, mi muovo veloce in totale libertà. Rivedo in   lontananza gli stambecchi su un’altra parete, esposta al vuoto,   provo empatia. Ancora, dopo pochi secondi, temo una loro caduta, so   che è raro eppure senz’accorgermi mi attacco al cavo della ferrata.   Un minimo giramento di testa, percepisco il vuoto, la paura. Dura un   attimo, guardo il cielo, sbircio ancora una volta gli ungulati e   rifletto su quanto siano a loro agio. Riprendo confidenza con   l’ambiente che amo, il posto in cui sono, e con naturalezza scalo la   parete, senza altre esitazioni supero l’ultimo tratto con brio.

Ora percorro l’ultima salita con passo   calmo, non voglio arrivare col fiatone.

Ecco il rifugio Monzino, lo vedo, Zeno e gli   altri sono lì, riposati, carichi per l’avventura. Hanno portato cibo   in abbondanza, il bivacco ci aspetta. Ovviamente al 5 di marzo ci   siamo solo noi. La neve è alta. Siamo in ritardo sulla tabella di   marcia, da qui normalmente in cinque ore si arriva al bivacco   Lampugnani, al colle Eccles. Cominciamo a fare sul serio, la   giornata è bella, fredda, poco vento. Ma le previsioni stanno   cambiando, proviamo ugualmente.

Muoversi in cordata, in compagnia di altri   alpinisti aumenta la sicurezza eppure rimpiango i momenti trascorsi   da sola nella prima parte della giornata, quell’intimità mi fa stare   bene, la ricerca di un mio equilibrio, non nascondere le mie   debolezze, affrontarle da sola. Ne esco sempre arricchita.   Fortunatamente durante la progressione si parla poco, riusciamo a   godere dell’ambiente senza sentirci in obbligo di scambiarci   opinioni inutili.

Il ghiacciaio non ci dà alcun problema,   nonostante l’orario inconsueto, stranamente è ben tracciato, non   deve aver nevicato negli ultimi giorni. In cinque ore arriviamo al   piccolo bivacco, 3860 metri. Al riparo dal vento accendo il   fornellino e metto su un tè, bere qualcosa di caldo ci fa bene.   Inoltre è un piccolo festeggiamento, il primo obiettivo della nostra   escursione è raggiunto.

Continua...

 Nella presente antologia è stata riportata solo la parte introduttiva del romanzo.

Per l’Opera completa contattare l’Autore.

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