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Piero Sesia
Diploma Liceo Scientifico e Laurea in Lettere. Ex gestore imprese, ora pensionato.
Collaboratore agenzia letteraria (recensioni, schede libro, organizzazione eventi culturali, ecc.)
Partecipa ad alcuni gruppi di lettura.

RACCONTO
La tua maestra è una scema


19 agosto 1970

Mercoledì

Spiaggia di Alassio

ore 16.50


“Mamma! Mamma!” strilla Elena rivolta alla madre pigramente allungata sulla propria sedia a sdraio al riparo dal sole sotto l’ombrellone.

“Dai, amore, lasciami leggere…” risponde Marianna sfogliando una rivista di moda.

“Devo chiederti una cosa mamma. E’ importante” insiste la bambina con la penna in bocca e lo sguardo assorto sulle pagine di un libro.

“Uffa, Elena. Che noiosa che sei. Forza.   Dimmi….”.

“Mamma, che differenza c’è tra fiaba e favola?”.

“Nessuna, amore. Nessuna. Sono la stessa   cosa” risponde Marianna tirando un sospiro di sollievo e rituffando, con malcelata noia, lo sguardo nella rivista che tiene aperta in   grembo.

“La mia maestra dice che sono cose diverse.   E, per l’estate, ci ha dato il compito di individuare gli elementi che le differenziano”.

“La tua maestra non capisce niente. Non vedi come si veste?”.


20 agosto 1970

giovedì

Alassio

ore 9,30


Una dolce brezza profumata smuove, con vellutati e irregolari respiri, le bianche tende poste a modesto ed inutile presidio di finestre spalancate e si insinua come piacevole confine tra la notte ormai terminata da un pezzo e la brutale afa di  un rovente giorno agostano non ancora del tutto affermato.

Elena scende le scale della grande villa di   Alassio. Gli occhi sono ancora semichiusi, a difesa dalle sciabolate   di sole ed a simbolo di un sonno che non se ne vuole andare. La   ragazzina veste il suo primo bikini. Quello dei suoi pochi 11 anni.   Anzi, mancano quattro mesi e mezzo a 12 anni. Ovviamente è un bikini   color amaranto.

“Mamma” miagola più che parlare la   ragazzina, sperando in una qualsivoglia forma di risposta che possa   preludere ad una colazione della quale comincia a sentire la   necessità e la conseguente mancanza.

“Maaaaammaaaaaaaaaa”.

“Mamma, dove sei? Ho fame!” insiste Elena,   entrando nella ampia sala che sfocia in un terrazzo che a sua volta   governa un giardino verde, ombroso e, a quell’ora, ancora   passabilmente fresco.

Sala, terrazzo, giardino, cucina. Dovunque   sono sparpagliati, quasi a caso, tavoli, sedie, tavolini, poltrone,   divani, dondoli.

Tutto lo spazio esistente è letteralmente   ingombro di piatti, avanzi di cibo, portacenere colmi oltre misura,   bottiglie, tovaglioli, sigarette, posate di svariate misure ed   utilizzo diverso, briciole.

Ma, su tutto, troneggiano i bicchieri.   Decine, forse centinaia di bicchieri. Un vero e proprio esercito di   bicchieri. Di qualsiasi forma e colore e grandezza. Vuoti e   semivuoti. O semipieni. Con liquidi scuri e biondi e trasparenti.   Forse un tempo effervescenti. Magari in origine freddi. Qualche   bicchiere è addirittura rovesciato e macchie ormai asciutte   imporporano fini tovaglie che ricordano ancora di essere state   pulitissime e perfettamente stirate non più tardi di dodici ore   prima.

Qua e là minuscoli ed impalpabili granelli   abbandonati di sabbia bianchissima si raggrumano o paiono   disperdersi sotto la gentile sferza di una sottile brezza mattutina.

“Già, la festa….” pensa tra sé e sé Elena   “quella per cui la mamma ed il papà mi hanno mandata a dormire nella   mansarda. Con quel caldo orribile”.

Ed il pensiero va a quegli istanti della   sera precedente, nei quali il confronto tra il robusto sonno quasi   adolescenziale ed i primi clamori dell’inizianda festa sembrava   ancora una lotta dall’esito incerto.

Con questi pensieri per la testa Elena   realizza, sia pur gradualmente, di essere sola. In casa non c’è   nessun altro.

Solo un timido fruscio di foglie,   convintamente aggrappate agli alberi del giardino pettinate da un   vento ancora bambino, rompe un silenzio irreale quanto   concretissimo, mentre sullo sfondo il mare e le automobili coniugano   i rispettivi rumori confondendoli.

Elena è una bambina (ragazza?) autonoma,   sveglia, attiva. Non si preoccupa certo di restare sola, anche se   normalmente ciò non accade. Piuttosto è l’idea della colazione che,   in questo momento, sta occupando ed impegnando tutto il suo essere.

“Mi hanno lasciata sola? Che strano….. Dove   possono essere mai andati tutti e due”, così pensa ispezionando per   scrupolo il resto della casa.

Camere da letto, bagno, ancora salone,   lavanderia. Persino cantina e garage. Poi nuovamente giardino.

“E io allora vado da sola nella pasticceria   a fianco e mi compro tutti i dolci che mi piacciono!!!!!!” sbotta un   poco nervosamente Elena.

Salta e corre e quasi vola con la leggerezza   dei suoi pochi anni, arraffa una banconota dal vaso nel quale ha   visto mamma e papà depositare i soldi, si infila un paio di jeans ed   una maglietta e si scaraventa sul marciapiede, diretta alla vicina   pasticceria.

Entra quasi sbuffando nel negozio e, dopo   una rapida occhiata ad una commessa che non ha mai visto e che non   conosce, inizia a scegliere ordinando, quasi con una litania, dolce   dopo dolce.

Poi via, ancora di corsa, verso casa con   l’acquolina in bocca. Senza far caso ad una scritta nera su un   cartello giallo……..

Elena entra in casa che, solamente adesso se   ne accorge, è completamente aperta.

Sdraiata su un divano, annusa il profumo dei   dolci appena acquistati e, del tutto automaticamente, prende a   mangiare e, quasi suo malgrado, a riflettere.

La frenetica masticazione di bambina   affamata e golosa istintivamente rallenta, prendendo forma e ritmo   di gesto meccanico.

Sino a che, a metà di un morso alla agognata   girella al cioccolato, Elena scatta come una molla e, facendo cadere   a terra il vassoietto con tutti i dolci, esce nuovamente di corsa   dalla casa, aggredendo con un cipiglio da centometrista alla finale   olimpica i pochi metri che separano l’ingresso della villa dal   bar/tabaccheria/edicola situato vicino a casa.

Il cuore che batte forte è la colonna sonora   dei suoi passi.

IL SECOLO XIX - Scandalo ad Alassio. L’Ing.   Cotenna e la moglie arrestati con numerosi amici durante un party a   base di alcool e droga.

E’ un foglio lievemente svolazzante appeso   di fianco all’edicola che urla silenziosamente queste parole.

Elena si affretta verso casa senza tuttavia   correre, entra, chiude la porta con circospezione e istintivamente   prende a serrare tutte le finestre e le porte della villa.

Con grinta e determinazione che si   trasformano presto, nel suo stomaco riempito solamente a metà, in   adrenalina pura.

L’inquietudine che la assale si mescola con   un filo di paura e con una palpabile preoccupazione. Il risultato è   l’affollarsi nella sua mente delle prime avanguardie di una serie di   quesiti, cui seguiranno una marea di domande e problemi e scelte da   compiere.

Il tutto con la sgradevole sensazione di non   riuscire a comprendere interamente la situazione e, soprattutto, con   la terribile consapevolezza di essere sola.


20 agosto 1970

giovedì

Milano, stazione Centrale

ore 18.00


La borsa è pesante. Elena suda nel portarla.   Probabilmente ha esagerato nello stiparla di oggetti chissà quanto   indispensabili o invece superflui o forse addirittura del tutto   inutili.

Sono le sei di sera ma i denti affilati   della canicola mordono ancora carne ed offuscano il cervello.

La stazione Centrale di Milano è   affollatissima, mostrando un coacervo di umanità varia e variegata.   Dai pendolari che pur in agosto ancora lavorano ai vacanzieri   ritardatari in partenza all’umanità varia che vede nella stazione un   ricovero per il corpo ed un punto nel quale incontrare e mescolare   solitudini dell’anima.

Nessuno fa caso a quella ragazzina undicenne   che di anni ne dimostra qualcuno di più. Nemmeno la ragazzina bada   alla folla animata e vociante e, senza incertezza alcuna, estrae un   quaderno dalla borsa, cerca in tasca una moneta e si infila nella   prima cabina telefonica libera che incontra.

Al quarto squillo, quando già l’ansia stava   aggredendo Elena, una voce affannosa rotola nelle orecchie della   ragazzina “Pronto, chi è?”

“Pronto… Buongiorno….. Cioé io….   Sarei……..No, cioè… Sono…E-.. Elena” risponde sussurrando   improvvisamente intimidita la ragazza.

“Chiii?” strilla spazientita la voce nella   cornetta.

“Elena, Elena Cotenna, della 5^ B” è la   risposta più ferma e chiara ma per nulla sicura.

Elena, a questo punto, si domanda se quella   di telefonare alla propria maestra sia stata una buona idea. Eppure   era stata proprio lei, la maestra Claudia, che, salutando tutta la   classe alla fine dell’anno, aveva detto “Bambine, su questo   biglietto c’è il mio numero di telefono, se avete bisogno di me   potete chiamarmi”.

“Forse” prosegue nel suo pensiero Elena “ho   dato troppo poco peso a quelle altre parole di Claudia…. Per i   compiti……… Se avete bisogno di me…… per i compiti…”.

Nonostante questi pensieri che spazzano la   sua mente con la forza di venti del nord, Elena resta   concentratissima e, con gli occhi fissi che bucano il vetro del   finestrino, prosegue a contare mentalmente le fermate del tram.   Sette è il numero magico. Anzi, sei. Perché alla settima deve   scendere. E’ un esercizio difficile per la ragazza. Non ha mai preso   il tram da sola e si trova in una zona di Milano che non conosce.

La fermata “promessa” sta arrivando. Il   cuore di Elena accelera nel vedere sul marciapiede, come promesso,   una rabbuiata ed agitata Claudia ad attenderla.

Quella strana giovane donna con una gonna a   fiori che striscia per terra, una camicetta bianca ornata di pizzi e   zoccoli al posto delle scarpe. I lunghi luminosissimi capelli color   del grano maturo sono malamente sistemati con un nastro blu che   avvolge fronte e nuca della donna. Un viso nel quale grazia e   armonia la fanno da padrone, ma che oggi ha visto il sorriso del   tutto bandito.

E ancora una volta Elena si chiede quanto di   valido ci sia stato in quella bizzarra idea di cercare e poi andare   a incontrare la maestra.


20 agosto 1970

Giovedì

Milano, una via qualunque di periferia

Ore 23.30


“Scema. Sei solo una povera scema”.

Un giovane uomo, pronunciando con astio   queste parole, percorre a passi lunghi una cucina che affronta come   fosse una pista di atletica.

E’ bruno, con la pelle scura, con una nera   barba dura e incolta, i capelli lunghi. Indossa ruvidi blue jeans ed   una maglietta dagli improbabili colori mescolati come in una pittura   moderna. E zoccoli ai piedi, che, a volte, nella foga di quella   “discussione in movimento” perde con un fracasso rovinoso.

“Cosa hai detto, testa di cazzo? Michele,   non ti rivolgere a me in quel modo!!”

Chi parla adesso è Claudia. Una bella e   strana donna con un fiero ed orgoglioso modo di occupare la stanza.   Gli occhi luccicano per la rabbia o forse perché ha un po’ di febbre   o ha solo voglia di piangere. O, chissà, i bicchieri sono stati   troppi.

“Cosa sei se non una povera scema? Quanto   tempo è che stiamo organizzando le vacanze all’isola di Wight per il   festival? Sei mesi, Claudia, sono sei mesi!!!!!! Ho venduto   enciclopedie e scaricato frutta ai mercati generali per trovare i   soldi. Abbiamo combinato con gli amici e trovato il furgone!!! E   adesso? Vuoi mandare tutto a monte? Ricordati che siamo in cinque.   Non puoi rovinare un programma che coinvolge quattro persone oltre a   te!”

Michele è furioso mentre apostrofa Claudia.   Continua a camminare nella cucina divenuta ormai troppo piccola e la   sua voce risuona e rimbomba per cortili e palazzi, veicolata da   centinaia di finestre aperte a causa dell’afa cittadina.

“Intanto non gridare, Elena dorme. E poi ti   sentono sino a Monza. Non voglio mandare a monte niente. A   proposito, ma come parli? Dove hai preso l’espressione “mandare a   monte”? Semplicemente ho deciso che la ragazzina viene con noi. Non   possiamo certo lasciarla sola. Su questo non transigo, Michele. Se   volete me viene anche lei. Non torno indietro. E inoltre vorrei   farti rispettosamente notare, caro il mio povero martire, che il   “grosso” dei soldi per il viaggio all’isola di Wight viene da me.   Dallo stipendio di questa ridicola, stupida, banale piccola   borghese, che sarà “scema” ma, guarda caso, ha un lavoro fisso e   relativo stipendio. Perché se aspettavamo voi contestatori globali   alternativi al sistema   capitalistico-borghese-imperialista-consumistico andavamo in vacanza   al Parco Lambro... ”.

L’accensione di una sigaretta e lo sbattere   della scatola di fiammiferi sul tavolo paiono il suggello definitivo   alla decisione annunciata da Claudia, non disgiunta dalla rabbia per   quella che pare, oltre che il segno di grande ottusità, una palese   mancanza di riconoscenza ed una manifestazione di grande egoismo, in   palese contrasto con i valori di solidarietà cui credeva di avere   improntato la sua vita con Michele.

“Ma come fai a non capire, Claudia? E’ una   ragazzina di 11 anni! E vuoi portarla ad un concerto rock? Con un   lungo viaggio su un furgone? Ma dai… E poi perché si è rivolta   proprio a te questa deficiente?”

“Intanto ha quasi 12 anni. E poi te l’ho   detto e ripetuto mille volte. I suoi genitori sono stati arrestati.   Sono dei borghesi di merda e si strafanno di cocaina. Lei è rimasta   sola, si è impaurita ed è scappata. Non ha nessuno. Aveva il mio   numero di telefono e mi ha chiamata”.

“Ah già… La Principessa delle Maestre   Perfette ha lasciato il numero di telefono ai suoi alunni... Per   aiutarli, povere stelle… Scusa Claudia se te lo dico, ma non   ragioni. Dammi retta, portiamola alla polizia”.

Michele è ormai fuori di sé. Accende e   spegne sigarette senza soluzione di continuità. Sarcasmo e   cattiverie gli escono di bocca frantumando qualsivoglia ipotetico   freno inibitore o remora dettata dall’affetto.

“La tua ironia del cazzo mi fa cagare,   Michele. Non porto una ragazzina alla polizia che non saprà cosa   farne e magari la parcheggerà in un qualche Istituto. Ne stiamo   discutendo da oltre due ore. Non se ne parla più. E poi, scusa, tu   non eri un fiero nemico della polizia? Viene con noi e basta. Ha   cercato me. Si fida di me. Non la posso deludere. Non la posso   lasciare. E consentimi di ribadire ancora una volta che la   Principessa delle Maestre Perfette, come dici tu, finanzia quasi   tutta la spedizione all’isola di Wight. Quindi vaffanculo e stattene   zitto.”.

A questo punto la stanza è piena di fumo e   non basta certo aprire la finestra. La finestra è già spalancata E   comunque è agosto e non dicembre. Però nessuno, per fortuna, non   siamo al quarto piano e nessuno vola di sotto.

Ma questa è tutt’altra storia.

Michele, sempre più indispettito e irritato,   se ne va senza accennare un saluto e chiudendo con fragore la porta.

Claudia, osservando con disgusto le decine   di mozziconi di sigarette ed i piatti di spaghetti che il litigio ha   impedito fossero vuotati, si strappa quasi di dosso gonna e   maglietta buttandosi letteralmente sul primo dei quattro o cinque   letti che quell’appartamento, che è di tutti e di nessuno e del   quale solo lei paga l’affitto, può annoverare.

Forse spunta una lacrima, però i suoi 24   anni sono più forti. Quindi Claudia si addormenta. Proprio sotto ad   un manifesto che dal muro ammonisce che la strage è di stato e ad un   altro che ritrae un nero con i capelli ricci e fascia in testa e una   chitarra Fender Stratocaster in braccio, per vedere il quale Claudia   e gli amici si apprestano a percorrere migliaia di chilometri.


22 agosto 1970

sabato

confine di Chiasso

ore 16.00


Sole. Coda di auto ferme ad arrostire come i   peperoni nel forno della stufa a legna della nonna. Un delirio   formicolante di canottiere, bambini, bottiglie di acqua, portapacchi   stracolmi, lamiere arroventate.

“Allora, intelligentona? Cosa raccontiamo   adesso a quelli lì? Che siamo una classe formata da cinque maestri   ed una alunna in gita scolastica? Che abbiamo fatto una figlia   leggermente da giovani?” sibila un illividito Michele indicando le   guardie di frontiera intente a controllare e perquisire e frugare   ogni singola automobile.

“Cazzo, Claudia” prosegue il ragazzo sempre   più nervoso “quella ragazzina ci farà arrestare tutti. Siamo   giovani, con i capelli lunghi, viaggiamo su un furgone da barboni,   siamo diretti ad un concerto rock. Quei due deficienti di Carlo e   Gemma si sono anche portati della roba. Ben sapendo che avremmo   dovuto passare mille confini. Ma queste difficoltà non ci bastavano.   E allora tu, vero genio del male, hai pensato bene di imbarcare una   ragazzina che non ha nessun documento e che probabilmente la polizia   sta cercando. Ma vaffanculo!”.

Elena è sola. Seduta compostamente   nell’ultima delle tre file di sdruciti (e sporchi) sedili del   furgone. Ha gli stessi pantaloni di tre giorni prima, con sandali   che, sopravvissuti all’adolescenza di Claudia, la maestra stessa le   ha donato ed una bianca camicetta di lino. Una fascia colorata   legata alla testa evidenzia i suoi lunghi capelli biondi.

Se qualcuno cercasse una modella per una   foto oleografica che rappresenti una figlia dei fiori, ecco, Elena   sarebbe perfetta. E nessuno, ma proprio nessuno, penserebbe ad una   bambina che ancora deve compiere dodici anni.

Il suo viso è contratto e lo sguardo   imbronciato ed impaurito mentre ascolta i suoi cinque compagni di   viaggio dialogare concitatamente tra di loro. Oltre a Claudia, la   maestra, ci sono Michele (il suo fidanzato?), Carlo, Gemma e Beppe.   Ormai ha imparato i loro nomi. Ed anche un poco i loro caratteri.

Viceversa non ha capito bene dove stanno   andando. Claudia le ha vagamente parlato di Inghilterra, di musica,   di raduno di giovani. Per poi mettersi a ridere quando Elena,   stimolata dal termine musica, ha confessato la sua passione per   Caterina Caselli.

Una sottile inquietudine pervade il suo   animo tutto sommato ancora da fanciulla. Parole quali prigione,   polizia e arresto, gridate in un sussurro dai cinque ragazzi per lei   già grandi, le scuotono il cuore e l’hanno ormai ridotta in un bagno   di sudore.

Le stesse parole lette correndo su giornali   esposti nell’edicola di Alassio. Una sorta di maledizione.   Espressioni che, evidentemente, la perseguitano volutamente.

Impettita ed immobile Elena attende non sa   ancora cosa. Così come non sa bene che direzione conferire alle   proprie speranze.

“Sdraiati!”.

L’ordine la coglie di sorpresa, immersa nei   propri pensieri e la fa sobbalzare. Non comprende da chi viene e   perché e non sa bene come comportarsi.

“Svelta Elena, sdraiati sul sedile”. E’   Beppe che parla, mentre con una mano spinge la ragazzina in una   posizione orizzontale sul sedile del pulmino.

“Non ti muovere per nessun motivo sino a   quando non ti chiamo io”.

La ragazza immobilizza i suoi muscoli e   manda in vacanza persino respiro e pensiero e cuore.

Dopo nemmeno cinque minuti il finestrino   anteriore del veicolo incornicia un viso rotondo sormontato da folti   capelli ricci.

“Buongiorno gioventù” è la frase che arriva   a Michele, insieme ad un accennato sorriso e ad un abbozzo di   morbido saluto militare.

“Cosa abbiamo da dichiarare, ragazzi?”.

“Nulla. Assolutamente nulla” risponde un   elettrico Michele.

“Stiamo andando ad un concerto, maresciallo.   Sa, siamo in vacanza. Lei ha figli?” .

E’ una Claudia decisamente sopra le righe   quella che interloquisce, provando a condire il proprio intervento   con il più candido e luminoso e accattivante sorriso possibile.

Il nervosismo ristagna visibilmente   nell’abitacolo, mentre pochi secondi di silenzio bastano per   esaltare, in ognuno dei ragazzi, il rumore del cuore che batte   furiosamente e odori di nervosi sudori diversi che si mescolano.

All’improvviso una voce squilla nell’aria   “Maresciallo, al telefono. E’ urgente”.

L’uomo in divisa si volta e, andandosene, si   rivolge ad un giovane in divisa (ma con meno fregi…) dall’aria   assente e distratta.

“Controlla tra i bagagli che non vi sia   nulla di strano e falli passare”.

Il giovane, lento, apre svogliatamente la   porta posteriore del furgone, solleva con una smorfia di disgusto   una tenda strappata e, alla vista di un sacco a pelo non esattamente   pulito, proclama “Potete andare”.

E, con voce più bassa ma non tanto, “a farvi   fottere… che è quello che sapete fare, debosciati….”.

Preso dal desiderio di appalesare il suo   astio, il carabiniere non fa caso ad un lieve spostamento d’aria.

Era il cuore di Elena che, resosi etereo,   vorticava furiosamente all’interno dell’abitacolo e cercava un luogo   sicuro dove posarsi.


28 agosto 1970

Venerdì

Isola di Wight

Luogo situato tra le località di Ford Farm,   Wootton e Afton Down.

ore 19.00


“Milan at Wight 1970” recita pomposamente un   piccolo e macilento striscione bianco che i nostri protagonisti   hanno collocato tra le due minuscole tende che li ospitano.

La posizione è decisamente buona,   sufficientemente vicino al palco centrale, grazie essenzialmente al   fatto di essere arrivati tre giorni prima dell’inizio del festival.

La folla è immensa, ondeggiante,   strabordante.

Il pubblico sembra un corpo unico che, senza   un piano preciso ma purtuttavia molto armoniosamente, muove e fa   guizzare i suoi numerosi muscoli.

Adagiato su una somma quasi infinita di   prati questo sinuoso organismo, costituito da oltre 600.000   particelle distinte ma indistinguibili, scivola e striscia e   sussulta. Si muove anche di notte e non sta fermo mai.

Una vera e propria Babele, linguistica e   non.

Gruppi organizzati arrivati con il bus,   coppie timide mano nella mano, persino qualche famiglia dal vago   sapore alternativo.

Colori, odori, rumori, sapori.

Fumo e bollicine.

Maglioni di lana e tette al vento, camicie a   fiori e giacche militari, infradito e scarponcini.

E ancora pace e lotta armata e progresso e   rivoluzione e vacanze. Sballi. Sogni. Elena guarda tutto questo con   lo stupore ingenuo di una matura pre-adolescente.

Osserva e ascolta e non smette di osservare.

E prova a capire e ad entrare nei meandri di   questa nuovo ordine musicale mondiale, anche se il viaggio da   Caterina Caselli ai Ten Years After è piuttosto lungo e tutto   sommato anche arduo e scomodo. Imparerà con il tempo che cose   diversissime, alla fine, possono stare insieme e persino farsi   compagnia e imparare l’una dall’altra.

Elena ha anche fatto amicizia con una quasi   coetanea. Una ragazzina che “abita” in una tenda vicina, che in   realtà, con i suoi quasi tredici anni, è leggermente più adulta di   lei.

Si chiama Monique ed è belga. E’ all’isola   di Wight con una stranissima famiglia. C’è sua mamma, Sylvie. Ma i   padri presenti sono due. O meglio, gli uomini che Elena vede entrare   e uscire dalla tenda sono due. Ed entrambi baciano la mamma in un   certo modo.

Elena è abbastanza stupita di questo.   Davanti ai suoi occhi scorrono films ai quali non è abituata.   Spesso, però, torna con il pensiero al giardino della sua casa di   Alassio. Ai milioni di bicchieri presenti. Alla scomparsa dei suoi   genitori ed ai titoli “urlati” dai giornali locali. Ed allora, pur   in un quadro confuso e velato da nebbia soffusa, il suo concetto di   “normalità” vacilla e trema e si incrina. Portandola ad osservare lo   scenario nel quale è inserita con occhi diversi, sforzandosi, sempre   e comunque, prima di tutto di “capire”. Segno di immensa maturità e   intelligenza.

Elena con Monique comunica quasi del tutto   silenziosamente. Sguardi, gesti, sorrisi, ammiccamenti, occhiate,   persino qualche passo di improvvisata danza. Mentre le parole   condivise crescono ogni giorno ma restano decisamente troppo poche.

La mamma di Elena è inglese e la ragazza   conosce benissimo sia italiano che inglese, ma Monique non esce da   un fiammingo assolutamente incomprensibile e da pochi distorti e   smozzicati termini francesi.

Entrambe vivono con stupito entusiasmo   questo momento di incredibile libertà, nel quale sembra che gli   adulti presenti siano tornati bambini. Addirittura più “piccoli”   degli undici e tredici anni delle due ragazzine.

Si mangia quando si ha fame e quello che   c’è. Si dorme quando si ha sonno. Si esibiscono nudità senza   esibizionismo, né imbarazzo. Si vive il tempo senza alcuna scadenza,   né obbligo.

Proprio come nei sogni dei bambini. Anche se   qualcosa certamente stride. Ma non è certo questo il momento di   curarsi dello stridore.

La libertà. La libertà è l’elemento che   Elena percepisce come maggiormente nuovo e invasivo nella sua vita.   Una sensazione che non ha mai provato in maniera così profonda e   totale. Una condizione che da le vertigini.

I suoi giorni, sino ad ora, sono sempre   stati scanditi da livelli organizzativi decisi da altri. Studia,   mangia, vestiti, lavati, dormi. Financo il giocare ed il divertirsi   erano dettati da tempi precisi, tutt’altro che spontanei. Le singole   ore del giorno e della notte erano tutte quante capisaldi   imprescindibili per le varie attività.

Il tempo, la sua percezione, il suo fluire,   sono, in quei giorni sull’isola di Wight, concetti completamente   mutati e stravolti. Pomeriggio, mattina, sera: sono diventati   categorie sfumate e tremolanti come fiammelle giallo-rosso-blu.

Anche il sole e la pioggia, il buio e la   luce, il caldo ed il freddo sono elementi che vengono “vissuti” con   tranquilla e benevola accettazione, senza che abbiano incidenza   alcuna rispetto a ritmi ed azioni umane.

Si balla sotto la pioggia e si dorme in   piena luce.

Elena e Monique si aggirano spesso da sole   in quel crudo incrocio tra un campeggio molto ben disorganizzato,   una bidonville africana, un ghetto di una qualsiasi metropoli del   mondo. Entrambe fanno molta attenzione a non perdersi, in una realtà   che offre pochi punti di riferimento stabili.

Come il pomeriggio di mercoledì 26 agosto,   allorquando si fidarono, per orientarsi, di una gigantesca bandiera   americana, rispetto alla quale svoltarono a destra e, tornando, la   bandiera era scomparsa, volatilizzata. Ed impiegarono due ore a   ritrovare la strada per le loro tende. Seppero poi che, dopo un   aspro “dibattito”, la bandiera a stelle e strisce era stata   ammainata e sostituita con una rossoblu del Vietnam del Nord.   Simbolo di una realtà instabile e sussultante e ondivaga e incerta e   contrastante.

Questa stupenda serata nordica del 28 agosto   1970 sta proponendo un tramonto luminosissimo e cromaticamente   meraviglioso. Sfumature di mille colori si fondono in un crogiolo la   cui luce pare abbagliare questa folla immensa, delineando una “ora   che volge al disio” capace di intenerire il cuore, oltre che ai   naviganti di ogni paese, persino a Hell’s Angels ed a frenetici   contestatori globali ed ancora a incazzati organizzatori,   professionalmente non certo brillantissimi.

Elena e Monique stanno sedute fianco a   fianco, insolitamente timide e immobili e tranquille, entrambe con   in mano un panino.

Al di la di un generico “appello” serale   (peraltro attuato sempre in ore diverse) nessuno si occupa di loro,   di dove sono e cosa fanno. Se hanno fame o sonno o cos’altro. Un   misto di fiducia e di enorme incoscienza finisce per lasciare libere   ed abbandonate le due ragazze. Come altre migliaia di coetanee   presenti a Wight.

E, di converso, esse stanno imparando a   farsi scorrere la vita addosso, prive della frenesia tipica del   “dove andiamo?” e “cosa facciamo?”, godendosi questa nuova esistenza   e sperimentando la placida gioia del “far niente”.

Il sole dardeggia e lampeggia e rosseggia   nella sua perdente contesa con il buio che avanza, mentre le figure   di persone e tende e palchi si riducono progressivamente ad ombre   sempre più nere.

Parallelamente crescono migliaia e migliaia   di fuochi e fiamme e fiammelle e lumi e lumini, conferendo al luogo   le caratteristiche tipiche di un accampamento di indiani d’America.   La vita prosegue ininterrottamente, ma è come se tutti, con   l’avanzare della sera, avessero istintivamente diminuito i decibel   delle proprie voci. Tanto che, nelle pause tra una performance   musicale e l’altra, un sobrio e quieto e quasi dolce brusio ha preso   il posto di urla e grida, spesso scomposte.

Elena e Monique osservano in silenzio tutto   questo “vivere” masticando con indifferente lentezza, attente a   riempirsi la testa di immagini e persone e scene, prima ancora che   lo stomaco di cibo, peraltro non esattamente appetitoso.


30 agosto 1970

Domenica

Isola di Wight

Luogo situato tra le località di Ford Farm,   Wootton e Afton Down.

ore 03.00


“Hey signora…”.

Sono le tre del mattino, Elena vaga con   malcelata e pigra indolenza per l’immenso agglomerato di uomini e   donne che passerà alla storia semplicemente come “L’isola di Wight”.

Monique è rimasta sdraiata dolorante nella   sua tenda. Pur avendo solamente meno di due anni in più di Elena,   deve già, periodicamente, affrontare problemi e guai e malesseri da   donna grande. E conseguentemente dolori e forzata inattività e umore   pessimo e, forse, tristezze esistenziali.

Elena sa che anche per lei quel momento non   è lontano. Anche la mamma si è premurata di spiegarglielo, non senza   un certo affanno. Ma, per ora, è una ipotesi che la ragazzina ha   confinato in una parte remota del cervello.

E quindi si ritrova sola a vagare nella   notte.

“Hey signora…” ripete Elena alzando la voce,   passando ad usare il suo inglese pressoché perfetto e aumentando,   con scarsa voglia, il ritmo dei suoi passi.

La giovane donna, fasciata dentro un paio di   blue jeans per i quali il termine “stretti” è un eufemismo, prosegue   con vigore il suo cammino senza dar segno di aver inteso il richiamo   di Elena.

La donna che Elena ha chiamato “Signora” ha   i capelli lunghi e biondi che volano percossi dall’aria, indossa una   camicetta bianca di lino e, ai piedi, sandali neri con i primi   segnali di progressivo scollamento. E produce un incedere altero,   robusto, nervoso.

“Guarda un po’” pensa tra sé e sé Elena “è   vestita come la maestra Claudia. Come quasi tutte le ragazze e le   donne qui. In quel modo che la mamma detesta”.

“Signora, si fermi!” adesso la ragazzina sta   letteralmente urlando, mentre rincorre la donna facendo attenzione a   schivare corpi sdraiati per terra e tende e banchetti più o meno   improvvisati. Sino ad arrivare a strattonare la ragazza bionda.

“Non mi seccare bambinetta. Non ho tempo.   Lasciami perdere!” è la sgarbata e quasi violenta risposta che Elena   si sente porgere.

Le parole sono pronunciate in inglese, pur   se trapela un evidente e marcato accento francese.

“Signora, ha perso questo” replica   affannosamente ma con una certa fermezza Elena, mentre, bloccando la   sua corsa, porge alla donna una borsa con le frange simile a quelle   che si vedono portare dagli indiani d’America nei films western.

Una smorfia di rabbia e quasi di rimprovero   si dipinge sul volto di Elena. “Guarda che ti sto facendo una   cortesia” sembrano dire i suoi occhi risentiti.

La giovane afferra rudemente la borsa e,   stringendola con forza, balbetta confusamente “Scu…. Scusa. Grazie.   Non volevo trattarti male…..”.

E qui non prosegue con le parole. Lascia   invece spazio ad un rumoroso singhiozzo ed alle prime due lacrime   che si fanno strada su un viso smarrito e stranito e smagrito. Un   ulteriore “grazie” di prammatica parte dalla gola ma, inciampando   fra i denti, produce solamente un rugginoso suono disarticolato e   incomprensibile.

Elena guarda stupita il bellissimo viso   della donna e le pare di annegare lei stessa in quella alluvione di   lacrime.

“Piangi? Perché? Sei triste? Ti è successo   qualcosa? Stai allegra! La borsa l’abbiamo ritrovata!”

Elena alterna domande e tentativi   consolatori con la stessa rapida successione di una scarica di   mitragliatrice. Passando, quasi istintivamente, da un tono ruvido   seguito alla sgarberia della donna ad un tono decisamente più   affettuoso.

Certo, se la mamma la scoprisse a parlare   con adulti sconosciuti la sgriderebbe assai, ma queste sono davvero   notti magiche.

La donna fissa negli occhi Elena, mentre   altre due lacrime sono all’inseguimento delle prime. Gli occhi sono   spalancati e incerti e in precario equilibrio, come aggrappati   furiosamente a qualunque “fetta di vita” che possa fungere da   sostegno.

Un sussulto di responsabilità e   ringraziamento verso quella bambina/non più bambina le impone un   tremendo sforzo di autocontrollo, ovviamente condito da un annaspare   alla ricerca di bugie difficili da trovare.

“Niente, ragazzina. Nulla. Non ti   preoccupare. Solo stupidaggini. Sei stata gentilissima. Vieni, ti   offro una coca cola.” risponde indicando un vicino bar piuttosto   improvvisato. Una sorta di spaccio di liquidi.

“A proposito” aggiunge con un sorriso amaro   condito comunque da grandi venature di tenerezza “Non offro da bere   a sconosciuti. Come ti chiami?”.

Elena è sicuramente quella che viene   definita normalmente una ragazza “sveglia”. Non è certo afflitta da   timidezze particolari o deficit caratteriali o difficoltà nei   rapporti umani. Se così fosse non sarebbe alle tre di notte da sola   all’isola di Wight, a migliaia di chilometri da casa, a parlare con   una sconosciuta.

Nonostante ciò alla domanda sul nome ha un   sussulto e la sua prima risposta contiene una buona dose di stupore   e stupidità e ingenuità “Chi? Io?”.

Però, appunto, la ragazza è intelligente e   pronta, capace di riprendersi subito.

“Elena, mi chiamo Elena” aggiunge pertanto   frettolosamente.

“Elena? Che nome è? Sembra un nome italiano.   O spagnolo…..”

“Sì, è un nome italiano. Perché io sono   italiana. E’ il nome di mia nonna. La mamma del mio papà”

“Ma come italiana? Parli inglese benissimo.   Meglio di me!!!”

“Beh, sono bilingue. In casa ho sempre   parlato inglese ed italiano. Mia mamma è inglese….”. e sul pensiero   della mamma, della sua certa preoccupazione per la figlia e di cosa   starà facendo, un’ombra scivola come una nuvola bianca nel cielo   d’Irlanda e attraversa il viso di Elena.

“Uauuuu, una piccola italiana. Non sono mai   stata in Italia. Mi piacerebbe tantissimo andarci. Di dove sei?   Roma? Firenze?”.

“No. Milano… ”


30 agosto 1970

Domenica

Isola di Wight

Luogo situato tra le località di Ford Farm,   Wootton e Afton Down.

ore 04.00


Questa donna è molto simpatica ad Elena. La   tensione del rapporto con una persona sconosciuta è svanita molto   velocemente. Ciò consente alla ragazzina di guardare in faccia la   giovane donna e chiedere

“E tu come ti chiami? Da dove vieni?”.

La donna sorride, posa lievemente la mano   sul braccio di Elena e, dopo un sorso di birra che un energumeno   vestito stile Sturmtruppen le ha appena servito con studiata   malagrazia, risponde

“Mi chiamo Jo… Bah... Dai, chiamami Joan”.

“Ok, ma non è il tuo vero nome? Non vuoi   dirmi come ti chiami davvero?”

“Sì, sì. E’ il mio vero nome. Anzi, il nome   completo sarebbe Roberta Joan. Sono nata in Canada. Per questo ho un   inglese non perfetto. Anche se adesso vivo negli Stati Uniti, vicino   a Los Angeles. Sai Elena, sei simpatica ed intelligente e sveglia.   Sei molto più matura dei tuoi… Ecco, appunto, quanti anni hai,   Elena?”

“Quasi dodici” risponde Elena, con la tipica   vergogna pre-adolescenziale di chi, ancora, vorrebbe vedere il tempo   volare e non invece viaggiare con una lentezza che spesso esaspera.

Nessuno è più stronzo del tempo. Quando si   vorrebbe che volasse, ebbene lui passeggia. E quando, invece,   dovrebbe fermarsi e consolarci, prende a correre ridendo beffardo.

“Quasi dodici?” replica una incredula Joan,   aggiungendo con un sorriso “insomma, undici… ”.

“Beh, no... Quasi dodici… mancano solo   tre... cioè quattro… quattro mesi e mezzo a dodici anni… ”

“Buon Dio, Elena, riesci proprio a farmi   ridere. E pensare che non sono certo ben disposta al divertimento!   Hai meno di dodici anni. E sei qui. Da sola. A parlare con questa   deficiente alle quattro del mattino. Beh, certo, il mondo sta   davvero cambiando.”.

“Però prima piangevi, Joan. Perché? Cosa ti   è successo?”

“Davvero vuoi saperlo Elena? Ti interessa?   E’ così raro… ”.

“Se non ti va di raccontarlo, non importa… ”

“Ma no, anzi, mi fa piacere. Magari mi fa   anche del bene… Allora, vedi Elena, io sono una cantante. Sono qui   per cantare e non come pubblico. O meglio, sono anche parte del   pubblico.”

“Davvero? Fico!! E quale è il tuo nome   completo?”

“Ho un nome d’arte, insomma finto. Ma non ti   direbbe niente, sei troppo piccola. E poi mi piacerebbe che tu   continuassi a chiamarmi Joan. Joan e basta. Ti va?”

“Ok. Joan e basta. Va bene. Però continua a   raccontarmi”.

“Dunque ti dicevo che sono una cantante.   Oggi, anzi ieri visto che è già di gran lunga passata la mezzanotte,   ho cantato sul palco principale. Nel pomeriggio. Ero molto   emozionata. Non so perché. Anzi, sì. Intuisco il perché. Tanta   gente, organizzazione approssimativa, strumenti non perfetti. Ma   soprattutto la gente. Tanta, troppa e non sempre ben disposta. A   volte addirittura cattiva”.

A questo punto Joan fa una pausa, così lunga   e intensa da apparire quasi studiata. Un nebbiosa patina impalpabile   le oscura il volto, mentre gli occhi paiono rincorrere e cercare   altro oltre alla ragazzina che le sta di fronte ed il tavolo cui   sono sedute e l’improvvisato barista cha la osserva tra l’annoiato e   l’interessato. Come se un film avesse la sua mente come sala di   proiezione.

Scuotendo leggermente i capelli, Joan prende   un lungo sorso dalla sua seconda birra e, accantonando pensieri e   ombre, prosegue il suo racconto.

“Sono salita sul palco che tremavo. Anche i   musicisti erano tesi almeno quanto me. Uno di loro mi ha passato una   pastiglia. Non era la prima. In questi giorni sono andata avanti a   pastiglie. Tutti abbiamo vissuto grazie a pastiglie. Ma non è   servito a nulla, la tensione era ormai diventata paura vera e   propria. E, piano piano, la paura si stava trasformando in terrore.   Panico allo stato purissimo. Avrei voluto scappare, saltare giù da   quel palco di merda, correre ed essere lontana da tutto questo. Da   sola. A casa mia. O in riva al mare della California. O in qualsiasi   altro posto nel vasto globo. Ma non potevo. Erano tutti lì. I   musicisti del gruppo, i miei managers, gli organizzatori, i tecnici.   E soprattutto lui: il pubblico. Questo mostro dalle millanta teste   che non riesco mai a capire se voglia baciarti o sbranarti o, se gli   serve, leccarti il culo”.

Elena segue appassionatamente il racconto.   Quasi trattiene il fiato e tiene bloccati i muscoli per non turbare   il flusso narrativo della giovane donna.

Non comprende tutto quello che le viene   detto, però riesce appieno ad afferrare la drammaticità della   situazione e, soprattutto, intuisce quasi alla perfezione lo stato   d’animo nel quale si è trovata Joan.

E poi Elena è curiosa. Curiosissima. Con una   grandissima voglia di capire e sapere e conoscere.

Joan intuisce tutto questo.

E prosegue “Nonostante questa situazione di   partenza il primo pezzo non è andato male. A me sembra di avere   cantato abbastanza bene. Poi un cretino, che sosteneva di avermi   conosciuto a meditare nelle grotte di Creta, è salito sul palco,   prendendo a rivendicare i diritti di non so quale gruppo o gruppetto   di spettatori. Era assolutamente fuori di testa. Il mio manager lo   ha accompagnato giù dal palco. A questo punto la fascia di pubblico   sotto il palco, quella più “dura” e “incazzata” ha iniziato a   fischiare. Io ho provato a chiedere rispetto per noi artisti ma non   c’è stato verso. Tremavo. Non ricordavo le note, le parole. Un   disastro. Mi sono interrotta più volte. Poi ho raccolto tutte le   forze che mi erano rimaste, ho cercato di fare al meglio l’ultimo   pezzo, più che altro per provare a tranquillizzarli. Poi me ne sono   andata. Via. A piangere. E vomitare.”.

Joan ha effettuato l’ultima parte del   racconto senza un attimo di sosta, nemmeno per prendere fiato, un   solo blocco di parole. O meglio una lunga, lunghissima striscia di   vocaboli usciti dalla sua bocca in fila più o meno ordinata.

Proprio per questo, alla fine, il silenzio   che segue alle sue parole pare più fragoroso, mentre una lucida e   lucente e luminosa luna quasi piena manda bagliori nonostante la sua   ostentata immobilità.

La notte avvolge l’intero festival di Wight   ed anche le donne e gli uomini ancora svegli (molti…) sussurrano e   si muovono lenti, quasi a voler essere rispettosi non solamente   degli altri, ma anche di se stessi e della natura che li sta   accogliendo e della magia del nuovo mondo che pretenderebbero di   imbastire.

La brezza notturna limita e riduce i livelli   di nudità fisica dei giovani presenti, decisamente alti in tutte le   ore diurne.

I gestori del banchetto di bevande dove sono   Elena e Joan, pur appariscenti nei loro muscoli tatuati e   abbigliamenti militarizzati, evitano atteggiamenti troppo estremi e   aggressivi che nel pomeriggio e la sera, invece, non lesinano   assolutamente.

Le stelle sembra proprio che si limitino a   guardare, commosse anch’esse da una scena diventata improvvisamente   “lieve”.

“Ma davvero sei stata nelle grotte a Creta?   E cosa ci facevi? ” esclama una incredula Elena rompendo il   silenzio, scegliendo evidentemente il tema per lei più sorprendente.

“Ma che cazzo c’entr… ” esordisce Joan, per   poi rompere labbra e parole in un sorriso divertito e proseguire   “meditazione, Elena... una somma di esercizi strani… respirazione,   energie positive, concentrazione… insomma, stronzate”.

“Joan, non capisco. Perché vengono a   vederti? A sentirti cantare. Arrivano da tutto il mondo. E poi ti   insultano. Ti mettono in difficoltà. Vogliono rovinarti il concerto.   Perché Joan?”.

“Domande cui è difficile rispondere Elena.   Forse questo mondo, questa invenzione di pace, amore e musica non è   così straordinaria come abbiamo preteso che fosse. Forse le   contraddizioni e le cattiverie e le violenze del mondo sono arrivate   sin qui”. Le due donne, anche se una ancora solamente “in fieri”, si   scrutano, si annusano, si studiano.

Però è ormai più che chiaro che,   sostanzialmente, Elena e Joan si piacciono, forti del loro essere   l’una troppo matura per la sua età e l’altra, viceversa, poco   cresciuta per i suoi 27 anni.

La confidenza reciproca corre sotto pelle,   come una scarica elettrica a basso voltaggio che cresce   progressivamente di intensità con il trascorrere dei minuti.

Spesso, alle reciproche frasi, sorridono. A   volte, addirittura, ridono.

“Ma tu non ce l’hai un marito, Joan? O un   fidanzato?” chiede non senza una certa dose di spontanea   impertinenza Elena, condendo le sue parole con un sorriso dolce e   gentile che rende la domanda plausibile e logica.

Joan ride e sbatte le mani sul tavolo e ride   ancora.

Non sa darsi pace di quelle ore notturne   trascorse con questa ragazzina italiana.

“E tu, stronzetta ficcanaso, ce l’hai tu il   fidanzato?” replica con finta (quanto?) cattiveria Joan, aprendo   quella che, a questo punto, è la terza birra.

“Io? No… ” è la gelida e severa e serena   risposta di una Elena che stenta a trattenere le risate.

Joan scuote la testa. Divertita. I binari di   lacrime di pochi minuti prima sono ormai soltanto un ricordo.

“Un marito, Elena, che domanda difficile!!!   Intanto io sono contro il matrimonio. E’ una convenzione borghese.   Credo che il concetto stesso di coppia debba essere superato. Poi   non lo so. Boh… ”.

“Contro il matrimonio? Concetto di coppia da   superare? Ma cosa stai dicendo, Joan? Una donna deve avere un   marito. Prima o poi… ” ribatte una Elena piuttosto sconcertata e   stranita.

“Scusa Elena, sono stata troppo diretta e   complicata e presuntuosa. Mi capita spesso. E non lo ammetto quasi   mai. Per fortuna, Elena, che tu riesci a rilassarmi. E’ incredibile.   Una semplice ragazzina che mi fa sentire così bene... Dopo una   giornata così di merda!”.

Pronunciando con frenesia alterata queste   poche e semplici frasi Joan fatica a sopprimere il desiderio di   abbracciare Elena, la quale da parte sua, pur non capendo tutto   quanto le viene detto, si sente avvampare e prova allegria e qualche   farfalla arriva su, sin dentro lo stomaco.

“Un marito, dicevamo” riprende la donna “no,   un marito vero e proprio non ce l’ho. Nel senso che… Cazzo, quanto è   complicato... Sono stata sposata. Ma è durato poco. Abbiamo   divorziato… ”

“In Italia il divorzio è proibito. Il mio   papà dice che siamo un paese molto arretrato su questo.”   interloquisce Elena “Ma comunque, adesso, hai un fidanzato? Sei così   bella… ”.

“Già, bella… Sono bella. Lo dicono tutti”   risponde tristemente assorta Joan.

Poi, riprendendosi di scatto, prosegue “Si.   Diciamo di sì. Abito con un compagno. Una specie di fidanzato.   Insomma, un uomo”.

“Abiti con un uomo senza essere sposata. In   Italia non si può. E non si fa. Come si chiama? E’ qui con te?”

“Nemmeno in America è considerato molto bene   il fatto di non sposarsi. Però noi la pensiamo così. Si chiama   Graham. No, non è qui con me. Non so nemmeno dove sia. Sarà da   qualche parte a suonare. Fa il musicista anche lui. E’ famoso, sai.   Suona in un gruppo con altri tre.”

Joan mentre parla è assorta,   all’inseguimento di pensieri inafferrabili.

“Lo ami tanto?” domanda Elena con la tipica   ingenuità (finta?) dei suoi undici anni/quasi dodici/mancano solo   quattro mesi e mezzo.

“Non si può certo dire che tu non sia   diretta, ragazzina mia!” risponde sfoderando l’ennesima risata Joan.

E aggiunge “Lo so, Elena, ti devo una   risposta netta. E’ un mio dovere preciso. Non voglio svicolare.   Anche se per me è difficilissimo. La risposta è sì. Lo amo”.

“Tanto?” sibila Elena piantando il suo paio   d’occhi nel viso di Joan e sfoderando il massimo della sua “faccia   da culo”.

“Sei davvero una stronza! Fai rimpiangere   l’educazione repressiva fatta di schiaffoni e sculacciate!! Ma sei   fantastica…” sbotta Joan, mentre tutto in lei, il viso e gli occhi e   la bocca e persino i suoi biondi e lunghi capelli, non smette di   sorridere divertito per l’impertinente insistenza della ragazzina.

“Sì, credo proprio di amarlo… Tanto… ” si   premura di aggiungere frettolosamente

“Almeno per ora… .” ironizza (quanto?) la   donna in un sussurro e con una istintiva smorfia del viso.

Joan si gusta un altro sorso di birra.   Riflette fra sé e sé. O forse no. Assaporando quanto questo bizzarro   incontro notturno le stia massaggiando l’anima.

“Non hai figli, Joan?” prosegue   imperterrita, quasi obbedendo ad uno schema di interrogatorio,   Elena.

Un colpo veramente basso. Molto basso.

A questa domanda Joan barcolla e vacilla e   sobbalza.

Scuote nervosamente i capelli ed inizia a   tormentarli con le lunghe dita pallide ed inanellate.

Accavalla e separa le gambe fasciate in   jeans strettissimi alla velocità della luce.

Poi con il semplice gesto della mano si fa   consegnare la quarta birra, depositando sul tavolo con studiata   lentezza una manciata di monete estraendole dalla borsa che aveva   rischiato di perdere.

“No… Cioè… Beh, sì… ”

Gli occhi di Joan volano lontano. Cercano   con disperazione un luogo dove atterrare. Che non trovano, né   troveranno mai.

L’immobilità del viso è appena scossa da un   refolo di vento che scuote i capelli. La luna illumina un viso che   ha il luccicore di una maschera azteca.

“Ho avuto un figlio cinque anni fa… Con mio   marito… Veramente non proprio… Non proprio con lui… Insomma, ho   avuto un bambino. Sono rimasta sola e non potevo occuparmene. L’ho   dato in adozione. Sì, ecco Elena, più o meno è andata così”.

Joan ha snocciolato queste poche frasi con   una voce metallica. Come un robot con le risposte preimpostate. E   con un viso rigido e inespressivo.

“Cosa è di preciso l’adozione, Joan?”   domanda una Elena seria e attenta e dall’atteggiamento   affettuosamente incalzante.

“Beh, dunque… Quando i genitori non riescono   a badare ai propri figli per tanti motivi i bambini vengono affidati   a famiglie che hanno la possibilità di farlo. Grosso modo è così”.

Il viso di Joan è contratto.   L’individuazione e la scelta di ogni singola parola di quel piccolo   discorso le è pesata come e più di un libro intero. La fatica fisica   nel pronunciarle è stata superiore a qualsivoglia lavoro pesante   presente al mondo. Persino il travaglio ed il dolore del concerto   della sera precedente pare una sciocchezza al confronto.

“Per tuo figlio è stato così”.

“Sì”.

“E non l’hai più visto?” mormora Elena.

“No”.

“E non vorresti incontrarlo?”.

Joan a quella domanda ferma qualsiasi   attività apparente e non. Gli occhi non vedono più, le orecchie non   sentono, i muscoli si gelano, i nervi si anestetizzano, la testa è   assente, il cuore prende un minuto di ferie.

A questo punto la lingua supplisce a tutti   gli altri organi. E risponde autonomamente.

“No. Credo che sarebbe peggio. Molto peggio.   Per lui e per me.”

Elena è impietrita e non sa che dire. Si è   accorta di essere entrata in un terreno minato.

E stenta ad intravedere una via di uscita.

Allora accarezza piano un ginocchio di Joan   e sussurra “Hai i soldi per un’altra Coca?”.


30 agosto 1970

Domenica

Isola di Wight

Luogo situato tra le località di Ford Farm,   Wootton e Afton Down.

ore 06.00


Elena e Joan camminano fianco a fianco   rabbrividendo nella fresca aria della notte che sta terminando.

Una vaga idea di mattina è rappresentata,   all’orizzonte, da una striscia rossa e gialla che un pittore   stravagante sembra aver disegnato e colorato unicamente per loro.   Con una vernice che appare tremolante ed un giallo che,   bulimicamente, presto inizierà a mangiarsi voracemente il rosso che,   a sua volta, sta attualmente svolgendo un pesante lavoro di   mediazione tra il giallo ed il nero.

Proseguono in silenzio, evitando tende e, a   volte, scavalcando corpi infagottati in sacchi a pelo e coperte   improbabili e stracci di qualsivoglia tipologia.

Qualche timido fuoco ormai sfiatato e   sfiancato ha rinunciato da tempo a scaldare chicchessia. Pochi   macilenti cani vagano annusando qua e la.

Forse all’alba del 29 novembre 1864 si   presentò così, ai criminali comandati dal colonnello John   Chivington, l’accampamento indiano situato in un'ansa del fiume Big   Sandy Creek.

Elena e Joan mettono in campo la massima   attenzione per restare vicine. Quando un intoppo costringe una a   rallentare, l’altra immediatamente si ferma ad aspettare.

Si presentano al nuovo giorno come fedeli   compagne che, dopo aver attraversato la notte a piedi, senza   peraltro riuscire a truffare la malinconia, si trovano ora nello   spazio nel quale è finito il tempo delle birre e non è ancora   iniziato quello dei caffè. L’appuntamento con il sonno, invece, si   può rimandare.

In fondo siamo all’isola di Wight.

L’immenso raggruppamento umano, pur non   dormendo completamente mai, vive, nella primissima mattina, il suo   momento più quieto e calmo e rilassato. I pochi giovani svegli   (ancora o di già?) si muovono lenti e circospetti. Quasi in una   sorta di rallenty spontaneo, silenzioso ed ovattato.

Ad un tratto Elena si ferma. Si siede su una   pietra che i celtici creatori dell’isola di Wight paiono avere   collocato proprio lì apposta per lei.

Anzi, per loro.

Perché Elena, senza proferire suono alcuno,   invita Joan a sedersi e, con il suo dito quasi da donna, indica un   punto all’orizzonte.

L’alba. Finalmente o purtroppo. Esplosa in   tutto il suo orgoglio di luce.

Colori accesi e violenti e crudeli. Ma anche   teneri e dolci e sfumati.

Come un quadro, una foto, un film.

Ma vera. Uno spettacolo vero.

La donna mai cresciuta e la quasi donna già   matura sono sedute vicine. Strette. Quasi a volersi consolare e   farsi coraggio a vicenda.

In silenzio. Rispettose di quel “bello” che   loro si rivela. Consce che quello che stanno vedendo e che le   commuove nello stesso istante è già finito, vecchio, volato via.

Non pensano, non parlano, non piangono.   Anche se forse vorrebbero farlo.

Stanno semplicemente lì, cocciutamente   abbarbicate a quel progressivo dilagare di luce sul mondo.

Ad entrambe manca qualcosa. Tutte e due sono   attanagliate dalla nostalgia.

Casa, famiglia, un letto.

Nonostante ciò capiscono quanto sia   importante essere lì. In quel momento. Loro due.

Avrebbero voglia di abbracciarsi. Però non   lo fanno. E non sanno perché. Forse è disdicevole. O si vergognano.   Magari temono di rompere quel momento di struggente bellezza con un   gesto giudicato volgare.

E allora restano immobili. Di gesso, di   sale, di marmo, di ghiaccio.

Elena e Joan sanno benissimo che quel   momento finirà. Prestissimo. Fra un attimo. Un secondo. Poco più.   Poi passerà.

Anzi, è già finito.

Ed è Elena che, ancora una volta, assume   l’iniziativa. Muove piano la propria mano. Accarezza lieve le dita   di Joan. Poi le stringe forte. Le scuote.

Non gira la testa. Non volge lo sguardo. Non   osserva Joan.

Semplicemente si alza e vola via.

Veloce, lieve, leggera.

Corre senza sforzo verso una direzione   precisa.

Verso il pulmino che, in questi giorni, è   casa sua.

I ragazzi, infatti, hanno lasciato a Elena   quella che, datasi la situazione specifica, pare come la   collocazione più comoda e sicura.

Mentre corre Elena pensa che sicuramente la   maestra Claudia la sgriderà.

Non certo come avrebbe fatto la mamma, ma la   rimprovererà senz’altro.

D’altronde la presenza della mamma all’isola   di Wight è una di quelle ipotesi che riesce molto difficile anche   solamente immaginare.

Un “grazie” insegue Elena ma non riesce a   raggiungerla.

Oppure sì.

Anzi, senz’altro sì.


19 agosto 2003

Martedì

Spiaggia di Alassio

ore 16.50


“Mamma! Mamma!” strilla Chiara rivolta alla   madre pigramente allungata sulla propria sedia a sdraio al riparo   dal sole sotto l’ombrellone.

“Dai, amore, lasciami leggere… ” risponde   Elena senza distogliere lo sguardo dal libro che tiene in mano.

“Devo chiederti una cosa mamma. E’   importante” insiste la bambina con la penna in bocca e lo sguardo   assorto sulle pagine di un libro.

“Uffa, Chiara. Che noiosa che sei. Forza.   Dimmi….”.

“Mamma, che differenza c’è tra fiaba e   favola?”.

Il caldo bruciante è quasi doloroso. La   sabbia torrida arrostisce piedi e formine e palloni e secchielli.   Manca solamente il rumore dello sfrigolio per potersi credere   immersi in un unico gigantesco forno. Persino il vocio diffuso pare   esaurire la sua forza, imbrigliato ed imprigionato ed annichilito   dal fuoco che arriva dal cielo.

Elena posa con lentezza studiata il libro   che sta leggendo. “Montedidio” di Erri De Luca. Sul tavolino,   accanto al libro, giacciono la borsa, il telefono, i fazzoletti di   carta. Il telefono è bollente in quella fornace che è ormai   diventata la spiaggia di Alassio. A Elena pare di rammentare che   qualcuno, tempo fa, deve averle detto che questi cellulari patiscono   molto il caldo ed i raggi del sole. E allora, istintivamente, prende   l’apparecchio e lo deposita nella borsa.

Elena vorrebbe avere mille piccole   incombenze simili. Per potersi prendere il tempo utile a preparare   risposte svicolando tra ricordi che arrivano con la forza e la   velocità di palle da bowling. E lei, instabile birillo, non sa dove   girarsi.

Poi esplode in una risata, spalanca le   braccia in direzione di Chiara e, con voce che costringe i vicini di   ombrellone a voltarsi, “La so, amore mio!!! A questa domanda tua   mamma conosce la risposta. Te lo spiego.”.

Una stupitissima Chiara volge il suo   splendido viso da undicenne (mancano meno di sei mesi a 12 anni)   simpaticamente colorato da centomila lentiggini e circondato da   stupendi capelli biondi.

Chiara non sa che tra pochissimo tempo   quesiti del genere non si porranno più. O meglio non ci sarà più   necessità di mamme o nonne o saputelli vari. Ci sarà un posto dove   chiunque potrà avere risposta a qualsiasi domanda. Nozioni e   definizioni e date si acquisiranno in un secondo. Ma il 19 agosto   del 2003 non è ancora così. Non per tutti almeno.

E allora Chiara, ragazzina cui lo studio non   dispiace, si accinge ad ascoltare la completa ed articolata   spiegazione della mamma.

“Bah, certo che i grandi sono spesso davvero   un po’ strani” si trova in quel momento a pensare la ragazzina   “Sembra che mia mamma pensi di meritarsi il premio Nobel solo perché   conosce la differenza tra fiaba e favola!”.

La neve

Giovedì 7 dicembre 1922, al mattino, faceva molto freddo in quella parte di campagna astigiana adagiata tra pianura e colline e valli e vigne strappate con secolare fatica ai boschi.

Erano le undici del mattino ma del sole non vi era traccia alcuna. Il cielo era affollato da grandi nuvole scure che, impaurite dal loro stesso mastodontico gonfiore, parevano guardare alberi e strade, campi e cascine, animali e uomini, minacciando, o forse promettendo, a tutti loro, entro breve tempo, i primi bianchi fiocchi stagionali che silenziano e nascondono il mondo intero.

Timidi fili di fumo tremolanti ed infreddoliti si levavano sottili dai tetti delle sparse case per poi disperdersi nelle nubi incombenti sino a diventarne parte integrante, mentre neri merli, un tempo nelle favole per bambini uccelli bianchi, e rumorose cornacchie, nere anch’esse, volteggiavano e si posavano e becchettavano chissà quale bacca sopravvissuta all’arrivo dell’inverno.

Eccezion fatta per il gracchiare dei corvi, un silenzio assoluto e totale permeava la località Vareglio, un pugno di case sparse poste in una valletta ai piedi della frazione S.Carlo.

Quest’ultima, che di pugni di case ne poteva contare almeno due, era invece collocata su una piccola collina che forniva un paesaggio ed una visuale decisamente più ampia della campagna circostante, mentre il Vareglio si caratterizzava per l’angustia del suo orizzonte.

Il comune di appartenenza era quello di Tigliole, la cui borgata centrale era posta su di un colle ancora più in alto e che presentava una estensione territoriale decisamente vasta, soprattutto se posta in rapporto alla popolazione residente. Tigliole era situato ad ovest di Asti, dalla quale distava sette od otto chilometri, in direzione di Torino e poteva contare, in quel 1922, oltre 2.500 abitanti.

La provincia, all’epoca di cui si sta raccontando, era quella di Alessandria, che, per i contadini della zona era sinonimo di servizio militare e tasse.

Quello tra Tigliole e la città di Alessandria era considerato un vero e proprio viaggio, tanto che la maggior parte delle donne del paese, che non erano oggetto di richiamo alla leva obbligatoria, spesso trascorrevano l’intera vita senza esservisi mai recate.

La comunità che abitava il Vareglio era, come molto spesso in quell’Italia che era allo stesso tempo post e pre bellica, di natura essenzialmente agricola, strenuamente abbarbicata sulla linea di confine che demarcava una economia di sopravvivenza dalla fame assoluta.

Cosmo Guabello era un giovane uomo di 36 anni. Il suo nome era proprio “Cosmo”, non Cosimo e nemmeno Cosma, uno dei pochi nomi, quest’ultimo, maschili ma con la desinenza in “a” e piuttosto usato in Piemonte. Tutti in paese lo conoscevano però come “Cusmin” (Piccolo Cosmo), in virtù del fatto che l’altezza non era certo una delle sue prerogative fisiche principali.

Quindi il nome era Cosmo e non era per caso, bensì grazie ad una precisa scelta del di lui padre.

Il papà di Cosmo, di nome Celso, era infatti un uomo del tutto particolare. Nato prima dell’Unità d’Italia, poco dopo la quale frequentare due anni di scuola elementare divenne obbligatorio, Celso viceversa non era mai entrato in un’aula scolastica ed aveva passato la sua infanzia nei campi a fare quello che suo padre e suo nonno ed il suo bisnonno avevano sempre fatto nei loro anni verdi e verdissimi: lavorare.

Ciò non gli impedì di essere, nel corso dell’esistenza, curioso ed intelligente e, a modo suo, persino studioso e financo colto.

Con il passar del tempo Celso aveva maturato interessi che, pur paralleli e limitrofi al suo mestiere di contadino, erano decisamente insoliti per l’ambiente nel quale viveva. I cicli naturali, il ruolo delle stagioni, le evoluzioni di piante ed animali lo incuriosivano infatti moltissimo.

Ma un grumo di passioni sovrastava nettamente, nel cuore e nella testa di Celso, tutte le altre: lo spazio, il cielo, gli astri.

Fu un entusiasmo che attraversò tutte le sue età di giovane e poi di uomo, e fu così intenso che lo spinse a chiamare tre dei suoi sei figli rispettivamente Stella, Luna e, appunto, Cosmo. Solo tre su sei perché sugli altri la moglie Severina fece fuoco e fiamme ed impose il classico ripetersi del nome dei nonni.

La casa nella quale Celso abitava con moglie e figli era una costruzione abbastanza anomala. Non era infatti una abitazione prettamente agricola. Originariamente si trattava di una casa padronale di campagna, appartenuta ad un cugino del papà di Celso che era addirittura divenuto deputato del Regno.

Dopo il trasferimento della capitale d’Italia a Roma, egli si trasferì con la famiglia appunto a Roma e la casa venne messa in vendita. Il papà di Celso e nonno di Cosmo la acquistò con immensi sacrifici e la “attrezzò” a magione agricola, aggiungendo stalla, portico e fienile che prima non erano previsti.

Ne venne fuori una casa molto grande, un parallelepipedo su due piani con dodici stanze almeno ed una miriade di soffitti e sottotetti e cantine che facevano la felicità dei bambini in cerca di avventure.

Papà Celso a soli 56 anni consegnò, idealmente, le chiavi della cascina e concretamente “il governo” di tutta l’attività agricola al primogenito maschio Cosmo, all’epoca appena ventisettenne. In sostanza si ritirò dalla conduzione dei lavori.

Con i pochissimi risparmi di una vita difficile comprò un modesto cannocchiale, scelse per sé una piccola stanzetta nel sottotetto e principiò a passare il suo tempo a rimirar le stelle ed il vasto cielo.

Celso continuò ad aiutare nei lavori agricoli, né era pensabile il contrario E non vi era vendemmia o mietitura o cura dell’orto che non lo vedesse protagonista. Ma il suo ruolo era ridotto a quello di mero esecutore ed il suo mondo interiore stava diventando ormai altro che decidere quando potare la vigna o come ruotare le coltivazioni.

Per la verità poco tempo dopo Celso fu costretto da eventi ben più grandi di lui ad occuparsi nuovamente in maniera attiva della conduzione della cascina. Fu quando, pur quasi trentenne, Cosmo fu chiamato dalla patria a dare il suo contributo a sbriciolare l’impero austro-ungarico. Ciò si tradusse per Cosmo in quasi tre anni di trincea e per Celso, in eguale periodo, di ritorno all’agricoltura a tutti gli effetti.

Terminata la guerra e tornato Cosmo, Celso, per la seconda volta, passò il testimone e prese a dedicarsi quasi esclusivamente a quel legame tra mondo interiore troppo piccolo e sistema degli astri troppo grande che tanto lo appassionava e lo struggeva.

E fu così, abbracciato alla sua passione, che se ne andò con una epicità stupenda. Lo trovarono morto nella sua stanzetta sotto i tetti, seduto su una sedia impagliata posta davanti alla finestra spalancata.

Forse morì felice, perché era una meravigliosa notte di agosto con il cielo nero pieno di stelle.

O forse no perché all’ultimo si rammaricò del fatto che non avrebbe più potuto godere di un simile spettacolo e soffrì pensando a quante conoscenze avrebbe potuto acquisire continuando a vivere.

Oppure ancora, ed è l’ipotesi fatalmente e banalmente più probabile, non ebbe neppure il tempo di formulare un pensiero.

Fatto sta che in un baleno raggiunse la moglie Severina, scomparsa anni prima in una delle tante epidemie violente i cui rimedi non erano ancora stati scoperti.

Era l’agosto del 1920 quando Celso morì.

Cosmo diventò quindi a tutti gli effetti, anche formalmente, il conduttore della cascina.

Dei cinque fratelli infatti le tre femmine (Luna, Stella ed Elvira) si erano maritate e, come si usava in quel tempo, erano andate a vivere nelle case e paesi dei rispettivi mariti. I due maschi avevano seguito sorti opposte.

Uno, il mansueto Ottavio, era rimasto in cascina, a lavorare insieme a Cosmo e ad aspettare di trovare una moglie che lo rendesse felice ma che stentava a presentarsi all’orizzonte.

L’altro, l’irrequieto Luigi, non aveva nemmeno atteso di compiere vent’anni per partire per l’America e di lui giungevano poche e frammentarie e saltuarie notizie da posti e città dai nomi stranissimi ed incomprensibili.

In quel dicembre del 1922 Cosmo una moglie ormai l’aveva, anche se si era maritato non più giovanissimo.

Alla veneranda età di 34 anni Cosmo aveva infatti sposato Ludovica. Nome bello, altero, importante. Degno di una donna come era lei: bella, altera, importante.

Ludovica aveva appena 21 anni quando sposò Cosmo, ed oltre che donna altera era anche alta, sovrastando di una decina di centimetri il piccolo “Cusmin”, fermo al suo metro e sessantacinque centimetri. Misura non esaltante ma sempre superiore a quella del re regnante sull’italico regno in quel periodo. Altezza (bassezza?) che, essendo appunto superiore al minimo previsto, non gli aveva evitato il servizio militare e la relativa guerra.

Ludovica era di un paese vicino, né all’epoca era pensabile diversamente. Non solo le unioni inter-razziali non esistevano (se non in caso di emigrazione), ma nemmeno si verificavano matrimoni tra residenti a distanza superiore di qualche chilometro.

Ludovica era appunto nata a Maretto, paese ad una decina di chilometri dal Vareglio, luogo di residenza dello sposo Cosmo. A dividere fisicamente i due paesi una ancora primitiva ferrovia da attraversare in maniera molto rischiosa e la strada statale che univa Torino ed Asti, all’epoca ancora lontana dal conoscere l’asfalto ed una qualche forma di segnaletica e, per lo più, frequentata da carri e qualche bicicletta.

Nulla si sa di come si erano conosciuti Ludovica e Cosmo. Se il loro era stato un matrimonio semi-combinato o concordato del tutto oppure una storia d’amore pura come un diamante. Se si considera la discreta differenza d’età ed i tempi di cui stiamo narrando è lecito supporre che una qualche forma di intervento esterno si fosse verificato.

Le cronache raccontano invece, sia pur sommariamente, il loro matrimonio. Era una domenica dell’aprile del 1921. Così ostinatamente e cocciutamente piovosa come sanno esserlo solamente alcune giornate della primavera piemontese.

A Maretto pioggia e acqua e fango erano dovunque. La chiesa dove si svolgeva il matrimonio, pur trasmettendo umido e freddo, rappresentava l’unico riparo dalle cateratte aperte del cielo.

Ludovica e Cosmo erano seri, impettiti, compresi nel ruolo. Ludovica, con i suoi dieci centimetri in più che, per amoreo più semplicemente per istintiva ed atavica sottomissione, avrebbe volentieri nascosto, indossava un abito bianco così come doveva essere e che quasi subito venne aggredito e rovinato dal maltempo.

Cosmo, fiero e compito nonostante una inferiorità fisica anomala per i tempi, era fasciato in un vestito, che resterà l’unico per molto tempo, fatto di giacca, pantaloni, camicia, panciotto e cravatta. La camicia era bianca. All’epoca le camicie erano solamente bianche.

Il pranzo fu nella casa di lei, con una cuoca “affittata”, ad anticipare di oltre mezzo secolo il concetto di catering. Con un diluvio di piatti piemontesi e mille grida assordanti costituite da “viva gli sposi” e “sposa bagnata, sposa fortunata”. E risate e scherzi, non tutti di ottimo gusto.

Poi il viaggio di nozze. Nel pomeriggio stesso. Gli sposi sistemati su un carretto tirato da un cavallo, con le poche e povere cose che Ludovica portava via dalla sua casa e malamente riparati da ombrelli neri come la pece.

In quella prima parte del secolo gli ombrelli erano tutti neri.

Le camicie erano solamente bianche e gli ombrelli esclusivamente neri.

I due sposi trascorsero l’intero viaggio in un silenzio preoccupato e ansioso, pensando entrambi al futuro immediato e prossimo e remoto.

E, più che probabilmente, andando con la testa, ognuno rigidamente per conto proprio, a quei minuti che, forse i più difficili e significativi della loro ancora breve vita, li avrebbero accolti nella serata che già stava calando.

Ludovica represse anche qualche lacrima. O forse non riuscì a farlo.

La destinazione era il massimo dell’esotismo: Tigliole, frazione S.Carlo, località Vareglio.

“Cosmo!” grida Ludovica in quella ruvida e gelida mattinata del 7 dicembre 1922.

Sono le undici del mattino e Cosmo è sotto il portico. Ha già provveduto a dare il cibo a mucche, vitelli, galline, conigli e a chissà quali altri essere viventi.

E adesso fa quello che la stagione consente di fare, sta spaccando la legna con cui si cucinerà e ci si riscalderà. Freddo e gelo e mani nude non fermano la sua attività, con un occhio attento alle scorte di legna con il dubbio forte circa la loro capacità di essere sufficienti sino alla primavera futura.

“Cosmo, vieni!” grida ancora Ludovica nel grigio metallico eppur ovattato di quel mattino.

Ludovica ha 23 anni nel 1922. E’ bella, alta, con un viso dolcissimo. Ed un pancione enorme. Aspetta un bimbo Ludovica. O una bimba. Non si sa. All’epoca l’incognita era d’obbligo.

“Corri, Cosmo, ti prego!”

Volendo utilizzare una espressione spettacolare potremmo dire che Cosmo sta roteando l’ascia con forza e vigore. Forse segue anche i suoi pensieri.

I muri di casa sono spessi. Chissà, magari è già precocemente un po’ sordo.

Fatto sta che Cosmo non sente subito il richiamo della moglie.

Solamente al quarto accorato urlo di richiamo di Ludovica “Cosmo, dai, vieni!” l’uomo lascia cadere a terra l’ascia e, con la sua goffa corsa da brevilineo, attraversa il cortile e pare quasi volere sfondare il pesante uscio di casa per entrarvi.

Quello che vede lo inquieta e lo preoccupa.

Ludovica è pallida, tremante, madida di sudore.

Si torce le mani nervosamente posate sulla pancia troppo grande.

La donna è seduta sul divanetto metallico della cucina.

Un lusso, l’essere seduta sul divano, che è più eloquente di mille parole.

Cosmo entra di corsa nella stanza e corre da Ludovica e la accarezza.

Poi mormora “Qui fa troppo freddo”, bestemmia, lascia la donna e farcisce la stufa con due grossi pezzi di legno.

Non è certo questo il momento di pensare al resto dell’inverno.

Cosmo non sa che fare. E’ a disagio. Una situazione estranea per lui e per tutto l’universo dell’epoca.

Anche per Ludovica scarseggiano i punti di riferimento.

E’ alla prima gravidanza e non sono certo tempi nei quali esiste una abbondante educazione in quel campo .

“Sto male” riesce solamente a mormorare Ludovica “Sento che il bambino sta scendendo. Vai a chiamare Gina”.

Gina è la levatrice del paese, colei che da almeno due decenni aiuta a nascere tutti i bambini di S.Carlo.

Che abbia diplomi o attestati o esami superati non è dato sapere, ma si può facilmente immaginare che la risposta ad una siffatta domanda sia no.

E poi, lo si esalta anche nelle moderne riunioni aziendali, cosa conta sono i risultati.

Di medici Ludovica e Cosmo non parlano. Né ci pensano.

Non c’è la mutua nel 1922, e nemmeno soldi per il medico, e poi, in fondo, i bambini sono sempre nati così. In casa, con la levatrice che dirige e vicine di casa che aiutano.

Cosmo prende una coperta e copre Ludovica, poi afferra al volo la giacca ed esce come una furia dalla casa.

“Vengo subito” urla a Ludovica dal cortile.

Corre Cosmo, mentre mille pensieri affollano la sua mente da contadino.

“Speriamo che Gina ci sia. E se fosse impegnata in un altro parto? Anche Luigia sta aspettando. E se fosse da lei? E se fosse malata?”.

Ansia e preoccupazione e paura e inquietudine lo accompagnano e fungono da stimolo alle sue gambe nella corsa.

La casa di Gina è situata sulla salita che porta a S.Carlo. Quasi in cima al colle. A più di un chilometro dalla casa di Cosmo.

Cosmo deve rallentare per la fatica. La salita è ardua. Il fiato viene a mancare.

Arriva nei pressi della casa di Gina e subito vola verso la piccola porta di legno.

Inizia a bussare con violenza, incurante del cane che gli abbaia contro e mostra i suoi denti luccicanti di bava.

“Calma, calma” recita una voce biascicante dall’interno della casa “Arrivo”.

Passi pesanti. Passi di zoccoli robusti e di stanchezza mai superata appieno con il riposo.

Si apre la porta, pesante anch’essa.

Si affaccia Ricu, il marito di Gina, con l’aria quasi seccata di chi sa che raramente le novità si trasformano in buone notizie.

“Ludovica. Credo sia ora……” riesce solamente a sussurrare Cosmo, strappando al poco fiato rimasto ogni singola parola.

Gina, che ha visto l’uomo arrivare dalla finestra ha capito immediatamente, appare alle spalle del marito già munita di scialle e sciarpa per uscire e di una borsa con i pochi ma fondamentali attrezzi per il suo lavoro di levatrice.

La ghiaia gelata del cortile scricchiola sotto il precipitoso camminare di Gina e Cosmo.

I due affrontano la discesa con passo rapido e con un silenzio perfettamente intonato alla livida mattinata invernale.

Gina non chiede nulla di come si sentiva Ludovica, né Cosmo, stretto tra apprensione ed imbarazzo, avvia alcun discorso in merito.

All’improvviso, senza proferire verbo, la donna devia dalla strada principale, svolta in un viottolo, percorre pochi metri e bussa con forza alla porta di una abitazione all’apparenza deserta. Dopo un tempo che a Cosmo pare eterno si apre uno spiraglio. Gina proferisce poche ma decise parole e, dopo qualche secondo, raggiunge nuovamente Cosmo sulla strada seguita da due donne, anch’esse malamente coperte a proteggersi dal freddo.

I quattro riprendono con foga il cammino. Le due donne aggregatesi bisbigliano tra loro, quasi a non voler turbare il silenzio che regna in quella parte di mondo, nel quale il freddo e l’assenza totale di esseri umani si coniugano con la sacralità dell’evento che sta per accadere.

Ancora discesa. Due curve a destra ed una a sinistra. Infine una stradina in salita. Un sapel, come si dice ancora adesso da quelle parti, che conduce al cortile e quindi alla abitazione di Cosmo e Ludovica.

I quattro attraversano di slancio lo spazio antistante all’edificio ed entrano con fare determinato e deciso in casa.

Nell’ampia cucina Ludovica è nella stessa identica posizione nella quale Cosmo l’ha lasciata mezz’ora prima. Solo un poco più sfatta, dolente, sofferente.

Gina non perde un attimo e prende subito il comando delle operazioni.

“Gusmin aiutami” dice la donna con il cipiglio di chi in certe situazioni sa dare ordini che non possono essere discussi “bisogna portarla nel letto. Subito”.

Cosmo e Gina aiutano quindi Ludovica ad alzarsi e, con tutta la delicatezza di cui sono capaci, si dirigono verso le scale. La camera da letto infatti è al primo piano della grande casa colonica.

Le due donne venute ad aiutare non attendono ordini particolari. Sanno benissimo cosa devono fare. E prendono a muoversi e ad operare con una sincronia da sinfonia musicale.

Una cerca (e trova) la pentola più grande della casa, la riempie di acqua presa da uno dei secchielli che Cosmo in mattinata ha colmato grazie ad un pozzo situato nel cortile e la pone sulla stufa scoppiettante. Indi aggiunge legna ad un fuoco vivo ma quasi languente.

La seconda donna apre con sussiego la borsa di Gina, ne estrae il contenuto e lo pone vicino ad una pila di asciugamani puliti che Ludovica stessa aveva preparato e che le aveva indicato. Quindi si avvia a portare il tutto di sopra al seguito della gestante e della levatrice.

I pochi gradini che separano la cucina dalla camera da letto sono una vera tortura per Ludovica. Ogni passo è una fitta atroce. Che non riesce però a strapparle lacrime o gemiti o lamenti. Anzi, Ludovica si volta verso Cosmo e lo guarda. Prova un sorriso. Che gli riesce mediamente bene. “Va tutto bene, Cosmo. Stai tranquillo”

“A va tut bin Cusmin. Tranquil”.

La adagiano sul letto. Ludovica saluta la fine del percorso con un grande sospiro.

Subito si scatena la furia di Gina. “Cosmo” prende ad urlare “in questa stanza è tutto un gelo. Nemmeno un fuoco. Niente! Vuoi farla morire di freddo?”.

“Scusa Gina, ho preparato la stufa. E’ qui, guarda”

“Cosmo, mi prendi in giro? La stufa è spenta.” replica la donna mentre si affanna a coprire Ludovica con tutte le coperte che riesce a trovare.

“La accendo subito” risponde un mortificato Cosmo.

L’uomo con mal trattenuta e rabbiosa energia scaraventa paglia e rami e legno e la poca carta presente in casa nella stufa. Poi sfrega con violenza uno zolfanello sul piano in ghisa della stufa medesima e, cercando di trasformare la collera in estrema attenzione, introduce la fiamma avvicinandola a carta e rami.

La macchina del calore fischia, scoppietta, tossisce, sussulta, fuma.

Poi il legno prende a crepitare e, infine, il fuoco si assesta in una fiamma robusta e generosa e vivace.

Il caldo, è ovvio, verrà solamente fra qualche tempo, ma non troppo tardi.

E Cosmo scende le scale e, quasi di corsa, torna con una cesta colma di legna che possa bastare per alcune ore.

“Esci” intima perentoria Gina a Cosmo.

“Come?” ribatte Cosmo.

“Esci. Vai fuori. Ad accudire le bestie. O spaccare la legna. Fai quello che ti pare. Vai all’osteria a bere. Dai vicini di casa. Ma esci. Gli uomini non servono in questi momenti”.

“Va fora, Cusmin”.

Cosmo china il capo, bestemmia in silenzio, non capisce (o forse sì) e , strascinando i piedi, si avvia verso la porta di casa che apre e richiude dietro di sé.

Cosmo non è certo un ragazzino, ma di queste vicende sa veramente molto poco, come peraltro tutti i maschi della prima metà del novecento.

L’uomo ciondola un poco nel cortile, incespica quasi con gli zoccoli che urtano l’irregolare terreno gelato. Poi intuisce che l’inattività potrebbe rivelarsi un nemico terribile ed allora decide di ricominciare da dove un’ora prima ha smesso. E si reca nuovamente nel portico a spaccare la legna.

L’animo ed il cuore non sono certo quelli di un’ora prima.

In compenso la grinta, invece, è cresciuta assai e Cosmo affronta ogni pezzo di legno come Don Chisciotte al cospetto di un esercito di mori.

Volano schegge per ogni dove e cortecce si sbriciolano e grandi ciocchi vengono ridotti ai minimi termini.

I colpi d’ascia risuonano secchi e fragorosi nel silenzio gelato. Nella strada che scorre vicino alla cascina di Cosmo nessun umano si vede transitare. Il poco calore che ogni povera casa è in grado di produrre viene rigorosamente assaporato da tutti gli abitanti del Vareglio, i quali non ci pensano nemmeno ad uscire all’aperto.

Spacca legna, Cosmo, e mulina le braccia e suda, mentre i pensieri viaggiano assolutamente autonomi ed il respiro manca ma non per la fatica.

Passa un’ora. Forse due. Trascorre e vola via anche l’ora di pranzo.

Ma Cosmo non se ne cura certo.

Poi si sentono all’improvviso frettolosi passi sulla ghiaia passi.

L’uomo trattiene il fiato smettendo di menar colpi.

Arriva Gina, trafelata, pallida, torcendosi nervosamente le mani.

“Cusmin, a stan mal”.

“Stanno male. Tua moglie e tuo figlio stanno male. Corri a chiamare il medico”.

Lo sconcerto dura solamente un attimo. Poi l’azione prende subito il sopravvento. Cosmo non si fa domande, non entra nemmeno in casa, con una mano afferra la giacca e prende a correre.

Il medico abita lontano, a Tigliole, sono quattro o cinque chilometri per lo più in salita.

E non ci sono auto, elicotteri, tram, camion. Nemmeno un cavallo o una semplice bicicletta.

Allora Cosmo fa il possibile. Corre. Poi rallenta. Cammina veloce. Ancora passi di corsa. Fiatone. Le gambe che a volte paiono disubbidire. Il timore che quel passo di corsa che non è riuscito a fare possa diventare determinante.

La testa è insieme vuota di pensieri e zeppa di cattivi presagi.

L’uomo sale di slancio sino alla frazione S.Carlo, dove attraversa la piazza per poi “tuffarsi” nella valle che separa la frazione stessa dal capoluogo Tigliole.

La discesa è percorsa velocemente e non senza qualche rischio di caduta.

Quella che chiamiamo “strada” è in realtà un sentiero leggermente più largo del solito in modo da consentire il passaggio dei carri con le mucche. Con il tempo i carri hanno scavato solchi profondi che, riempitisi di acqua, in questo 7 dicembre sono quasi totalmente gelati.

Rovi e rami secchi e alberi caduti e sassi di svariate dimensioni e profonde buche intralciano a volte il passaggio. Una qualche forma di manutenzione del percorso, se mai avverrà, ci sarà solamente in primavera, con la ripresa dei lavori agricoli.

Con l’affanno in petto e nei polmoni ed in testa e nel suo misero cuore Cosmo affronta la dura salita che porta a Tigliole. Piegato sulle ginocchia e senza fiato sbuca sulla strada che mai nessuna automobile ha ancora conosciuto.

La villa del dottore è tra le prime abitazioni all’ingresso del paese. Una bella casa di fine ottocento, squadrata, grigia, con un giardino ed una cancellata severi che ben illustrano l’importanza sociale ed economica del proprietario.

Cosmo scuote con forza la piccola campana posta a presidio dell’ingresso.

Una finestra si apre il minimo indispensabile per mostrare un volto.

La cameriera. La “serva” come si usava dire all’epoca.

“Il dottore sta riposando” apostrofa Cosmo senza nemmeno attendere la domanda.

Cosmo raccoglie tutte le forze che possiede, si fa strada nel mare di timidezze che fanno parte del suo carattere e ribatte “E’ una emergenza. Mio figlio appena nato e mia moglie stanno male. Forse potrebbero morire. Lo chiami, la prego”.

La donna lo guarda storto. E’ incerta. Non sa che fare.

A dissipare almeno parzialmente l’imbarazzo palpabile che si andava formando è il dottore stesso che, udito il forte scampanellare, è sceso ed ora si affaccia nel vano della porta.

Il dott. Prampolini è un uomo robusto, con una barba ispida ormai chiazzata di bianco, occhi che paiono volere incenerire il mondo, mani grandi che non denunciano certo un lavoro quale quello di medico, un farfallino nero al collo che prima o poi sarà costretto a dismettere.

Si fa velocemente raccontare da Cosmo cosa è successo, chiede chi è la levatrice che se ne sta occupando, borbotta tra sé e sé “tanto ormai sono sveglio” e ordina a Cosmo “Aspettami qui, prendo il calesse”.

Passano cinque minuti che, manco a dirlo, a Cosmo sembrano mille e dal retro della casa spunta un cavallino giovane, allegro, vivace. Sta tirando un calesse leggero, da passeggiata. Sopra, impugnando saldamente le redini, il Dott. Prampolini è vestito con mantello, sciarpa, guanti, stivaloni.

“Salta su, Cosmo. Andiamo a vedere quello che si può fare”.

Queste saranno le uniche parole del dottore in tutto il viaggio.

Tanto meno Cosmo si azzarda a proferir verbo, intimidito dalla vicinanza con cotanta autorità scientifica.

Quando il calesse si ferma nell’aia dell’abitazione di Cosmo è ormai pomeriggio avanzato e, se possibile, il cielo è ancora più cupo. Ottavio, il fratello minore di Cosmo, si occupa del cavallo, portandolo al riparo sotto il portico, asciugandolo dal sudore e preparandogli una abbondante razione di fieno.

Nel preciso istante in cui Cosmo ed il dott. Prampolini entrano in casa il campanile della chiesa di S. Carlo batte tre colpi.

In cucina le due “aiutanti” simulano faccende urgenti che, probabilmente, non necessitano di così tanto impegno e concentrazione. Ma permettono loro di non dovere conversare con i nuovi arrivati.

Nella casa regna un silenzio irreale e premonitore.

Non una parola, un urlo, un pianto.

Già, nessun pianto.

La camera da letto è ormai caldissima.

La stufa ha fatto il suo dovere.

Gina, in un angolo, si torce le mani con gli occhi liquidi.

Il medico degna appena di uno sguardo il bambino posato in una cesta di vimini e con due lunghi passi raggiunge Ludovica, adagiata nel letto, con gli occhi chiusi ed un lievissimo respiro.

Prende la mano della donna e prende a calcolare le pulsazioni.

Poi le apre gli occhi e osserva le pupille.

A questo punto Ludovica si sveglia dal torpore e guarda fisso in volto il medico con una espressione interrogativa.

Lo riconosce e quindi intuisce, realizza, capisce.

C’è il medico, quindi qualcosa non è andato come avrebbe dovuto.

E’ ancora confusa Ludovica, stanca, provata.

Però vede il dott. Prampolini ed i suoi sensi si tendono tutti.

Una domanda sale dalla pancia al cuore alla testa.

Ma per farla manca il coraggio e la forza.

Però il dott. Prampolini “legge” l’ansia ed il quesito sul viso della donna.

“Ludovica, non pensare a niente. Preoccupati di guarire. Devi stare tranquilla”.

Parole che dovrebbero teoricamente rassicurare ma restano ben al di qua del limite della ruvidità caratteriale del medico e, soprattutto, del tutto inadatte alla situazione creatasi.

Ludovica ha, forse, frequentato la seconda elementare e, quindi, è sostanzialmente analfabeta. Ma è donna. Potenzialmente madre. Intuito a fiumi.

E allora volta la testa sul cuscino, come a voler ammirare un interessante spettacolo nel vano della finestra posta alla destra del letto, ricacciando indietro due voglie prepotenti: quella di piangere e quella di essere sola.

Infatti non può certo dare il via alle lacrime davanti ad autorevoli estranei quali il medico. Né è pensabile che, in quel frangente, possa essere lasciata sola con i suoi peggiori pensieri.

E allora resta lì, in silenzio, fortemente interessata allo spettacolo della finestra situata nella parete alla destra del letto.

Cosmo è rimasto fermo impietrito sulla porta che introduce nell’ampia stanza. Gina è ancora nell’angolo opposto all’ingresso. Ludovica è alla prese con la “sua” finestra. Il dott. Prampolini, con movimenti lievi ed impercettibili, controlla febbre, polmoni ed eventuali ferite sul corpo della giovane donna.

La scena è quasi immobile. Un presepe senza suoni né movimenti o azioni.

Dalla cucina arriva, leggermente ovattato, il clangore frutto del lavoro delle due donne che sistemano pentole e secchi utilizzati per il parto.

Nel silenzio immoto della camera da letto l’unico rumore percepibile è quello della stufa che sbuffa e fischia e borbotta. Cosmo però sente freddo alla schiena. Una improvvisa vertigine lo costringe ad appoggiarsi allo stipite della porta.

Il medico si volta di scatto, abbandona il letto dove giace Ludovica, raggiunge Cosmo, lo prende per un braccio e lo trascina letteralmente a scendere le scale.

I due uomini arrivano in cucina.

“Preparatemi dell’acqua” ordina perentorio il dottore alle donne.

Tuffando le mani nell’acqua si volta verso Cosmo.

“Cusmin…..” comincia con qualche intuibile difficoltà.

Poi, riacquistando il tono burbero e ruvido di sempre, prosegue “Per tuo figlio non si è potuto fare nulla. E’ morto pochi minuti dopo essere nato. Mi dispiace”.

“Tua moglie ha sofferto tanto. Ha avuto anche un principio di emorragia. Ha rischiato. Però è donna forte e robusta e giovane. Ha iniziato subito a riprendersi. Con ogni probabilità ce la farà a sopravvivere” dice quasi tutto d’un fiato il dott. Prampolini.

Le parole pronunciate arrivano al cuore di Cosmo come tanti dardi acuminati che lui nemmeno prova a schivare. Incassa senza batter ciglio. Frase dopo frase. Parola dopo parola. Notizia dopo notizia.

Il dottore prosegue di slancio “Mi raccomando, non farla stancare. Tienila al caldo. Deve rimanere a letto per almeno una settimana. Falle bere brodo caldo. Chiedi a qualche donna se può occuparsene per i prossimi giorni”.

“Dimenticavo” aggiunge il medico asciugandosi le mani “Ti segno una medicina che devi comprare. E dargliela mattina e sera”.

Dopo aver gettato l’asciugamano su una sedia, apre la sua borsa ed estrae la penna con la quale verga, con una scrittura obbligatoriamente nervosa e incomprensibile, un foglio bianco.

Quindi, lasciando un Cosmo visibilmente frastornato, afferra mantello, sciarpa e guanti e si avvia verso l’uscita.

Cosmo è a pezzi, stranito, sconvolto. Però, anche in quel frangente, resta una persona per bene. Ed allora rincorre il medico.

“Quanto le devo, dottore?” gli sussurra.

“Lascia stare” bofonchia il medico.

“Ma come….”.

“Tanto non li avresti i soldi. Dimmi, Cosmo, le hai 100 lire?”

“Beh, non so…. No… Però……..”

“Ecco, appunto. Vedi?”

“Posso darle un pollo, dottore? Un coniglio?”

“Ti ho detto di lasciare stare” ribatte il dottore, aggiungendo poi quasi tra sé e sé ma in modo da essere udito “Non capisco perché insistono a chiamarmi se sanno di non poterselo permettere”.

A questo punto ricorda il suo fiocco nero e accetta che un principio di vergognoso disagio lo pervada per aver istruito quel pensiero. E prova a porre rimedio al suo stesso imbarazzo.

“Mi raccomando, Cosmo” prova a sussurrare voltandosi e guardando fisso l’uomo “qualunque cosa dovesse succedere che ti sembra strana, vieni subito a chiamarmi. Anche di notte. Io comunque tornerò domani pomeriggio a controllare il decorso”.

Ciò detto, e pentendosi per quel decorso che, ne era certo, Cosmo non aveva sicuramente capito, il dottore salta sul suo calesse e, con le tenebre che principiano ad infittirsi, sprona il cavallo a partire.

Si lascia dietro un Cosmo con la testa china. Avvilito, triste, umiliato, dolorante.

E’ solo in mezzo all’aia, con le braccia che ciondolano ed il freddo che punge.

Si volta e, trascinando i piedi fattisi improvvisamente pesanti, si appresta a rientrare in casa.

Tutta la stanchezza del mondo (o più semplicemente di quella giornata terribile) si abbatte sulle spalle di Cosmo e lo schiaccia. Avanza gradino dopo gradino con grande fatica.

Mentre sta per entrare nella stanza dove Ludovica sta lottando contro la spossatezza si trova di fronte una Gina ancora frastornata ma nuovamente grintosa e determinata.

“Cusmin” lo affronta con cipiglio sicuro “devi pensare al bambino”.

Cosmo non lo ha nemmeno visto quel bambino.

Tutto è andato troppo in fretta e lui non ha nemmeno avuto modo di dare una occhiata alla vera causa di questa giornata così convulsa e strana.

Con un braccio e poche gentilezze sposta Gina da una parte ed entra nella stanza.

Ludovica sta dormendo o forse sta solamente abbandonandosi allo sfinimento che, prima o poi, interviene anche nei momenti peggiori e che permette di ridurre, sia pure provvisoriamente, i gradi del termometro del cuore.

Cosmo si ferma immobile a guardare il piccolo fagotto abbandonato nella cesta.

Solamente la testa è visibile.

Gli occhi chiusi, il colorito scuro ed innaturale, il soffio della vita svanito per sempre appena iniziato.

Giuseppe si sarebbe dovuto chiamare il bimbo morto-vivo.

In onore di un fratello di Ludovica morto nella prima guerra mondiale.

Cosmo lo prende in braccio con tutta la delicatezza della quale dispongono le sue ruvide mani da contadino. Con un dito gli accarezza il viso, provando ad immaginare come avrebbe potuto essere bello e forte. E chiedendosi se, in quei pochi minuti di vita ha sofferto, pianto, avuto un pensiero.

Poi abbandona ostentatamente qualsiasi sentimentalismo da ricchi, afferra la giacca ed un pezzo di pane e parte nuovamente diretto a Tigliole.

E’ ormai buio fitto. Ed il cielo, se possibile, è ancor più gravido di pioggia e neve.

Cammina piano Cosmo. Un poco perché la stanchezza si sta facendo sentire, ma anche per l’estrema attenzione che ci sta mettendo nello snocciolare un passo dietro l’altro. Non vuole infatti certo correre il rischio di cadere con il prezioso carico che sta trasportando. Anche se è un fagotto senza futuro.

Folate di gelidi pensieri tormentano Cosmo.

Il campanile di Tigliole batte sei colpi quando l’uomo si trova a bussare alla porta dell’abitazione del parroco. Il buio ed il freddo sono in ogni dove. Nel paese non una persona in giro per la strada.

La “perpetua” apre uno spicchio di porta e, sospettosa, tuona “Chi è là?”

“Cusmin” risponde con un filo di voce.

“Cosa vuoi a quest’ora?”

“Ludovica ha partorito. Giuseppe però è morto subito. Devo parlare con il parroco”.

dice recuperando a fatica il fiato speso nella salita.

La donna borbotta qualcosa di incomprensibile mentre si allontana trascinando rumorosamente piedi fasciati da ciabatte (e non poveri zoccoli) e lasciando la porta aperta ma senza invitare l’uomo ad entrare.

Cosmo resta lì al freddo, con il suo fardello, così leggero nelle sue forti braccia da contadino e così pesante sull’anima.

Dallo spiraglio della porta della casa del parroco arrivano inequivoci segni di benessere. Spifferi di aria piacevolmente tiepida, profumi che segnalano l’ora della cena, luci calde che contribuisco alla gioia di stare ritirati in casa.

Mentre Cosmo è indotto in queste riflessioni, la porta si spalanca ulteriormente ed appare, imponente, la nera figura di Don Cagnasco.

“Cosa vuoi, Cusmin?” ringhia senza educazione né gentilezza.

“Mio figlio Giuseppe. E’ morto poco dopo essere nato” sussurra intimidito Cosmo.

“L’ho già saputo. Il bravo prete sa sempre tutto. E allora? Cosa vuoi da me?”.

“Devo seppellirlo, Don Cagnasco” replica sempre più flebilmente l’uomo.

“Ed io ti ripeto, Cosmo, cosa vuoi da me?” insiste con sempre maggiore determinazione il prete.

“Beh, il cimitero….” insiste un Cosmo ormai allo stremo delle forze fisiche e non.

“Non se ne parla nemmeno, Cosmo. Tuo figlio non è battezzato. Nella terra consacrata del cimitero non può essere seppellito”.

“Come?” replica l’uomo incredulo.

“Sei forse sordo? Ho battezzato tuo figlio? No. Il camposanto è riservato ai cattolici. Senza battesimo si è fuori dalla comunità di Cristo. Quindi quel bambino lì non può essere sepolto nel cimitero. Punto e basta.”.

“Ma come facevo a farlo battezzare? Non c’è stato tempo! E’ morto quasi subito.” dice Cosmo con un ritrovato sussulto.

“E perché non sei venuto a chiamarmi?”

“Ho dovuto andare di corsa a chiamare il dottore. Ludovica stava male. Nemmeno adesso si sa ancora bene se resterà viva. Ma se non fossi corso subito dal dottore sarebbe senz’altro morta”.

Il prete lo guarda in faccia con malcelato risentimento.

Per poi prendere ad apostrofarlo con misurate, scandite e lancinanti parole “Sentimi bene, Cosmo. Il tuo preciso dovere era venire a chiamare me. Fare battezzare tuo figlio. Mandarlo in Paradiso. Tutto il resto veniva dopo”.

“Ma Ludovica stava malissimo!” prosegue un incredulo e sconcertato Cosmo.

“Non importa. Il tuo primo dovere era pensare alla salvezza dell’anima di tuo figlio”.

“Come faccio adesso? Per seppellire Giuseppe?” sillaba un confusissimo Cosmo.

“Giuseppe non esiste. Senza battesimo non esiste il nome”.

“Ma dove lo metto?” sbotta Cosmo perdendo per un attimo il suo fare sussiegoso di fronte a qualsivoglia autorità.

“Arrangiati, Cosmo. Non è affar mio. E pensa che tuo figlio vagherà in eterno nel Limbo per colpa tua!”.

Su queste parole crudelmente definitive la porta viene chiusa.

Cosmo rimane lì, fermo, con il suo prezioso peso in braccio, per pochi lunghi secondi.

In men che non si dica viene assalito dal freddo. Forti tremori prendono a scuoterlo tutto.

All’improvviso Cosmo viene anche colto dai morsi della fame. In fondo sono le sette di sera e l’uomo non ha mangiato nulla dalla colazione, se non un piccolo pezzo di pane nel pomeriggio.

Freddo e fame lo attanagliano.

Ha suo figlio morto in braccio, Cosmo.

Ha fame e freddo.

E si vergogna, Cosmo.

Si vergogna tanto di sentimenti così materiali di fronte a questo bambino che lui ha in braccio ma che al contempo non c’è più.

Lo sbatter di stoviglie che esce dalla casa del prete non lo turba però più di tanto.

Gli sembra anche di ascoltare delle risa, ma forse si sbaglia e non è vero.

Anche lasciare libere invettive ed insulti verso preti, chiesa e religione non lenisce in alcun modo la sua insopportabile sofferenza.

Mentre Giuseppe già da alcune ore sta vagando nel Limbo, Cosmo prende a ciondolare mollemente per il paese.

Non vuole e non può e non osa tornare a casa.

Cosmo racconterà tempo dopo (molto tempo dopo) che quella è stata l’unica volta nella sua vita da uomo adulto nella quale ha pianto.

Ma forse non è vero. Forse ha resistito anche in questo frangente. Probabilmente la teoria per cui gli uomini non piangono ha prevalso anche in quella occasione.

Mentre il freddo è sempre più crudo sulle carni di Cosmo, un’ombra attraversa veloce la stradina, transitando dalla stalla alla casa con studiata velocità.

Cosmo neppure vede l’uomo che si para sul suo cammino e quasi vi sbatte contro.

“Ciao Cusmin! Cosa fai qui? Cosa hai in braccio?”.

Cosmo non risponde. Nemmeno una parola esce dalle sue labbra.

Apre con delicatezza massima la coperta che avvolge il suo prezioso bagaglio e lo mostra a Domenico detto “Menico”, suo amico da almeno un paio di decenni.

A Menico scappa un “Nooooo!!!!!!!!!” a tutta voce che rimbomba nel buio reso metallico dal gelo.

“Come è successo Cusmin?” gli dice riprendendosi dalla terribile sorpresa.

A Cosmo improvvisamente si sciolgono le parole che teneva ghiacciate in gola e, come un fiume in piena, racconta all’amico gli avvenimenti di quella orribile giornata.

“Capisci?” conclude compulsivamente “il prete non mi permette di seppellire mio figlio nel cimitero. Come faccio? Posso mica buttarlo in un fosso……”.

Menico lo lascia terminare guardandolo con l’espressione di chi prova a cercare una soluzione. Poi i lineamenti del viso si distendono come chi un rimedio, forse, lo sta già trovando.

“Hai qualche soldo con te?” chiede a bruciapelo interrompendo Cosmo.

“Sì. Ho venti lire. E’ quasi tutto quello che abbiamo in casa. Pensavo mi servissero per il dottore. Ma cosa c’entra?”.

“Ti serviranno Cosmo, ti serviranno….”.

La pala fatica moltissimo a farsi largo nella terra dura come il marmo a causa del gelo. Tre uomini costituiscono una silenziosa scena notturna.

Uno ha uno sguardo allucinato ed una specie di fagotto in braccio.

Un altro tiene in mano un lume che illumina malamente la zona.

Il terzo scava con buona lena una buca nel terreno.

Giacomo, l’operaio del cimitero non dovrà lavorare a lungo.

Non serve una buca molto grande.

Giuseppe viene sepolto così. In un angolo appartato del cimitero, senza nome, senza bara, senza cerimonie, senza fiori, senza lapide, senza iscrizione, senza foto.

Senza niente, nemmeno le lacrime.

Giacomo rompe il silenzio e, intascando le venti lire promessegli da Cosmo, dice “L’ho fatto perché sei una brava persona. Per amicizia. E sto rischiando. Domani è festa e se qualcuno noterà i segni di questa fossa io vado nei guai con il prete”.

Cosmo biascica un “grazie, Giacomo”.

I tre uomini a quel punto se ne vanno ognuno per la sua strada, senza salutarsi l’un l’altro.

Cosmo torna a casa e per fortuna trova Ludovica che dorme.

Non ha voglia di parlare con lei, né tanto meno raccontarle quello che è successo.

Vuole solamente che quella giornata finisca.

Dorme poco Cosmo, ovviamente. E male. Alle cinque è in piedi e va nella stalla.

E’ l’8 dicembre 1922.

Butta una occhiata distratta fuori dalla finestra attratto da un chiarore strano.

Nevica e sul terreno già almeno dieci centimetri di coltre bianca coprono qualsiasi cosa.

A Cosmo sfugge un sorriso, “Nessuno si accorgerà di nulla” pensa “Giuseppe potrà riposare tranquillo”.

“Chissà se Giuseppe avrà freddo sotto tutta questa neve” si chiede poi tra sé e sé.

Poi scrolla la testa, colpito dall’aver anche solo immaginato una simile stupidaggine e inizia a portare il fieno ai vitelli, provvedendo a dare una carezza ad ognuno di essi.

E’ la mattina di domenica 28 ottobre 1923.

Al cimitero di Tigliole una gran quantità di abitanti sta pulendo ed addobbando di fiori le tombe dei propri cari in vista della cerimonia per i defunti che si terrà il 1° novembre.

Anche Ludovica e Cosmo fanno il loro ingresso al cimitero. Hanno in mano mazzi di fiori per i genitori di lui e per altri parenti lì sepolti. Ludovica ha di nuovo il pancione. E’ incinta.

Si dirigono insieme verso le tombe di papà Celso e mamma Severina.

Non fanno però la strada più breve.

Camminano lentamente, come per una passeggiata.

Guardano con attenzione le lapidi ed i nomi e le poche fotografie, commentando il tutto tra di loro.

Poi costeggiano il muro di cinta sino alla fine del cimitero, piegano a sinistra, muovono i loro passi verso i loculi dei parenti.

All’angolo ultimo del cimitero, dove c’è solo terra e non tombe, all’uomo ed alla donna sfuggono di mano due fiori. Che cadono a terra. Sono due fiori bianchi. Dopo qualche metro si girano indietro. Forse sorridono timidamente. Cosmo si lancia in una piccola e furtiva carezza a Ludovica.

Due fiori bianchi su una nuda porzione di terreno.

Due fiori a spezzare la monotona noia del Limbo.

E’ tutto quello che possono fare.

Ludovica morì ancora piuttosto giovane. Nemmeno 65enne si spense nel 1964 a causa di un male, l’ipertensione, che solamente pochi anni dopo sarebbe diventato completamente curabile.

Cosmo lasciò il mondo quasi centenario, andandosene per vecchiaia negli anni ‘80.

Insieme ebbero altri tre figli e poi tre nipoti e milioni di problemi e difficoltà.

In data 3 maggio 2007 la Commissione teologica internazionale pubblicò, con l’approvazione del Papa, un documento con il titolo “Della salvezza dei bambini non battezzati”. Documento che, di fatto, abolì il Limbo.

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