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Silvano Visintin
Ha insegnato materie letterarie negli Istituti Superiori di Venezia.
Alpinista e Skipper ha girato il mondo.
Da qualche anno scrive poesie e racconti che hanno ottenuto riconoscimento in importanti concorsi letterari.

APOPTOSI



Suona come   musica fatata

la morte   cellulare programmata

Indica la fine   delle voglie

come dagli   alberi cadono le foglie

E intanto   spariscono i dolori

così cadono i   petali dei fiori

Non è necrosi   e neppure svista

è detta anche   “morte altruista”

quella che   consente la vita

è la nostra   “morte pulita”

A contarle   puoi fare tardi

ogni giorno   sono miliardi

le cellule che   sono andate

ed altre   eccole rinnovate

A voi forse   non sembra vero

ma in un anno   è il corpo intero

Così allo   specchio mi chiedo

chi è quello   che io vedo

che ora indica   col dito

il vecchio o   il giovane ricostruito

che quasi   finge di non sapere

al di là del   principio del piacere

perché teme   ancora parole storte

quando si dice   istinto di morte

Non c’è nulla   di triste nel contrasto

di funereo,   odioso o nefasto

perché quando   la vita scoppia

sempre bianco   e nero vanno in coppia

Chiara   l’evidenza conduce:

solo nel buio   risplende la luce

e forse non ho   del tutto torto

se mi credo   anch’io più volte morto

e risorto

Emerge allora   una riflessione ardita

che cancella   il dubbio della sorte

la legge   inusitata della vita

è la certezza   programmata della morte

Processo   inarrestabile e cadenzato

che   continuamente conduce ad altro stato

di cui forse   conserveremo memoria

Metempsicosi   forse...

ma questa è   un’altra storia.

 DIBATTITO TELEVISIVO


In principio   fu l’urlo

sottile   alterno audace

come un   disturbo

Poi rotta   ormai la pace

e alzato il   limite dell’asta

contro ogni   argomento contenuto

ecco la voce   che sovrasta

e brucia

l’equilibrio   ormai perduto

Quindi viene   l’insulto

roboante   sfacciato divertito

senza amnistia   o indulto

come s’infila   nell’occhio il dito

Infine delle   anatre il coro

altisonanti   grida di oche

guerrieri   fieri senza decoro

e con idee   rimaste poche

Aspettando che   scorra il sangue

l’attenzione   certo rimane fissa

Il   ragionamento un poco langue

ma fa più   spettacolo la rissa

Poi tutti   sorridono al conduttore

come un teatro   che finge la realtà

Fine della   guerra con l’interruttore

ecco lo spazio   padrone: pubblicità

Quasi svenuto

mi chiedo dove   è avvenuto

e come e   quando

Schiaccio   triste il telecomando

apro una birra   dal frigo

di risposta ne   trovo una sola

e cerco in un   libro

la vecchia   parola.

 FUOCO A MARE


Nel mare nero

si perde

anche l’uomo   più sincero

Quasi di   scatto

copre gli   occhi con la mano

Lo sguardo   distratto

cerca ancora   più lontano

La ragione   s’inceppa

su quella   barca infame

dalla stiva   piena zeppa

che rivela   perfide trame

Quel tappo che   chiude lo sbarco

e affoga donne   e bambini

come nelle   fiabe l’orrido orco

trasforma i   distratti in assassini

Ognuno diventa   nefando

se distoglie   la vista dal male

Quel tocco di   telecomando

che cambia   veloce canale

Almeno lo dica   sicuro

urlando feroce   alle genti

l’idea   efficace del muro

è finirla con   quei pezzenti

Io vedo il   corpo che trema

il pianto del   sopravvissuto

E sento nel   cuore la pena

per quel che   ho e lui non ha avuto

Qualcuno lo   dice destino

altri la   chiamano sorte

è solo un   compagno vicino

che abbiamo   condannato alla morte

Dirà più d’uno   convinto

“Ma io non ho   fatto niente!”

Con questo il   verdetto è dipinto

di chi è morto   innocente.

L’   EQUILIBRISTA



In alto

ben sopra   l’affollata pista

non di solido   basalto la pedana

e quasi fuori   dalla vista

ondeggia la   figura lontana

sul filo   sottile

ecco   l’equilibrista

Il cuore non   vile conquista

la gravità   spietata oltraggia

Appeso alla   magica asta

d’equilibrio   prolungata lancia

l’aria attorno   frusta

all’effimero   solido s’aggancia.

Dall’una e   dall’atra parte

senza   possibile remissione

incombe   irrimediabile la sorte

alla minima   distrazione

Balla   minaccioso il filo

di salvezza   unico sostegno

rischia ai   lati il tragico volo

Il piede   avanza con impegno

Il vento   fischia improvviso

esplode della   folla il boato

La piroetta   poi torna il sorriso

di nuovo   procede, eccolo salvato

Quel cavo ci   tiene tutti

metafora del   quotidiano travaglio

Speriamo del   futuro i frutti

poi basta un   accidenti o uno sbaglio

Così   nell’oceano della vita

fragili   sull’onda in barca

come   equilibristi in gita

inganniamo il   taglio della Parca

Perciò il   saltimbanco Cagliostro

che la morte   sfida con l’asta

è un fratello,   è l’eroe nostro

anche per un   attimo, ma questo ci basta.

LUOGO   ANTROPOLOGICO


Tempesta con furore
oltraggio
difenderò il mio onore
con indomito coraggio
Dovere che mi spetta
davanti alla mia setta
Totale appartenenza
io sono chiaro e puro
si nota la differenza
Verdetto forse duro
in te i simboli non vedo
che dichiarino il mio credo
Chi sei?
Di paura fremo
mi sento al fondo perso
invadi il mio terreno
non parli la mia lingua
in tutto sei diverso
è inutile che finga
Non riconosco la tua faccia
fame che non è mai sazia
il posto rubi, sei una minaccia
Se non ti fermo
diverrai disgrazia
Storia complessa
spirale che non cessa
contorto è il   reale
a volte
un vero enigma
Pensare molto fa male
Risolve tutto lo stigma
un segno
che definisce la squadra
facile
perché tutto inquadra
Dunque io sono qui
e tu stai di là
No, no non conta
la dignità
universale democrazia
diritto di libertà
uguaglianza, solidarietà
Questa è terra mia
Ognuno uguale declassa
la globale società di massa
che distrugge la mia casa
e della storia fa tabula rasa
Al fantasma
io accendo il rogo
Mi serve
un nuovo pilastro del luogo.
POESIA

BORA CHIARA IN LAGUNA


Come un delfino

la barca

insegue l’onda

e il nocchiero lieto

l’asseconda

Niente divieto

su quel muro molle

si sale e scende

come sopra un colle

Musicale la tela

tesse il motore

poco rumore

imita una vela

L’aria investe

come mare aperto

antenne deste

di capitano esperto

Dall’alto del balcone

inebria l’orizzonte

morbido il timone

azzanna onde pronte

a imitar le curve

di nuvole imbiancate

Scivola e si perde

tra spume rinfrancate

ardita la prora

Apre la ferita

Spruzza il volto la bora

ancora incollerita

Battezza il tuffo

con urlo e schianto

accompagna lo schiaffo

del salato canto

Solo in tanta natura

non chiedi la ragione

Fine d’ogni paura

resta solo la passione

Rubare al nero le ore

seppur con penitenza

come bimbo esploratore

che cerca conoscenza.

  TRAMONTO LAGUNARE


Lentamente si sfila

il lenzuolo di luce

macchiato di sangue

nel fondo che langue

Il tenero azzurro sfiora

la macchia di rosa

Controluce di neri profili

svettano ritti campanili

L’ombra la luce soverchia

Nel giorno che si perde

qualcuno ricerca

il raggio verde

Un attimo ed ecco

che tutto inghiotte

il buio

dell’avida notte

Scintilla una stella

e un’altra lì intorno

Annunciano timide

la fine del giorno

Resiste a ponente

l’ultimo fuoco perdente

Lì dove il sole ormai tace

ancora brucia la brace

Io guardo immobile silente

Orrore e fascino del niente

Sentimento del confine

Struggente bellezza della fine.

  X AGOSTO AL LIDO

Notte delle stelle

cadenti tra le più belle

preda dei tanti desideri

imperanti

Silenti misteri

problemi seri

invadono le menti

e diventano divertenti

se lasci il pensiero truce

Abbandonati alla luce

che abbaglia improvvisa

come lampo senza rumore

Ingoia intatto lo stupore

per un attimo vicino

Come quando bambino

dal cielo sbalordito

precipitavi

nell’universo infinito.

  SPIAGGIA INVERNALE



Lungo la spiaggia

grigia di nebbia

del mare ferme le onde

il cielo e l’orizzonte

Il nulla confonde

Limite ritrovato

e ora perduto

si mescola il presente

con l’accaduto

Si fa più saggio

l’incedere del viaggio

quasi liberato dal freno

che la ragione contiene

Assenza del vento

Il tempo non viene

Il senso che premo

si tiene da solo

Nessun disegno

Si apre il mio volo

Fantasmi di un sogno

che dice in silenzio

verità negate

Esplose inaspettate

tra monumenti vecchi

Giochi di specchi frantumati

ritratti mai finiti

sfuggiti senza onore

Sordi ricordi di dolore

tentano di parlare

Poi un raggio di sole

e torna la voglia di amare.

  SOPRA I TETTI DEL LIDO


Il corvo

in alto

alle antenne aggrappato

quasi a perdere le penne

gracchia ostinato

E pare

in questi egoismi arcani

inseguire le astuzie amare

degli umani

Neofiti al comando

sputano sentenze

felici snobbando

le umili penitenze

La nuova sorte

toccheranno presto con mano

Pericolo di morte

Arriva il gigante gabbiano.

NARRATIVA
GUAZZETTO




Il termine latino aquatio, acquazzone origina l’etimologia. Guazzetto   deriva da “guazzo” che significa umido (Molti avranno sentito dire la   “guazza” per indicare quel bagnato che si trova al mattino sull’erba   d’estate, nei giorni sereni).

Il guazzetto è un sugo, una salsa molto fluida in cui si fanno cuocere   pesce o carne. Molto diffuso nelle località di mare è il guazzetto di   cozze e vongole o quello di “mare” che si prepara con pesce fresco,   pomodoro, olio e vino. Esiste anche quello di carne, ben ricordato dal   celebre Artusi nel libro “L’arte di mangiar bene e la scienza in   cucina”. Il “Vitello in guazzetto”, che nella ricetta originale è cotto   in un saporito intingolo a base di latte e delicatamente aromatizzato   dallo speck. Secondo l’autorevole cuoco, doveva essere cotto in una   pentola sigillata con carta oleata e spago (ora si fa in pentola a   pressione).

Una vera leccornia. Una specialità. Una costosa rarità nella Venezia del   1500 già segnata dalla peste, in cui la carne era prevalentemente   cacciagione di laguna, cotta allo spiedo e farcita di odori. Piccoli   uccelli che venivano infilati in spiedini, alternati con pezzi di   maiale, di pancetta o di lardo, accompagnati da tenera polenta (prima   quella antica di fave macinate e farro, poi con il mais importato   dall’America che venne coltivato su larga scala nel Veneto). “Anatra   ripiena” o “petto d’anatra in agrodolce” sono piatti che ricorrono nei   menu dei ricchi mercanti e nobili. Così rari e importanti che il doge   ogni anno per antica tradizione, a dicembre, donava ai nobili del   Maggior consiglio cinque anatre selvatiche. Quando a causa delle guerre,   nel 1521, non fu possibile cacciare, furono sostituite con una moneta   d’argento, la “osella” (da oselo veneto, uccello) una medaglia di quasi   dieci grammi d’argento del valore di “grossi” dodici o “soldi”   trentadue. Insomma la carne valeva molto e, come nella lunga tradizione   medievale, era un piatto che non si poteva certo definire popolare.

Al popolo era riservata un’altra tipologia di carne. A volte quella   bovina, gestita dalla scuola dei “Becheri”, istituita già dalla fine del   1200, con la chiesa di San Mattia a Rialto e il patrono San Michele   Arcangelo. Oltre alla macellazione e vendita delle carni, avevano anche   in carico la gestione delle spettacolari corride di carnevale in campo   San Polo.

Ancor più popolare era la scuola dei “Luganegheri”, i salumai cui era   riservata la “macellazione, confezionamento e vendita di carni suine e   la vendita di minuzzami di provenienza bovina”. Troviamo traccia di   quest’Arte che radunava salsicciai, lardaioli, pizzicagnoli e venditori   di minestre, nell’atto di fondazione originale conservato al Museo   Correr, il 26 Ottobre 1497, in cui si parla di salumi e zuppe o   “squazeti”. Potevano iscriversi all’Arte sia i veneziani che i sudditi,   bastando che avessero avuto dimora a Venezia per 15 anni e bottega   propria.

L’istituzione più tarda di questa scuola riordinava una consuetudine   molto diffusa nelle locande della città, quella della minestra che   riutilizzava il minuzzame della lavorazione delle carni, consentendone   la fruizione anche agli strati sociali meno abbienti e non in grado di   comprare il taglio migliore riservato ai nobili. Il “guazeto” appunto,   la carne in umido diremmo oggi, che sempre fumava nel pentolone delle   botteghe, pronta per essere scodellata in ogni momento agli avventori,   per lo più lavoratori desiderosi di un energetico pasto caldo. I sapori   non erano quelli a cui oggi siamo abituati. La carne non veniva   conservata con la catena del freddo e spesso emanava profumi poco   invitanti. Ma a Venezia c’erano le spezie, cardamomo, zenzero, cannella,   noce moscata e benché anch’esse riservate alle classi egemoni,   attraverso il piccolo commercio dei marinai, arrivavano anche alla   cucina popolare. L’utilizzo secondo le caratteristiche orientali divenne   quasi esagerato. Tra le ricette di un anonimo cuoco veneziano del ‘300   giunte a noi, c’è un “pollo allo zenzero” in cui la quantità di spezie è   di ben 750 grammi.

Era proprio questo che Tonio cercava. Un “guazeto” dolce, senza tutti   quegli strani, piccanti e persistenti odori che coprivano il piacere   raro della carne. C’era solo una bottega dove si poteva trovare una   simile leccornia. Ne parlava da tempo ormai tutta la città. Si trovava   in campo San Zan Degolà (San Giovanni decollato) lungo il Canal Grande,   nella taverna di Biagio Cargnio, il friulano. Intorno agli anni venti   del Cinquecento, la bottega era divenuta famosa tra il popolo e perfino   tra i patrizi che si spingevano ad esplorare quel piccolo locale, lungo   e stretto, con pochi tavoli, buio, quasi sordido pur di assaggiare il   piatto speciale con cui quell’omone della Carnia era riuscito a   conquistare gran parte degli operai dei cantieri lì vicino. Uno squazeto   senza rivali, morbido al palato, dolce, perfino inebriante, in cui la   carne finemente spezzettata profumava di fresco, quasi di latte. Sì,   così ricordava Tonio, lo aveva confermato anche il suo amico marinaio,   il “genovese” che in realtà veniva dall’isola grande, dalla Sardegna e   nel suo pittoresco dialetto, dopo aver assaggiato la minestra, “U   Purceddu!” esclamò, spiegando che di sicuro era un porcellino da latte,   che nella loro tradizione si cuoceva allo spiedo. Ma la carne era la   stessa, non si poteva sbagliare, c’era un sapore speciale, un aroma che   assume solo la carne quando è giovane, ancora in formazione. Avevano   bevuto di gusto quel giorno, forse troppo e fecero poi fatica a lavorare   in cantiere.

Tonio aveva chiesto più volte al cuoco, che gigante si sporgeva dalla   finestra fumante della cucina in fondo al locale, se davvero era il   purceddu, il porcellino da latte, il segreto di quella sorprendente   ricetta. Biagio aveva risposto ridendo che era il suo segreto, che non   poteva rivelare perché si sarebbe rovinato con le sue mani, non vedeva   Tonio come andavano bene gli affari? Se qualcun altro avesse riprodotto   il suo squazeto sarebbe finita la coda che ogni giorno si litigava i   pochi posti del locale. “Accontentati di mangiare questa specialità a   poco prezzo!” Aveva concluso il “luganegher” della Carnia.

In effetti, aveva riflettuto Tonio, si pagava davvero poco per un piatto   che era decisamente migliore di tutti gli altri della città. Con più   carne, fresca, senza quell’abbondanza di spezie che poi ti strizzavano   le budella per tutto il giorno. Aveva convinto perfino la moglie,   Marietta, a venire con lui un giorno alla taverna. Lei era brava in   cucina. Aveva lavorato come aiutante dal Conte Zorzi nella cui cucina   non mancava nulla. Sperava che riuscisse a scoprire come riprodurre   quella zuppa che avrebbe voluto ritrovare anche a casa, senza dover   sempre combattere con la ressa per conquistare il posto e gli schiamazzi   di chi aspettava il suo turno e sollecitava gli altri a far presto ad   andare via.

Non era contenta Marietta di intrufolarsi in mezzo a tutti quegli operai   giovani che la guardavano con curiosità e misuravano, sorridendo tra   loro, tutte le sue belle curve. Una follia di suo marito aveva pensato,   una delle tante stranezze che una buona moglie deve sopportare per la   convivenza. Quando finalmente furono seduti davanti alle scodelle   fumanti portate dalle mani possenti del cuoco, fu anch’essa conquistata   dall’aroma speciale. E dal sapore davvero pulito della carne. Non seppe   però, nonostante si concentrasse nei ricordi della grande cucina   nobiliare, identificare l’origine di tanta piacevolezza. “Vitello”   azzardò a Tonio, rivedendo quella carne rosa che una volta il cuoco del   conte stava preparando e le aveva spiegato “Gli son rimasti pochi denti,   questa è più tenera” e le aveva pure fatto assaggiare un pezzo di quel   lembo che aveva conservato, anche cotto, un colore più chiaro e dolce.   Ma si trattava di specialità con un prezzo così elevato che solo il   nobiluomo poteva permettersi. Non era certo carne che si potesse   rivendere cotta al prezzo popolare di quella bottega. Un paradosso che   la lasciò un po’ a disagio, anche se il giorno dopo con Lindaura, la sua   vicina, si era vantata di essere stata a mangiare lo squazeto più famoso   di Venezia. E gli occhi invidiosi dell’amica l’avevano ripagata di tutta   la faticosa coda che aveva affrontato col marito.

Tonio finalmente aveva conquistato il posto migliore. Vicino alla   finestra della cucina. Poteva vedere le pentole fumanti e seguire fin   dall’origine il percorso del suo intingolo preferito. Ecco che veniva   raccolto col mestolo dal possente cuoco che lo versava una, due volte   nella capiente scodella di terracotta. “Vieni a prenderla qua – chiamò   Biagio – che mi risparmi la strada”. Poi, mentre porgeva la scodella   poggiandola sul davanzale di legno, aggiunse: “La polenta non è ancora   pronta, sei venuto presto oggi. Lì dietro, nella madia c’è del pane   secco.. è quasi meglio per raccogliere il sugo!” E per tacitare ogni   protesta allungò a Tonio una caraffa di vino. Era vero, quella mattina   Tonio era arrivato presto. Non aveva voglia di combattimenti con gli   altri operai, nelle lunghe fila d’attesa. S’era sbrigato prima con la   sua parte di lavoro e aveva da recapitare un messaggio a un fabbro lì   vicino. Una buona scusa per scappare in fretta, e arrivare quasi primo   alla pausa pranzo. Finalmente avrebbe potuto gustare in pace e   soprattutto cercare di scoprire ancora una volta il segreto di tanta   bontà.

Dopo aver recuperato dei pezzi di pane secco, perché davvero quel sugo   andava onorato lentamente, impregnato in un delicato aiutante, non   sfacciato come il cucchiaio che costringeva a inghiottire in fretta, si   sedette tenendo in prospettiva la finestrella della cucina. Gli pareva   di avere un’occasione favorevole. Almeno due pentole fumanti restavano   alla sua vista, anche se talvolta coperte dal corpulento cuoco che   alzava alternativamente i coperchi e mescolava. Anzi, di tanto in tanto,   Biagio si fermava. Sembrava indagare nel liquido fumante e poi con uno   strano mestolo, più simile a una lunga grossa tenaglia, lavorava sul   fondo della zuppa. Certe volte sbatteva forte e pareva che fosse un   lavoro faticoso, ma certo non poteva spaventare quell’uomo della Carnia   che conservava la struttura fisica dei montanari. Qualche volta a Tonio   sembrò anche che pescasse qualcosa per poi buttarla via, ma non riusciva   a vedere dove. Sì. Davvero quella era la posizione migliore e Tonio   cominciava a cogliere qualche dettaglio. Intanto la dimensione della   carne. Era una specialità che molti avevano notato. Piccoli pezzi, per   la maggiore parte disossati che quasi si sfibravano nella densità del   sugo.

Ecco, già un piccolo segreto l’aveva rubato. Quello strano strumento   serviva a ridurre in poltiglia, a togliere anche la più piccola asperità   per consentire la miglior degustazione. Gli parve quasi di essere   indegno di quella delizia, nel suo sconveniente spionaggio. Oggi poi è   migliore del solito, pensò, mentre spezzettava il pane duro, facendolo   affondare nella lava fumante della scodella. Che bontà, rimarcò, dopo   aver assaporato i primi fumanti bocconi. Ripulì il palato con abbondanti   sorsi di vino e si rituffò nell’impresa, pescando in fondo alla tazza i   bocconi di pane che aveva affondato. Un istante dopo un urlo silenzioso,   un lampo imperioso e sorprendente di luce attraversò la sua testa,   seguito dal dolore acuto dell’impatto tra i denti e la gengiva, lì dove   la mucosa ricorda di essere tenera e facilmente feribile.

La crosta del pane – pensò all’istante – quella scorza annerita non si   era sufficientemente ammollita e ora gli aveva lacerato il palato   ingordo, causandogli quella fitta acuta. Le dita corsero naturalmente a   prelevare l’intruso, per liberare la bocca e dare una giusta punizione a   quel fastidioso inconveniente. Lo catturò facilmente, cogliendo subito   una strana sensazione. Lo portò davanti agli occhi per vedere meglio,   nella fiammeggiante luce della candela che rischiarava il profondo   budello, illuminato solo dalla luce della porta centrale.

Ci volle un po’ per capire, perché noi umani vediamo subito solo ciò che   ci aspettiamo di vedere e quello che vide Tonio, non se lo sarebbe mai   aspettato.

Un dito. Anzi, un ditino. Falangina e falangetta, inconfondibilmente   dotata di unghia appuntita, che era stata la causa della sua ferita. Il   ditino di un bambino.

Chiunque possieda un adeguato sistema funzionale, sa che l’emozione   agisce sul sistema simpatico, causando quegli effetti che a volte   (specie nei più sensibili) possono portare allo svenimento.   Accelerazione dei battiti, pallore, sudorazione imponente, acufeni,   testa gironzolante e, soprattutto, un senso di nausea incipiente che   faticava a controllare. Non ci voleva credere e osservò più volte quel   reperto. Però Tonio era anche un giovane forte, temprato dalla povera   origine a sopravvivere anche nelle situazioni più dure. Aveva pure una   mente sveglia e reattiva. Intanto bisogna sopravvivere, poi vedremo il   da farsi. Deglutì a fatica l’imponente saliva che gli si era formata.   Chiuse rapido nella mano il reperto e lo riversò nel povero panno che   sempre teneva in tasca per pulire le mani dalla calce. Riuscì perfino a   bere ancora del vino che gli fece bene, riportando un po’ di colore su   quel volto che un istante prima pareva infarinato e ceruleo. Lasciò le   monete sul davanzale della finestra della cucina, urlando alle spalle   del gigante un incomprensibile saluto. Scappò poi fuori, facendosi largo   tra i lazzi e le voci urlanti degli operai che si contendevano i posti   migliori. Non fece parola con nessuno. Non voleva neppure ripensare a   quello che aveva visto. Lo avrebbe immaginato galleggiare nel suo   stomaco che ancora brontolava. E fu proprio lì fuori, mentre cercava   disperatamente aria, appena raggiunta la riva di un piccolo canale   laterale, che vomitò tutto il suo guazeto preferito. Dalla finestra di   un palazzo, qualcuno commentò “S’ubriacano anche di giorno ‘sti operai,   che mondo!”

Il comandante della guardia Martino Valier, si alzò a fatica dalla   poltroncina su cui aveva tentato il riposino dopo pranzo. Certo non   avrebbe dovuto stare seduto lì, era la sedia riservata agli ospiti   illustri, ai nobili delle quarentie che a volte venivano a esplorare la   postazione. Ma era così comoda, vicino al caminetto, con quel tepore che   nella penombra, creata dalla spessa tenda, favoriva il dolce scivolo tra   le braccia di Morfeo. E poi a quell’ora anche i briganti si sedevano a   tavola, siamo tutti umani, in fondo. Lo strepito che proveniva   dall’ingresso non poteva, però, lasciarlo indifferente. Tanto ben   presto, lo sapeva, avrebbero bussato alla sua porta. Le guardie fanno   sempre così, quasi per vendetta. Se c’è un problema si guardano bene dal   risolverlo. E che devono lavorare solo loro, mentre il capo mangia, beve   e dorme? Se la sbrighi lui. Nessuna iniziativa. Meglio essere pronti,   pensò Martino, anzi era una buona occasione per far vedere che,   contrariamente a quel che si pensava, lui vegliava sempre.

“Che cos’è tutto questo fracasso?!” Urlò, spalancando l’uscio e andando   incontro alla guardia che si avvicinava lungo il corridoio, cercando di   tacitare un giovane che continuava a ripetere “Il comandante… posso   dirlo solo al comandante.. non è cosa per voi!”

“Ho tentato capo, ma questo non ne vuol sapere di seguire la prassi…   Solo al comandante, avete sentito, dice di un orribile caso… un delitto   che può raccontare solo a voi, che noi non gli avremmo creduto. E   dunque…” “Sì, Sì, Ho capito… E dunque vedetevela voi.. Bravo Tiziano,   come al solito.. lascia stare.. fallo entrare ci parlo io… e intanto –   aggiunse per pura vendetta – lascia Piero alla porta e tu vai a fare un   giro d’ispezione fuori… non si sa mai che sia l’inizio di un subbuglio.”   “Ma….” “Niente ma, vai e poi riferisci” Il comandante chiuse la porta,   lasciando Tiziano incapace di replicare e fu allora che vide il volto   sconvolto di Tonio.

Si era aspettato di dover affrontare la solita seccatura. Un furtarello   o una truffa subita ai dadi o al gioco delle tre carte. Magari la   consueta filippica sull’agguato di un possibile sicario, ingaggiato   dalla moglie infedele o la tradizionale feroce lite con il vicino   maleducato. Ma il volto che gli stava davanti muto, urlava con chiarezza   di aver assistito a qualcosa di terribile. Era così evidente che Martino   disse al giovane di sedersi, proprio sulla sua amata poltroncina e   chiese anche se voleva bere dell’acqua. Tonio accettò e schiarita la   gola con cui nell’ultima ora aveva acceso una feroce battaglia per   dimenticare i sapori prima tanto amati, cominciò a parlare: “Signore so   che non mi crederete, perché io stesso stento a pensare vero quello che   sto per dirvi… ma … ho le prove… qui.. con me..” Frugò nella tasca ed   estrasse lo straccio, stringendolo forte nella mano tremante, esposta in   bella evidenza al comandante che lo osservava muto e incuriosito.

“Voi conoscete certo la bottega di Biagio Cragnio, il luganer …” “A San   Zan Degolà” Confermò il Valier che, come tutti, incuriosito dalla moda   popolare, ci era passato e dovendo pure controllare la qualità della   merce, si era gustato il famoso guazeto ,offerto naturalmente dalla   casa. “Ci sono stato anche oggi.. Ci vado spesso – Confessò con pungente   rimorso Tonio – Ma non potevo pensare mai.. “ “Una rissa.. qualcuno   accoltellato.. eh lo so, lì c’è sempre confusione, gira anche brutta   gente.” Anticipò il comandante, ipotizzando che la mano stringesse   l’arma del delitto, lui le capiva al volo certe cose, era l’esperienza   del suo mestiere.

“No, no, nessuna rissa… sono andato presto, dovevano ancora arrivare gli   operai.” “E allora?” Interrogò Martino, un po’ indispettito d’essere   stato smentito nella sua brillante intuizione. “Vede, comandante, ho   chiesto di mangiare il solito guazeto” “Oh ben fortunato voi, che io ho   dovuto mangiar solo la sbobba della guardia.” Mentì il Valier, che   invece si era divorata una magnifica frittura alla Locanda della   Sacrestia. “Sì, ma vede – indugiò Tonio, reso più incerto dal tono   confidenziale, che reazione avrebbe avuto il comandante che si capiva   conosceva bene i sapori dell’orrida zuppa? – Mentre mangiavo, col pane   vecchio, perché la polenta ancora non era pronta..” “Andiamo, figliolo,   facciamola corta!” Stimolò Martino che ora non capiva davvero dove si   volesse andare a parare, non vorrà mica denunciare che hanno truffato   sul conto? “Sì, ha ragione.. è che non so come dirlo.. insomma – si fece   coraggio – ho sentito come qualcosa di duro che mi aveva ferito la   bocca.. ho pensato a un pezzo di crosta del pane..” Martino lo fissava   come fosse apparso un fantasma. Essere svegliato per sentire l’assurda   storiella del pane duro nella zuppa.. era un pazzo costui? Tonio intuì e   capì che ormai il dado era tratto e si doveva arrivare in fretta al   finale. “Non era pane, comandante – disse tutto d’un fiato – era   questo!” Aprì la mano e scostò la stoffa.

Il ditino, ripulito dal sugo, apparve in tutto il suo candore. Quella   perfezione miniaturizzata che tutti sorprende alla vista delle mani dei   bimbi e accende immediata, totale, incontenibile tenerezza e ci fa dire   a volte quanto sono belli, da mangiarli (sic!) di baci, apparve nella   stoffa orribilmente mutilata. Nella stanza il silenzio esplose come una   bomba.

Fu il comandante, il primo a rompere la bolla di melassa temporale in   cui la scena era affondata. Immobili istanti che restano scolpiti nella   memoria di chi li ha vissuti. Ricordi indelebili anche a distanza di   molti anni, quando tutti gli altri dettagli sono scomparsi, rimangono   come un presente incancellabile. Valier prese in mano la stoffa. Non   ebbe il coraggio di impugnare subito il reperto. Avvicinò la tela al   volto e infine, usando sempre il tessuto come filtro, prese tra le dita   quel misero resto di una vita. Feroce scoppiò in lui che pure era padre,   la memoria del corpicino delicato del figlio maschio, morto tempo   addietro. Quelle manine, spesso, il piccolo le confrontava, poggiando il   palmo su quelle forti del padre. Allora Martino sentiva tutto il calore   del corpo che ora tanto gli mancava e poteva vedere, come in una   perfetta cornice, quelle piccole dita dolci che assomigliavano a quelle   affusolate della madre. Era come se quel dito che gli stava davanti   fosse stato strappato a suo figlio. Orrore e rabbia si fusero nel   pensiero, mentre la mente audace percorreva tutte le strade. Anche lui   aveva mangiato quella fetida pozione. La nausea lo invadeva e anche uno   stupido senso di colpa, quasi di complicità. La mano tremava per   l’emozione e ne fu davvero sorpreso. Non pensava di poter essere così   fragile. Non si diventava facilmente comandante della guardia a Venezia.   E il Valier quell’incarico se l’era conquistato, dimostrando tutto il   suo valore guerriero in scontri disperati, da cui chiunque sarebbe   fuggito. Sempre si era dimostrato freddo e convenientemente calcolatore.   Mai preda del panico e sagace nell’inseguire le migliori strategie   risolutive.

“Siete certo di quello che affermate?” Chiese a Tonio che aveva quasi   cessato di respirare davanti all’evidente turbamento. “Oh.. vedete.. ne   ho ancora traccia sul palato.” Rispose il giovane operaio, aprendo la   bocca come davanti a un dottore e lasciando intravvedere il solco   sanguinante che l’unghia appuntita aveva causato. “Ne avete parlato con   altri?” Proseguì il Valier che stava riacquisendo la professionalità   indagatrice. “No, no.. sono uscito, dopo aver pagato… senza farmi   notare.. stavo male.. non ho detto niente a nessuno.. non sapevo che   fare.. poi ho pensato di venire qui.. da voi.” Concluse, lanciando un   implicito apprezzamento alla fama di onestà che circondava quel vecchio   guerriero. “Avete fatto bene - Confermò Martino – Ora dovete mantenere   il segreto.. mi capite? Nessuno deve sapere! Nessuno, niente moglie,   niente amici fedeli, niente….Nessuno!” Il comandante aveva ripreso il   controllo totale e lo esercitava, com’era solito fare, senza indugi e   con quel tono perentorio che induceva facilmente all’obbedienza.   “Nessuno” Confermò Tonio, come ipnotizzato. “Bene, ora lasciatemi i   vostri dati e tornate al lavoro. Inventate una scusa e non fate parola   di questo!” Repetita iuvant, pensò Martino mentre trascriveva il nome e   l’indirizzo del giovane operaio che, subito dopo, uscì un po’ stordito,   ma come risollevato da quella prima confessione. Le gambe ancora   tremavano e il pensiero orrendo bussava di nuovo pulsante alla   coscienza. Però, c’era ora una nuova barriera razionale, qualcosa di   giusto aveva fatto. Se poi avesse avuto il seguito che si aspettava…   l’arresto… la giusta punizione… forse col tempo sarebbe riuscito a   cancellare quel sapore dolciastro che nella memoria lo perseguitava e lo   costringeva ora a fermarsi alla prima malvasia, per tracannare d’un   fiato un bicchiere di vin greco resinato.

Valier, rimasto solo, pensò che non doveva sbagliare una mossa. Il caso   poteva avere enormi conseguenze e servivano certezze totali. Tutta la   città conosceva quella bottega. Tutti, compresi molti nobili influenti,   avevano assaggiato quella zuppa rinomata. Martino sapeva, per lunga   esperienza di rapporto con i superiori, quanto fosse difficile   convincere di sconvenienti ipotesi investigative persone che ne fossero   in qualche modo coinvolte. Anche solo per leggerezza. In questo caso,   poi, si trattava di trasformare una folla di entusiasti estimatori, in   una bolgia di orrendamente truffati. Senza via di scampo, senza alcuna   possibilità di furbesche vie d’uscita, del tipo sì io un po’ l’avevo   capito. No. Restava solo l’idiozia, la stupidità di non aver compreso,   di esserci cascati in pieno. E anche quel fastidioso senso di colpa,   stupido ma inevitabile, che lui stesso aveva provato.

Servivano prove inconfutabili e che favorissero anche l’evidenza che   nessuno avrebbe potuto sapere e neppure immaginare. Solo così sarebbe   riuscito a trasformare il desiderio di cancellare, di non sapere, di   minimizzare, di soffocare, di ridimensionare per salvare la faccia,   nelle giusta rabbia, animata dalla sete di giustizia. Decise che anche   lui non avrebbe parlato con nessuno. La sua autorità gli consentiva di   utilizzare il corpo di guardia per operazioni improvvise, anche senza   mandato delle magistrature, quando vi fosse sospetto di azioni   delittuose in atto, che spettava a lui fermare. Dunque, l’unico vero   problema era trovare evidenze talmente palesi da poter cancellare ogni   dubbio. Se poi non ci fossero state, c’erano sempre quel misero reperto   e la denuncia sincera di Tonio, sufficienti a giustificare l’indagine ed   anche la chiusura cautelare del locale. Sulle frodi alimentari le leggi   veneziane erano severissime e almeno di questo non si poteva dubitare.

Partì accompagnato dalle sue guardie migliori. All’inizio si accorse che   bofonchiavano. Quando la giornata procede lenta e senza scossoni è   difficile liberarsi da quella dolce pigrizia che induce a credere alla   saggezza dell’ozio. Ma in realtà si trattava di uomini d’azione,   abituati a trovare nel gesto fisico la soddisfazione euforizzante. Il   piglio deciso del comandante poi non lasciava dubbi. Stava accadendo   qualcosa d’importante. Dunque, niente indugi. Domani ne parlerà tutta   Venezia e magari qualche giovane sposa vorrà saperne di più e si potrà   dire, c’ero anch’io. Martino non aveva dato spiegazioni, se non il   comando risoluto a formare il drappello per un’ispezione che avrebbe   richiesto decisione e concentrazione. Contava sulla loro affidabilità e   lasciò intendere che si sarebbe ricordato di chi non avesse tenuto fede   al patto. Tagliarono la città con passo deciso, suscitando la curiosità   momentanea dei passanti che si scostavano intimoriti, per lasciare il   passo a quei soldati che, come al solito, in pubblico avevano assunto   l’espressione determinata e feroce che si addice alle forze dell’ordine.

Giunsero che ormai si faceva sera in campo San Zan Degolà. Si era già   formata la coda vociante dei clienti golosi, felici della giornata spesa   e in attesa della calda pietanza e della brocca di vino, con cui di sera   si poteva abbondare. Qualcuno protestò per le spinte irriguardose delle   guardie che si facevano largo, incuranti di ogni ostacolo che veniva,   facilmente e bruscamente, buttato a lato. Furono dentro il lungo   corridoio in un attimo. Nessuno riuscì a capire cosa stesse accadendo.   Martino, in testa al gruppo, si limitò ad annunciare l’autorità della   Serenissima, già evidente a tutti dalle insegne della veste. Spalancò la   porta della cucina e da dietro ai pentoloni fumanti, vide il grugno   scolpito nel legno della Carnia di Biagio. Lo fissava tenendo sospeso in   aria il coperchio che aveva sollevato per controllare la cottura. Le   fiamme del caminetto, le luci balzane delle candele, i vapori   brontolanti e gli odori speziati che abitavano la stanza, diedero al   Valier l’impressione d’essere entrato in Inferno.

Il gigante sembrava immobile tra le nuvole del vapore. Una statua che   s’interrogava rapidamente, uscendo dalla sorpresa. Poi capì. Un piccolo,   sornione, complice, mellifluo sorriso si fece strada nel volto. Come   dire, siete qui per quello? Ma ancor prima aveva inteso tutto Martino,   che fu rapido nell’impugnare la spada, puntandola dritto verso quel   ghigno che avrebbe voluto essere conciliante. D’istinto Biagio si riparò   col coperchio, in tempo per sentire il comando urlato alle guardie dal   Valier: “Voi dentro quella porta! Frugate ovunque! Aprite ogni vaso! E   tu cuoco – aggiunse con voce tonante – non un gesto… O il naso e le   orecchie finiranno in pentola!” Concluse, con cinica ironia.

L’urlo delle guardie fu udito anche dagli avventori che, accalcati,   curiosavano petulanti e delusi per l’attesa che si faceva lunga. Perfino   Biagio trasalì e Martino sentì la pelle raggrinzirsi e un’onda elettrica   percorrergli la nuca. Se mai un suono può comunicare qualcosa, quel   grido comunicò a tutti orrore. La prima guardia che uscì vomitò ai piedi   del comandante. La seconda impugnò la brocca del vino e bevve avidamente   prima di annunciare: “E’ la vista peggiore della mia vita… - prese fiato   e aggiunse – un macello … di bambini.. pezzi sparsi.. dappertutto…   perfino le interiora ha conservato… e il sangue …. Nelle brocche..” Si   fermò e guardò quella piccola che ancora teneva in mano. Sputò di colpo   il resto del vino che prima impulsivamente aveva ingoiato. Fece per   avventarsi sull’immobile luganegher che ormai aveva rinunciato alla   difesa. Tutto troppo rapido e nessuna via di fuga. Gioco finito. Ne era   quasi contento. Niente più sotterfugi, e notti in bianco a squartare,   tagliuzzare, sminuzzare e insaccare e cucinare. Tanti “schei”, ma anche   tanta fatica. E poi, ultimamente, era divenuto tutto più difficile.   Anche lì, in terraferma, gli accampamenti dei poveri diminuivano e nei   mercati i bimbi erano tenuti d’occhio. Certo le sue salcicce, i salami   attiravano sempre quei piccoli affamati. Però poi bisognava trovare il   momento giusto e l’angolo buio in cui concludere l’azione. A volte li   stordiva e li finiva poi in barca, per non lasciare tracce di sangue.   Quello lui lo raccoglieva, tornava buono per le salcicce e il sugo. Ma   tutto il tragitto, di notte e spesso col tempo incerto, doveva farlo da   solo, vogando a un remo che è sempre un’agonia, anche se si è forti come   una quercia. Peccato solo per il bel successo e il tanto denaro. In   fondo, quello che più lo appagava era sentire dire che il suo era il   miglior squazeto. E vedere anche quei nobili ben vestiti e quelle dame   profumate che s’azzuffavano per un tavolo nella sua stamberga, in mezzo   agli operai. “Incatenatelo robusto – ordinò il comandante – senza fargli   del male.. ci penserà la quarentia.. io vado dietro a vedere!”

Lo fece e se ne pentì. Lui avrebbe dovuto riferire e per esperienza non   si fidava di altri testimoni. Non immaginava che la meticolosa   professionalità del lugangher potesse riservargli un tale   sconvolgimento. A suo modo tutto era ordinato. Le membra sminuzzate da   una parte. Visceri e interiora da un’altra. E sangue, sangue raccolto in   brocche. A tutti, in natura, il cucciolo provoca irrimediabilmente una   spontanea tenerezza, nella goffaggine di un corpo ancora incerto. Quel   sentimento intenso si trasformò in un violento paradosso, di fronte ai   pezzi confusi nel secchio, come relitti di una vita stroncata. E, ancor   peggio, trasformata in pietanza dall’orco, come nelle fiabe. Il sistema   vagale di Martino ne fu intossicato. Sudore e nausea presero il   sopravvento. Dovette uscire. Si fece forza per senso del dovere. “Fate   strada, Passa la giustizia!” Urlò, conducendo fuori il drappello col   gigante incatenato.

“La bottega è chiusa per ordine della Serenissima!” Aggiunse, lasciando   alcune guardie a custodia delle prove. La gente ancora non capiva. Molti   apparivano dispiaciuti nel vedere trascinato via il cuoco preferito.   Magari si trattava solo di qualche irregolarità nelle tasse o nelle   misure della bilancia. A volte la Repubblica è fin troppo severa.   Togliere dall’attività un così bravo luganegher per quisquilie   burocratiche. Dove lo troviamo noi un altro posto dove si mangia così   bene per pochi schei?

La quarantia criminale si riunì la sera stessa. Davanti ai magistrati   increduli, Biagio tenne un atteggiamento conciliante. Non vi fu bisogno   di tortura. Le prove indicate dal Valier erano evidenti. L’imputato   stesso confessò, con stupefacente candore, che sì era tutto vero e che   l’aveva fatto per i “schei” e la fama in città. Mentre gli scrivani   tentavano di riordinare le molte denunce che si erano accumulate in   quegli anni, bimbi poveri scomparsi e mai ritrovati, specie nella   terraferma, i magistrati sconvolti disputavano sulla pena da infliggere.   Inutile approfondire il conteggio, decine erano state le vittime.   L’orrore si aggiungeva alla rabbia di non aver saputo scoprire prima i   terribili delitti. Vi era anche il timore che il popolo sconvolto, e chi   non lo sarebbe stato sapendo di aver divorato goloso i propri figli, si   rivoltasse contro l’ignavia delle autorità che avevano permesso che   accadesse. La pena doveva essere esemplare e crudele. Inutile pensare   che il gigante che era giunto a tanto fosse pazzo. Nessuna scusante. E   nessuno osò pronunciare parole di moderazione. Fu ripristinata la   procedura più severa per la pena capitale, che doveva essere eseguita   l’indomani, evitando che se ne potesse parlare troppo.

Biagio dormì tranquillo quella notte. I carcerieri non osarono accanirsi   contro il gigante che incuteva, anche da prigioniero, un certo timore.   Fu anzi dato loro l’ordine di tenere l’uomo in buona forma, per favorire   il supplizio che lo doveva trovare ben consapevole dei suoi peccati. Ma   vi fu chi si chiese cosa potesse capire quell’essere disumano, che   pareva perfino lieto della sbobba che gli fu offerta. Solo all’alba,   quando andarono a prenderlo, sembrò intimorito e continuava a chiedere   quando sarebbe tornato alla sua bottega.

Vi ritornò quella mattina stessa, ma non come avrebbe sperato. Fu prima   condotto a Santa Croce dove, come antipasto, fu torturato con tenaglie   roventi. Poi gli venne amputata la mano destra che gli fu appesa al   collo. Il moncone, cauterizzato con ferri roventi, fu ricoperto con   interiora di vacca. Quindi, fu portato a San Zan Degolà, nel locus   commissi delicti, dove patì l’amputazione dell’altra mano. Infine fu   trascinato, a coda di cavallo, cioè legato dietro a un cavallo che lo   faceva strisciare a terra e sbattere contro qualunque ostacolo, fino in   piazza San Marco. Sotto le colonne della piazzetta, venne decapitato e   successivamente squartato. I suoi quarti, a perenne ammonimento, furono   appesi ai quattro angoli cardinali della città.

La bottega e la casa furono abbattute e bruciate. Si volle così   cancellare ogni memoria degli orrendi crimini di cui si era macchiato,   Biagio, per gli amici Biasio, Cargnio.

Ma a volte la storia organizza delle beffe. Benché non vi siano prove   storiche certe della leggenda dell’orco veneziano, rimane curioso che   unica, tra le tante rive di Venezia, in genere dedicate a Santi o   chiese, vi sia ancora oggi la riva di Biasio esattamente nei pressi ove   la leggenda collocava la locanda. Una cronaca, scritta tra la fine del   secolo XVI° e il principio del XVII° (Cod.XXX, Classe VII, della   Marciana) ne conferma almeno l’esistenza con le seguenti parole: “Nota   che tutte le barche venivano da Mestrina arivavano all’hostaria di   Biasio hora detta riva di Biasio”

Anche oggi, dove si fermano i “camionisti”, in genere si mangia bene con   pochi soldi.

Sotoportego de la Madona a   S.Aponal (Venezia)




Sotto la tunica di lana grezza il pugnale premeva sul fianco. Saverio,   seduto, accovacciato, ricoperto dall’abbondante cappuccio fingeva di   dormire, ma vegliava tremante. Davanti a lui, steso a terra ai piedi del   sottoportico, stava la figura rannicchiata, avvolta nel mantello povero   del pellegrino. L’oscurità era quasi totale. Solo una piccola torcia   ardeva ancora, lanciando bagliori dal vicino campo. La Marangona aveva   da tempo annunciato la svolta della notte. Il freddo cominciava a   mordere rallentando la corsa verso le ore piccole che parevano ibernate.   Tutto sembrava essersi fermato. Solo il suo cuore pulsava sempre più   forte. Poteva quasi sentirlo nel silenzio di quell’angolo appartato,   rotto solo da qualche grido di gondoliere proveniente dal vicino Canal   Grande. Nobili che ritornano da piacevoli avventure, aveva pensato,   invidiando il morbido femmineo tepore che forse godevano al riparo della   felza. A lui toccava altro destino. Non solo il freddo, ma il rischio di   morte. Si mosse lentamente per accentuare la visione da sotto il   cappuccio. Sapeva che questa era la situazione di maggior rischio. La   sede segreta dei Cavalieri di Malta era vicina, appena oltre al campo,   in Calle del Perdon.

L’accordo era stato chiaro, un fischio prolungato e subito sarebbero   accorsi. Non dubitava che come lui vegliassero in attesa di eventi.   Tuttavia c’erano buoni motivi per temere l’agguato. Troppi nemici,   tanti. Gli imperiali di Federico Barbarossa, gli opportunisti seguaci   dell’antipapa, i Comuni della Lega che temevano la pacificazione, le   famiglie romane avverse, i Normanni che spesso non capivano i   bizantinismi della politica, l’imperatore d’Oriente che sapeva mutevoli   i confini dell’alleanza, gli stessi veneziani che in parte si   professavano favorevoli all’impero tedesco e soprattutto mutavano con   facilità alleanza a vantaggio dei commerci.

Il doge, Sebastiano Ziani, eletto nel settembre del 1172, aveva   cominciato la carriera nell’attività mercantile. Sale, pepe e altre   spezie, qualcuno diceva pure strozzinaggio, furono la sua fortuna. In   breve era riuscito a costituirsi un immenso patrimonio. Fu anche per un   periodo diplomatico a Costantinopoli ove sembrava aver appreso bene il   concetto levantino di alleanza. Pur avendo aderito alla Lega di Pontida,   infatti, non esitò ad allearsi col Barbarossa contro l’imperatore   Commeno per il possesso di Ancona. Nel 1175, nonostante la sconfitta   imposta ai Normanni nella battaglia navale di Corfù, si alleò con gli   stessi contro i Greci. In quell’anno le alleanze dei veneziani mutarono   per ben quattro volte solo con i Normanni e i Greci e due con gli   imperiali.

Saverio aveva saputo da un cavaliere di ritorno da Costantinopoli che in   quello stesso anno Enrico Dandolo, ambasciatore veneziano presso il   Commeno, venne fatto abbacinare dall’imperatore dopo un acceso scontro   verbale e divenne quasi cieco. Dunque quell’invito al papa Alessandro   III per una riconciliazione col Barbarossa a Venezia poteva ben   nascondere trappole mortali.

Il piano congegnato da Rolando Bandinelli, dal 1159 papa Alessandro III,   aveva dunque senso e dimostrava ancora una volta la geniale prudenza del   vecchio, travestito da pellegrino, che ora dormiva, o fingeva di   dormire, disteso davanti a lui, sotto l’architrave del sotoportego de la   Madona a S.Aponal. Vi erano giunti quel giorno da Zara, dove erano stati   accolti qualche giorno prima con grandissime feste. Una fuga decennale,   dopo la completa disfatta dell’esercito comunale romano, guidato da   Ottone Frangipane, nel maggio del 1167. Giorni terribili, assediati   dall’imperatore con le sue truppe sotto Monte Mario.

La popolazione, cedendo alle lusinghe di Federico imperatore aveva   chiesto ad Alessandro III di abbandonare il soglio, insieme all’antipapa   sostenuto dal Barbarossa, per eleggere un nuovo papa e chiudere la lunga   contesa. Alessandro fu inflessibile. Resistette presso i Frangipane tra   le solide difese delle case poste tra Colonna, la Thurris Chartularia e   S.Maria Nova. Poi, crescendo i pericoli “evanuit”, sparì. Fu avvistato a   Terracina, Gaeta, Benevento.

Nel frattempo avvenne il miracolo. Uno di quei segni che sempre avevano   accompagnato la sua esistenza, impressionando non solo la mente del fido   Saverio, ma tutta la coscienza dei popoli comunali allora in rivolta. La   peste, scoppiata tra le truppe tedesche, distrusse l’esercito imperiale   e lo costrinse ad una lenta e tragica ritirata.

Saverio aveva spesso riflettuto su quella strana “coincidenza” che   spesso si era ripetuta nella vita di quell’uomo di cui era divenuto il   più fedele servitore. Lo aveva conosciuto nel 1157, a Besancon in   Francia. Era stato assegnato, giovane cavaliere ventenne, come guardia   personale dell’allora cardinale e cancelliere pontificio Rolando, nella   difficile missione. Il vescovo Esquilo di Lund, di ritorno da Roma, era   stato rapinato e imprigionato da alcuni cavalieri imperiali. Il papa di   allora, Adriano IV, aveva inviato Bandinelli dall’imperatore Federico   Barbarossa per chiedere la liberazione del vescovo, la riconsegna dei   beni e soprattutto il rispetto delle priorità del papa sull’impero.

Saverio ricordava bene la scena. L’imperatore, affiancato dai suoi   cavalieri, stava in piedi di fronte al cardinale Rolando che, in   ginocchio, chiedeva il rispetto delle prerogative papali. La sala   vibrava di tensione mentre il Barbarossa, sorridendo, ricordava i suoi   possedimenti, la forza del suo esercito, la grandezza del suo impero.   Cosa avrebbe potuto fare il papa, armato solo dalle poche famiglie   romane, in una piccola frazione della piccola penisola? Fu allora che   Rolando si alzò e pronunciò la storica frase che apri la lunga contesa   tra papato e impero. “I a quo ergo habet, si a domno papa non habet,   imperium?” (Da chi dunque il principe ottiene l’impero? Da chi se non   dal papa?)

Il gelo piombò nella sala. Gli occhi dei due contendenti si fissarono a   lungo. Rolando resse la sfida, consapevole della forza, non solo   simbolica, dell’incoronazione papale. Tutti lo sapevano, anche   l’imperatore e i suoi cavalieri che mal sopportavano questo   indissolubile vincolo dell’autorità.

La rabbia s’impadronì di uno di essi, Ottone, il più giovane e focoso.   Voleva dare una lezione a quel prete saccente e chiuderla finalmente con   questa stupida storia. Estrasse la spada e menò un fendente che certo   avrebbe tagliato la testa a Rolando se la fibbia dorata che chiudeva il   suo mantello e il rapido riflesso con cui aveva allontanato il capo non   l’avessero salvato. Ottone fu subito bloccato dallo stesso imperatore   che ben sapeva troppo pericoloso, in quel momento, un gesto così   clamoroso. L’Inghilterra, Bisanzio e chissà quanti altri ancora   aspettavano solo un simile errore per rimettere in discussione la sua   autorità. Non avrebbe commesso una tale ingenuità. Si limitò ad ordinare   al cancelliere papale di abbandonare immediatamente la corte,   impedendogli di aver contatti col clero tedesco durante il viaggio di   ritorno.

Saverio, che durante lo scontro era rimasto paralizzato e disarmato,   com’era d’obbligo alla presenza dell’imperatore, aveva medicato al   cancelliere pontificio la ferita che la punta della spada aveva inferto   tra lo zigomo e l’orecchio. Provocò una cicatrice indelebile che il   futuro papa spesso accarezzava quando era immerso nelle sue riflessioni.

“Vedi Saverio, come la forza della Provvidenza sa manifestarsi – gli   disse mentre subiva la medicazione – quella fibbia con la croce… mi fu   donata dal papa. Così si difende il regno di Pietro.”

Saverio aveva annuito, ancora scosso e certo impressionato dallo   scampato pericolo. Nell’immediato si era chiesto cosa sarebbe stato di   lui se il cardinale fosse morto. Inoltre, concordava sulla sorprendente   efficacia della deviazione della lama che tuttavia, benché fedele non   era un prete, gli parve al momento solo una favorevole coincidenza.

Ma di coincidenze ve ne furono molte altre. Ebbe modo di assistere da   vicino nei vent’anni trascorsi al suo fianco, a molte sorprendenti   situazioni nelle quali il destino sembrava favorire quel vecchio   energico che ora giaceva davanti a lui.

A Roma, durante l’assedio, la sua scomparsa improvvisa era passata alla   storia come una magica sparizione. Solo Saverio sapeva la verità di   quella fune improvvisamente spezzata, mentre tentavano di calarsi dalla   torre assediata. Ormai non c’era più scampo. Pochi gradini e l’ultimo   portone, quindi il cul de sac. Non restava che calarsi dal finestrone   verso il cortile posteriore. Saverio aveva lanciato la corta fune che   fungeva da passamano della scala. Poi il papa si era aggrappato e aveva   cominciato a scendere senza indugi. Ormai si sentivano distintamente le   urla del combattimento e lo strepito delle spade che risalivano come   fiamme sul caminetto. Anche Saverio dovette lanciarsi sulla fune. In   quell’attimo la corda si spezzò. Nel punto esatto dell’ancoraggio, così   che nella torre non ne rimase traccia.

Precipitarono entrambi per qualche metro. Poi si trovarono quasi   soffocati nel carro di fieno che in quel preciso istante correva   affannato per raggiungere il Tevere e salvare così il carico dal   putiferio della battaglia. Erano quasi abbracciati, ammaccati,   indolenziti, ma salvi. Non dissero niente finché l’andatura non si fece   più tranquilla e tacitarono un poco gli echi dello scontro. Le urla del   battelliere chiarirono che erano al fiume.

Solo allora Saverio riacquisì la freddezza del guerriero. Si alzò oltre   la curva del fieno. Vide il fiume e quella specie di zatterone che   attendeva il carro. Fece cenno al compagno di tacere e si nascose. Frugò   sotto la tunica. Restava solo il coltello, quello segreto che celava per   le emergenze. Ben più importante fu ritrovare appesa alla cintura la   sacca delle monete. Un’arma più potente per quella fuga che gli parve   davvero miracolosa. Sembrava quasi un piano predisposto con perfetta   sincronia. Non ci avrebbe creduto se non la stesse vivendo   concretamente, di persona.

Attese che il carro cominciasse a scivolare lungo la corrente, poi   s’inerpicò oltre la balaustra di contenimento e saltò dietro il carraio   e il battelliere che stavano discutendo. Si girarono improvvisamente   muti. L’occhio popolare di entrambi capì subito dall’abito, dal corpo,   dallo sguardo che quell’apparizione apparteneva al mondo delle armi.   Gente con la quale non vale la voce grossa. Gente, peraltro, spesso in   grado di pagare meglio di qualunque altro. Così fu.

“Mi serve il tuo mantello “ Disse Saverio rivolto al battelliere “Ed   anche la tua tela” proseguì, rivolto al carraio che teneva sulla spalla   una lunga pezza di cotone per ripararsi dal fieno.

L’ordine imperativo fu accompagnato da due brillanti e convincenti   monete d’argento. Non servirono altre parole, neppure allo sbarco,   quando altre due monete convinsero i due che la loro improvvisa fortuna   non doveva chiedere troppo al destino. Nessuna domanda sul secondo   passeggero, né tantomeno ebbre debolezze alla locanda. Quel guerriero   dalle molte cicatrici non lasciava dubbi. Il complice silenzio   significava aver rimediato alla scarsa annata, una parola in più e la   loro vita era segnata. Gli umili ben conoscono la vendetta dei potenti.

E quale portentosa fortuna salvò la galea dei Normanni che li stava   portando a Zara? Si erano imbarcati a Vasto ai primi di Marzo. La galea   era scortata da altre quattro che la circondavano pronte ad ogni   evenienza. Il cielo quasi primaverile, denso di un vento allegro e la   fretta di evitare incontri indesiderati, avevano convinto i comandanti a   salpare, nonostante gli avvisi dei locali. Qualche pescatore aveva   suggerito che la luna fosca ed oscurata del giorno prima poteva   annunciare tempesta. Leggende locali che ai comandanti normanni, avvezzi   alle burrasche nordiche, parvero pretesti.

Le vele si aprirono all’alba e le galee volarono sulle onde spinte da un   impetuoso vento di scirocco favorevole alla risalita. Nello spazio   ristretto dove alloggiavano, non vi era possibilità di vedere   all’esterno. Solo da una piccola feritoia laterale Saverio poteva   scorgere le onde che si alzavano sempre più col procedere delle navi   verso l’alto mare. Si sentiva lo stridere delle gomene che reggevano la   vela, lo scricchiolio del legno che pareva stringere i denti per reggere   lo sforzo. E il respiro profondo dell’onda ogni volta che, sollevata   come in un lungo balzo la poppa, la abbondonava spingendola avanti quasi   con rabbia. La galea accelerava in discesa sull’onda, poi rallentava e   veniva di nuovo aggredita dalla cresta successiva.

“Il mare respira profondo” disse il papa che aveva colto nel viso di   Saverio la traccia della preoccupazione “E il mio stomaco…lo accompagna”   Aggiunse rivelando il non detto di entrambi.

In quella scatola di legno chiusa, la continua altalena cominciava a   fare effetto. Fu così per tutto il giorno, fortunatamente confortato da   qualche uscita sul ponte. La luce, l’aria, la bellezza del mare e   qualche boccone di pane secco con acciughe salate avevano risolto anche   la cornice di nausea continua.

Saverio aveva continuato a chiedere dove si sarebbero fermati. Il vento   non calava, anzi sembrava rinforzare. Le creste delle onde, da piccole   pennellate di giovane pittore, si erano trasformate in mezze lune   sfolgoranti. Le galee al loro fianco, sempre più lontane, evidenziavano   la lotta di galleggiamento. Un movimento che le portava prima così alte   che si poteva intravvedere lo scafo, completo del remo timone quasi   emergente. Poi con un tuffo improvviso, sparivano dietro l’onda,   lasciando a vista solo l’estremità dei pennoni. Ogni volta che le navi   sbuffanti risalivano, sembravano annunciare che anche per stavolta ce   l’avevano fatta, ma chissà la prossima.

Saverio si teneva saldamente al legno che traversava la coperta sotto la   timoneria. Dietro di lui due marinai e il pilota lottavano senza   distrazioni per reggere la barra del timone laterale nella discesa   sull’onda. Il nostromo incalzava con ordini affannati i marinai. La vela   gonfia sembrava scoppiare e gli stralli tesi come corde d’arpa   ritrovavano bruscamente la pace ogni volta che la prua affondava. Poi di   colpo strappavano quando la galea risaliva a portata di vento. Benché   tutto fosse stato assicurato con corde, sulla coperta vari oggetti   correvano inseguendo gli sbuffi d’acqua ed i cavalli, sospesi alle   cinghie che li tenevano eretti, nitrivano incessantemente. Sotto   coperta, soldati e rematori toccavano frenetici gli amuleti in cerca di   conforto. Qualcuno in silenzio pregava. E il peggio doveva ancora   arrivare.

Verso sera il vento parve calare. Da un lato il cielo cominciò ad   oscurarsi precocemente. Saverio intuì che non si trattava solo del   tramonto. Lo confermavano i volti dei marinai che continuamente   scrutavano l’evoluzione di quelle nubi. In un primo tempo le aveva   confuse con l’incalzare della notte. Poi si rese conto con terrore che   si trattava del nero bluastro di un possente temporale. Bagliori   crescenti confermarono l’ipotesi. Si trovavano in mare aperto, forse   vicini alla meta che tuttavia non si vedeva. Nessuna possibilità di   tornare indietro. Nessuna possibilità di riparo.

Raggiunse il comandante, un nobile cavaliere francese che si stava   consultando con il pilota. Concordarono che il luogo più sicuro per il   papa restava quella piccola cabina del comandante. Si rifugiarono lì,   mentre ormai il cielo plumbeo cominciava a lanciare le prime violente   gocce. Fu abbassata la vela e i vogatori e soldati tornarono ai remi. Le   voci concitate erano in parte coperte dal tamburo degli aguzzini che   cercavano di mantenere il ritmo della voga. La pioggia arrivò di colpo,   impetuosa. Sembrava una cascata montana moltiplicata. A stento si   riusciva a vedere qualche metro avanti. L’acqua scorreva come un   ruscello sul ponte, mescolandosi col mare che, con onde spazzanti,   cercava di far sua la nave. Dentro quella scatola di legno gocciolante,   Saverio cercava di riparare il papa con un telo che aveva trovato sul   ponte. Lo aveva abbracciato per poterlo avvolgere completamente.

“Sei un soldato affettuoso – scherzò Alessandro – Non temere, qualcuno   ci abbraccia anche in alto. La nostra missione non è ancora compiuta”.

Saverio accolse quell’iniezione di fiducia con tutta la speranza che   aveva. Ma nell’intimo cominciava a dubitare che si sarebbero potuti   salvare. I lampi illuminavano l’interno della gabbia attraverso le   feritoie del legno e il frastuono secco e violento dichiarava che erano   nel cuore della tempesta.

La barca aveva perso la regolarità dell’oscillazione. Ormai il rollio e   il beccheggio si mescolavano con declinazioni sorprendenti. Non si   capiva più da dove venisse il vento e l‘onda corta e cattiva rendeva   quasi impossibile dare una rotta alla nave. Si sentivano le urla dei   vogatori che tentavano di dare stabilità, se non con la spinta almeno   con l’immersione dei remi. Lo scroscio della pioggia alternava pause a   scardinanti raffiche, finché violenta, rumorosa, quasi condanna   definitiva, giunse la grandine. Sembrava che la galea fosse inchiodata   da cento, mille falegnami armati di possenti martelli. I chicchi   rimbalzavano sul ponte con giocosi saltelli e poi si accumulavano tra le   spire delle gomene. Grossi quanto una ciliegia, talvolta anche più   mettevano a dura prova la resistenza del pilota e dei marinai scoperti   nella guida del timone. I lamenti e le imprecazioni divennero più forti.   Qualcuno tra i capelli inzuppati cominciò a intravvedere del sangue. Era   divenuto difficile anche camminare su quel tappeto bianco che ormai   assomigliava ad una nevicata. E davvero il vento era divenuto ora   gelato. Si manifestava in pieno lo scontro dei venti che aveva generato   il temporale.

Dopo un’ora di battaglia tra i flutti, durante la quale avevano perso di   vista le altre navi, il cielo cominciò a rasserenarsi ed arrivarono le   prime raffiche del grecale.

Saverio si era procurato una coperta di lana che sostituì al telo ormai   completamente zuppo. Fu allora che scoprì tra le mani congiunte del papa   la fibbia dorata, quella croce greca inserita in un tondo sporgente che   già una volta lo aveva salvato. Alessandro sorrise alla sua scoperta.   Non servivano parole. Tutto era già stato detto. Saverio non indugiò   oltre. Fosse talismano magico o prodigio della fede, l’importante è che   aveva funzionato. Il suo militaresco pragmatismo si limitava ad   analizzare la situazione. Erano sopravvissuti.

Niente più pioggia o grandine. Il temporale era passato. Nel cielo si   potevano scorgere le stelle tra le ultime nubi ritardatarie. Solo quel   vento freddo che continuava a farsi più teso lo teneva in agitazione. La   vela era inutilizzabile e tutto ormai dipendeva dalla forza dei   vogatori. Sul ponte, dove era uscito a controllare la situazione,   arrivavano sempre più spruzzi d’acqua gelata ogni volta che la prua   frangeva l’onda imbiancata.

Di quel vento aveva sentito parlare dai marinai veneziani, abituati a   navigare lungo le isole a sud della Grecia, verso Bisanzio. Vento Greco   lo chiamavano, perché da lì sembrava originarsi. In realtà lo   incontravano spesso anche più a Nord, lungo la costa degli Schiavoni. La   leggenda lo descriveva come terribile al largo. Quel vento amava il   dispari, poteva cioè durare un giorno, tre giorni o anche cinque.

“Se rinforza ancora dovremo metterci di poppa” annunciò il pilota al   comandante che in silenzio scrutava l’orizzonte ormai frastagliato dal   rilievo bianco delle onde. “I vogatori non possono tenere a lungo questo   ritmo... E se qualcuno cede potremmo traversarci… con grande pericolo…”

Il comandante indugiava. Tornare indietro significava vanificare la   missione e forse incontrare qualche nave all’inseguimento di quel papa   in fuga.

Fu a quel punto che giunse l’urlo: ”Relitto a prua!!”

Nel chiarore della mezza luna che illuminava l’inchiostro magmatico   delle onde, apparve il guscio della chiglia. A un centinaio di metri   dalla prua. Quando l’onda sollevò quei resti apparvero alcune figure   umane aggrappate.

Il pilota non attese ordini dal comandante. Erano per lui scontati. Da   sempre per la gente di mare il soccorso è un obbligo indiscutibile ed   anche la migliore assicurazione. “Prepararsi alla manovra!!” Urlò   sottocoperta ai rematori, mentre studiava il piano di accosto. I tempi   erano stretti. Comandò a due marinai di correre alla fiancata di dritta,   pronti al lancio delle gomene. Fece poi rallentare la voga dei rematori   a sinistra per traversare leggermente la galea e intercettare il relitto   sulla fila dei remi di dritta. Sperava di poter rallentare senza troppi   danni la sua deriva, giusto il tempo di far aggrappare i naufraghi alle   corde lanciate. Poi bisognava abbandonare rapidamente il relitto al suo   destino. C’era il pericolo che rompesse i remi o ancor peggio che   danneggiasse lo scafo della galea. Tuttavia al piano mancava   l’alternativa. O così o quegli uomini si sarebbero persi per sempre.

Saverio intuì le intenzioni del pilota. Impugnò una lunga corda che   aveva nella cesta davanti a lui. La avvolse rapidamente mentre la galea   cominciava a traversarsi, ondeggiando per il rollio. Divise le due spire   tra le due braccia. Da ragazzo aveva navigato lungo la costa a bordo   della nave dello zio. Con i marinai si era divertito alle sfide   adolescenziali. Il lancio più lontano della fune di ormeggio era uno di   questi nel quale, in verità, eccelleva. Aveva capito che il segreto   stava nel coordinare il movimento delle due braccia, cosicché lo   svolgimento della fune fosse continuo. Esaurita la prima spira, iniziava   la seconda, fino alla completa estensione della fune. Condizione   ultimativa: il calcolo del vento, che quando è teso non solo contrasta   ma a volte aggroviglia.

Mai scelta fu più opportuna. Rapidamente il relitto quasi precipitò   scendendo dall’onda contro i lunghi remi della galea. Tre uomini   stremati e urlanti erano aggrappati alla chiglia della cocca.

La galea fu spinta di lato dall’urto ed il relitto cominciò a scivolare   lungo la fiancata. I marinai lanciarono le funi su cui due naufraghi si   aggrapparono, scorrendo sui remi che fungevano da scivolo. Il terzo, più   lontano e forse più stordito o indebolito indugiò nonostante le urla.

Il relitto cominciò ad allontanarsi inesorabile, sfilando lungo la poppa   della galea, preda ormai di un’altra onda che lo avrebbe rinviato   lontano. Fu allora che Saverio lanciò. Aveva preparto una serie di nodi   alla testa della fune. Prezioso aiuto per l’inerzia del lancio e   migliore garanzia per una presa che doveva essere solida al primo colpo.

Quando ormai negli animi di tutti si fece strada la disperazione per la   fine di quell’uomo ormai lontano, una lingua elegante si svolse   nell’aria. Aiutata dal vento e dalla forza del peso, sciolse   progressivamente le sue spire estendendosi per tutta la lunghezza. Magia   del lancio o buona sorte dell’ardimento, il nodo di testa giunse   perfetto nelle mani del naufrago. La consapevolezza dell’incredibile   fortuna moltiplicò le forze e sciolse ogni indugio. Ebbe la lucidità di   ruotare due volte su se stesso e strozzare poi il nodo sotto la volta,   prima di lasciarsi andare trascinato via dal relitto che ormai navigava   verso il nulla.

Saverio, che aveva fissato la fune alla coperta, fu aiutato a recuperare   in fretta il naufrago che scompariva e riemergeva dai flutti. Una rete   venne lasciata pendere a poppa. Lì il disgraziato infilò braccia e gambe   e venne issato rapidamente a bordo. Gli altri stremati erano già stesi   in coperta. Il papa, richiamato dalle urla, era uscito dalla cabina ed   aveva assistito alla scena.

“Santità – disse Saverio avvicinandosi – Il vento è freddo e la   situazione ancora difficile. Meglio ripararsi”

“Io sono venuto ad aiutare il mio generoso scudiero – rispose Alessandro   lasciando intravvedere tra le mani la sua spilla – e confortare la fede   di tutti. Tra breve il disegno sarà compiuto. E ora… eseguo gli ordini”   Si girò e rientrò nella scatola di legno, consapevole che la sua   presenza poteva essere d’impaccio.

Saverio rimarcò l’ennesima coincidenza, ma preferì imputare il successo   alla sua allenata abilità del lancio. Si avvicinò al gruppo di uomini   che stavano confortando i naufraghi con coperte e sorsi d’acqua. Si   inchinò per vedere l’uomo che aveva afferrato la sua corda.

“Ti devo la vita….” Sussurrò tremante afferrando le sue braccia.

Fu allora che vide quegli occhi e fu turbato. Dal buio emergevano   inequivocabili, come la linea particolare del profilo. Perfino la voce,   seppur sussurrata, gli era parsa la stessa. Ancora una volta prevalse   l’intuizione accompagnata dal piglio deciso.

“Quest’uomo è troppo debole per restare qui fuori!” Gridò, vincendo il   frastuono delle raffiche che ancora imperavano “Aiutatemi a portarlo   dentro prima che sia troppo tardi”.

La sua era un’autorità indiscussa. Tutte quelle galee si erano mosse per   un unico motivo e l’uomo che aveva impartito l’ordine era la persona più   vicina a quel motivo. Non che mancassero le ragioni per trasportare il   naufrago al riparo. Vinto dalla stanchezza e dall’ultimo disperato   sforzo era come svenuto. Lo trasportarono di peso dentro alla stretta   cabina. Alessandro si alzò appena vide la porta aprirsi come se   aspettasse quel momento. Fece posto nella piccola branda di legno in   modo che potesse distendersi. I marinai si allontanarono in fretta per   raggiungere gli altri. La porta si chiuse. Restarono soli. Una debole   lampada lampeggiava appesa al soffitto.

Una fiamma tenue, piegata dai refoli che attraversavano le pareti,   lanciava piccoli lampi di luce che tuttavia bastavano agli occhi ormai   abituati all’oscurità. Saverio la impugnò staccandola dal gancio e la   portò vicino al volto dell’uomo disteso. Stremato, sembrava dormire.   L’esplorazione diede conferma.

“Santità…Guardate” Disse Saverio con un tono di conferma.

Alessandro si avvicinò con calma. Ormai aveva superato di molto i   settant’anni e la vista, benché sorprendente per efficacia, necessitava   di buona luce. Osservò in silenzio per lunghi istanti, mentre si reggeva   alle braccia di Saverio per vincere il beccheggio ancora potente. Si   sporse un po’ in avanti per capire meglio. Poi parve come annuire a se   stesso.

“Ecco un altro segno della Provvidenza” disse rivolto a Saverio “Non   dobbiamo perdere quest’uomo.”

Impartì la sua benedizione e di nuovo Saverio scorse la spilla. Poi   iniziò il soccorso. Saverio lo spogliò dagli abiti bagnati. Con dei   pezzi di lana lo sfregò a lungo sui piedi gelati e le gambe livide per   riattivare la circolazione. Fasciò le mani lacerate dalle molte ferite   inferte dalla chiglia incrostata. Lo tenne al caldo del suo mantello. Il   respiro si fece più regolare, come la forza del vento che ora pareva   aver frenato l’accelerazione. Un vento teso e regolare. Così pilota e   comandante concordarono l’inversione. Bisognava approfittare ora della   pausa delle raffiche, sfruttando le residue energie degli uomini già   molto provati dalla notte di burrasca. Saverio se ne accorse per   l’improvviso sobbalzo che lo fece cadere sopra il giaciglio. Un rollio   che parve farli precipitare nel baratro. Poi di colpo la nave riprese   l’assetto. Sentì le urla di chi rimetteva in opera la vela. Il timone   reggeva. La galea riprese la corsa col vento in poppa ed ogni cosa parve   acquietarsi.

Il primo chiarore dell’alba li sorprese dormienti. Saverio si alzò dalla   scomoda posizione seduta che però non gli aveva impedito di cadere in un   sonno profondo. La scelta di mettersi di poppa era stata opportuna, ma   fortunatamente anche quel vento greco aveva deciso di dimenticare la   progressione dispari. Se ne accorse appena si affacciò fuori dalla porta   di legno. Il mare ancora brulicava di serpentelli bianchi, però con un   andamento regolare, senza le raffiche rabbiose.

“Va spegnendosi” Si incoraggiò

“Quando il sole sarà alto sarà già possibile ritornare in rotta” Suggerì   il pilota alle sue spalle. Anch’egli appena sveglio dopo poche ore di   riposo.

Si organizzava il cambio di guardia e si cominciarono a svegliare   marinai e vogatori cui era stato concesso un po’ di riposo dopo la   violenta e lunga battaglia con la tempesta.

Saverio rientrò con una brocca di acqua calda mescolata al vino   speziato. Qualcuno era riuscito a ravvivare il braciere e tutti   cercavano conforto da quel benedetto tepore. La versò in una tazza per   Alessandro che aveva appena concluso la preghiera del mattino. Poi si   avvicinò al naufrago, risvegliato dalle urla delle manovre. Porse anche   a lui una tazza che egli impugnò con le mani fasciate e tremanti. Dalla   porta che aveva lasciata aperta filtrava la luce piena di un’alba ormai   trionfante. La realtà riprendeva le sue forme. La tempesta sembrava   essere stata solo un brutto sogno, un incubo da cui quel sole, che   correva veloce col suo carro, pareva aver posto una fine definitiva.

Saverio riuscì finalmente a vedere chiaro il volto dell’uomo che la sua   abilità o la buona sorte avevano salvato. Non c’erano più dubbi. Era la   copia esatta del papa. Una perfetta somiglianza fisica, soprattutto del   viso. Un Sosia, come nell’Anfitrione di Plauto, aveva subito pensato. Ma   qui in gioco c’era ben più della conquista di Alcmena da parte di Giove.   Ora si trattava dei destini della Chiesa e di tutta la cristianità.

Quell’uomo era un segno della Provvidenza. Tremava nel pensarlo, perché   la sua fede era sempre stata più un ossequio ai doveri che una passione   sentita. Tuttavia anche il suo pragmatico scetticismo cedeva ora alla   forza evidente di una coincidenza troppo opportuna. La concretezza del   carattere riprese forza. Si trattava di aiutare quel dono divino a   compiere il disegno programmato. Doveva capire chi era, da dove veniva,   convincerlo al gioco delle parti e soprattutto trovare il modo di   invecchiarlo, perché, anche se provato dalla vita, certo era più giovane   di Alessandro.

“Grazie…” Disse l’uomo dopo aver trangugiato il calore della bevanda.   “Stanotte ho sognato il Paradiso… Ma i veri angeli ora sono qui… Voi che   mi avete tratto dall’Inferno… Credevo d’essere ormai perduto… Non vedevo   più nulla… Solo le mani ostinate credevano ancora d’aggrapparsi alla   vita… Poi… Quella fune… Mi ha colpito al volto, uno schiaffo quasi a   punirmi della poca fede… Ho capito che Dio ha voluto… Vi sarò per sempre   servitore” Concluse abbracciando Saverio, che aveva raccolto la sua   tazza aiutandolo a bere.

Alessandro era sempre rimasto di spalle. Sembrava sapesse già tutto. Si   girò e si avvicinò lentamente all’uomo. Era in controluce. Non si   distinguevano chiaramente i profili del volto

“Fratello – esordì con la sua voce chiara che sembrava leggere un testo   già scritto – Noi siamo umili servitori di un disegno superiore. Così la   tua e la mia vita saranno indissolubilmente legate. Non stupirti di quel   che vedrai. Non chiederti perché. Tu stesso poco fa hai dato la   risposta. Ed era quella giusta.”

Si avvicinò di più, mettendosi di profilo in modo che la luce   illuminasse il volto. Al collo aveva la croce papale messa in bella   evidenza. “Te lo conferma il tuo papa, Alessandro III°”

Per un istante tuonò il silenzio, come quando dalle mani vola un grosso   otre e tutti aspettano il fracasso. Per un attimo il tempo è come   sospeso, poi tutto sorprende per dimensioni ben superiori   all’aspettativa. Così fu. Tanto che Saverio pensò che fosse stato un   errore rivelarsi così bruscamente. L’uomo rimase allibito, incerto,   confuso. Poi, come se il serpentello del pensiero cominciasse a   penetrare nel cervello, cominciò a sospirare, a tremare.

“Ma... Sì… Ma… Il mio giuramento … Il maestro… Lo aveva detto…”   farfugliava e guardava Saverio, poi Alessandro, poi di nuovo Saverio.   Infine lacrime e singhiozzi sgorgarono inarrestabili. Si ripiegò su se   stesso, come per riprendere forza. Poi, rivolto ad Alessandro dichiarò “   Sia fatta la tua volontà! “ E non vi era dubbio che si rivolgesse al   papa come terrestre rappresentante di Dio.

“Navi a poppa!!” L’urlo della vedetta interruppe il colloquio.

Saverio balzò all’esterno chiudendo la porta. Si trovò accanto al   comandante che con il pilota scrutava il mare nella direzione proposta   dal marinaio. Sull’orizzonte ormai placato, la nitida visibilità   dell’aria fredda settentrionale consentiva di scorgere chiaramente il   profilo di due navi avanzanti, quasi affiancate.

“Forse sono le nostre” Suggerì il comandante rivolto a Saverio.   “Dobbiamo attendere che siano più vicine per capire… comunque prudenza…   voi restate al riparo fino a conferma”.

Non dovettero attendere molto. La schiuma, che ormai si intravvedeva ai   lati delle prore, indicava che oltre alla vela c’era anche la spinta   vigorosa dei remi. I colori della tela e la sagoma originale   dichiaravano la loro origine: si trattava di due delle navi di scorta.

La galea papale lascò la vela. Ormai le insegne identificative non   lasciavano dubbi. Inutile proseguire la corsa. Si concordò di strambare   ed invertire la rotta verso le navi inseguitrici che ben presto furono a   portata di voce. Allora si seppe che la burrasca aveva preteso un   terribile obolo. Affiancati ad una di esse, con una manovra resa agevole   dal mare ritornato amico, vennero a sapere che una galea si era   rovesciata durante la tempesta. Pochi naufraghi superstiti erano stati   raccolti da quella che navigava più vicino e che ora si dirigeva   lentamente verso Zara con gravi feriti. Loro si erano lanciati alla   ricerca dell’ammiraglia nella speranza, ora confermata, che si fosse   salvata. Anche tra i loro equipaggi vi erano feriti. Chiedevano di   raggiungere rapidamente il porto.

“Non indugiate” Fu la laconica e risoluta risposta di Alessandro. Le   galee normanne si rimisero in formazione e cominciarono a scivolare   veloci sulla superficie del mare azzurro e collaborativo. Il vento del   Nord si era ormai spento, in attesa della brezza quotidiana. La tavola   marina sembrava suggerire che fosse impossibile quanto accaduto solo   poche ore prima. I vogatori apprezzarono la clemenza e la galee poterono   finalmente evidenziare con la velocità il significato della loro forma   allungata.

Nel frattempo, venne congegnato il piano.

Pauperes Commilitones Christi Templique Salomonis (I poveri compagni   d’armi di Cristo e del Tempio di Salomone), così erano nominati   inizialmente i cavalieri templari, quelli a cui il naufrago aveva   dichiarato di appartenere. Di loro vi era traccia fin dal 1118. Il loro   nobile intento di difesa dei pellegrini in Terra Santa aveva trovato   ruolo ufficiale nel 1129, quando con l’appoggio di Bernardo di   Chiaravalle, fu stabilita la legge monastica. Il loro abito,   caratterizzato dalla tunica bianca, con la tipica croce patente rossa,   era ben conosciuto da Alessandro. Quando, giovane docente, insegnava   diritto canonico a Bologna, aveva dovuto confrontarsi con alcuni   studenti contestatori sul ruolo contradditorio di quei monaci guerrieri.   Ma ora ciò che gli premeva, fin da quando aveva notato quella croce   sugli abiti zuppi che Saverio aveva sfilato, era poter contare   sull’estrema dedizione di quei monaci. Saverio aveva notato che la croce   era identica a quella della fibbia segnata dal colpo di spada di Ottone.   Gli era parso un ennesimo segno di quelle coincidenze che rendevano il   papa un uomo dal destino speciale.

Alberto dei conti Canali da Nrezine, così aveva declinato il suo nome.   Il suo perfetto latino evidenziava un’educazione nobiliare.   L’inflessione un po’ strana della pronuncia era tuttavia compensata da   una somiglianza davvero sorprendente della voce, anche nei toni calmi   dell’eloquio. Lui e il papa, sembravano più che fratelli, due gemelli di   diversa età. Un paradosso che con qualche stratagemma si sarebbe potuto   facilmente correggere.

“Non solo perché mi avete salvato la vita – esordì Alberto – ma anche e   soprattutto perché questo è l’evidente segno di Dio – aveva proseguito –   io vi sarò fedele per sempre come vostro umile servitore. La mia fede ha   avuto il segno che mancava – aveva voluto spiegare – Di ritorno dalla   Terra Santa dove tutti i miei compagni e il mio maestro furono uccisi,   credevo che la mia vita non avesse più senso. Solo il ricordo delle   ultime parole del maestro: “come Cristo dovrai rinascere” mi tennero   ancora in vita. La tempesta… quell’onda gigantesca .. mi parvero la   medicina ai miei tormenti.. la morte sembrava dolce conforto.. poi la   vostra corda e quell’ostinazione nel farmi riemergere dal gelo della   tomba… Infine il vostro volto, Santità, fu il suggello al segno della   Provvidenza. La vita mi è stata ridonata con uno scopo preciso.”

Gli occhi brillavano nel pronunciare queste parole e Saverio capì che   nulla avrebbe distolto quell’uomo dalla sua missione. I suoi compagni   sopravvissuti erano in realtà due semplici marinai greci della piccola   imbarcazione da carico affondata. Non lo conoscevano né l’avevano più   rivisto dopo il naufragio. La sostituzione poteva dunque funzionare.

Perché questo era il progetto che Saverio ed Alessandro avevano subito   congegnato simultaneamente, senza bisogno di parole. Grandi erano i   rischi cui il papa si stava esponendo, nel quasi impossibile tentativo   di arginare l’aggressività del Barbarossa e riaffermare il suo primato.

Doveva contemporaneamente conservare l’appoggio dei Comuni insorti   contro l’imperatore, senza inimicarsi i normanni del regno di Sicilia   che lo stavano difendendo. E che dire di Bisanzio e dell’altro   imperatore, ancora risentiti dell’alleanza che Venezia aveva stretto   nell’assedio fallito ad Ancona? Quella Venezia che Alessandro intendeva   raggiungere per farne, nel suo piano di pace, la sede naturale della   complessa trattativa. Tutti avrebbero potuto guadagnare qualcosa forse,   ma certo tutti avrebbero di sicuro dovuto rinunciare a molti vantaggi   conquistati. Molti buoni motivi, dunque, perché Alessandro avesse un   incidente di percorso che evitasse in modo definitivo tale prospettiva.

Anticipare i tempi. Giocare la regia degli avvenimenti dietro le quinte,   senza il rischio di subire incontrollabili vendette. Aspettare   tranquillo le mosse degli altri. Non cedere alle lusinghe, restare saldo   nei principi. Tutto era più facile nascosto in quell’abito grezzo di   pellegrino mentre il suo doppio a Zara svolgeva inappuntabile i suoi   doveri.

La folla al porto lo aveva accolto con gran clamore. Nessuno si stupì   delle fasce che avvolgevano il collo del finto papa, perché la notizia   della violenta tempesta era già stata annunciata dalla galea che li   aveva preceduti. Valerio ed Alessandro erano sgusciati via tra la folla   con i loro abiti sdruciti.

Ormai la scelta era fatta ed i rimpianti erano frenati dalle evidenti   conferme. Il piano funzionava, Alberto sembrava in grado di reggere a   lungo la parte, la sua cultura e la totale dedizione erano sicura   garanzia. Anche i monaci addetti alla cura del papa avevano giurato   totale fedeltà. Le uscite ufficiali sarebbero state limitate fino a   completa guarigione dell’anziano papa, provato dalle terribili traversie   del viaggio. Inoltre Alberto aveva indicato il nome di chi lo attendeva   a Zara. Angelo Zoccolo dell’isola di Olivolo, un mercante veneziano   complice segreto dei cavalieri templari, li aveva imbarcati assieme ad   altri pellegrini, portandoli a Venezia.

A quei tempi dalle incerte e mutevoli alleanze era preferibile la   clandestinità. Un tacito accordo con le autorità veneziane consentiva   reciproci interessi. Il porto lagunare era la sede naturale di partenza   per la Terra Santa. I cavalieri, spesso di alto lignaggio, erano non   solo magnifici combattenti, ma anche ottimi pagatori. Una delle qualità   da sempre preferite dai veneziani. Dunque, purchè tutto avvenisse nel   silenzio dell’ufficialità, non si erano create difficoltà alla creazione   di una base di partenza verso Gerusalemme.

“Presto, presto… è ora di andare… Presto…” Dal fondo della calle dietro   al sottoportego, sulla riva del canale interno, la voce bisbigliata, ma   decisa di Angelo scosse Saverio dai suoi pensieri.

In un attimo fu in piedi, scoprendo che la posizione rannicchiata   lasciava pungenti ricordi alle articolazioni. Fu dunque sorpreso di   vedere che Alessandro era stato quasi più rapido ed ora si aggrappava al   suo braccio, sussurrando: ”Altre volte ho dormito meglio…ma non così   sicuro.. qui eravamo protetti dalla Madonna”.

Il luogo era stato suggerito da Angelo per la vicinanza al canale ed   anche perché abitualmente utilizzato dai pellegrini più poveri quando   venivano ad omaggiare le spoglie del Santo Evangelista. Poco lontano era   la sede segreta dei templari.

La barca che li attendeva era colma di sacchi e ceste. Angelo era stato   presto al mercato per coprire quel trasporto. Magro, agile, esperto e   deciso dava un senso di sicurezza e non dimostrava l’età avanzata. Li   aiutò a salire e li sistemò tra l’esiguo spazio che aveva creato tra i   sacchi e le ceste. Il figlio Marco, un uomo atletico e vigoroso, reggeva   il remo di prua. Comunicarono a gesti nel silenzio ancora imperante del   primo mattino. Fu stesa una tela sotto la quale divennero quasi   invisibili, confusi tra la merce. Padre e figlio in un attimo conclusero   la manovra e cominciarono a scivolare lungo lo stretto canale.

Una curva nel silenzio dell’alba inoltrata, poi di nuovo un angolo del   palazzo incombente. I remi spingevano sicuri, quasi senza far rumore e   la barca dopo una breve accelerazione, sembrava procedere quasi in   discesa.

Scivolavano verso in Canal Grande che si aprì all’improvviso, dopo   l’ultima curva. Saverio si sentì quasi scoperto in quel grande spazio   spettacolare. Non erano più protetti dalle pareti di palazzi e lo spazio   così ampio esplose alla vista. Ma non c’era motivo di temere. La grande   via d’acqua era ancora quasi deserta, solo poche imbarcazioni   incrociavano in direzione opposta.

Chi mai avrebbe potuto immaginare che tra quei sacchi di grano e le   ceste di verdura e frutta si nascondeva una delle personalità più   importanti del Medio Evo? La fonte stessa del potere, colui che poteva   elargire la patente di autorità e con essa la forza di imposizione su   tutti i principi della terra. Molti lo avrebbero voluto morto e   sostituito da qualche altro più malleabile. Perché quel vecchio saggio   non cedeva, anzi, con astuta e sagace determinazione, giocava le sue   carte. Sembrava quasi si divertisse, pensò Valerio, e gli invidiò la   fede che lo sosteneva anche nei momenti più duri, stimolando una forza   anche fisica sorprendente.

“Ohee!!” L’urlo sommesso di Marco si sincerò che dietro la curva il   canale fosse libero. Stavano di nuovo abbandonando il Canal Grande   inoltrandosi in una stretta deviazione laterale. Dopo qualche centinaio   di metri, accostarono a riva e si ormeggiarono.

“Dovete scendere qui – annunciò Angelo – proseguite poi lungo quella   calle… Più avanti troverete un ponte, attraversatelo e continuate finché   arrivate al convento della Carità. Non potete sbagliare.. troverete   altri pellegrini che aspettano davanti al portone.”

Alessandro e Saverio abbandonarono in fretta la barca, aiutati da Marco   che offrì al più anziano un bastone caratteristico ed efficace. “Io vi   precederò in barca – proseguì Angelo – il monaco portiere è un amico..   molto sensibile alle mie donazioni… tutto questo è per il convento –   aggiunse indicando la barca – ma la fiasca è solo per lui. Farò in modo   che vi faccia entrare per primi. Presto, andate.”

Così dicendo fece segno al figlio di sciogliere la cima dal piccolo   albero dov’era fissata. Subito si scostarono arretrando a spinta nello   stretto canale aiutati dalla corrente.

I due finti pellegrini li seguirono con lo sguardo finché la barca   scomparve come ingoiata dalla grande luce che si intravvedeva in fondo.   Si misero in cammino. La stanchezza ed il disagio della notte trascorsa   all’addiaccio uniti all’età ed agli abiti miserevoli, davano ad entrambi   l’immagine indubitabile di pellegrini.

Trovarono conferma davanti al portone del convento, popolato da altri   fratelli in tutto simili a loro. Alcuni giacevano a terra, altri   cominciavano a muoversi affamati. Saverio notò più di una coppia come   loro. Un vecchio aiutato da uno più giovane.

“Ehi, voi!!” Si girarono e videro Marco che si stava avvicinando “Il   priore ha bisogno del vostro aiuto – aggiunse in modo stentoreo cosicché   tutti potessero sentirlo – servono le vostre erbe mediche per un   fratello… - aggiunse prendendo il vecchio per un braccio – presto,   fatevi aiutare da vostro figlio..”

Avanzarono superando la fila di chi era in attesa che lentamente si   scostavano al passaggio, poco convinti, ma forse solo stupiti e troppo   fragili per protestare. Attraversarono il portone che subito si   richiuse, accolti dal monaco portiere, stranamente sorridente di buon   mattino. Incrociarono lo sguardo sornione di Angelo che ancora stava   sistemando i sacchi nel piccolo carro.

“State qui alla mensa. Tra breve daremo qualcosa di caldo a tutti. Poi   vedremo come sistemarvi. Per voi ci sarà qualcosa da fare nell’orto –   disse a Valerio valutando la prestanza – e per voi … vedremo.. forse in   cucina o a alle pulizie…”

“Stiamo andando alla barca… - annunciò Angelo – Non dimenticare che   tornerò domani… E se Dio vorrà…”

“Oh Dio vorrà, vorrà… Dio vuole sempre il bene dei suoi figli   generosi..” Rassicurò il monaco ben disposto.

Alessandro e Valerio attraversarono il breve corridoio che portava alla   mensa e finalmente sedettero comodi su una panca. Il rifugio era   finalmente sicuro.

Chi volesse conferma storica di quanto   descritto (escluso l’incontro col naufrago noto solo all’autore) può   recarsi a S.Aponal, dove una chiara iscrizione, sull’architrave ligneo   del sotoportego de la Madona, ricorda la notte trascorsa dal papa   Alessandro III°, in veste di incognito pellegrino. Riconosciuto da un   frate qualche mese dopo, il papa sarà ospitato con grandi onori dal doge   e concluderà la pace con l’imperatore Barbarossa, cui tolse la   scomunica. In cambio Venezia otterrà l’indulgenza perpetua per coloro   che, concludendo il percorso di penitenza (Calle del Perdon), recitavano   un Padre Nostro e un Ave Maria davanti all’altare della Madonna, situato   sotto il sottoportico.

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