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Silvia Pagliarani
Laureata in Economia Aziendale a Cà Foscari con lode nel 1991.
Sposata, con due figli di 21 e 18 anni.
Ha lavorato prima nella formazione del Banco Ambrosiano Veneto, poi in Intesa San Paolo e ora in Banca Carige.
Rappresentante sindacale per First/CISL.
Nel 2004 la rivista Scorpione Letterario pubblica i primi tre capitoli del testo “Il ragazzo del tè”, “Notte Veneziana” arriva in finale alla seconda edizione del Premio Bukowski.

ROMANZO
 Notte   Veneziana



La notte umida e nebbiosa si perde nelle   calli veneziane, le luci azzurre preparano al Natale che si   avvicina. Due colori, il bianco e il nero, attraversano una Venezia   inedita costellata da personaggi molto diversi fra loro. Le   piastrelle del Black & White sembrano una grande scacchiera; bianchi   e neri sono i mantelli delle maschere del Carnevale. Le inquietudini   dei personaggi si mescolano nell’intreccio di ricatti e pedinamenti,   l’avidità conduce alcuni di loro nell’abisso del non ritorno.   L’acqua scura della laguna è testimone muta dei delitti consumati   dentro la notte veneziana.


UNO

Sabato 7 novembre


Un’occhiata allo specchio in entrata,   l’ultimo ritocco al mascara, il solito sms a Eva e via, dentro la   notte veneziana.

Mentre aspettava il vaporetto alla Sacca   Fisola, Jessica guardava le luci della città che si rispecchiavano   sul Canale della Giudecca, fili d’oro che ballavano sull’acqua. Non   si era mai abituata a quei bagliori tremuli sulle onde increspate.

La notte era leggera, quasi lunare, quella   sera in laguna.

Venezia si preparava per andare a dormire,   sbadigliando e stiracchiandosi un po’. Le mamme ripetevano ai   bambini di andare a letto. La nebbia avvolgeva di umidità le case e   i lampioni, e un manto di silenzio serpeggiava sui ponti e nelle   calli.

A Jessica non piaceva vestirsi volgare,   tanto gli uomini sceglievano lei, e solo lei, non certo per le mise   che indossava. Lei aveva qualcosa che le normali puttane non   potevano avere: era un concentrato di femminilità con attributi   maschili. Era molto contenta delle tette nuove, erano costate   tantissimo, e gli uomini impazzivano, letteralmente.

Di diventare donna non ci aveva mai pensato,   sarebbe diventata una delle tante, mentre ora era una delle trans   più gettonate del Triveneto. La sua agenda era sempre fitta di   appuntamenti, e quando decideva di prendersi una pausa, il suo   cellulare non smetteva mai di vibrare.

Quella notte aveva preso un solo   appuntamento. Il suo cliente era molto esigente, e aveva preteso di   averla per tutta la notte. Jessica aveva sparato una cifra pazzesca,   e quello aveva accettato senza battere ciglio.

I conducenti dei vaporetti ormai la   conoscevano, era una cliente abituale. I gondolieri, poi, la   adoravano. Sapevano che non sopportava fare la turista, ma quando   poteva, faceva fare il giro in gondola ai suoi clienti per far   lavorare qualche amico.

Mentre saliva sul vaporetto, salutò il   conducente con un gesto della mano. Quella sera Jessica non era   tranquilla. Aveva visto un tizio con un lungo cappotto e un grande   cappello calato sugli occhi. Era in un angolo del pontile, immerso   nel vento forte della Giudecca. Durante tutta la traversata si sentì   quell’uomo appiccicato addosso.

Jessica rabbrividì quando vide che l’uomo   scese con lei dal vaporetto. Aveva capito che quel tipo non era il   solito curioso, sembrava che ce l’avesse proprio con lei. Ma cosa   voleva? Non si stupì quando si accorse di essere seguita. Il rumore   dei tacchi di Jessica rimbombava sui muri delle case, prima   regolare, poi si faceva sempre più affrettato. Ticchetacche,   ticchetacche, ticchetacche, ticchetacche.

Senza rendersene conto, si era infilata in   una calle che non conosceva, nella speranza di togliersi di dosso   quella orrenda sensazione di essere seguita. Ma ogni volta che si   girava, lui era lì. In giro non c’era anima viva, Venezia d’inverno   andava in letargo. La paura le stava sconquassando lo stomaco. Provò   a svicolare velocemente, nascondendosi dentro una corte interna,   fortunatamente qualcuno aveva lasciato il portone aperto. Avrebbe   voluto diventare pietra e angolo, essere un tutt’uno con il muro   della casa. I primi minuti d’angoscia furono eterni. Il suo cuore   batteva all’impazzata, se l’uomo col cappellaccio era là poteva   quasi sentirlo. Mille pensieri le si accartocciavano intorno, si   annodavano e poi si srotolavano.

Jessica cominciò a respirare più   regolarmente, dal suo angolino sbuffava freddo e paura. Dell’uomo   non c’era traccia. Ancora non si fidava a uscire dal nascondiglio,   ma aveva sentito delle voci dalle scale, doveva muoversi da lì. I   primi passi furono di terrore puro, cercava di camminare in punta   per non fare rumore con i tacchi. Piano piano si tranquillizzò,   l’uomo sembrava inghiottito dalla notte.

Si tolse le scarpe, nonostante il freddo. Le   calze erano un velo, i piedi le si gelarono subito. Continuava a   girarsi, mentre svoltava veloce. Si era persa, a Venezia non era   facile orientarsi. Jessica cercava di capire da che parte fosse   Campo Santa Margherita, ma la paura le offuscava la vista, non   riconosceva nessuna calle, e a quel punto non le interessava nemmeno   più andare all’appuntamento. Voleva solo ricominciare a respirare   leggera, senza quell’ombra scura che la inseguiva.

Avrebbe potuto chiedere aiuto, ma a   quell’ora non c’era nessuno. Si guardò intorno per bene, lui non   c’era, si appoggiò al muro di una casa per rimettersi le scarpe, e   riprese a camminare come al suo solito. Ticchetacche, ticchetacche,   ticchetacche, ticchetacche.

Il suo uomo sbucò da una calletta laterale.   Jessica sperava di averlo seminato, e invece no, era ancora lì, il   tizio con il lungo cappotto e il brutto cappello che gli copriva gli   occhi. Lei cominciò allora a correre, maledetti tacchi, percorrendo   calli sconosciute. Era disperata, affannata, le case popolari erano   testimoni mute della sua angoscia. Si ritrovò a inciampare sulle   traverse di un binario morto. I mille pensieri erano diventati   milioni, che la scorticavano da dentro. Era stanca di scappare. Era   stanca anche di pensare. Si voltò di scatto e andò incontro all’uomo   col cappellaccio. Lui tirò fuori una Beretta calibro 9 e mirò in   mezzo agli occhi, un colpo solo, col silenziatore. Jessica si   accasciò sul binario del treno merci come un mucchietto di vestiti   smessi. Se avesse avuto il tempo di pensare, il suo ultimo pensiero   sarebbe stato per Eva.

La notte era assassina, quella sera in   laguna.


DUE – ELENA

Lunedì 9 Novembre


Mi ero svegliata molto presto, mi piaceva   l’aria frizzante del giorno che si deve ancora fare. Ero in tenuta   da jogging, avrei fatto la Riva degli Schiavoni, mi fermavo sempre a   guardare la laguna, spaziavo sull’acqua fino all’isola di San   Giorgio, e mi perdevo sulla linea di costa del Lido. Poi, con calma,   avrei fatto una bella colazione prima di andare in studio. Mentre   stavo chiudendo la porta di casa, mi squillò il cellulare. Era Eva.

«Elena, vieni subito qui», perentoria.

«In albergo?».

«Sì, e dove se no? Fai presto».

Non c’era spazio per eventuali   controproposte, e conoscendo Eva da sempre, non era da lei usare   quel tono.

Eva lavorava come portiere di notte in un   piccolo albergo dietro il Ponte di Rialto. Il turno di notte non le   pesava, anzi, era stata felice quando la proprietaria dell’albergo   le fece la proposta di non prestare più servizio di giorno. Sapeva   che molti turisti non gradivano la sua presenza, alcuni si erano   lamentati apertamente. ‘Non che ci sia niente di male’, dicevano,   ‘ma sa, una donna con la voce da uomo mette imbarazzo’. Ed era vero,   anch’io avevo fatto molta fatica ad abituarmi ai suoi cambiamenti.   Giocavamo insieme da piccoli, stessa casa popolare della Venezia   nascosta, e lui si chiamava Francesco. Non voleva solamente   aggiungere una gambetta al suo nome, e diventare Francesca. Lui   voleva essere donna senza ripensamenti e anche il nome non doveva   avere niente di maschile. Mi ricordo il giorno in cui mi disse   felice:

«Eva, ora mi dovrai chiamare Eva. Tutti mi   dovranno chiamare così». E sua madre continuò a chiamarla Francesco.

La femminilità di Eva era evidente. La sua   gestualità, il modo di camminare, come guardava le persone.   Naturalmente aveva fatto cure ormonali per rendere fisica la sua   identità sessuale, ed era intenzionata a fare l’intervento che   l’avrebbe resa donna anche all’anagrafe. Ma la voce rimaneva bassa,   roca, irrimediabilmente maschile. Anche se usciva da una bocca di   rosa, rifatta molto bene, piena senza esagerare. Bocca di donna,   voce di uomo. La sua maledizione.

Corsi fino al piccolo albergo di Eva. Erano   calli più centrali, ma a quell’ora non c’era ancora tanta gente in   giro. Cinque, sei, sette, otto … fin da piccola contavo i gradini   dei ponti, i numeri mi hanno sempre tenuto compagnia. Quando entrai   nella hall, tutta sudata, lei mi stava aspettando alla reception.   Capelli biondo scuro, raccolti in una coda bassa. Molte donne   dovrebbero andare da lei per imparare a valorizzarsi. La finezza era   innata in lei.

«Hanno ammazzato Jessica», la diplomazia non   era certo il suo forte.

«Cosa stai dicendo?», sicuramente avevo   capito male.

Chiese a una cameriera di darle il cambio   alla reception, e mi trascinò nell’ufficio della proprietaria.


Continua...
 Nella presente antologia è stata riportata solo la parte introduttiva del romanzo.

Per l’Opera completa contattare l’Autore.

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