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Antonello Farris
LAGUNANDO 2020 > selezionati 2020
Vive e opera a Cagliari.
Laureato in Fisica ha lavorato in diverse società multinazionali dell’Information Technology.
Da alcuni anni si è dedicato alla scrittura di racconti e romanzi brevi.

ORTI DEI DOGI
RACCONTO
Street View

I

Mio figlio Antonio (che qui a New York chiamano Anthony, mentre io per tutti sono John, anche se mi chiamo Giovanni Farnetti) ha oggi la stessa mia età di quando, lasciando l’Italia, sono arrivato in America: ha vent’anni. E siccome capisce tutto dei computer me ne ha regalato uno, e quando sono a casa e lo accendo, mi guardo sempre il mio paese (oggi quasi una cittadina) che ho lasciato quarantacinque anni fa, nel 1970. Non ci sono più tornato, purtroppo. Mi accontento di vederlo con Street View. Ci passo le ore perché me lo giro tutto e ogni volta mi fermo a guardare le strade e le case e a ricordare come erano fatte dentro e chi ci viveva quando ero là, giovane e incosciente.
C’è la piazza centrale. La rivedo: squadrata come un rettangolo, e sui quattro lati ci sono il municipio, la chiesa, la posta e l’albergo (che non c’era quando ci vivevo io; lo noto solo adesso dalle immagini del computer). Quella piazza era il cuore del paese e di mattina, nei giorni feriali, arrivavano dalla campagna uomini e donne che vendevano galline e conigli. C’era l’odore di quegli animali e c’erano le grida di quegli uomini e donne verso chi passava per comprare o solo per guardare. A noi, da bambini, ci piaceva la gabbia dei conigli e come le contadine parlavano loro facendo strani versi, e quelli che saltellavano quasi per rispondere alle loro voci. Chi li comprava li metteva in un sacco. Se ne compravano tre, usavano tre sacchi per non farli stare schiacciati in uno solo. I conigli dentro i sacchi stavano sempre zitti, le galline invece facevano un gran baccano e il contadino ogni tanto per farle stare zitte batteva un bastone sul coperchio della gabbia e quelle smettevano, ma solo per un po’. Qualche volta capitava che un contadino portasse le capre, non più di due o tre legate tra loro, e sempre timide. Per venderle meglio l’uomo le mungeva e offriva il latte per l’assaggio, ma non ai bambini. Però io lo bevevo lo stesso perché mi mettevo dietro chi lo assaggiava, gli tiravo la giacca e quello, che mi conosceva, me ne dava un sorso. A mezzogiorno caricavano tutto sulle macchine e andavano via. La piazza restava deserta e per un po’ anche sporca, sino a quando i due spazzini del Comune arrivavano e in un’oretta pulivano tutto. Poi si sedevano nei muretti e fumavano e parlavano tra loro e con altri vecchi che si accostavano.
Quando eravamo più grandi, verso i sedici anni, stavamo nella piazza la sera, a guardare le ragazze che passeggiando ridevano e facevano le stupide. Le conoscevamo tutte, sapevamo i loro nomi ma era normale che non stessero con noi. Non mettevano i jeans né le scarpe da tennis, tutte avevano le gonne sotto il ginocchio e le scarpe con un po’ di tacco. Le gonne corte, ma anche i pantaloni e le scarpe da tennis, le mettevano le ragazze di città, e la città era lontana quasi cento chilometri dal paese e, sembrerà strano, ma quella distanza ritardava di diversi anni la diffusione delle novità. Quando arrivava il buio le ragazze rientravano a casa e la piazza diventava triste. Noi stavamo un altro poco a passeggiare e continuavamo a parlare sempre e solo di loro.
Anche la chiesa è sulla piazza ma un po’ rientrata perché c’è un vialetto con due pini a destra e due a sinistra (erano piccoli quando sono partito, mentre ora, da Street View, li vedo enormi). Dentro, l’altare era di legno scuro e si sentiva sempre l’odore della cera che il sacrestano usava per lucidare il pavimento di marmo. Le mamme in chiesa c’andavano spesso, la sera per il rosario e la domenica per la messa. Noi andavamo solo per la messa, anche perché vedevamo da vicino le ragazze che gli altri giorni passeggiavano nella piazza. Loro mettevano un velo nero sui capelli e stavano in ginocchio per tutto il tempo, mentre noi stavamo in piedi nelle file dei banchi sull’altro lato. Le vedevamo di profilo e qualcuna si girava e guardare dalla nostra parte ma solo per un attimo. Sapevamo recitare tre preghiere (il Credo, il Padre Nostro e l’Ave Maria), mentre loro ne sapevano anche altre e rispondevano in latino quando il prete dall’altare lo richiedeva. Un grande lampadario, che restava sempre acceso anche se fuori era giorno, scendeva dall’alto della cupola tenuto da un cavo d’acciaio, proprio sopra il gradino dove il prete si fermava per dare la comunione. Per prime si accostavano le donne, silenziose e con lo sguardo basso. Seguivano poi gli uomini che erano sempre pochi, e anche noi giovani qualche volta facevamo la comunione, un po’ intimiditi perché dovevamo restare seri seri per non far arrabbiare il prete.
Di fronte alla chiesa c’è il palazzo del municipio, lo vedo ancora oggi sullo schermo e noto che è rimasto uguale. Per la verità non è un vero e proprio palazzo; è un edificio basso (piano terra e primo piano) con i muri di pietra a vista, col tetto spiovente e una fila di sei finestre al piano terra (un po’ strette e lunghe come quelle di certi castelli medievali), con al centro il portone d’ingresso, e otto finestre in alto, dove nelle due centrali (quelle dove sta il sindaco) c’è l’asta per alloggiare le bandiere (quella con lo stemma del Comune e quella dell’Italia) che si esponevano in certi giorni di festa.
Dentro il Municipio ero entrato pochissime volte e sempre al piano terra dove c’erano gli impiegati che in mezzo a scaffali pieni di faldoni rilasciavano i certificati richiesti. Solo una volta ero salito al piano superiore con altri quattro compagni. Dovevamo parlare col sindaco perché volevamo correre a Firenze ad aiutare la popolazione nei giorni dopo la disastrosa alluvione della città. Lui era stato comprensivo e subito aveva chiamato il ragioniere dell’amministrazione e gli aveva detto di preparare i mandati di pagamento per ciascuno di noi per coprire le spese del treno per l’andata e per il ritorno. In quell’occasione avevo visto che l’ufficio del sindaco era diverso da tutte le altre stanze: le pareti erano foderate con una carta da parati color biscotto e il soffitto era affrescato con bei disegni luminosi. Anche l’arredamento era di lusso e metteva un po’ di soggezione. La scrivania del sindaco era grande (lunga e larga) come tre scrittoi normali, le poltrone attorno erano di pelle nera e quando quel giorno mi avevano fatto accomodare in una di queste, ero sprofondato sentendomi come una persona importante e, allo stesso tempo, fuori luogo. Il sindaco quella mattina aveva telefonato alla nostra scuola (l’Istituto Alberghiero dove poi mi sono diplomato) e aveva parlato col Preside perché fossimo giustificati per i giorni di assenza e per verificare che i nostri genitori, essendo noi minorenni, avessero presentato il nulla osta per autorizzare il viaggio.
Sempre nella piazza, sul lato destro guardando il Municipio, c’è la posta e anche per questa costruzione ho visto nel computer che da allora non è cambiato granché. Un edificio basso e squadrato, senza piani superiori né tetto, anch’esso in pietra chiara e con quattro grandi finestre schermate da robuste inferriate in ghisa. Alla posta, da ragazzo, mi mandavano tutte le volte che c’era da pagare qualcosa con il bollettino, o da ritirane qualche lettera o qualche pacchetto. Dentro c’erano due impiegate che stavano allo sportello e indossavano un camice nero, mentre dietro di loro, in un lungo tavolo invaso da lettere e pacchi, c’era il postino che, prima di uscire per la consegna, era sempre là, intento a mettere timbri (ce n’erano di vari tipi, grandi e piccoli) da una parte e dall’altra delle buste, e il bum bum dei suoi colpi, interrotto ogni tanto da qualche frase scambiata con le impiegate, riempiva tutto l’ufficio. Il postino lo conoscevamo tutti perché aveva pochi anni più di noi (forse venti o ventuno) e quando attraversava la piazza con il borsone a tracolla si fermava a scambiare qualche parola con noi. Qualcuno gli chiedeva sempre quanto prendeva di stipendio, ma lui non lo diceva mai, fino a quando un giorno, che era giorno di paga, eravamo riusciti a fargli tirar fuori il cedolino dove in fondo al foglio c’era scritto: “netto a pagare lire 73.000”, una cifra che, avendo noi quindici o sedici anni, c’era sembrata altissima, mentre il postino aveva detto che no, non era affatto alta e che anzi era assai bassa perché lui sapeva che il direttore generale delle poste italiane, che stava a Roma, prendeva  dieci volte il suo stipendio, e in più veniva accompagnato in un’auto di lusso ogni volta che doveva spostarsi (lui, ma anche sua moglie e le sue bambine).
Quell’argomento aveva scatenato la discussione tra tutti noi e ognuno aveva la sua idea circa i guadagni dei propri genitori che però, in effetti, nessuno conosceva esattamente. Tutto si basava su supposizioni che provenivano, ad esempio, dalla paghetta settimanale che ciascuno riceveva in famiglia.
Anche tra noi, su questo argomento, molti mentivano. Certi, vergognandosi per una paghetta troppo bassa, l’aumentavano un po’, mentre altri, non volendo svelare che la loro paghetta era ben più alta di tante altre, la diminuivano.
Alla posta c’andavo anche tutte le volte che da casa dovevano spedire un telegramma o fare un vaglia. I telegrammi erano sempre di due tipi: di condoglianze per la morte di qualche conoscente oppure di auguri per il matrimonio di qualche parente lontano o di qualche amico di famiglia anch’esso lontano (perché se era di paese i miei partecipavano sempre ai funerali o ai matrimoni). Il vaglia era più raro e veniva fatto per mandare soldi a mio fratello più grande che era andato a Roma per fare l’università e che viveva a casa di una vecchia zia.
A sorpresa ho scoperto che adesso nella piazza del mio paese c’è anche un piccolo albergo, carino e tutto bianco, con le verande piene di fiori e una rastrelliera di biciclette verdi sul davanti, segno evidente che il progresso ha portato anche questa novità. Non so immaginare chi possano essere i clienti di questo Hotel Bellaria (su Street View vedo che si chiama così), perché il mio paese non offriva alcuna attrattiva turistica o di altro tipo. In effetti manco da troppi anni per capire cos’altro è cambiato per giustificare questa presenza. Mio figlio, che è nato qui a New York e che in Italia non c’è mai stato, mi ha detto che forse gli italiani sono diventati più ricchi e che perciò vanno in cerca di centri agricoli come il mio paese dove ancora si può respirare aria buona (anche perché è in collina, a seicento metri sul livello del mare) e si possono gustare prodotti genuini (sempre che le galline, i conigli e le capre siano allevate come quando ero ragazzo).  

II

Lasciata la piazza la mia passeggiata virtuale prosegue lungo la strada principale dove, poco lontano, c’è la scuola. Là ho fatto tutto il ciclo di studi perché è un unico edificio non grande, con un corpo centrale e tre bracci (uno per le elementari, uno per le medie e uno per le superiori). Aveva in tutto quindici aule e vedo che è ancora così. Era fatto in modo che non ci fossero spazi comuni fra i tre corpi (ogni braccio aveva un suo ingresso posteriore da dove dovevamo entrare, mentre gli insegnanti e il preside entravano davanti, nel corpo centrale dell’edificio) e l’unico pseudo contatto poteva avvenire dalle finestre. Quand’ero alle elementari vedevamo gli alunni delle medie che ci lanciavano i conetti di carta con le lunghe cerbottane, mentre noi non riuscivamo a rispondere perché le nostre erano corte (con quelle lunghe ci voleva troppo fiato). In compenso loro ci invidiavano per i nostri fiocchi colorati (un colore per ogni classe), che dovevamo mettere sopra il grembiule (alle medie non c’erano più i fiocchi) perché questi fiocchi li legavamo a tre a tre e li fissavamo a un bastoncino per farne delle bandierine. Invece quand’ero alle medie, dalle finestre del corridoio, vedevamo gli alunni della scuola alberghiera (le uniche superiori del mio paese) ma loro non ci prendevano in considerazione, ci snobbavano giudicandoci come stupidi ragazzini anche se molti di noi nello sviluppo fisico erano alti quanto loro (ma forse ancora sgraziati come capita nei primissimi anni dell’adolescenza) e riguardo alla voce c’erano, quando eravamo in terza media, alcuni compagni che erano così cresciuti nel giro di pochi mesi che sfoggiavano un vocione da persone adulte (cosa che ci faceva anche ridere a crepapelle).
Per la presenza della scuola alberghiera, arrivavano in paese, con un vecchio pulmino, un gruppo di studenti di due paesi vicini che non avevano scuole superiori. Per la verità erano assai pochi (circa una ventina) e noi li guardavamo con una certa aria di superiorità perché li consideravamo come degli intrusi. Alla base di tutto c’era in noi una sottile gelosia per le compagne di classe del nostro paese. Non volevamo che simpatizzassero con quei ragazzi che arrivavano da fuori. Per di più, mentre tra loro c’erano solo quattro ragazze (e per giunta non proprio carine) tra noi le ragazze erano ben più numerose e molte di queste erano anche decisamente belle ragazze. Insomma, non differenziandoci dal mondo animale, dove tra i maschi si scatenano lotte per il dominio delle femmine, anche a scuola c’erano state ripetute zuffe tra diverse fazioni per questo motivo.
Io ero abbastanza diligente e prendevo buoni voti. Avevo però la cattiva abitudine, durante i compiti in classe, di passare la copia svolta ai compagni più scarsi. Diverse volte ero stato scoperto ed ero stato punito con l’abbassamento del voto.
Una volta preso il diploma, per un breve periodo avevo aiutato mio padre nelle ultime cose prima di partire per l’America (eravamo partiti tutta la famiglia e cioè i miei genitori, mio fratello Costantino che era più grande di me, ed io). Mio padre aveva in paese un piccolo oleificio ma aveva deciso di chiuderlo e di trasferirsi all’estero. E a vent’anni, come ho già detto, eravamo partiti tutti, anche perché a New York ci aspettava lo zio Nicola (fratello di mio padre) che teneva una piccola trattoria a Manhattan.  E là ho iniziato subito a lavorare con zio, e anche mio padre e mio fratello ci lavoravano perché il locale era stato ampliato un pochino (sino ad avere quaranta coperti) ed era diventato un tipico ristorante di cucina italiana, cucina molto gradita dagli uomini d’affari americani. Dei compagni di classe che si erano diplomati con me non avevo saputo più niente data la lontananza che allora rendeva difficile restare in contatto. Solo cinque anni dopo era passata nel ristorante di mio zio (dove io servivo ai tavoli) una delle ragazze che venivano a studiare provenendo dal paese vicino, una di quelle che allora avevamo giudicato bruttocchie e che invece a rivederla dopo tutti quegli anni era diventata molto bella. Tanto che me ne ero innamorato all’istante, e siccome anche lei si era fermata a lavorare nel ristorante di zio Nicola, avevamo finito per metterci insieme e un anno dopo me la sono sposata.

III

Le suore! Anche su Street View se ne vedono due, di spalle, davanti all’ingresso dell’asilo. Segno che nulla è cambiato rispetto a quando lo frequentavo io. Anzi, no, una cosa in loro è cambiata: il copricapo. Quando ero bambino le suore portavano la cornetta: un copricapo enorme, di tessuto bianco, inamidato talmente tanto da diventare rigido, e in questo modo ci sembrava che tutte avessero un aquilone sulla testa. L’asilo è sulla stessa strada della scuola ma più distante di un centinaio di metri. A vederlo oggi mi sembra piccolo, mentre allora mi sembrava grande, così accogliente in mezzo a una pineta che avvolgeva l’edificio su tre lati. Io ci sono andato quando avevo quattro e cinque anni, dalla mattina al primo pomeriggio, e siccome abitavamo poco lontano, e a quei tempi in paese non c’era traffico di auto (solo bici e qualche scooter, e l’automobile del sindaco e del direttore della banca), c’andavo da solo. Portavo un cestello per la merenda a mezza mattina mentre per il pranzo (se così si può chiamare) c’era una piccola mensa dove le suore preparavano la minestra col formaggino e i petti di pollo con i piselli. Le giornate all’asilo trascorrevano con i giochi all’aperto quando c’erano belle giornate e con altre attività quando il tempo era freddo o cattivo. Le suore c’insegnavano certe canzoncine che cantavamo in coro con la direzione di una di loro che gesticolava davanti a noi per seguire il ritmo e che alla fine diventava tutta rossa, come accaldata anche se fuori c’era freddo, e si rimboccava le maniche dell’abito che le arrivava sino ai piedi. Certi giorni invece le suore ci insegnavano le filastrocche e certe poesie che dovevamo imparare a memoria e recitare a turno davanti a tutti. Qualche compagnetto era molto timido e finiva per piangere già prima della recita. Allora le suore lo prendevano in braccio e lo consolavano. Io non avevo vergogna, salivo sulla pedana e recitavo le poesie accompagnandole con i gesti delle braccia e alla fine tutti mi applaudivano e la sera raccontavo delle mie esibizioni alla mamma che mi rispondeva sempre che da grande avrei potuto diventare un attore, e io ci credevo. Ogni tanto all’asilo venivano due persone (marito e moglie) che a me sembravano vecchie ma che non potevano esserlo perché avevano detto che avevano un figlio poco più grande di noi. Non erano del paese e arrivavano con uno strano furgoncino decorato con disegni di palloncini di tutti i colori e con la scritta “I clown!”. Loro raccontavano favole e storielle curiose e mentre parlavano facevano divertire perché si muovevano in modo buffo e anche le voci cambiavano continuamente. Da loro sentivamo la storia di Cappuccetto Rosso, di Pollicino, di Biancaneve, di Pinocchio e di tanti altri.

IV

La prima volta che mio figlio Antonio ha battuto l’indirizzo per navigare con Street View e si è portato sulla piazza del paese, io dopo un primo giro della piazza ho svoltato e sono capitato in una stradina laterale, che si chiamava (e che ancora si chiama) via Stretta, dove c’era la bottega di un certo Lucio, il più vecchio barbiere del paese (ce n’erano altri due ma verso la periferia). Quasi non la riconoscevo perché sino alla mia partenza, sopra la porta c’era un semplice pannello in legno con su scritto “Barbiere”, mentre adesso c’è un’insegna al neon con scritto “Parrucchiere uomo donna”. Lucio faceva la barba ai vecchi del paese e i capelli a noi giovani che invece la barba la facevamo a casa. Quando anche in paese era arrivata la moda dei capelli lunghi portata dai Beatles, lui si era bonariamente arrabbiato con tutti noi perché disertavamo la sua bottega e i suoi guadagni erano calati parecchio. E allora, poco dopo, s’era inventato un trattamento speciale per noi capelloni: un taglio leggero e il più possibile simile a quello dei Beatles, a metà prezzo. A partire dai sedici anni la bottega di Lucio era anche diventata un punto di ritrovo soprattutto nel primo pomeriggio quando gli anziani se ne stavano a casa. Capitava di ritrovarsi anche in venti e in quel caso stavamo un po’ dentro e un po’ fuori perché il locale era piccolo, con una sola poltrona per il taglio e quattro cinque sedie per l’attesa. Da Lucio la radio era sempre accesa e lui a seconda dei momenti, o delle richieste, alzava o abbassava il volume. Quando la discussione diventava più intensa lui abbassava la radio e lasciava sfogare i parlatori per un po’, poi diceva che poteva bastare, che tanto su qualunque cosa uno la pensa in un modo e uno in un altro, e che è inutile continuare in eterno. A quel punto dava volume alla radio e se c’era qualche bella canzone tutti smettevano di discutere senza protestare. Comunque, crescendo, le discussioni tra noi toccavano argomenti sempre più importanti (sulla vita e sul suo significato, sui buoni e cattivi sentimenti, sui soldi, sulle donne, sul lavoro degli adulti), e in quei casi spesso chiedevamo un parere a Lucio per capire come lui vedeva la questione. E quasi sempre quell’uomo, oramai anziano, che quando parlava con i vecchi che frequentavano la bottega di mattina per farsi fare la barba, parlava pacatamente e in modo piuttosto conformista, con noi, soprattutto di pomeriggio, assumeva un atteggiamento anticonformista e sfoderava sue teorie che ci sorprendevano e qualche volta scandalizzavano (tanto che tra noi lo consideravamo come una copia casereccia di dottor Jekyll e mister Hyde). Anche Lucio, nonostante l’età, aveva una capigliatura folta ma sempre tenuta un po’ corta e ben curata. Ci diceva che per tagliarsi i capelli si riuniva (insieme ad altri quattro barbieri della zona) ogni tre settimane nella casa di un collega di un paese vicino, e là se li tagliavano a vicenda. Ci aveva anche raccontato che uno dei suoi colleghi s’era innamorato del taglio dei capelloni e aveva deciso di farseli crescere come loro nonostante l’età avanzata. Questa cosa ci aveva incuriosito molto, tanto che una mattina di giugno (mi pare fossi in quarta, ma le scuole s’erano chiuse da un paio di settimane) io e altri tre compagni avevamo preso la corriera ed eravamo scesi nel paese del barbiere capellone. C’eravamo nascosti fuori dalla sua bottega e siccome teneva la porta aperta, uno dei miei compagni, che s’era portato il mangiadischi appresso, l’aveva poggiato sui gradini dell’ingresso e aveva fatto partire a tutto volume il brano “Penny Lane”, una delle tante canzoni famose dei Beatles. Noi pensavamo la prendesse male e invece quello era sbucato fuori dalla bottega (con pettine e forbici in mano), tutto raggiante, e vedendoci aveva subito chiesto di fargliene ascoltare anche altri. In pratica avevamo passato più di un’ora nella sua bottega ad ascoltare molte canzoni del gruppo inglese e a discutere se era più bella Hey Jude o Let it be o Lady Madonna. Lui, il barbiere, andava pazzo per She loves you e la volle ascoltare cinque o sei volte. Nell’andare via ci chiese di tornare ogni tanto con i dischi, e ci propose un taglio dei capelli gratis, a turno, per uno di noi.

V

Parallela alla via del barbiere, ma ben più larga e importante, c’è quella che chiamavamo la via degli affari per il semplice fatto che c’era la sede dell’unica banca presente in paese. L’ho ripercorsa tutta, avanti e indietro con Street View, e ho visto che adesso di banche ce ne sono due, una di fronte all’altra. La prima, quella che conoscevo io, è ancora là e sembra sempre la stessa. È una banca di credito cooperativo (e l’insegna è sempre la stessa) ed era nata, per quanto ne so, dopo la seconda guerra mondiale per iniziativa di alcuni paesani benestanti. Il direttore era anche lui uno di paese che aveva studiato a Roma e che si dava molte arie. Vestiva sempre in giacca e cravatta e aveva una Lancia Flavia, l’unica auto di prestigio del paese, che lui curava con pignoleria e che era sempre lucida a dispetto delle giornate di pioggia e vento dopo le quali le altre auto si infangavano tutte, anche perché tante strade di paese erano in terra battuta. Qualche volta m’era capitato di entrare in quella banca per operazioni di cui non ricordo granché. Dentro c’erano due impiegati, anche loro con la cravatta, che stavano allo sportello in maniche di camicia, immersi in attività che si svolgevano nel silenzio generale. Li vedevo quasi sempre intenti a contare banconote: pacchi consistenti che facevano scorrere velocemente interrompendo ogni tanto per bagnare le dita in una spugnetta umida di colla. Anche quando parlavano la loro voce era distante e si sentiva poco perché un vetro spesso li separava dal cliente. Solo una feritoia in basso permetteva lo scambio tra i due (impiegato e cliente) che si fronteggiavano e che si capivano quasi solamente a gesti. Se poi i due si conoscevano (ed era quasi sempre così) finivano per salutarsi infilando la mano nella feritoia sino a sfiorarsi la punta delle dita. Il direttore stava in un’altra stanza e siccome teneva la porta aperta a metà lo si intravvedeva alla sua scrivania e, diversamente dagli impiegati, lui manteneva la giacca ed era quasi costantemente al telefono. Solo quando nella sua stanza entrava qualcuno (che prima aveva bussato allo stipite, con discrezione) lui si alzava, stringeva la mano alla persona e chiudeva del tutto la porta. Mio padre quando aveva l’oleificio aveva frequenti rapporti con la banca e conosceva bene il direttore, ma ogni volta che rientrava a casa storceva la bocca perché forse non riusciva ad avere ciò che chiedeva. Ne parlava a pranzo con mia madre e diceva sempre che il tizio, pur essendo il direttore di una banca microscopica, s’era montato la testa e faceva il superbo, che da quando era andato a studiare a Roma e poi era rientrato per fare il direttore, aveva cambiato carattere ed era sempre freddo e distante, mentre prima non era così.
Nella stessa strada della banca (anzi delle due attuali banche, ma l’altra non la conosco), c’era (e c’è ancora) la casermetta dei carabinieri. Davanti all’ingresso sostava sempre la camionetta pronta per le uscite del brigadiere che comunque per la maggior parte della giornata stava in ufficio. Oltre a lui che era un omone alto e corpulento (ma con un’espressione del viso sempre sorridente, tanto che mio babbo diceva sempre che era un bonaccione), c’erano altri due giovani appuntati che vivevano nella foresteria, mentre il brigadiere viveva con l’intera famiglia in un appartamento attiguo alla casermetta. Non so perché ma tutti e tre non ricordo di averli mai visti vestiti in borghese e per questa ragione ho sempre pensato che i carabinieri lavorano ininterrottamente e per tutti i giorni della settimana. Una mattina, quando ero all’ultimo anno dei miei studi, il brigadiere e uno degli appuntati erano venuti in classe per parlare dell’Arma dei Carabinieri e di come sia bello fare il carabiniere. Nelle settimane seguenti alcuni miei compagni (che evidentemente s’erano innamorati dell’Arma) avevano visitato la casermetta perché volevano fare la domanda per svolgere il servizio militare di leva nei carabinieri per poi, eventualmente, chiedere di raffermarsi e diventare carabiniere per tutta la vita.
La casermetta era al centro di un appezzamento di terreno chiuso su tre lati da mura abbastanza alte che in cima, per difesa, erano attrezzati con pezzi di vetro appuntiti e taglienti. Ho visto ora, da Street View, che i vetri non ci sono più e che sono stati sostituiti da alcune telecamere. Per il resto tutto è rimasto uguale come se non fossero passati più di quarant’anni.

VI

Nella strada della banca e dei carabinieri c’era una traversa, non lunga e per dipiù cieca, dove si trovava la biblioteca comunale. Ora scopro che quella strada è stata aperta e che il prolungamento termina in una piazzetta alberata dove c’è il mercatino della frutta. Perciò con Street View posso andare avanti e indietro per questa strada e rivedere l’esterno della biblioteca dove, nel periodo delle scuole medie, l’insegnante di lettere ci portava spesso. Questa biblioteca, in effetti, era stata allestita, dopo la ristrutturazione di un vecchio deposito di derrate alimentari (dove una delle famiglie più facoltose del paese conservava i cereali che produceva nelle sue terre: grano, fave, fagioli, lenticchie e ceci), era perciò quello che oggi potremmo considerare un grande loft. I muri erano alti quattro metri, e più sopra c’erano le vetrate (vetri quadrati smerigliati, inseriti in un reticolo metallico), per altri due metri. Il tetto era in eternit ma noto che oggi c’è un tetto con le tegole d’argilla rossa. Lo spazio interno era stato suddiviso con alte scaffalature che ospitavano i libri e che fungevano anche da pareti divisorie tra i diversi settori. L’insegnante ci riuniva nella parte dove c’erano tanti libri per ragazzi e ci permetteva di leggere e sfogliare tutto ciò che ci piaceva. C’era un tavolone lungo e largo che in pochi minuti si riempiva di libri e si stava così, a leggere e bisbigliare, con l’insegnante seduta all’estremità del tavolo che ci guardava e in genere sorrideva. Andavamo avanti così per tre mezze ore intervallate da dieci minuti di conversazione tra l’insegnante e tutti noi. Là ho letto i miei primi libri d’avventure. Romanzi come Tom Sawyer, Zanna Bianca, L’isola del tesoro, e molti libri di Salgari (Le tigri di Mompracem, I pirati della Malesia, e altri). Durante gli anni di studi superiori invece avevo quasi disertato la biblioteca, c’andavo raramente perché era cambiato il bibliotecario e il nuovo mi era antipatico (lo era per molti, per cui presumo non fosse solo per una mia fissazione). Una sera ero andato (un po’ di nascosto) con tre compagni di classe perché volevamo leggere un libro di cui avevamo sentito parlare. S’intitolava “L’amante di Lady Chatterley”. Tutti e tre avevamo sedici anni e il bibliotecario (forse è anche per questo fatto che a noi tutti era diventato antipatico) non aveva voluto farci leggere quel romanzo perché, lui diceva, era vietato ai minorenni. Quel romanzo l’ho poi letto qui a New York (scritto in inglese) quando di anni ne avevo venticinque e sul momento non mi è sembrato così scandaloso. Comunque, per sincerità, devo riconoscere che anch’io a mia volta quando mio figlio Anthony (così vuole essere chiamato anche da noi familiari) intorno ai sedici anni lo voleva leggere ho cercato di dissuaderlo dicendogli che sarebbe stato meglio aspettare la maggiore età. Lui mi ha preso in giro per una settimana e credo comunque che, forse per un rispetto nei miei confronti, abbia deciso di seguire il mio consiglio e abbia aspettato qualche anno.
Un’altra cosa che si faceva nella biblioteca, la domenica pomeriggio, era il cinema. Un unico spettacolo alle cinque in una saletta che poteva contenere una settantina di spettatori e dove le poltroncine non erano imbottite. Là avevo cominciato ad amare il cinema perché era il vecchio bibliotecario che sceglieva la pellicola da proiettare e lui era uno laureato (forse dopo il medico e il farmacista era l’unico di paese, e diceva di aver studiato filosofia alla Cattolica di Milano e di aver fatto anche un anno alla Sorbona e quando lo diceva gli si illuminava lo sguardo…), che di cinema se ne intendeva. Le pellicole in paese arrivavano con un certo ritardo ma noi non ci facevamo caso. Alcuni film li ricordo ancora come fosse oggi: il film di Zavattini Miracolo a Milano, e poi quello di Visconti Il Gattopardo, e gli western italiani con Per un pugno di dollari e pochi mesi prima di partire per l’America il bibliotecario aveva portato il film di Lelouch Un uomo e una donna. Naturalmente i film erano tutti su pellicola, e siccome la macchina di proiezione doveva essere vecchia, ogni tanto la pellicola si spezzava e vedevamo il bibliotecario che dietro la parete con i vetri si dava da fare per riattaccare i lembi con l’acetone.
Immagino che adesso, dopo tanti anni, il cinema non sia più là ma nel mio girovagare con Street View non sono riuscito a vedere dove potrebbe essere. Anthony sostiene che di questi tempi anche in Italia sono arrivate le multisala come qua in America e che perciò è probabile che una multisala esista da qualche altra parte e che serva per più paesi della zona. Sarà sicuramente così ma ciò non ha frenato il mio disappunto perché il piccolo cinema di paese è stata una delle cose che mi sono mancate di più quando sono arrivato a New York. Ovviamente qui di locali ce n’erano a decine ma per me non era la stessa cosa. Poi con gli anni ci ho fatto l’abitudine e ho continuato ad amare il cinema ma il mio cinemino di paese mi è rimasto nel cuore.

VII

Siccome col computer sono un po’ imbranato, muovendo male il mouse sono saltato dalla strada dove c’è la biblioteca a una piazza quasi in periferia, che si trova dalla parte opposta del paese, dove ho rivisto l’esterno del mercato civico. Era una costruzione in mattoni rossi di forma rettangolare, non grande (sarà stata grande quanto quattro campi da tennis) e con due ingressi, uno su ciascun lato corto. Dentro c’erano due corridoi paralleli lungo i quali erano sistemati, da una parte i box della frutta e della verdura, e dall’altra quelli della carne e del pesce. Era aperto solo al mattino e lo frequentavano le donne del paese (quasi tutte casalinghe). Io ci sono stato poche volte e solo alcuni mesi prima di trasferirmi a New York ci sono andato tutti i giorni, in orario di chiusura, ma senza entrare. Aspettavo fuori l’uscita di una ragazza che vendeva le verdure e che mi piaceva.
Lei abitava in un paese vicino, i suoi genitori avevano terreni dove curavano gli orti e le piante di frutta che lei vendeva al mercato. Guidava un piccolo furgone e dentro c’era sempre un profumo di ortaggi. Alla chiusura caricava le cassette vuote, o mezzo vuote, dietro l’abitacolo, e poi ripartiva per il suo paese. Io l’avevo conosciuta casualmente un giorno che passando dalle parti di casa mia, le portine del furgone (evidentemente mal chiuse) s’erano aperte ed erano scivolate fuori varie cassette vuote. Io che passavo di là l’avevo aiutata a rimetterle nel cassone e lei per ringraziarmi mi aveva regalato un bel melone.
Era vestita con una salopette bianca (che a quell’ora era piuttosto malconcia) e portava i capelli corti corti, quasi quanto i miei (un giorno per gioco li avevamo misurati per un confronto ed era proprio così) e la faccia rotonda e tutta rosa. Aveva la mia età ma io fino a quel giorno non l’avevo mai vista, neanche a scuola, e in seguito lei mi aveva raccontato che suo padre, dopo la scuola media, le aveva detto che doveva aiutare nei campi e che perciò non poteva più continuare gli studi.  Io poi il giorno dopo ero entrato al mercato per salutarla ma nel suo box c’erano diverse donne che compravano e lei mi aveva detto che potevo aspettarla alla chiusura e che avremmo parlato con più calma. Quando usciva del mercato diceva di avere molta fame perché la mattina iniziava prestissimo a lavorare. Nell’abitacolo del furgone conservava sempre un pacchetto con dentro un grosso sfilatino imbottito con la mortadella. Io salivo con lei nel furgone e mentre lei mangiava il panino (e si scusava con me perché aveva una gran fame e non resisteva oltre), parlavamo di noi. Non voleva che la baciassi, e quando terminava il panino usciva dall’abitacolo e per un po’ parlavamo là nella piazza del mercato con il via vai degli altri commercianti che caricavano le cassette vuote sul loro mezzo. Dopo di che mi diceva che doveva rientrare e mi lasciava là dopo avermi salutato come fossimo due amici anche se lei stessa, dietro mia insistenza, riconosceva che tra noi c’era qualcosa di più ma che quel qualcosa doveva maturare, come la frutta acerba che è bene aspettare che maturi prima di gustarne il sapore… Io nelle settimane seguenti aspettavo questa maturazione, ma lei faceva un po’ come Penelope, quando le arance erano mature diceva che bisognava aspettare che maturassero i mandarini, e poi spostava ancora dicendo che dovevamo aspettare che maturassero le pere e poi le fragole e così via. Io, un giorno che pioveva forte e che non potevamo uscire dall’abitacolo, le avevo dato un bacio. Da quel giorno dopo il panino, e dopo che fuori dal furgone restavamo a parlare, prima di ripartire mi permetteva di rientrare nell’abitacolo mentre lei stava per mettere in moto e là ci davamo un lungo bacio di saluto. Dopo che la baciavo la sua faccia rosa diventava rossa, di quel rossore che colora le guance delle persone timide, e io, un po’ per scherzare le dicevo che era timida ma lei rispondeva sempre che non lo era e che il rossore derivava dall’emozione che provava perché io ero il primo ragazzo che la baciava. Non ricordo come ma a partire da un certo giorno non andai più da lei, forse attratto da qualcos’altro visto che in quegli anni (poco prima di lasciare l’Italia) le mie giornate erano fatte di tante cose che incontravo in seguito alla curiosità che dopo gli studi m’aveva preso totalmente. Con lei non avevo fatto progressi amorosi, tutto s’era fermato a quel bacio nell’abitacolo della sua auto prima della ripartenza per il suo paese. Non l’ho più vista e a dir la verità in tutti questi anni non sono mai ritornato a pensare a lei se non adesso che con Street View mi sono trovato davanti al mercato.
Cinquanta metri più avanti c’era un emporio dove un certo signor Severino (alto e magrissimo, con una barba grigia e capelli sempre arruffati, con addosso una tuta scura e stretta, che gli stringeva i polsi e le caviglie facendolo sembrare un Don Chisciotte), dalla mattina alla sera accudiva i clienti che andavano da lui per comprare le cose più disparate. L’ambiente era una specie di capannone in legno col tetto spiovente, anch’esso in legno, e poche e piccole finestrelle lungo i fianchi. Dentro c’era sempre poca luce tanto che il signor Severino teneva le lampade accese anche a mezzogiorno, lampade che comunque illuminavano assai poco (forse perché lui montava lampadine di pochi watt per risparmiare), ma in compenso sui grandi scaffali a giorno che occupavano per intero le pareti si poteva trovare di tutto. Sulla parte destra c’erano stoccate molte materie prime alimentari: grano, fave, fagioli, lenticchie, ceci, granoturco, zucchero, caffè in chicchi e tanto altro; sul lato sinistro invece c’erano utensili (pinze, martelli, forbici, coltelli) e poi chiodi di ogni tipo, ma anche pelli, coperte, scarponi, guanti, stoffe, detersivi. Entrare nell’emporio del signor Severino era per me come entrare nel paradiso delle curiosità. Anche mio padre ci andava spesso e mi diceva che il signor Severino stava là dall’alba al tramonto facendosi aiutare solo da un commesso che curava la parte delle materie prime alimentari mentre lui seguiva tutto il resto. Apriva tutti i giorni dal primo mattino a tarda sera e per tutto l’anno. Mi diceva che passava le domeniche quasi sempre a letto per via della stanchezza, si alzava a mezzogiorno e poi dopo il pranzo si ricoricava sino alle otto della sera. Adesso, da quanto vedo tramite Street View, l’emporio non c’è più e il capannone in legno appare in completo abbandono, e a vederlo così mi si stringe il cuore per come era pieno di vita quando c’ero io. L’insegna “Emporio” non c’è più e si notano molte finestrelle rotte attraverso le quali, molto probabilmente, entrano a fare il nido gli uccelli. Il signor Severino, visto che era anziano quando io avevo vent’anni, ora non sarà più in vita e siccome non aveva né moglie né figli è verosimile che con la sua scomparsa tutto il suo commercio si sia spento per sempre. E questo, forse, spiega perché il capannone in legno appare in completo abbandono.

VIII

Con Street View mi sposto verso la periferia est del paese sapendo che dovrei incontrare il cimitero. E infatti eccolo là, e già in lontananza si vedono i cipressi allineati lungo tutto il perimetro del camposanto. Era piccolo quando ho lasciato l’Italia e mi aspettavo di vederlo ben più esteso e invece è sempre uguale (racchiuso in un recinto quadrato grande come un campo di calcio). Ovviamente la telecamera non entra dentro e si limita a mostrarmi la strada dove c’è l’ingresso. Vedo solo che il giorno in cui sono state fatte le riprese (il quindici novembre 2014 dice la didascalia), di lato al cancello, c’è il banchetto di un fioraio, cosa che si spiega col fatto che in Italia novembre è il mese dei defunti. E a novembre ci andavo con i miei genitori tutti gli anni perché là riposano i nonni (sono quattro: i due genitori di mia madre e i due genitori di mio padre). Ero bambino quando loro sono morti (tutti e quattro nello stesso anno!). Da bambino mi sembravano vecchissimi anche se poi, crescendo, mi sono reso conto che avevano molto meno di ottant’anni. L’ultima volta che ho portato i fiori alle loro tombe è stato qualche mese prima di partire per New York. Allora le sepolture erano fatte nella terra e lo spostamento nell’ossario avveniva dopo quarant’anni per cui immagino che adesso tutti i miei cari nonni non stiano più nella terra ma nei loculi di raccolta delle ossa. Quell’ultima volta che ero stato in cimitero c’erano anche i miei genitori e mia madre davanti alle tombe dei suoi aveva pianto a lungo perché sapeva che partendo non li avremmo più visti. Quella volta le lacrime avevano inzuppato tutto il fazzoletto che usava per asciugarsi gli occhi e lei, alla fine, con gli occhi rossi rossi s’era accostata alla lapide di mia nonna (per lei una mamma che forse aveva amato in modo speciale) e aveva strofinato il fazzoletto sulla sua fotografia che il tempo aveva un po’ opacizzato, rendendola più vivida. I miei genitori invece sono deceduti otto anni fa qui a New York e noi abbiamo seguito le consuetudini che si usano qui in America: la cremazione e la custodia personale dell’urna che contiene le ceneri. Però abbiamo anche deciso che non appena terminerò di seguire l’attività del ristorante (sarà Anthony a prendere in mano tutto) porteremo le due urne in Italia per sistemarle nel cimitero del nostro paese. A questo proposito ho scritto una lettera al sindaco e lui mi ha risposto che ci aspetta con piacere perché anche se è passato tanto tempo noi siamo sempre considerati loro compaesani. Guardando bene l’ingresso del cimitero mi sono accorto che qualche cambiamento c’è stato: le due colonne in cemento (robuste e squadrate) che reggono il cancello d’ingresso sono state rivestite con lastre di marmo bianco. Marmo segnato da leggere venature grigio ferro, quasi sicuramente un marmo di Carrara che conosco bene perché già da quando frequentavo l’Istituto Alberghiero il nostro insegnante di arredamento di interni ci aveva portato per una visita alle cave di Carrara (non erano molto lontane dal mio paese; la corriera noleggiata per la classe aveva impiegato circa due ore), e in quella occasione avevamo fatto conoscenza con i tagli più pregiati, e tra questi c’era il taglio “bianco con ombre”, così veniva chiamato, che trovava il suo migliore utilizzo nelle chiese e nei cimiteri. Ho potuto riconoscerlo facilmente anche perché qui a New York viene utilizzato spesso (anche la chiesa dalle parti del mio ristorante qualche anno fa ha rifatto il pavimento utilizzando questo marmo “con ombre”).
So che è molto costoso ma anche unico per bellezza e questo fa onore al cimitero del mio paese e, naturalmente, fa onore a Carrara.

IX

In genere, quando ogni tanto mi faccio un giro in paese con Street View, lascio per ultima la visita all’oleificio di mio padre e alla casa dove ho abitato per i primi vent’anni della mia vita.
L’oleificio è alla periferia ovest del paese, proprio sul limitare del centro abitato. Ci si arriva percorrendo la traversa di una strada che costeggia una parte del paese. Questa traversa è in sostanza un vicolo cieco e alla sua estremità (sarà lunga cinquanta metri) c’era l’ingresso dell’oleificio. Con Street View riesco ad arrivare sino al portone dell’edificio che un tempo era in ferro brunito e quando mio padre apriva le due ante ampie e pesanti, si sentiva il cigolio causato dalla rotazione delle cerniere. Ora invece noto che il portone è in legno (un bel legno chiaro e lucido) e che la facciata (che è senza finestre e che è alta circa otto metri) è cambiata anch’essa: era di un semplice intonaco di cemento grigio mentre ora è stata rivestita con mattonelle color senape. Tutto l’insieme mi fa pensare, chissà perché, ad una piccola fabbrica di mobili (ma non c’è nessuna insegna e perciò potrei sbagliarmi). Per un anno (l’ultimo prima di partire) sono andato all’oleificio tutti i giorni per aiutare mio padre. A me piaceva e anche a tutti in famiglia quell’attività piaceva. Purtroppo il mercato dell’olio stava cambiando e i piccoli come noi non potevano competere con aziende molto più grandi e organizzate diversamente. Mio padre non aveva piante di olive e tutto il prodotto derivava dai conferimenti che i contadini del paese facevano. Perciò le olive venivano acquistate e poi lavorate. La produzione era piccola (circa diecimila litri) e a un certo momento sarebbe occorso ampliare l’oleificio con nuovi macchinari per produrre almeno tre volte tanto (era il volume giusto per ricavare un reddito sufficiente per la nostra famiglia). Ma mio padre non se l’era sentita e aveva preferito chiudere e partire per l’America. Perciò negli ultimi mesi aveva venduto i macchinari e per ultimo aveva venduto l’edificio alla famiglia Lazzarini, la più ricca del paese. Loro avevano varie attività rurali: un grande meleto che si estendeva per cinquanta ettari e poi una stalla, anch’essa di grandi dimensioni, dove allevavano mucche da latte (dicevano che ci fossero duecento capi). È probabile che l’oleificio l’abbiano trasformato in abitazione, una grande e bella abitazione perché la costruzione era su due livelli e sul retro c’era un’ampia corte circondata da magazzini di varie grandezze. Siccome il signor Lazzarini era rimasto in ottimi rapporti con mio padre, qualche anno dopo la nostra partenza, era capitato a New York ed era venuto con la moglie nel nostro ristorante, e quella volta s’era fatta una gran festa perché attraverso loro due avevamo respirato l’aria di paese che agli inizi ci mancava molto.
L’ultima cosa che vado a vedermi quando navigo con Street View è la mia vecchia casa. Si trova al centro del paese ed è una casa indipendente, come del resto erano la maggior parte delle case. In effetti la casa era di mio nonno che l’aveva data a mio padre sino a quando siamo partiti. Poi lui l’aveva messa in vendita e ci aveva fatto avere un terzo del ricavato (perché mio padre aveva altri due fratelli). La casa era una costruzione comune come ce n’erano tante (costruita negli anni trenta da mio nonno) e si sviluppava su un unico livello, al piano terra, e perlopiù in profondità rispetto alla strada principale. Vista dal di fuori sembra piccola ma non è così. Un lungo andito partiva dall’ingresso e proseguiva per una quindicina di metri con ingressi alle camere da una parte e dall’altra. C’erano in tutto otto stanze e per noi che eravamo quattro era più che sufficiente. La casa aveva un sottotetto al quale si arrivava salendo una scaletta in legno e aprendo una botola posta nell’angolo del soffitto dell’ultima camera; camera che mia madre utilizzava come stanza dei lavori di casa (per stirare e spazzolare gli abiti, per cucire, per tagliare le stoffe, per preparare i gomitoli di lana e per tante altre cose). Il sottotetto veniva usato dai miei come una specie di dispensa e questo perché, essendo areato da alcune prese d’aria disposte lungo due pareti adiacenti, permetteva di conservare certi cibi più a lungo. Là stavano di solito la scorta di formaggi, di patate (una delle cose che più mangiavamo), le mele e le pere e anche l’uva che in quell’ambiente si conservava sino a Natale. Io e mio fratello, da bambini, ogni tanto ci salivamo per due motivi: suonare l’armonica a bocca e leggere i fumetti. Di armoniche a bocca ne avevamo una per ciascuno e nel sottotetto facevamo le prove per suonare in duo. Era mio fratello che decideva cosa e come suonare perché lui aveva un’armonica più sofisticata e mi diceva come dovevo inserirmi nelle sue “sonate”. Qualche volta bisticciavamo perché a me sembrava che lui volesse fare la parte del leone mentre anch’io volevo fare qualcosa da solista. Quando riuscivamo a trovare il giusto affiatamento provavamo il pezzo tante volte fino a quando, sentendoci sicuri, lo facevamo sentire ai genitori, in genere dopo cena. Chissà perché ci piaceva provare in quel posto ombroso, quasi buio in certi pomeriggi invernali, perché l’unica luce che entrava era quella di un lucernaio posto al centro del tetto. Quanto ai fumetti ci piaceva leggerli a voce alta, quasi recitando, nel senso che io leggevo le battute di uno dei protagonisti e mio fratello quelle di un altro. Quando nella storia si sparava o si faceva a cazzotti anche noi ci sparavamo col massimo impegno (la mano chiusa, col solo pollice e indice aperti a mimare un’arma) o facevamo la lotta ma senza esagerare. Nostra madre non era favorevole a farci andare nel sottotetto, e infatti dopo un imprevisto che ci aveva tenuti chiusi là per diverse ore, mio padre aveva sistemato un lucchetto per evitare che salissimo senza il permesso. La cosa era stata causata dal fatto che la botola si poteva aprire solo da fuori e non da dentro (in pratica chi ci saliva doveva mantenerla spalancata). Io e mio fratello mettevamo uno spessore per accostarla senza che si richiudesse ma quel pomeriggio, chissà come, lo spessore era scivolato via (forse in una delle nostre finte colluttazioni) e la botola s’era chiusa. Sia mio padre che mia madre non erano in casa quel giorno e dovemmo aspettare il loro rientro. Io ero più piccolo di mio fratello e quella volta piansi, piansi molto anche perché lui mi prendeva in giro dicendo che eravamo come murati vivi e che saremo morti di fame e sete.
Per il resto la mia casa era bella e io ci vivevo bene tanto che ancora adesso quando la rivedo da fuori con Street View mi commuovo (e Anthony, che non capisce, si mette a ridere perché dice che è tipico dei vecchi piangere per tutto ciò che è stata la loro vita da giovani).

X

Forse a forza di navigare con Street View mi sono abituato, fatto sta che un giorno il computer si è rotto. Ma non perché mi sia caduto o abbia urtato da qualche parte. Semplicemente i programmi hanno smesso di funzionare e Anthony si è messo a parlare difficile dicendo che è questione di nuove release del software e che perciò è necessario cambiare alcune impostazioni e riacquisire dei programmi (io di queste cose capisco poco e ho lasciato a lui il lavoro da fare). Per diversi giorni sono rimasto lontano dal mio paese e devo confessare che mi sono talmente abituato a farci un giretto ogni tanto, che quella passeggiata virtuale mi è mancata.  Dopo una settimana di “astinenza” (perché Anthony non si decideva a “scaricare il software giusto”, così lui diceva) ho cominciato a sognare tutte le notti qualcosa del paese. Sogni che col passare dei giorni sono diventati sempre più lunghi (o perlomeno il ricordo che ne avevo nel momento in cui mi alzavo dal letto era sempre più lungo), sino a quando una mattina, al risveglio, ho avuto la netta sensazione di aver rivisitato l’intero paese con le stramberie che la realtà dei sogni riserva. Mi sono visto nella piazza centrale a inseguire una gallina sfuggita dalla sua gabbia, e un momento dopo, sempre nella piazza centrale, sono nella chiesa mentre recito il Padre Nostro tenendo la gallina sotto braccio. Poi sono entrato nella stanza del sindaco e mi sono seduto in una della poltrone in pelle nera mentre un tizio dall’ingresso mi diceva che non potevo stare là; e allora sono volato alla posta dove il postino, che mi conosce, mi ha consegnato un pacco in arrivo da New York e io gli ho chiesto se adesso la sua paga è migliorata. Poi mi son visto nei pressi dell’albergo dove ci sono le biciclette per i turisti e ne ho preso una per correre alla scuola dove ho lasciato al bidello il pacco che mi ha dato il postino. Quindi sono entrato nell’asilo che frequentavo a cinque anni e ho fatto qualcosa che evidentemente nell’inconscio desideravo fare da sempre: mettere sulla mia testa la cornetta della suora. E infatti ho sfilato la cornetta della madre superiora che sembrava essersi assopita nella panchina del cortile e l’ho indossata con orgoglio anche se essendo larga per la mia testa, dovevo tenerla con le mani stretta in fronte. Fuggendo dall’asilo un colpo di vento se l’è presa e a quel punto ho visto che volava in alto come un aquilone e tutti ridevano. Scappando da lì sono finito da Lucio, il vecchio barbiere che era in compagnia del collega amante dei Beatles e tutti e due avevano i capelli a caschetto come Ringo Star, e mi sono fermato un attimo a salutarli ma loro non mi hanno neanche sentito perché intenti ad ascoltare Day Tripper. Allora sono uscito e fuori dalla banca ho visto il direttore col suo abito impeccabile e una cravatta rosa, che saliva nella sua Lancia Flavia che però era sporchissima e anche ammaccata e che vedendomi ha sospirato qualcosa di incomprensibile e con aria rassegnata si è messo a strofinare la carrozzeria con un panno, ma più puliva l’auto e più il suo abito si imbrattava tanto che dopo poco anche la camicia e la cravatta sono diventate color fango. E proprio in quel momento è arrivato il brigadiere dei carabinieri ancora più alto e corpulento del solito che gli ha detto che poteva lavarla da lui la macchina e assieme sono saliti in auto e si sono diretti verso la caserma. Io a quel punto ho svoltato l’angolo e mi sono trovato nella biblioteca dove il vecchio bibliotecario mi ha passato una pila di libri e mi ha detto: “Ci sono tutti i tuoi preferiti. Leggili e poi vieni a raccontarmeli”. E così reggendo tutti quei libri lui ha abbassato le luci e subito ha acceso il proiettore dei film e sul telone bianco è apparso il buon Paolo Stoppa che alla testa di un esercito di poveracci finisce in piazza Duomo e da lì prende il volo con le scope usate per spazzare le strade di Milano. E con la pila di libri mi son visto fuori dal mercato ortofrutticolo e quando è uscita la mia ragazza dal viso rosa le ho dato un bacio lungo lungo e lei è diventata tutta rossa perché era timida. E dopo il bacio lei è scappata e io sono entrato nell’emporio del signor Severino e lui, alto e magro come un don Chisciotte, mi ha preso sottobraccio e mi ha detto che avrei potuto gestire io l’emporio perché lui è troppo stanco e vuole andare a riposare ma non solo la domenica, come ha fatto per tutta la vita, ma anche gli altri giorni, per godersi la vecchiaia. Io sentendo la parola vecchiaia sono volato in cimitero e vicino alla tomba dei nonni gli ho promesso che molto presto avrei sistemato al loro fianco anche le ceneri dei miei genitori che da troppo tempo aspettano a New York che mi decida. E poi non trovando dell’olio per accendere i due lumini che stanno nella loro lapide, sono corso all’oleificio per prenderne un po’, e qui ho incontrato il signor Lazzarini che mi ha detto che l’oleificio non c’è più e che è un peccato perché di olio così buono non se ne trova più, e che ha sempre avuto grande stima di mio padre e che vorrebbe salutarlo; al che gli ho consigliato di andarlo a trovare a New York e lui mi ha detto che sarebbe partito domani stesso. E infine mi sono visto nella mia vecchia casa, a suonare l’armonica a bocca nel sottotetto con mio fratello e a decidere io cosa e come eseguire una “sonata”.
Questo è tutto quanto ho sognato stanotte e dopo che l’ho raccontato a Anthony lui si è intenerito e si è messo al computer per scaricare le “nuove release” e ridarmi già subito il mio caro Street View, diventato oramai un compagno inseparabile, capace di farmi rivivere cento volte i primi vent’anni della mia vita.  








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