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Aurora Vannucci
LAGUNANDO 2020 > selezionati 2020
Frequenta il Liceo Linguistico “G.D. Romagnosi” di Parma.
Due libri pubblicati e due in attesa di pubblicazione.
Ha vinto sessanta concorsi letterari.

I LIOPICCOLI
RACCONTO
Le tre esse





Silenzio, solitudine, smarrimento. Queste sono le tre esse, questa è la condanna che ogni giorno ero costretta a subire. Mi rannicchiai contro il muro cercando di colmare il vuoto che avvertivo attraverso le lacrime, ma mi sentii ancora peggio. Dentro di me il buio.
Eppure, che cos’avevo di così sbagliato? Ero una ragazzina di 11 anni, capelli ricci castani, occhi color nocciola, bassa statura: una ragazzina qualunque.
Le femmine non mi accettavano nei loro gruppi perché non amavo acquistare vestiti firmati e trucchi e non ascoltavo la musica del cantante belloccio di turno, che il giorno prima tutte adoravano ed il giorno successivo tutte dimenticavano. Durante gli intervalli scolastici, quando non riuscivo a sopportare le soporifere chiacchiere delle mie compagne di classe, cercavo di unirmi ai ragazzi, ma spesso mi scansavano con le solite frasi di circostanza: “Tu sei una femmina e alle femmine non piace il calcio. Dai, lasciaci stare!”.
Eppure io preferivo correre dietro ad un pallone che subirmi gli insulsi commenti sui capi di abbigliamento alla moda. E considerando che questo era solo il primo anno delle scuole medie, come sarei sopravvissuta agli altri due?
Mi rifugiai nella palestra della scuola, la schiena poggiata al muro. Le luci erano spente, un leggero raggio di sole filtrava dagli alti finestroni, sentivo un lieve tepore sul viso. Nessuno era presente, tranne me, o almeno questa era la mia convinzione.
Notai che un ragazzo alto e robusto stava furtivamente entrando nella palestra, i suoi passi si percepivano appena. Le sue mani scavarono nella cesta dei palloni da basket ed iniziai ad ascoltare il rumore cadenzato del rimbalzo della palla sul pavimento.
D’ improvviso percepì la mia presenza e si voltò verso di me: solo allora lo riconobbi, era Jean, il ragazzo francese, trasferitosi da poco in Italia, un mio compagno di classe.
I suoi occhi scuri color carbone incrociarono i miei “Et allor? Que tu fais ici? Che tu fai qui?” mi domandò, sfoderando un’elegante erre moscia.
“Che ci fai tu qui?” risposi con una domanda, visto che non avevo una risposta esauriente per la sua.
“Je.... gioco giocare. Les enfants lasciano me da solo... parce que ancora non parlo bene tua lingua.” rispose lui con un sorriso malinconico.
Jean veniva isolato esattamente come accadeva a me, anche lui era particolare, anche lui era un diverso. Non avevo mai notato la sua situazione, ero troppo concentrata sui miei problemi per notare quelli degli altri.
“Mais.... et allor?” chiese nuovamente lui “Que ci fai qui?”
“Ho cercato un luogo appartato per piangere” risposi io, asciugandomi una lacrima che lentamente stava attraversando la mia guancia “Motivo? Il tuo” terminai.
Jean mi fissò incredulo: “Vraiment? Davvero?”
“Si certo, davvero” risposi i “Ma almeno tu quando sei triste ti metti a giocare, io invece.....”
“Toi aussi... tu anche” rispose lui prendendomi la mano per farmi staccare dal muro “Vieni dai, palleggiare insieme!” esclamò sorridendo. Jean era proprio simpatico, il suo accento francese e quel suo modo promiscuo di esprimersi riuscivano a farmi sorridere. Iniziammo a giocare, passarci la palla, tirare a canestro. Il tempo passava ed in classe c’era l’ora di matematica, ma sicuramente i compagni non si sarebbero accorti della nostra assenza, per loro eravamo pur sempre degli invisibili! La professoressa di matematica poi, che raramente faceva l’appello, era certamente troppo presa dai suoi calcoli! Continuammo a palleggiare, ridere e scherzare finché si avvicinò anche la fine dell’ora di matematica.
“Forse è meglio se torniamo in classe e ci infiliamo dentro durante il cambio ora! Siamo stati fortunati a trovare la palestra libera e che nessuno si sia accorto della nostra assenza.... altrimenti sarebbe stato… un bel guaio!” esclamai io.
“Mais oui.... torniamo” rispose Jean lanciando la palla nel cesto raccoglitore.
Quando arrivammo in classe l’uscio era aperto e la professoressa era già uscita. Mentre Jean corse ad occupare il suo banco io mi fermai sulla soglia della porta. Per la prima volta osservai attentamente la classe e notai chiaramente che si erano formati dei gruppi, gruppi dai quali io e Jean eravamo esclusi. Ma oltre al francese, anche un altro ragazzo era solo. Si chiamava Francesco, sedeva in prima fila, occhialuto, compostino, il classico secchione. Pensai che era giunto il momento di rivolgergli la parola e timidamente mi avvicinai: “Ciao, che studi?” gli domandai trovandolo chino su di un quaderno.
“Ciao... gli appunti di storia” rispose lui sollevando lo sguardo.
“Ma guarda che l’interrogazione è il prossimo martedì” feci io stupita, visto che mancava quasi una settimana.
“Già, motivo in più per mettersi avanti” si giustificò, sistemandosi il colletto della camicia ed abbassando nuovamente lo sguardo sul quaderno.
Non so perché glielo chiesi, normalmente non sono così impicciona, ma quella era la giornata giusta: “Scusa ma tu, non ti senti mai solo?” Lui si voltò verso di me, togliendosi gli occhiali e fissandomi intensamente: “Si, certo, tutti mi evitano. Ma io riesco a consolarmi attraverso i libri, attraverso i romanzi mi illudo di essere come i miei eroi.... Ma non credere sai... io amo anche la matematica. Guarda che meraviglia.....” mi disse estraendo una multifunzione nuovissima dalla tasca, illustrandomi le sue superbe caratteristiche.
Capii che anche noi due eravamo profondamente diversi, ma entrambi soli, circondati da quell’ alone di buio, e per risollevarci avremmo dovuto unire le forze. Era chiaro che il resto della classe ci aveva isolato, ma il loro comportamento era tutto fuorché maturo.
“Abbiamo lo stesso problema” dissi a Francesco “Io, te e Jean. Dovremmo provare a risolverlo insieme. Sono mesi che questa situazione va avanti...”.
Fortunatamente la professoressa dell’ora successiva tardava ad arrivare: “Si, certo, hai ragione” rispose “Ma considerato che ci isolano perché ci considerano dei diversi non possiamo farcela con le nostre forze.... forse dovremmo far intervenire un adulto”.
Io subito rifiutai: “Per passare anche per degli spioni... no no! Non va.... dobbiamo provare a sistemare noi questa situazione.”
“Non è spiare, è giustizia!” ribatté “Il loro atteggiamento è sbagliato, ma io non sono in grado di farglielo cambiare!”
“Ragione Carlotta!” la voce inaspettata di Jean alle mie spalle per un attimo mi spaventò, ma fortunatamente solo per un attimo!
“Va bene” disse Francesco visto che anche Jean mi aveva appoggiato “Ma cosa possiamo fare?”. Un sorriso malizioso mutò la mia espressione seria: “Io un’idea l’avrei....”
Nei giorni successivi ci recammo al parco davanti casa mia per elaborare un piano d’ azione. Adoravo la primavera e, mentre il teorico Francesco blaterava, io osservavo attentamente le gemme formarsi dagli alberi ancora spogli, i fiori sbocciare sul prato. Jean era invece molto concentrato, non distoglieva mai lo sguardo da Francesco, e ogni tanto commentava con qualche sillaba: “Oui... si” “Je l’ aime... mi piace”.
Francesco, che all’inizio era titubante, mostrava invece un entusiasmo ammirevole. Terminate le discussioni al parco ci ritrovammo a casa di Jean per utilizzare il suo computer e concretizzare quanto ci eravamo detti. I genitori di Jean non avevano molta dimestichezza con l’italiano, per cui si limitarono a salutarci ed offrirci la merenda, senza comprendere esattamente di cosa si stesse parlando.
Francesco, che era abilissimo con il computer, smanettava velocemente con tastiera e mouse, noi esprimevamo le nostre considerazioni. La webcam troneggiava sul monitor del computer di Jean.
Poi estrasse una chiavetta usb e la collegò al computer: “Terminato! Il nostro lavoro è pronto!” ci comunicò sorridendo, il suo primo sorriso da quando lo conoscevo. Festeggiammo il momento con una merenda doppia, gentilmente offerta dalla mamma di Jean, che era felice di vedere il figlio in compagnia di amici. Arrivò il grande giorno: c’ incamminammo verso la scuola a testa alta. Francesco con i soliti occhiali spessi qualche centimetro, la camicia celeste, i jeans e le scarpe bianche. Io con i soliti capelli indomabili vagamente raccolti sotto la fascia arancione. Jean con la solita maxi felpa nera che spesso utilizzava per nascondersi. Sembravamo gli stessi di prima, si certo,  ma solo fuori, perché dentro... dentro eravamo cambiati, i nostri occhi erano uno scintillio di luce! Ci guardammo e per la prima volta ci dirigemmo verso la scuola stranamente felici. “Oggi, in che veste ti presenti?” mi domandò Francesco. “Fuori la stessa” risposi sorridente “Ma quello non conta, ora gli altri devono ascoltarci per quello che siamo”.
Quando varcammo la porta della classe Francesco si diresse verso il computer della cattedra ed inserì la chiavetta usb nella porta, facendo in modo che al primo tocco della tastiera o del mouse automaticamente partisse il suo contenuto, ed accese la lim. Io mi recai al mio banco, pronta a godermi la scena, mentre Jean chiuse violentemente la porta dell’aula, sbattendola, e tutta la classe si girò per fissarlo. Lui sostenne il loro sguardo e si mise a sedere al suo banco. Fu la volta della professoressa Tessoni, l’insegnante di italiano, che dopo aver eseguito il solito appello, posò la mano sul mouse per collegarsi al registro elettronico. Sulla lavagna multimediale apparve il mio volto: “Silenzio. Solitudine. Smarrimento. Le tre S che fanno capolino nella mia vita da quando ho iniziato questa scuola secondaria. Abbiamo preparato questo video perché altrimenti nessuno ci avrebbe ascoltato: gli adulti avrebbe utilizzato le solite frasi di circostanza mentre voi ragazzi ci avreste preso nuovamente in giro, forse più di prima. Nessuno ci avrebbe preso sul serio: noi per voi siamo come il sale sul gelato, che proprio non si abbina. E’ vero, lo ammetto, non amo le cose propriamente femminili. Non sono solo diversa, sono unica. E esigo rispetto, provate a mettervi nei miei panni.....”
Sentii un commento da parte di Giulia, la ragazzina che capeggiava il gruppo femminile: “Nei suoi panni, no di certo. Guardate che maglietta ridicola che porta in quel video...:”. La ignorai, mentre il filmato si spostava su Jean, che sfoggiava una splendida shirt della nazionale francese: “Inutili. Ci considerate inutili.  Je ne parle pas très bien l’ italien... non parlo bene italiano, certo, ma non sono solo diverso... Sono tranquillo, non sono violento, non sono straniero, sono un cittadino del mondo.. Provate a conoscermi, provate ad accogliermi e et vous comprendrez.... voi capirete che la mia diversità non è un ostacolo ma una fonte di confronto ..” Percepii dietro di me questa volta il commento di Carlo, il bulletto a capo del gruppo maschile: “Il solito francesino sbruffone.... guarda la maglietta con le stelle.... come se esistesse solo la Francia....”.
Pensai per un attimo che nulla sarebbe cambiato. Fu la volta di Francesco, la nostra ultima carta: “Nella nostra classe avete formato tre gruppi: il gregge dei maschi, il gregge delle femmine e poi ci siamo noi, le pecore nere. Quelli che voi considerate i diversi: ci deridete o peggio ancora, ci mostrate la vostra indifferenza. E’ vero, sono un secchione, mi piace studiare, mi piace capire ed avere un mio pensiero. Invece voi seguite omertosi i vostri capi-gregge e non sviluppate un vostro ragionamento, una vostra idea. Avete fiducia in voi stessi? Silenzio. Solitudine. Smarrimento. Le tre S del nostro stato attuale.... spero che il filmato vi porti a riflettere, vi porti a trovare la vostra identità. Per fortuna siamo tutti diversi, e solo la tolleranza può aiutarci a convivere con le nostre diversità!”. La Tassoni era rimasta ipnotizzata dal nostro video, tutto il tempo con la bocca semiaperta e gli occhi sgranati. Non si aspettava minimamente quel filmato sulla lim.... I miei compagni si guardarono l’un l’altro, senza fiatare. All’ improvviso sentii un rumore alle mie spalle, Carlo si era alzato dalla sedia: “Ora mi picchia!” pensai istintivamente, ma non fu così. A passi pesanti e testa china si diresse verso la cattedra. Capii cosa sarebbe successo e lo ringraziai, mentre mi passava al fianco, a voce così bassa che nessuno oltre a noi due avrebbe potuto sentire. Si fermò a lato della professoressa, mani in tasca, gambe aperte: “Prof, ho sbagliato, abbiamo sbagliato. Non ho altro da dire”. Il suo mi parve un pentimento sincero, e mi stupì piacevolmente. Mi meravigliai ancor più quando anche Giulia si diresse alla cattedra e posizionandosi vicino a Carlo ripeté la stessa frase: “Abbiamo sbagliato. E’ più semplice ignorare che accogliere....”. Lentamente tutti i nostri compagni si alzarono dalle loro sedie e si posizionarono in fila accanto a Carlo e Giulia, vicino alla cattedra. Seduti ai banchi eravamo rimasti solo noi tre. Ci guardammo negli occhi e annuimmo, alzandoci contemporaneamente: “Grazie per averci ascoltato, grazie per averci accettato!” dissi io, facendomi portavoce di tutti e tre, e raggiungemmo gli altri nella fila. Silenzio, solitudine, smarrimento: si percepiva ancora l’eco di quelle parole nella classe, ma ormai erano parole lontane, distanti. La Tassoni si alzò in piedi ed esclamò: “Oggi ragazzi, la lezione l’avete tenuta voi! Ed io non ho nulla da aggiungere!”. Dalla finestra entrava una luce sfavillante e un caldo tepore primaverile e dalla finestra le tre S spiccarono il volo, come bolle di sapone. E come bolle di sapone si sarebbero dissolte fra quel luccichio, abbandonandoci per sempre.

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