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Biagio Nasti
LAGUNANDO 2020 > selezionati 2020
Originario dell’isola di Procida (NA) ho conseguito la laurea in Ingegneria Navale presso l’Università Federico II di Napoli.
Parallelamente ho coltivato la passione per la letteratura e la scrittura, che mi ha portato a partecipare, con discreto successo, a molti concorsi letterari.

ISOLE DELLA LAGUNA
RACCONTO
El Luganegher


1

Il nuovo secolo era sorto da appena tre anni, eppure molti avvenimenti degni di nota l’avevano prontamente contraddistinto. Vicende importanti si erano susseguite in quel breve lasso temporale, eventi dai connotati politici, sociali ed economici, tali da poter essere annoverati nei futuri libri di storia, almeno in quelli riguardanti la Serenissima. A ogni passo attraverso i canali, il Capitan Grande Vito Belfiore con le dita di una mano li rimembrava scrupolosamente, prima d’iniziare il giro di ronda nella città più bella del mondo. Il pollice, il dito della protezione, in quel caso era sinonimo della morte del doge Agostino Barbarigo a cui si doveva la costruzione della torre dell’orologio di Piazza San Marco, vero e proprio gioiello della tecnologia e punto fermo per tutte le “cipolle” di ogni uomo degno di nota o almeno di chiunque possedesse tanto denaro da permettersi un orologio. Il dito indice, equivalente dell’autorità, o numero due, stava per la successiva nomina del suo sostituto Leonardo Loredan, eletto con il minimo dei voti necessari. Il medio, o soddisfazione pura, per una città stato ancora in piena lotta contro un impero forte e ben organizzato come quello ottomano. L’anulare, quello della fede, andava sfortunatamente a pesare sul successivo e non economicissimo armistizio, con la conseguente perdita di quattro città importanti per le casse della Repubblica. Tuttavia, non erano i primi quattro a preoccuparlo, affari di stato, compiti per alte sfere, ma l’ultimo punto, non per importanza, rappresentato dal dito mignolo. Corrispondente della delicatezza, dell’eleganza, in quella strana conta raffigurava intrinsecamente l’orrore di almeno tre voci infantili spezzate senza motivo, nel freddo e nebbioso inverno lagunare o nell’afosa e umida calura estiva distinta dal ronzio di nugoli di zanzare. Bambini dell’età compresa tra gli otto e dodici anni, sembravano essere spariti nel nulla, inghiottiti dalla nebbia, o magari semplicemente scappati da casa per fuggire dalla miseria o da altro. L’unica cosa importante che contava fino a quel momento, era che voci di un possibile “orco” oppure di un “pedofilo”, ancora non si fossero sparse per la laguna né sopraggiunte alle raffinate orecchie di uno dei membri del consiglio, o a quelle più alte e illustri del Serenissimo.
Sentì l’orologio battere le otto in maniera decisa e inequivocabile, segno che era ormai in dirittura d’arrivo a Piazza San Marco, dove aveva il consueto appuntamento mattutino con i suoi fedeli aiutanti, birri di primo ordine, uomini decisi, rozzi quanto basta, ma fedeli compagni su cui poter contare nel momento del bisogno.
Come tre navi in riga ormeggiate allo stesso molo, si misero immediatamente sull’attenti non appena videro la figura del loro comandante superare l’arco della torre dell’orologio. In ordine con la divisa blu scuro, simile alla notte e senza armi da fuoco in dotazione a causa del regio decreto che non permetteva a nessuna guardia di portarle con sé nelle piazze di maggior prestigio, erano inconfondibili tra la gente comune, dritti come manici di scopa, analoghi a tre colonne dello stesso palazzo. In ordine da sinistra verso destra, c’era Livio Frittella, detto “lo sfregiato”, per un taglio di circa cinque centimetri sotto l’occhio destro, Nicola Spangaro soprannominato “il branzino” per le sue doti di abile pescatore ed Enrico Tiozzo “il chioggiotto” per i suoi natali fuori dalla laguna.
L’occhio inflessibile del Gran Capitan si posò su di loro come il sole sui canali in pieno mezzogiorno. Perse un minuto o due a squadrarli da cima a fondo, girovagando e circumnavigando la riga dritta che i loro corpi formavano sotto l’ombra del duomo di Venezia.
<<Signori buongiorno e comodi.>> Disse con tono diretto.
<<Buongiorno Capitan Grande.>> All’unisono come coristi di chiesa.
<<Ci siamo radunati qui, perché questo è il cuore di Venezia. Il fulcro, il punto nevralgico di ogni azione, militare, politica e commerciale.>> Fece una pausa per deglutire. <<Tuttavia, ieri come adesso, posso dirvi con assoluta franchezza, che tutte quante messe insieme, non mi fanno né caldo né freddo.>>
I tre gendarmi lo guardarono basiti, come se fossero sconvolti da cotanta sincerità.
<<Un fatto grave, se non gravissimo, pende come un cappio su tutta la città.>> Si fermò per fissare Livio negli occhi, sperando di vedere timore nel suo sguardo, ma dal volto dello sfigurato non uscì nessuna emozione e quindi continuò.
<<Da qualche mese, i figli della laguna, veneziani dell’età compresa tra gli otto e dieci anni, spariscono come carte da gioco, per non tornare più al caldo dei loro focolari o al sicuro sotto le sottane delle loro madri.>>
Riprese il discorso passandosi le dita della mano destra sopra al labbro per pettinarsi i baffi biondi e curati.
<<Non possiamo più celare tale evento. Soprattutto perché se dovesse continuare, la voce di quei bambini rischierà di risuonare nelle sensibili orecchie di qualcuno più grande di me e di voi messi insieme e una volta giunta ai piani alti, allora sì che saranno pianti e stridori di denti.>>
I tre, seppur ignoranti, avevano colto la citazione evangelica del loro superiore.
<<Perciò, ho deciso di convocarvi con la massima urgenza. Ovvero per mettere fine a questi episodi tanto sgradevoli. Vi dividerò in tre squadre. Ognuno con i propri uomini, avrà un compito ben preciso e conferendo nell’aiuto del buon Dio e in una dose sconsiderata di fortuna, riusciremo a venirne a capo.>>
Dette loro le spalle, per ricontrollare nuovamente l’orario della sua “cipolla” con quello della torre. Batteva un quarto alle nove. Forse era venuto il momento di iniziare le ricerche.
<<Livio, tu con la tua squadra, terrete d’occhio bordelli e sale da gioco. Molti bambini, soprattutto di tenera età, per racimolare qualche soldo extra fanno i lustrascarpe alle entrate dei locali. Nicola, tu che sei un abile pescatore e conoscitore dei canali, bazzicherai, insieme ai tuoi scagnozzi, le zone portuali. Forse qualche malintenzionato cerca manovalanza giovane per il suo equipaggio, o peggio, carne fresca da vendere come schiavo in oriente.>>
Fece una pausa nuovamente per riordinarsi i baffi e per avvicinarsi all’ultimo dei suoi sottoposti. Il suo viso si poteva specchiare nella pelata del gendarme, che sin dall’età di vent’anni, soffriva di calvizie.
<<Signore Capitan, io e i miei uomini?>> Disse Enrico Tiozzo in pieno accento chioggiotto.
<<Taverne, osterie, “bacari” e qualsiasi altro posto di ritrovo. In primis per raccogliere notizie e in secondo luogo per non lasciare niente al caso. Ci sono molti forestieri che vengono a visitare la laguna e forse non è da escludere che qualche ricco cliente non possa farsi passare qualche “raffinato” sfizio.>>
Con la faccia mista tra lo spaventato e lo sdegnato, il Tiozzo si rimise sull’attenti in attesa di essere congedato dal suo superiore. Malgrado ciò, una domanda gli venne spontanea, forse anche un briciolo di preoccupazione nei riguardi del suo superiore.
<<Se mi posso permettere lei cosa farà?>>
Questa volta oltre ai baffi, si passo la mano anche tra i capelli, forse in segno di nervosismo, ma in quel momento non dette segno di fragilità. E con fare sicuro, rischiarandosi la voce continuò.
<<Io, perlustrerò le zone povere, quelle più a rischio, dove i bambini vivono come topi, rannicchiati in una stanza e costretti a mangiare una alla volta, per non ingombrare la tavola.>>
Inoltre come Ulisse nell’Odissea di Omero, che aveva un appuntamento con l’indovino Tiresia, a lui toccava anche incontrarsi con Alvise Manfrin detto il “sorcio”, in altre parole un suo informatore, uno zaffo, un poco di buono. Un essere viscido e velenoso come una tracina ma utile in circostanze delicate come un’indagine sulla scomparsa oscura di minorenni.
Vide per l’ennesima volta l’orario sulla torre e con aria distaccata e ferma si rivolse per l’ultima volta ai suoi sottoposti, che ansiosi non aspettavano altro di entrare in azione.
<<Ci aggiorniamo stasera al tramonto del sole. Dopo la funzione religiosa delle sei. In questo modo non desteremo sospetti. Sembreremo una pattuglia di ronda in un orario di punta.>> Dalla tasca interna destra della divisa sfilò una piccola cassettina, che faceva presupporre a un portasigari, invece conteneva radici di liquirizia essiccata. Con sommo stupore dei suoi attendenti, si portò un bastoncino a un centimetro dal naso, poi alla bocca, addentandolo di lato, schivando gli incisivi.
<<Qualsiasi cosa, anche la più insignificante mi deve essere riferita. Tutto può tornarci utile. Pagate le informazioni se necessario. Non badate a spese, ma annotatevi tutto, perché se nel caso risultassero false, ci ricorderemo in un secondo momento di andare a riscuotere anche gli interessi.>>
Sputò per terra un pezzettino di radice che logora si era distaccata dalle altre e rimessosi il profumato bastoncino nuovamente in bocca ma questa volta dal lato opposto, riprese il suo discorso finale.
<<Forse stiamo viaggiando con la fantasia, sorvolando ipotesi molto oscure e pericolose. Ci possono essere delle serie possibilità che questi tre bambini si siano solo nascosti sotto qualche ponte o in qualche minuscolo vicolo dove non batte il sole. O che siano state le stesse famiglie a causare in qualche modo l’allontanamento e per la paura di essere scoperti, denuncino in seguito la scomparsa per guadagnare tempo.>>
Con un cenno della testa congedò i tre birri, che a passo svelto si divisero in altrettante direzioni diverse, andando incontro alle loro indagini. Preso dai suoi pensieri e dalla liquirizia che gli inebriava il palato, cominciò lentamente ad allontanarsi per dirigersi verso il luogo dell’appuntamento con il suo informatore. Ogni volta cambiava indirizzo, come un animale nomade senza dimora. Faceva parte del gioco. Se voleva avere delle informazioni, doveva per forza sottostare alle regole, altrimenti non ne avrebbe ricavato un ragno dal buco. Il punto d’incontro gli veniva recapitato tramite missiva, la notte prima, da un garzone, ogni volta diverso, che oltre al pizzino gli consegnava anche un bicchiere di vino, come una specie di brindisi a distanza.
Questa volta l’appuntamento era al campo San Geremia. L’aveva dedotto leggendo e rileggendo quel minuscolo messaggio, sibillino e profetico allo stesso tempo, con soprascritto: Caro Amico Birro, se domani incontrarmi vorrai, quando il sole in alto sarà, aspettarmi dovrai al campo del profeta padre di ogni alleanza.
Come al solito, dopo averlo decifrato, lo distrusse bruciandolo sulla fiamma della sua lampada a olio posta sulla finestra che dava sul Rio del Vin, nei pressi della riva degli Schiavoni. Infatti, aveva preferito rifiutare l’alloggio in piazza per uno più defilato e minimale. In fondo dopo l’abbandono della moglie, la necessità di avere un appartamento più grande non era tra le sue esigenze. Si accontentava di un giaciglio bastevole per almeno due persone, un tavolo e di un braciere per riscaldare un po' l’ambiente nei freddi inverni veneti.

2

Campo San Giacomo era sempre stato il luogo ideale per giocare all’aria aperta. A differenza di molte piazze dei sei sestieri di Venezia, era uno dei pochi slarghi non adibiti al mercato o a scambi tra mercanti. Bisognava di tanto in tanto, fare attenzione ai carretti ambulanti o alle scorte di qualche ricco signore di passaggio, ma su sette giorni, tre o magari quattro, era libero da impedimenti. Perciò gruppi di ragazzini, tra l’età compresa tra gli otto e i dodici anni, dopo aver svolto i doveri studenteschi e lavorativi, si riunivano lì per trascorrere ore spensierate, tra biglie, armi improvvisate e magari qualche pallone di stoffa, mentre le bambine facevano a gara con bambole di pezza corredate da mini vestitini e gioielli. Ovviamente, molti di loro erano monitorati dallo sguardo attento e severo di numerosi tutori, che concedevano volentieri un’oretta di svago ai loro rampolli, per poter in solitudine o in compagnia di altri colleghi o nutrici, ammazzare il tempo con un buon bicchiere di vino in qualche taverna.
Le classi sociali, che in qualsiasi altro momento della giornata si sarebbero differenziate a centinaia di metri di distanza, in quello spazio sembravano volatizzarsi come foglie in autunno che perdono la linfa vitale, separandosi per sempre dal loro legittimo padrone, per farsi cullare da un vento sconosciuto. Purtroppo non solo quello risultava ignoto, anche l’arto di un uomo, reso irriconoscibile per via della nebbia.
Tito, biondino, dieci anni a ottobre, figlio del sarto Longhin, titolare di una meravigliosa sartoria ecclesiastica nei pressi della Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari, era intento quel pomeriggio ad accaparrarsi tutte le biglie dei suoi commilitoni con un tiro o sbocciata da manuale, che avrebbe aumentato notevolmente il volume del suo quasi stracolmo sacchetto. I rivali, impietriti come statue nelle loro posizioni, davano l'impressione di non respirare per la tensione. Uno su tutti, il flaccido Pietro, figlio di vetrai di Burano, che nella battaglia aveva schierato la sua preferita, una biglia azzurra dalle venature dorate che aveva ricevuto come regalo dai genitori per il suo decimo compleanno. Grassottello, lentigginoso e dalle ossa tozze, emanava uno strano odore ai suoi compagni di giochi, un misto tra paura e nervosismo che aumentava di secondo in secondo, in contemporanea della messa in posa del suo rivale. In cuor suo sapeva che la sbocciata era per lui, la sua biglia era la più bella, la più appetibile, degna di un Doge. Tuttavia la mira del suo avversario non si dimostrò degna. La sua biglia rossa, dai connotati ramati, forse per colpa del terreno non perfettamente liscio, non colpì nessuna delle biglie presenti sul quadrato, oltrepassandolo per poi schiantarsi ai piedi della chiesa intitolata all’apostolo Zebedeo. Comunque il risultato fu che poteva tornare a casa senza il timore di essere rimproverato dal padre Ernesto Boldrin, che affettuosamente gli aveva forgiato la sua amata biglia, con la forza dei suoi grossi polmoni.
Anche se la giornata poteva sembrare uggiosa, quel suo tesoro rotondo sprigionava una luce caratteristica capace di illuminargli la mano paffuta, dove difficilmente si sarebbe notata la linea della vita. La mirava meravigliato come fosse l’unica cosa al mondo che contasse veramente. Rappresentava il legame tra lui e la famiglia, il significato dell’amore dei suoi genitori, dei sacrifici, ma anche un punto verde d’invidia da sfoggiare ai suoi commilitoni più benestanti. Amici, compagni di giochi, conoscenti che alle cinque del pomeriggio erano in case lussuose a svolgere regolarmente il loro dovere di studenti. Lui, invece, preferiva l’aria aperta, seppur nebbiosa e lo schienale di un portone acquattato, a quattro pareti lisce riscaldate dal calore di una piccola stufa e una scomoda sedia su cui fare i compiti.
Armato di lapis e libri da leggere, passava volentieri le ultime ore di sole del giorno ai piedi di un palazzo disabitato, dai muri bianchi e dalle finestre di legno massiccio. Se avesse avuto un po' di coraggio in più e anche un po' di agilità, si sarebbe potuto arrampicare lungo la ringhiera di ferro battuto, per poi addentrarsi nell’immenso giardino, impreziosito da una fontana a forma delfino ormai prosciugata, per trovare un più comodo giaciglio dove poter studiare o semplicemente sonnecchiare nelle calde giornate estive. Da quanto si diceva in giro, i proprietari, erano dei nobili di origine asburgica in esilio, perché contrari all’ultima resa o armistizio sigillato con il governo turco. Per ragioni politiche, furono esiliati in terraferma, più precisamente fuori dai confini della Serenissima, come esempio evidente per tutte le altre famiglie dal carattere rivoluzionario. Ciononostante, la famiglia Probitzer e in particolare la rigida, severa e austera Roberta Probitzer, capo famiglia in carica, dopo la morte “prematura” del marito per cause del tutto accidentali, non si era ancora decisa a vendere il sontuoso palazzo dalle mura bianche come l’avorio, forse nella speranza di qualche congedo o grazia da parte del Doge. Pietro tra una lettura e l’altra, si concedeva, spesso e volentieri, una gustosa merenda. Dalla tasca anteriore del suo borsello, era solito conservare un gran pezzo di polenta fritta e se era fortunato anche qualche scheggia di formaggio avanzato dalla sera precedente. Non era di famiglia ricca, ma il cibo a casa sua non mancava. In qualche occasione si era fatto qualche sacrificio, ma per fortuna nonostante l’elevato numero di persone a coabitare sotto lo stesso tetto, infatti, erano in sette a condividere tre stanze, i suoi genitori avevano fatto in modo che lui crescesse con l’istruzione adeguata per trovare in seguito una posizione più dignitosa. Perciò il “piccolo” Pietro, malgrado qualche breve interruzione, dovuta al gioco delle biglie, passava intere giornate a studiare seriamente con diligenza e assiduità, non perdendo mai di vista l’obiettivo di restare il primo della sua classe. Purtroppo, malgrado ciò, quella sera non ci fu il consueto ritorno a casa. Immerso nella lettura, non si era reso conto dell’orario e preso dal rintocco dell’orologio che siglava le sette pomeridiane, in piena furia prese a raccattare le sue cose dal portone del palazzo Probitzer. Quaderni, libri, lapis e infine la sua amata biglia, che alla luce dei lumini, emanava una luce calda ma lieve, come la fiamma di una candela di cera che sta per consumarsi. Preso a rimirarla per il suo splendore, gli scivolò di mano facendo echeggiare un suono cupo e fragile per tutta la stradina della Ruga Vecchia.
Sconcertato dalla paura e anche per la sua disattenzione, la vide rotolare lungo i sanpietrini che formavano il calpestio della calle, per poi perdersi nell’oscurità della notte. Un dubbio lo assalì. Non era mai stato un cuor di leone, un tipo che amasse il rischio, perciò doveva scegliere se accettare la possibilità di tornare a casa senza biglia ma a un orario decente, oppure affrontare il destino e la strada poco illuminata pur di non perdere il suo amato amuleto porta fortuna. S’incamminò per un paio di metri ed esponenzialmente saliva lo stato d’agitazione, una sorta d’ansia che gli appesantiva il passo, man mano che si allontanava dal suo luogo di studio preferito. Eppure quella strada l’aveva percorsa migliaia di volte senza patemi né paure, accompagnato solamente da quella spensieratezza che contraddistingueva i ragazzi della sua età. Il vicolo in piena notte, senza luci né ombre sembrava l’antro di una belva pronta a balzare fuori per afferrarti con sé, per finirti in seguito nel suo nascondiglio. Ma queste erano fantasie, inventive di una mente giovane che a ogni esitazione aumentava il delta di ritardo del suo rientro a casa.
Era quasi deciso a tornare indietro sui suoi passi, rischiando una ramanzina, forse anche qualcosina di più, quando con la coda dell’occhio vide incastonata nello scolatoio di due sanpietrini, ai piedi di una porticina di legno laccato in rosso, la sua amata biglia, che inerme, come la perla di un’ostrica, attendeva speranzosa di essere raccolta. Vicino alla porticina, più in alto, vi era una finestra quadrata di piccole dimensioni da cui fuoriusciva un inteso vapore e una teca con dentro una Madonnina con un lumino acceso. Forse proprio grazie a quest’ultimo che era riuscito a scorgere la sfera azzurra dalle fenditure dorate. Insieme alla gioia di averla ritrovata, un inteso senso di dolore, lo assalì non appena l’ebbe presa tra l’indice e il pollice della mano destra. Un bastone governato da mani giganti, sbucò fulmineamente dalla porticina che non fece nessun rumore nell’aprirsi, come se i cardini fossero stati oleati in giornata e con una prontezza assoluta colpì il paffuto decenne poco al di sopra della nuca, stordendolo come un polipo lanciato ferocemente sulla roccia.
Preso per le gambe e trascinato dentro come un sacco di patate da pelare, in un attimo si ritrovò bendato, imbavagliato e sapientemente legato con i polsi allo schienale di una sedia dura e scomoda. Molto probabilmente non si trattava nemmeno di una sedia, ma di altro, forse uno strano sgabello dalla forma insolita. Un senso d’inquietudine cominciò a salirgli lungo la schiena. Un intenso brivido freddo che solo in rare occasioni aveva potuto provare. Forse quando da piccolo aveva avuto la febbre altissima e suoi genitori non sapevano a che santo rivolgersi, o quando sapeva che dopo una monelleria l’avrebbe sicuramente prese. Questa volta era diverso. Non poteva né parlare né vedere in che guaio si fosse cacciato. Poteva solo sentire, ma in quel momento udiva ben poco, solo suoni contrastanti di difficile interpretazione. Cercò invano di dimenarsi, ma non fece altro che peggiorare la situazione, cadendo sulla guancia destra sul freddo pavimento del locale in cui era stato trasportato. Da quella scomoda posizione poteva solamente stabilire il grado di umidità del lastricato e convincersi che qualcosa di brutto stesse per accadere. Doveva solo capire che cosa. La botta alla testa gli doleva in modo impressionante, tale da non farlo ragionare in maniera lucida. Purtroppo non poteva fare nulla per salvarsi da quella terribile situazione. Gli balenò l’idea che stesse sognando, che improvvisamente sua madre Mirka lo risvegliasse da un lungo torpore e l’odore che sentiva per la stanza fosse quello dello stufato domenicale, che la nonna sapientemente rigirava nel paiolo di rame. La carne era un lusso che si potevano concedere solo una volta a settimana e di solito nel giorno del Signore. Negli altri giorni si pasteggiava con la polenta, spesso fatta con la farina gialla, elemento principe di accompagnamento di tutte le altre pietanze, come pesci di laguna, quali anguille, aguglie, branzini e in più di qualche occasione anche dei legumi. Lui in particolare non sopportava i fagioli, nello specifico, quel loro odore aspro in cottura che infestava la casa e il loro sapore farinoso in bocca. Eppure per fame aveva imparato a ingurgitali senza fare troppe storie e la sera poteva coricarsi con lo stomaco disgustato ma pieno. Tuttavia il profumo che sentiva in quella scomoda posizione, dopo aver appurato di non essere nel bel mezzo di un sogno, era quello di carne e di verdure che sobbollivano insieme nello stesso calderone. Gli venne anche un leggero languorino nel sentire quel prelibato olezzo che gradevolmente gli stuzzicava il naso. Sfortunatamente oltre a quella sfuggente quanto succulenta sensazione, un’altra emozione lo colpì al cuore come una grandinata in piena estate, non appena sentì riconoscibile e chiaro il suono di un coltello che saettava contro un affilatoio.

3

Spirava un forte vento, un misto tra bora e grecale che non permetteva al soprabito di restare al suo posto. Il Capitan Grande Vito Belfiore, come al suo solito nei momenti di pausa era intento ad assaporare liquirizia, senza perdere mai di vista il movimento di passanti che gli si prospettava davanti. Sentiva in lontananza alcune imbarcazioni attraversare il canale, con i loro stravaganti marinai che non si facevano sfuggire l’occasione di farsi notare tra i rii della Serenissima. Molti di loro non erano nemmeno dei veri autoctoni ma figli illegittimi che avevano scelto Venezia come pima casa. Anzi, alcuni di loro, piuttosto che ritornare in terraferma, avevano deciso di vivere sulle loro barche, guadagnandosi da vivere facendo i pescatori, gli squeraroli nei cantieri navali della Giudecca e di Dorsoduro o i traghettatori tra Venezia e le isole vicine. Effettivamente il fascino di vivere in un paradiso unico al mondo era un’aspirazione per tutti, anche per chi non si poteva permettere un buco dove poter riposare. Tutta gente rozza ma lavoratrice, che contribuiva in maniera subdola o ambigua alla potenza della Repubblica. Senza di loro, il mercato delle imbarcazioni, dai sandoleti alle galee da guerra non sarebbe stato lo stesso, o molti mercanti stranieri in cerca di guadagno facile non avrebbero avuto la certezza di raggiungere le loro destinazioni senza incagliarsi in qualche guado con il rischio di passare la notte in piena laguna. Seppur uomini di basse conoscenze e di scarsa istruzione, erano comunque una parte fondamentale e portante di una città che viveva di scambi, baratti e di turismo. Uomini di ogni specie, statura e religione che avevano un unico gran denominatore comune, l’appetito. Infatti, nella parte iniziale del Canal Regio, sorgevano parecchie osterie dedite alla ristorazione della manovalanza di Venezia. Alcune erano più frequentate di altre o addirittura mete indiscusse anche di molti avventurieri stranieri, che attirati dalle prelibatezze venete, gremivano le locande per assaporare piatti come polente e osei, le sarde e lo sguazeto. Quest’ultimo, un intruglio di carne di vitello insaporito con lardo, chiodi di garofano e cannella, servito ben caldo con il suo fondo di cottura intriso di burro, era di solito la colazione degli operai del settore marittimo, desiderosi e bisognosi di energia per affrontare dure giornate lavorative.
Pensare a tutto quello che si potevano sbafare quelle di persone di primo mattino, fece sussultare lo stomaco del povero Capitan Grande Vito Belfiore, che purtroppo dopo la separazione di sua moglie Ida, non era più riuscito a mandare giù un sol boccone senza essere colpito da crampi allo stomaco. Forse i troppi litigi, le urla che condivano la sua vita coniugale, l’avevano reso quasi inappetente. Una donna impossibile, dal carattere bisbetico e dispotico, gli aveva reso la vita difficile fin dai primi mesi di matrimonio. Un’unione per giunta forzata da una gravidanza, che purtroppo non fece a tempo di finire il suo naturale ciclo. Un evento che non si ripropose negli anni successivi, forse per le continue diatribe o per il poco amore che scorreva nelle vene dei due coniugi. La loro fu un’avventura scaturita dall’attrazione fisica, un’alchimia generata in laboratorio e come tale volatile e labile come il profumo di un fiore che sta per appassire. La liquirizia era l’unico rimedio ai suoi dolori di stomaco, alle ulcere che si annidavano nel ventre non appena un caso cominciava a diventare troppo spinoso o ordito verso trame sconosciute. Questa volta, infatti, brancolava nel buio, senza sapere come muoversi in quella rete di calle e canali dalle mille sfaccettature. Con impazienza ricontrollò l’orario della sua “cipolla” e con il nervosismo che gli cresceva col passare dei secondi, constatò che ormai era appostato nel Campo di San Geremia da circa venti minuti oltre l’orario dell’appuntamento senza che il suo informatore si facesse vivo. Quasi intento ad andarsene, si trovò come per incanto, a pochi metri di distanza da una delle quattro vere da pozzo, la sagoma dello zaffo avvolta in un ampio mantello scuro. Rozzo e aggobbito, veniva soprannominato il “sorcio” perché i suoi capelli sale e pepe ricordavano il pelo liscio e argenteo di molte di quelle bestiole che animavano le fogne con la loro presenza. O forse per la sua tecnica di carpire le informazioni, stando acquattato nell’ombra origliando e scrutando con sottile sapienza le altre persone intente nel conversare e a scambiarsi indicazioni.
<<Per essere un poco di buono conosci le sacre scritture. Dimmi come fa un tipo come te a sapere queste cose?>>
Controvento emanava un odore quasi nauseabondo, all’incirca vomitevole. Un misto tra formaggio ammuffito e vino fermentato. Molto probabilmente erano giorni, o magari settimane che Alvise Manfrin di professione informatore a pagamento, non aveva contatti con acqua e sapone.
<<Anche io ho le mie virtù. Le persone non si giudicano semplicemente dall’aspetto o da ciò che hanno indosso.>> Disse lo zaffo con voce sibillina
Quasi basito dalla sua filosofica risposta, si riportò con un gesto molto lento il bastoncino di liquirizia alle labbra e assicurandosi di non essere visto porse la mano destra al suo interlocutore, che con un gesto rapido ma deciso la riempi ponendogli sopra un piccolo foglio ingiallito.
<<Mi raccomando non lo legga subito e lo distrugga non appena avrà capito.>> Si raccomandò lo spione voltandosi verso la prima via di fuga.
<<Posso fidarmi?>>
<<Farò finta di non aver sentito e farò anche finta di non essermi offeso. Addio Birro.>>
Accettò mal volentieri il tono della conversazione con il suo informatore che come un’ombra si era velocemente dileguato tra la gente che a quell’ora rientrava da lavoro per andare a pranzo. Allontanatosi di qualche metro, con la mano fissa in tasca, stringeva in maniera concitata quel pizzino che poteva segnare una svolta nelle indagini. Preso dalla curiosità e dalla fretta, l’estrasse dalla tasca e lo aprì dalle sue pieghe.  Tra i denti, lesse a bassa voce il contenuto:
La fretta è cattiva consigliera, ma il tempo sfugge o rotola come la testa del Santo. Lui non può più mangiare perché non di solo pane vive l’uomo, ma c’è chi al contrario pasteggia con la “carne”. Poveri cannibali inconsapevoli di ciò che sta nel piatto.
Ps il conto del garzone sarà più caro la prossima volta.

4

Tonino Zanchetta era un abile carpentiere. Snello come un chiodo e dal viso aquilino, si recava sei giorni su sette nello squero della Giudecca adibito alle imbarcazioni da guerra. Di manovali come lui c’erano di ben pochi sulla piazza e il suo nome tra i cantieri della Repubblica stava via via emergendo come scogliere durante la bassa marea. Un nome sicuro per un risultato di qualità. Ciò che più lo contraddistingueva dagli altri lavoratori era il suo colpo d’occhio nel leggere i disegni degli ingegneri e di correggerli anche in fase di lavorazione, soprattutto quando si parlava di sagomare la linea di chiglia. E tutto senza nemmeno fiatare, comunicando solamente a gesti o con qualche cenno del capo. Era un uomo di poche parole, infatti, alcuni suoi colleghi pensavano addirittura che fosse completamente muto, ma c’era chi poteva giurare di averlo sentito parlare prima di uno sventurato evento di cui fu protagonista.
Era una giornata come tante altre prima della fine di settembre, cupa e grigia, calda ma non troppo, piacevole ma pungente allo stesso tempo. Come ogni mattina prima di recarsi al lavoro, era dedito a fare colazione in una delle migliori osterie di Venezia: “Da Biasio el Luganegher” per degustare il suo famigerato sguazeto. Una colazione robusta per affrontare le fatiche del cantiere. Spesso gli capitava anche di dover aspettare più del dovuto a causa dell’affluenza massiccia, la maggior parte turisti o mercanti stranieri che gremivano numerosi il locale del “sior Biasio”. Un uomo paragonabile a un gigante gentile, alto quasi un metro e novanta e con un fisico vigoroso caratterizzato da un bulbo al posto della pancia e da un fronte spaziosa impreziosita da una cicatrice di circa tre centimetri, procurata in circostanze misteriose. Forse anche in maniera banale, ma il padrone di casa a ogni richiesta sembrava cambiare racconto per vivacizzare i suoi commensali. Comunque nonostante il suo aspetto e modo di fare pittoresco, il suo locale era sempre stracolmo in qualsiasi momento della giornata, un vero e proprio sinonimo di qualità dei prodotti che offriva.
Conosciuto come abile salumiere e produttore d’insaccati, si era a poco alla volta fatto strada nella ristorazione con l’ausilio delle sue pietanze a base di carne. E sebbene la sua clientela vacillasse spesso nell’alta borghesia, non si dimenticava mai di trattare con un occhio di riguardo i lavoratori che sin dalle prime luci dell’alba varcavano la soglia del suo locale per rifocillarsi. Tra questi il buon e taciturno Tonino che immancabilmente da oltre dieci anni frequentava assiduamente l’osteria, per trovare un po' di ristoro ma soprattutto un buon piatto di carne a un prezzo onesto. La mattina che perse la voce era seduto al suo solito tavolino singolo vicino alle cucine.
Era il posto che nessuno voleva per via degli odori forti che fuoriuscivano dal locale, ma lui lo preferiva, anche nei giorni con meno calca, perché più intimo e riservato e soprattutto lontano da occhi e domande indiscrete. Il Biasio con la sua grande simpatia glielo apparecchiava personalmente e dato la proverbiale e costante frequenza del suo caro ospite, come premio per la sua fedeltà gli offriva un bicchiere di bianco secco come aperitivo. Spesso il bravo carpentiere lo rifiutava per non essere ebbro a lavoro, con il pericolo che gli tremasse la mano nelle varie lavorazioni con raspa e scalpello.
Ma quel giorno decise di accettarlo. La sete l’aveva colpito duramente durante il tragitto in barca e non aveva avuto ancora modo di bere qualcosa per far passare l’arsura della sua gola. Dato la sua decennale frequenza, bastava che si sedesse che una ciotola di sguazeto fumante arrivasse nel giro di cinque minuti a solleticargli le narici. Un piatto corposo, dal sapore forte e deciso, adatto per affrontare ore difficili in cantiere.  Come il suo solito mangiò la porzione abbondante con gusto, assaporando ogni singolo pezzo di carne con la stessa ciclicità e lasciando l’intingolo per ultimo per finirlo con un’ultima sorsata. Nel fondo della scodella, vedeva e non vedeva altri minuscoli pezzettini di carne che ondeggiavano in un limbo di burro e lardo sciolto dal calore della cottura.
Il piatto del Luganegher era davvero prelibato, da leccarsi i baffi e suscitava anche parecchie domande, poiché dopo il periodo di peste che aveva colpito la Repubblica, trovare la carne era diventato quasi impossibile. Comunque a lui poco importava, giacché per pochi soldi, riusciva a pranzare in maniera decente. Con grande compostezza afferrò con entrambe le mani la scodella oramai tiepida e con un gesto deciso ingurgitò il fondo saporito dello sguazeto. Non fece in tempo a pulirsi il labbro con la manica destra del suo abito da lavoro, che portò immediatamente l’indice e il pollice della mano tra le intercapedini dei molari per sfilarsi da bocca un pezzo di carne misto a osso, che in un primo momento non era riuscito a deglutire. La semplice curiosità per un pezzo non masticabile, si trasformò presto in orrore e poi in disgusto per la visione di una falange umana. Piccola, quasi minuscola ma riconoscibile. Preso dai conati di vomito, lasciò in tutta fretta la sua postazione gettando sul tavolo il solito obolo per pagare il conto. L’oste, il “sior Biasio”, non si accorse nemmeno dell’uscita frettolosa del suo cliente abituale, tutto intento a servire i tavoli pieni di avventori da ogni parte del mondo conosciuto. Racchiuso in un fazzoletto, l’arto umano giaceva inerme come un cadavere nella tomba. Inorridito, il povero carpentiere, nascosto in un piccolo portone lo fissava tremante, come un pulcino infreddolito nella stia. Forse si sbagliava. Anzi, sicuramente si sbagliava, ma quando mostrò il contenuto del fazzoletto verde ricamato dalle abili mani di sua moglie Mirta, una bionda di origini slave, al Capitan Grande Vito Belfiore che in quel momento stava pattugliando la zona della chiesa di San Giovanni Decollato, la verità affiorò portandosi con sé la sua flebile voce. Dal quel giorno nulla sarebbe stato come prima, sia per lui che per tutta quanta Venezia.

5

Nel retrobottega del Luganegher fu ritrovato di tutto. Resti umani, in particolare di bambini, che giacevano sugli scaffali come normale carne da macello. La sensazione di rimettere anche l’anima venne a tutti, eccetto al solerte tutore della legge, che dall’alto della sua posizione, si muoveva con assoluta eleganza e decisione in quel campo degli orrori.
Sebbene la sorte l’avesse aiutato, sapeva in cuor suo, che presto o tardi sarebbe arrivato alla conclusione tanto agognata, ma inconsciamente percepì che quel colpo fortuito aveva intrinsecamente salvato la vita a molte vittime future.
L’efferato infanticida non faceva altro che adescare le sue vittime e portarle intontite nel suo locale per macellarle. Inizialmente, dopo la iugulazione, amputava loro gli arti superiori, per permettere al corpo di dissanguarsi velocemente e per evitare il ristagno nei tessuti e negli organi. In seguito provvedeva con la sua proverbiale maestria a segare le parti meno nobili come testa e piedi. In successione, viscerava il busto e l’addome in maniera sapiente e con i resti laboriosamente tritati sfamava le galline per le uova, alterava il pappone del poco bestiame a sua disposizione e in alcuni casi concimava la terra del suo orto per avere prodotti più carnosi e succosi. Questa fu la versione del “sior Biasio Carnio” che confessò, sotto terribili torture, tutte le atroci barbarie che avevano colpito i minorenni di Venezia e trasformato in antropofagi i suoi abitanti.

6

Due rumori sordi, suddivisi solamente da una manciata di secondi e succeduti dalla meraviglia della gente, furono gli ultimi suoni che l’orco di Santa Croce lasciò in eredità ai suoi concittadini. Il primo fu scaturito dalla collisione dell’ascia del boia sulla nuca tempestata da una marea di capelli neri e il secondo quello più cupo, dell’impatto della testa mozzata sul freddo e grigio pavimento di Piazza San Marco, dopo esser rotolata tra le colonne di San Marco e Tòdaro. Al mostro di Venezia, furono in un primo momento amputate le mani, in seguito al supplizio mediante tenaglie, con gli arti appesi al collo, trascinato in pubblico da un cavallo e dopo la decapitazione, il suo corpo fu frazionato in quattro pezzi, che vennero esposti nei quattro lati della città, per emulare l’atrocità che lui stesso applicava alle sue vittime.
Il giorno seguente armati di asce e di picconi, il Capitan Grande Vito Belfiore e i suoi birri, aiutarono gli operai a radere al suolo la taverna degli orrori. Un senso di redenzione si liberò non appena i primi colpi furono inflitti.
<<Forza ragazzi. Più grinta.>> Disse a gran voce.
<<Signorsì Capitano.>> All’unisono come bravi soldati, mentre con orrido entusiasmo davano sfogo alle loro rabbie represse.
Quell’amaro episodio andava dimenticato al più presto, estirpato dalla memoria come un’erba cattiva che rovina il raccolto. Purtroppo il solerte tutore dell’ordine sapeva benissimo che il cuore non dimentica facilmente, perché pulsante con le strofe di uno stornello che da quel momento avrebbe risuonato dalla bocca di ogni cantore:

Su la riva del Biasio l’altra sera
so andata col putelo a ciapar l’aria
ma se m’ha stretto el cuor a una maniera
che la mia testa ancora se savària:
me pareva che Biasio col cortelo
tagliasse a fete el caro mi putelo!




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