Vai ai contenuti
Daniele Morgese
LAGUNANDO 2020 > selezionati 2020
Maturità tecnico commerciale conseguita presso l’ITC “Tannoia” di Ruvo di Laurea triennale in “Lettere Moderne” conseguita presso l’Università degli studi di Bari.
Laurea specialistica in “Storia dell’Europa moderna e contemporanea” presso l’Università degli studi di Pavia.
Docente di Italiano e Storia presso lTE “Noe’” di Valenza.
Critico e Recensore musicale per la rivista “I Think Magazine” e conduttore radiofonico per “RFL”, radio locale pugliese.
Fatta eccezione per gli articoli di critica, è la prima volta che mi propongo con un testo sul quale ho lavorato per sei anni.
ORTI DEI DOGI
ROMANZO
I Negativi

Milano, 20 luglio 2011

Non avrei mai pensato di arrivare a tal punto. Certo, ci sono state delle volte in cui mi sono sentito molto vicino al farlo, ed una volta ero talmente preparato da aver predisposto tutto il necessario. Ma all’ultimo mi sono tirato indietro. Adesso, adesso non c’è più possibilità di ritornare sui miei passi. Devo farlo, una sola volta, che valga per sempre.
Ho pensato al come. Dirlo a voce? Mi sarebbe mancato il coraggio. Mi sarei fermato a metà discorso, colto da rimorsi celati nella voce singhiozzante, ritrosa, e dalla viltà che da sempre mi fa da disdicevole compagna. Avrei sentito su di me gli sguardi attoniti di tutti e sarei stato invaso da un senso di vergogna troppo pesante da sopportare. Scriverlo? Questa mi è sembrata la scelta più adatta, per lo meno abbastanza da convincermi, una volta tanto. Ma poi sono sorti ulteriori dilemmi. Su un foglio di carta bianco? No, magari uno ingiallito dalla clausura e dalle sigarette fumate qui, in attesa di osservare gli ennesimi risultati provenienti dalla camera oscura nella quale ho affogato abbozzi di arte mista a realtà. No, sarebbe stato fin troppo banale e scontato. Non è mai stato nel mio stile. Allora una pagina di un quaderno, così da dare l’idea di averlo fatto in preda ad un raptus di follia, ultimo gesto di un’esistenza sempre sopra le righe, baluginio finale, guizzo e colpo di reni. Ma chi voglio prendere in giro, non sono stato neanche tutto questo. Non lo sono stato affatto. Trovato. Il retro di un libro. Lasciato evidentemente in bella mostra, al centro della scena. Un bel segnalibro sgargiante per far cadere immediatamente l’attenzione su di sé. Un classico. Impolverato, sgualcito ma dal titolo altisonante. O uno di quei libri che non legge mai nessuno, ma che ti fa fare bella figura conoscere. L’esordio, scritto sotto pseudonimo, di un nomade andino alla spasmodica ricerca del proprio io interiore tra le sterpaglie ingiallite e la fredda solitudine, accompagnato esclusivamente da un coltellaccio, una borraccia con del Bourbon e a sua volta un libro di uno sciamano indiano, e così via. No, non va bene, non è nel mio personaggio. Va da sé che tocca esser sinceri, almeno a questo punto. Almeno adesso. E allora affido a questa penna e a questo stupido foglio di carta intestata, come facevano i notabili di un tempo, la mia confessione:
“Confesso di essere un impostore! Di aver truffato tutti. Confesso di avervi mentito, tradito, illuso, confuso per anni. Confesso di aver cavalcato la menzogna, averla alimentata accuratamente, come si fa con una fiamma sotto vento, o con un cucciolo finché non diventa autosufficiente e capace di farlo da sé, per trarne esclusivamente vantaggi personali, fino a rimanerne bloccato, intossicato. Confesso. Ma non è stata solo colpa mia.”
“La colpa è stata vostra, quella di non aver capito, quella di aver scambiato per scintillante diamante un coccio di vetro, grezzo per altro. Di aver visto oro al posto di scadente bigiotteria. Di non aver ascoltato. Siete stati così poco oggettivi, presi dall’esuberanza dell’eccezionale accaduto, rivelato sotto il vostro attonito sguardo, da non accorgervi di non aver compreso assolutamente un bel nulla. No, non siete stati spettatori della storia che si crea e dell’arte che si palesa, ma solo dell’incredibile quanto assolutamente casuale incrocio di circostanze ed eventi. Io, in fondo, e crediate a queste parole, almeno a queste, non volevo. Non avevo alcuna intenzione, almeno all’inizio. Poi, beh, poi mi sono fatto prendere. Chi non l’avrebbe fatto al mio posto? Io, avevo solo scattato una foto, per immortalare qualcosa che non comprendevo, che nessuno era in grado di spiegare. Si, è vero, avvertivamo tutti che stesse accadendo qualcosa di strano, che ci fosse un odore diverso nell’aria, il sapore di qualcosa che va in frantumi e di sudore. Ma non avrei mai immaginato di trovarmi tra le mani una gallina dalle uova d’oro. Io avevo fatto solo una foto a Martina.”
“Confesso di aver sbagliato tanto, troppo. Di aver lasciato scivolare senza trattenere. Ho perso tutto mentre tutto acquistavo. Ho frainteso. Confesso di esser stato un uomo terribile, un compagno indifferente ed incompreso ed un non padre: assente, manchevole, sordo, cieco, freddo. Che stupido, anche su questo foglio di carta, anche in questo momento, ora che ho deciso, ora che sono prossimo alla fine, mi ostino a definirmi padre. Non chiedo neanche il tuo perdono, Andrès. Ti auguro soltanto di non assomigliare mai all’uomo che ha partecipato, seppur per pochi secondi, al tuo concepimento. Come non lo chiedo a Martina, per quanto non abbiate idea di quanto mi manchiate. Non so neanche se leggerete mai questa lettera. Lo capirei se ve ne sbarazzaste all’istante, insieme a tutto quanto è presente in questo momento nel mio rifugio antiantropico”
Ho bisogno di una pausa.
Mi guardo attorno e temo di perdere il senso di tutto, di rendermi conto di quanto questo sia folle il mio progetto di annichilimento corporale e di farmi ingarbugliare dal desiderio recondito di lasciar continuare su binari obsoleti ma ancora funzionanti un’esistenza che merita di finire nell’oblio il più velocemente possibile. Sollevo leggermente il piede per tirarmi fuori dall’abbraccio di una poltrona sulla quale ho sbracato il mio corpo più pesante di quanto registrato dalla bilancia, frutto di indigestioni di ego e di un imbruttimento lipidico dettato dall’ingordigia di complimenti immeritati. Osservo i quintali di libri ben ordinati e classificati, tra queste mura che perdono brandelli di intonaco e lacrime di compassione. Pagine sfogliate, solo accarezzate o dimenticate su assi di mogano scuro, regalo di un designer americano a quanto dicono molto famoso. Oggettucoli di ogni forma e dimensione, collezionati nei miei interminabili ed oscenamente fruttuosi viaggi. Aquile intarsiate da artigiani albanesi, anelli d’argento, pietre levigate da donne samoane, cimeli improponibili più vicini alla paccottiglia che all’arte. Tutti con una cosa in comune: esser gli unici segni concreti di cui mi compiaccio, che hanno di volta in volta gratificato la mia natura nascosta, raccolti nel mio vagabondaggio senza meta di questi anni. Alle pareti neanche una delle mie celebri foto. Non qui. Non potevo sopportare di sentirmi, nel rifugio della mia intimità, ciò che sono. Un truffatore, ladro di un’esistenza che spettava a qualcun altro che di certo l’avrebbe meritata molto più di me. Potrei star qui a cercare appigli per cambiare idea. In fondo coerente non lo sono mai stato. Ma alla fine i miei occhi si posano su ciò che ha scatenato tutto questo. Un semplice manifesto.
Sia chiaro, lo sapevo già da tempo che l’avrebbero fatto. Mi hanno chiamato, invitato a riunioni fiume noiose come non ricordo di averne mai fatte, piene di gente ansiosa di stringermi la mano, toccarmi, chiedermi di Berlino, di Bari, ma soprattutto di Genova. Una seccatura. La studentessa tirocinante, la creativa dalla vitrea sensualità che qualche anno prima avrei sicuramente portato in bagno per una scopata anticapitalista. Poi un paio di ragazzotti, uno dei quali penso di averlo addirittura ritenuto simpatico, almeno per un secondo. Infine un professore d’arte panciuto in doppiopetto e due tristissimi e incupiti signori del quale non ero riuscito a capire ruolo e motivazione della propria presenza in questo meeting soffocante. Tutti che mi ripetevano le stesse cose, mi descrivevano la grandiosità delle immagini, delle scelte di composizione, della vitalità che trasmettevano i volti raffigurati nei miei ritratti iperrealisti. Dell’uso caravaggesco della luce; della cruda e allo stesso tempo ipnotica sofferenza dei miei soggetti. Definizioni altisonanti e pompose per schematizzare, catalogare e classificare qualcosa che in realtà si basava sulla mia pressoché totale ignoranza artistica. Prospettavano e renderizzavano giochi di fari che si intrecciano, luci azzurre e grigie che avrebbero risaltato ogni più insignificante dettaglio. Addirittura avrebbero chiamato il genio che aveva creato non so cosa a non so che gruppo pop britannico che aveva sconvolto non so chi. Insomma, ne ero ovviamente a conoscenza. Li ho lasciati fare per accidia, pigrizia e per una assolutamente inconsistente ed immotivata convinzione che non se ne sarebbe mai fatto nulla. Lasciavo i loro sorrisi tirati a lucido a discutere per ore e ore su questo e quello, sulle tempistiche, la carta, la burocrazia, mentre pensavo soltanto a come sarebbe stato prendere un fucile e far fuoco spazzando via per sempre quelle espressioni da ebeti del cazzo. Ma quando mi è stato recapitato il primo segno concreto di tutto, il solo tenere quella locandina tra le mani mi ha definitivamente strappato la maschera, frantumato il cuore, ed infine convinto di quanto ho sempre solo pensato di fare ma che non ho mai avuto il coraggio di portare a compimento.
Una mostra dedicata al sottoscritto, mi è sembrato francamente troppo.
Una personale interamente incentrata sul quello che tutti credono sia il mio lavoro, sulle mirabolanti avventure vissute dall’ultimo dei grandi artisti della fotografia contemporanea, è stato un colpo allo stomaco troppo forte, indigeribile.
Così ho deciso. Ho scelto di farla finita.

(continua)
 Nella presente   antologia è stata riportata solo la presentazione del romanzo.

Per l’Opera   completa contattare l’Autore.

Torna ai contenuti