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Fabrizio Degano
LAGUNANDO 2020 > selezionati 2020
Sono un ragazzo in cerca di se stesso.
ORTI DEI DOGI
RACCONTO
IL PROCESSO
Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

Fui processato.
Non avrei mai pensato di dover affrontare nella mia vita una prova così difficile. Accusato di aver violato le norme, di aver disturbato la quiete, di essere me stesso.
Pensavo che “l’essere se stessi” fosse un pregio, una caratteristica favolosa, una barriera contro tutto e tutti, in quanto pensavo che così,  la mia interiorità non sarebbe mai stata attaccata. Invece ero stato abbattuto, ero stato colpito da una freccia nera e sanguinavo di dolore.
Davanti a me tre giudici: il primo, moro, con voce altisonante e aria da sbruffone; il secondo, biondo, con occhi da cane abbandonato; il terzo, coperto con una maschera, mi ricordava un boia, pronto per il suo compito, al termine di un processo già perso in partenza.
Avevo scelto di non affidare la mia difesa ad avvocati. La migliore difesa era raccontare la verità.
Dalla mia parte tutta la documentazione che poteva tranquillamente discolparmi, la genuinità.
La tigre entrò. I domatori stavano molto attenti affinché l’animale non potesse azzannare nessuno e nel frattempo saltava nei cerchi della vita, la mia, con destrezza e strategica abilità. Trombe felliniane e musiche, affascinavano la platea. Era uno spettacolo. Tutti assistevano, senza fare nulla. I biglietti andavano a ruba , fu presto dichiarato “sold out”.
Avevo paura. Il terrore che provavo era qualcosa di indescrivibile, mai provato prima. Era più forte delle coliche avvertite sette anni prima e più del dolore ai denti comparso qualche anno fa, alla Vigilia di Natale. La sua voce era come un treno ad alta velocità, profonda e fastidiosa.
Le mie parole, pronunciate con  sicurezza e virtù, erano fiori che uscivano dalla mia bocca vivi e atterravano a terra, morti.
I documenti precisi e puntuali, erano come lancette di orologio, che giravano prepotentemente ed erano ore interminabili. Le lancette tagliavano le mie vene.
Ricordo la tovaglia bianca con dei pizzi ed il silenzio assordante di quella stanza. Un silenzio interrotto dalla tigre. La belva gridava e mi accusava di cose, credetemi, non vere ed io cercavo di inserirmi nel discorso, ma non ci riuscivo. Come quando sogni di correre, ma in realtà non ti muovi di un millimetro.
L’animale arrivò in ritardo all’appuntamento, doveva distinguersi.
La situazione si era ribaltata. Non girava più tutto intorno a me, del resto non era una vertigine parossistica benigna, ma era lei al centro dell’attenzione e mentre continuava a sproloquiare con accuse pesanti, la mia mente navigava con pensieri altrove, per spazi infiniti, dinamiche meccaniche, mentre il mio cuore era presente nella stanza, con ritmi accelerati e tribali e chiedeva solo un po’ di calma e serenità.
Quanto desideravo andarmene sulla luna. Andare via da quella stanza, gestendo un colpo di scena che neanche i film di Hitchcock avrebbero stabilito.
I giudici ascoltavano , impassibili, mi guardavano. Una lacrima scese sulla mia guancia, bagnando il tavolo di legno fino ad arrivare nel mio cuore.
Come può essere che un ragazzo di trentacinque anni abbia paura di una tigre? Probabilmente perché prevaleva il mio “io bambino”.
Noi tutti abbiamo tre tipi di “io”: l’ “io bambino”, l’ “adulto”, il “genitoriale”. C’era quindi uno squilibrio tra me , bambino ingenuo, e la belva , l’adulta strategica.
Ad un certo punto, si aprì un vortice. La belva mi azzannò. Vennero i medici, mi curarono, ed il processo andò avanti.
Il verdetto: colpevole.

Quella notte mi svegliai sudato. Era tutto un incubo. Andai in cucina, mangiai  con ingordigia quattro frollini al miele millefiori e mi rincuorai.
La notte successiva lo stesso incubo. Nei mesi successivi, l’ oscurità, il neorealismo.
Qualcosa in me era cambiato. Non ero e non sono più lo stesso e ho una ferita che difficilmente si rimarginerà. I monaci buddisti parlano di accettazione della realtà e dell’importanza di vivere il momento presente.
Il cavalletto di mio papà, dopo ventuno anni, non è più in veranda ma è in sala da pranzo. La tela ieri l’ho rovinata ma oggi ne ho già acquistata una nuova, più piccola. Il tutorial su youtube sembrava garantirmi un futuro da pittore, eppure fatico a disegnare. Manca la voglia, quello sprint finale che mi darebbe potenzialità sicuramente maggiori. Il mio cuore e la mia anima necessitano di aria. Tolgo la mascherina.
Mesi dopo la tigre divenne una minuscola formica e non mi fece più paura. Io divenni un aquilone, e nel mio cuore colori acrilici rasserenanti. Trovai la pace nella consapevolezza, attuando una strategia di sopravvivenza e capendo che la vita che avevo vissuto prima, non corrispondeva alla realtà. Dovevo affrontare una tempesta, per rinascere interiormente e reinventare un nuovo me stesso. Capii che l’innocenza era un mio stato d’animo ed era quello stato ripristinato a darmi la serenità e non l’approvazione o il giudizio altrui.
Diventai un virtuoso pianista. Innocente.
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