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Maurizio Impallomeni
LAGUNANDO 2020 > selezionati 2020
Ligure di nascita mi sono laureato a Parma dove vivo con mia moglie Lucia, un cane e un gatto.
Un figlio e una figlia lontani, due nipoti, con la loro vita, ma quando ci vediamo il piacere è intenso.
Ho lavorato come medico igienista nel servizio sanitario, con interessi nel campo epidemiologico e ambientale, e nella ricerca nel campo delle medicine non convenzionali e omeopatia.
Grande passione nel piacere della lettura, i grandi classici in primo luogo e nella musica.
Credo nell’integrazione dei saperi umanistico-scientifici e nelle medical humanities.
Mi appassiona il rapporto tra medicina e letteratura.
ORTI DEI DOGI
RACCONTO
AGRON


Questa volta non aveva proprio voglia di andare.
Era la terza volta.
Le prime due, un po’ la curiosità un po’ il timore di Babbo lo avevano spinto fuori casa. Era estate e a lui non dispiaceva il tepore umido delle sere di luglio, lì in pianura, un godimento diverso da quello del vento secco che gli rabbrividiva la pelle ancora calda nei monti di Prizren, appena sotto sera; diverso ma ugualmente intenso.

E poi le prime volte era stato a guardare e forse avrebbe fatto così anche quella notte, perché si presentava facile, diceva Babbo.
Ma stavolta era metà dicembre, lì in pianura e non aveva proprio voglia di andare. Fuori una nebbia gelida e nessuna sconosciuta costellazione da contemplare con lo sguardo affascinato e distratto di tredicenne; quella nebbia che rende miopi e intorbida i pensieri, anche quelli più semplici ma accentua la sensazione ansiosa dell’inevitabile compimento di gesti non voluti.

–Agron, dai, muoviti – e la mano di piatto di Babbo, passandogli vicino, gli aveva dato uno scappellotto; non cattivo ma ruvido e deciso, da mano di manovale che sposta sacchi da venticinque chili, si sputa sui palmi e carica betoniere come obici.
Infatti aveva caricato entrambi, Babbo, con la stessa determinazione.
Di una cosa, del suo lavoro di muratore, parlava qualche volta, perché era il suo pane quotidiano, quando c’era; era il suo oggi; dell’altra, no, per una rabbia che il tempo non riusciva ad estinguere, restando dentro una nicchia profonda, invisibile, fatta di dolore e vergogna; “una storia chiusa” ricordava di avergli sentito pronunciare, il ragazzo; ma non era così.
–Dai, muoviti – insisteva Babbo, ma questa volta, Agron, ridestatosi dopo il primo richiamo, era già sulla porta col passamontagna tra le mani.
– Allacciati le scarpe – disse Babbo e uscì.

La destinazione era a quindici chilometri, dall’altra parte della città ma un po’ fuori, in campagna. Una piccola frazione circondata da terreni lavorati da contadini coi soldi ma abitata sempre più da gente di città, estranea a quei luoghi, spinta qui dalla paranoia dell’aria pulita e dalla voglia di farsi l’orto; indifferente a chi c’era prima. Nelle sere invernali, chiusa in casa nell’intimità televisiva o, come va oggi, nei vaneggiamenti della socialità virtuale, lasciava vuote le strade e sguarnito il bar del circolo, l’unico che c’è.
Campo libero dunque.
Arrivarono dieci minuti a mezzanotte e la caligine continuava a dare garanzia.
Babbo prese una carraia sulla sinistra, trecento metri prima del paese, all’altezza di un cartello giallo con la scritta “zona sottoposta a controllo di vicinato”. Lo stradello l’aveva visto due notti prima quando era venuto in ricognizione con Mircea. Era diritto fino a due grossi pioppi tremuli e si poteva andare a fari spenti con il vetro abbassato, lontano dai cani dei cortili e parcheggiare li.
Così fece. Per la nebbia si era spostato due volte verso il campo di lato ma si era rimesso subito in linea senza lasciare traccia evidente dei pneumatici nella zolla molle e non c’era neanche il fosso tra strada e campo; comunque non bisognava preoccuparsi; in questi casi nessuno fa indagini.
C’era invece uno stretto canaletto irriguo a fianco degli alberi dove si fermarono e lo sciacquio dell’acqua veloce coprì il click delle tre portiere richiuse piano.
– Mircea, hai portato la tavola?
– Si – rispose e la estrasse dal vano bagagli della vecchia station wagon.
– Ognuno prende la sua borsa e andiamo – e dicendo così Babbo si incamminò veloce in direzione perpendicolare a quella da cui erano venuti e subito sparì nel buio. Gli tennero dietro perché si mossero subito e sentivano il fruscio delle scarpe pesanti sull’erba bagnata e prostrata dall’inverno.
Dopo duecento metri Babbo si fermò e accese una piccola lampadina; fu lì che si ricongiunsero. Controllava il punto esatto in cui girare ancora a destra per arrivare alle case dalla parte dei campi; lo trovò e fece segno di andare e fare silenzio. In meno di due minuti arrivò dove doveva arrivare: il limite curvo di un campo di erba medica tagliata a metà autunno, oltre il quale, a confine, c’era un altro fossato pieno d’acqua e, al di la, la rete metallica della proprietà.
– Dammi la tavola – disse Babbo.
La sistemò con cura provandone l’oscillazione con il peso del corpo caricato sulla gamba sinistra; era meno di due metri ma bastava. Attraversarono. Accovacciati alla turca a ridosso della rete si scambiarono un solo sguardo, come per dire “adesso ci siamo”.
Agron fino a quel punto non aveva pensato a nulla, attento a non inciampare e a mantenere il contatto ma adesso arrivava il primo pensiero; inaspettato, improvviso e squillante come la suoneria di un cellulare e altrettanto sgradito. Una domanda che avrebbe preteso l’obbligo di risposta: “che sto facendo qui?”.
Il primo colpo secco di tronchesina lo esonerò, al momento, dal rispondersi e le parole di Babbo, un sussurro sibilato ad un palmo dall’orecchio, non concedevano altro tempo.
–Saltate su, non c’è filo spinato.

Si ritrovarono nel giardino mal curato di una vecchia casa in sasso. Una siepe di sempreverde li riparava dai possibili sguardi di un condominio a una trentina di metri ma le tapparelle erano tutte abbassate e non c’erano luci; nessuno lì intorno.
La casa in sasso, con le finestre del primo piano chiuse da imposte e quelle del terreno da inferriate, era vuota, o almeno doveva esserlo.
La soffiata era venuta da uno del giro di Babbo che passava ogni tanto dal Circolo e, tra una partita a carte e una stecca, finiva sempre per sapere più cose di quelle che gli servivano.
–Si, il dottore sembra proprio che sia andato, stavolta per sempre, non come le altre che poi è ritornato – diceva l’avversario della briscola di quella sera, seduto a destra. E la barista:
–dopo che la Francesca s’è separata e vive con sua sorella in città, m’han detto, lui non ha voglia di star qui; ma intanto torneranno insieme tra un po’.
–Da qualche giorno è anche lui in città, non so dove, insieme al cane; il gatto ce l’ha sua moglie – precisò l’avversario a sinistra mentre, terzo di mano, coperto da una briscola debole del compagno, non si decideva a calare l’asso di bastoni che teneva tra le dita.
Con questo, il confidente sapeva quanto gli bastava e cosa avrebbe fatto subito, il giorno dopo. Finì la briscola; in coppia col rumeno vinceva spesso perché erano furbi e si intendevano coi segni che usano dalle parti di Lugos.

L’auto del dottore non c’era; che non ci fosse stato pure lui ne avrebbero avuto conferma subito. Babbo puntò la piccola torcia contro la finestra più nascosta del piano terra e ticchettò sul vetro. Se c’era il cane, avrebbe abbaiato e tanto valeva abbandonare. Ci fu silenzio.
Campo libero allora.
Entrare era la cosa più facile del mondo; una Mottura di sicurezza di trent’anni prima si apre con un passpartout.
Entrarono con la torcia spenta; a piano terra c’era un po’ di luce riflessa dalle case attorno e da due lampioni crepuscolari.
–Agron, vai sopra, sei riparato dagli scuri; infila le mani in poltrone e divani e guarda sotto – disse Babbo mentre con un piccolo scarto della testa verso l’alto indicava la direzione.
–Mircea, cominciamo qui dabbasso, niente rumore .
Babbo aveva un coltello, una grossa forbice e un cacciavite a punta piatta che usava a grimaldello; non aveva gusto, come il giro dei rumeni, a rompere e tagliare. A casa di un dottore ci doveva essere per forza una cassaforte; sapeva come trovarla, percuotendo l’intonaco nei punti giusti proprio come fa il dottore sul polmone e a quel pensiero ghignò.
Cominciò la ricerca.

Agron vide la scala e l’imboccò.
Al pianerottolo si trovò a decidere tra la porta di destra e quella di fronte; si infilò subito in questa. C’era una camera da letto con un armadio svedese e un tavolino scrivania. Aguzzò gli occhi, aiutato dalla piccola lampadina; la lama luminosa cominciò a girare per la stanza e, dietro, lo sguardo di Agron.
In una cornice da tavolo la foto di una ragazza bruna, al centro, tra due biondine con grandi occhiali da sole in uno sfondo marino.
Capiva che era sua la stanza, della bruna, e avendole dato un volto, per un attimo ebbe l’impressione che fosse lì e gliela facesse lei quella domanda “che ci fai qui?” e che, scoperto, dovesse in qualche modo darla la risposta, stavolta, inchiodato dalla voce stridula di quella sconosciuta ragazzina impaurita, di poco più grande di lui. Ma anche questa volta rimandò. Fece spallucce a sé stesso e spostò la torcia sotto il letto. C’erano scatole; le aprì tutte e trovò scarpe del trentanove, che gli parvero eleganti. Con le informazioni che aveva raccolto se la immaginò alta e magra, di gusto; la sorella maggiore che avrebbe voluto avere.
Uscì dalla stanza con in tasca una fotocamera digitale compatta; dentro l’armadio, tra i vestiti e l’intimo e nelle tasche, non c’era nulla che avrebbe interessato Babbo.
Andò veloce nell’altra parte del piano mentre sentiva i bisbigli venire da sotto e un toc toc attutito delle nocche di Babbo.
Entrò e s’accorse subito che c’era più luce. Da due finestre con le imposte aperte si diffondeva un tenue chiarore caldo che veniva dall’altra parte del cortile. Spense subito la torcetta e abituò gli occhi.
Qui riusciva ad avere una visione d’insieme del locale, che era ampio e gli ricordava l’aula della scuola più che le stanze che conosceva; un soggiorno dove notò per primo un divano e un grande tavolo.
Una parete era attrezzata a cucina ma le altre, che in un primo momento aveva guardato distrattamente entrando nella penombra, gli delineavano pian piano e sempre più distintamente una scenografia domestica che lo sorprese. Fu in un certo modo un’apparizione.
Lì, dove avrebbe dovuto trovare l’usuale e rassicurante mobilio che doveva arredare una casa, del tipo di case che conosceva lui, quelle, senza pretese di distinguersi, dei suoi parenti e dei suoi amici, in quella stanza dilatata, dove era entrato noncurante, gli si parava dinnanzi una massa prorompente e multicolore di libri, uno scaffale a tutt’altezza che girava intorno e lasciava spazio solo ad una piccola finestra.
Nel caos ordinato, involontariamente generato dal lettore assiduo che ama prenderli, sfogliarli, spostarli per ricombinarli in associazioni di genere o di gusto personale o, per semplice piacere tattile e visivo; inclinarli, sostenerli l’un l’altro, portarne uno in evidenza e arretrarne altri, la moltitudine dei volumi marcava quel territorio domestico e imponeva inesorabilmente a chi fosse presente tutta la sua fisicità prima di qualsiasi possibile contatto mentale.
Il piccolo Agron non ne fu immune.
Si arrischiò ad avvicinare la lampadina per sbirciare il titolo di quello più vicino; lesse “I nostri antenati” e intravide, sul fondo giallo della copertina, il disegno di un cavaliere variopinto in una strana posizione, come fosse appeso ad un grande albero senza foglie. Lo afferrò rapido quando sentì Babbo di sotto agitarsi e ne capì il motivo; guardò l’ora sul cellulare e ritornò ancora, e con più fatica, nella sua realtà sgradita.
Era ormai chiaro anche a lui che quella casa, la casa del dottore - con questo nome se l’era messa in testa - non avrebbe fruttato niente. Andò nell’ultima stanza.

Era più piccola e piena di cose. Se la prima era una foresta di carta stampata che la fretta non gli dava tempo di esplorare come avrebbe desiderato, un mondo di parole intriganti appena intraviste che gli lasciavano una voglia nuova e sconosciuta; insomma, se quella strana biblioteca nel posto sbagliato si era rivelata quell’epifania del libro che prima o poi accade in ogni adolescenza, nella semioscurità di quest’altro angolo di casa in cui entrava, stava percependo qualcosa di più intimo, come un sentimento più vicino a lui, proprio a lui, una sua corda speciale che entrava in vibrazione. Ma che cosa?
Una poltrona e una lampada a gambo continuavano a dargli il segno dell’itinerario intrapreso ma un quadro con pennellate senza forme da poter riconoscere, senza visi e senza paesaggi e più ancora un mappamondo e carte geografiche dove il disegno dei continenti non combaciava con l’immagine che s’era fatto a scuola gli confermavano definitivamente il sospetto della simpatica stranezza di quella casa e, ancor più, dell’idea di vita che c’era dietro, di un tipo di vita fuori del suo immaginario. Sapeva che c’erano case di ricchi e gente di cultura – come diceva Babbo senza disprezzo –, ma lì, nella casa del dottore, gli sembrava un po’ diverso da come se l’era immaginate qualche volta, con soprammobili e pavimenti tirati a lucido, con rubinetti dorati e idromassaggio.
Li c’erano degli oggetti d’amore, un’altra cosa. Ne provava la prima rudimentale percezione.
Poi spostò lo sguardo sul piatto di un giradischi e un amplificatore; troppo pesanti da portar via – pensò – e si diede dello stupido perché lo aveva pensato.
A fianco si accorse di un mobiletto pieno di CD musicali e qualche vinile, che riconobbe. Gli venne voglia di farne girare uno pur non avendo mai visto come si fa, ma sarebbe stato troppo per Babbo.
Il pensiero di Babbo gli fece guardare l’ora: erano passati solo dieci minuti da quando erano arrivati ma il tempo della sua ricerca era stato infinitamente più lungo e non lo sentiva ancora terminato.
Continuò a cercare, ma adesso si trattava di qualcosa che avrebbe interessato lui, non Babbo; ne era ormai certo.
Sulla scrivania grezza di acero chiaro erano impilati altri libri e dischi, fuori dalle loro copertine screziate con gli spigoli sgualciti; almeno una dozzina di matite perfettamente temperate saettavano da un portapenne amaranto e proiettavano ombre esili e lunghissime, colpite dalla luce della torcia.
Si stava accorgendo di prestare attenzione a dettagli inutili per un ladro, anche se inesperto come lui, dai quali però subiva un’attrazione e che percepiva come segnali disseminati lungo un percorso che doveva portarlo da qualche parte, forse in un punto preciso.
Si spostò ancora un po’ sulla destra e vide un aggeggio di metallo; era un’asta su treppiede che sosteneva una specie di griglia inclinata; lo riconobbe anche se non ne conosceva il nome. Sopra c’erano alcuni fogli scritti con una grafia che l’attirò. Guardò meglio e capì che erano spartiti musicali, anche se non ricordava questo nome.
Lesse “25 Etudes op. 60” e un po’ sotto “by Matteo Carcassi – 1792-1853”. Si ficcò in tasca i primi fogli dopo averli piegati in quattro e senza chiedersi perché.
Un’imprecazione soffocata giunse da sotto e stavolta lo agitò. Avvertendo una palpitazione inconsueta, non sapeva se correre giù così, a mani vuote o prendere qualcosa a caso, che fosse un’attenuante generica per Babbo e mitigare, per la sua parte, l’esito, senza dubbi, fallimentare della serata.
Con un gesto automatico, di cui si sarebbe reso conto solo il giorno seguente, ricomponendo nella loro logica quella sequenza di azioni, prese per il manico una borsa nera appoggiata vicino allo stipite della porta da cui stava uscendo quasi correndo.
– Che cazzo di casa, niente cassa, oro; una carta di credito scaduta…. ma gettala via, idiota di un dottore – stava imprecando Babbo mentre afferrava da Mircea un portatile che aveva trovato infilato tra la fodera e il divano – solo libri, giornali, quaderni, carta, carta, anche tre sacchi di carta riciclata, fanculo, në djall, fanculo due volte, dottore.
– Cos’hai li, vuoi andare al concerto? – E squadrò Agron con i suoi occhi sottili sbirciando la borsa.
Il ragazzo capì di colpo quello che stava trasportando.
La custodia di uno strumento musicale; pensò a una chitarra, non tanto grande; pensò contemporaneamente, senza esitazione, che non voleva lasciarla, che ormai era sua, come fosse un regalo di quella casa più che un bottino; pensò che avrebbe resistito allo strattone di babbo e non avrebbe parato il ceffone e non avrebbe pianto.
Non ci fu né strattone ne ceffone.
Babbo girandosi fece segno di andare, con la testa, mentre continuava a guardarlo, ma in un modo che gli sembrò diverso dal solito, indugiante e vagamente tenero.
Agron ebbe allora, in quel momento, l’impressione certa che suo padre aveva capito qualcosa di lui e la palpitazione che lo stava agitando improvvisamente cessò.
Si mosse subito e rivolto a Mircea disse: – non è pesante, la porto io, lascia – magari è preziosa – cioè voglio dire, vale qualcosa.
Mircea non gli fece neanche caso.


La mattina dopo andò a scuola come sempre.
Babbo non voleva storie, qualcuno che facesse troppe domande, “perché qui? – perché la?”.
–E vedi di studiare… altrimenti…! – gli aveva detto un paio di volte, lasciando la frase a metà. La concludeva Agron, senza pronunciarla, sapendo che quello che frullava nella testa di babbo girava intorno a questo fatto dell’onestà, di quello che si doveva fare per ricominciare a vivere bene, come un tempo al paese – prima che i lupi serbi scendessero dai monti – come sentiva dirgli dopo due bicchieri di grappa.
Onestà era la parola mancante del cruciverba mentale di Babbo; Agron l’aveva capito che era questa, ma solo adesso ne stava cogliendo in pieno il senso, dalla sera prima.
Pensieri che gli fermentavano dentro mentre cercava di calcolare l’incognita della proporzione che la Proffe di matematica stava scrivendo alla lavagna; era il ricordo, fresco di poche ore, della penombra della casa di sasso, quell’accampamento di libri, lo schieramento di carta colorata, la pila dei dischi, gli arabeschi degli spartiti e la chitarra, la sua chitarra odorosa, che lo stava aspettando.
Si mise la mano in tasca e lo stropiccìo del foglio che vi aveva cacciato la sera prima e che adesso teneva chiuso nel pugno dentro i pantaloni si udì nel silenzio della classe, assorta nel calcolo matematico, più forte dello stridere del gessetto della Proffe. Che si voltò, mentre lui spiegando lo spartito sul quaderno aperto, lesse ancora: – Matteo Carcassi, op. 60 –. Poi alzò gli occhi e incontrò quelli di lei che lo scrutavano, curiosi e benevoli.
Si sentì arrossire a fiamma come quando lo investiva la vampa della stufa, aperta per infilare dentro il ciocco. Era successo di sentirsi arrossire ma mai con questa violenza senza possibilità di controllo.
Mentre la Proffe si avvicinava lentamente cercò di iniziare a costruirsi una storia che stesse in piedi.
La Proffe era tenera coi suoi ragazzi, specie con gli extra; dicevano che era stata comunista, come lo erano stati loro. E questo ragionamento, che aveva sentito fare da qualcuno, non gli era mai tornato bene ad Agron. – Comunista, in Italia? Ma allora cosa siamo venuti a fare qui? – Una volta stava per chiederlo a Babbo ma lasciò perdere; cosa gliene fregava a lui?
La Proffe gli si mise di fianco e sbirciò verso il foglio.
Lo prese dalle mani di Agron con un gesto rapido che, li per li, gli sembrò aggressivo ma la vide subito sorridere mentre fissava lo spartito.
Durò qualche secondo ma gli sembrò l’eternità.
Poi la Proffe iniziò a canticchiare a bocca chiusa un motivetto ritmato, prima interrompendosi, poi sempre più sicura e scandendo il tempo con piccoli movimenti del braccio destro con la frequenza delle battute.
Rossi, dal primo banco, volse indietro il suo sguardo miope, interdetto dall’inatteso epilogo dell’operazione che lui aveva già diligentemente risolta col suo bel numero tondo di fianco alla X.
La classe era sveglia e tre quarti dei ragazzi avevano capito benissimo quello che stava accadendo e stavano al gioco. Gli altri, le oche, ne approfittarono subito per messaggiare.
– Carino questo pezzo di Carcassi per chitarra, non lo conoscevo – disse la Proffe restituendogli lo spartito e, guardandolo, non aggiunse altro, intuendone l’imbarazzo; l’avrebbe esplorato in un altro momento.
– Sapete ragazzi che Agron m’ha dato un’idea! – disse e continuò: – Marietto, fatti fare diciotto fotocopie di questo spartito, per favore.
Marietto, che era il più vicino alla porta e, per questo, addetto alla mansione, corse fuori eccitato dalla novità, sventolando il foglio come una bandierina.
–Si ragazzi, m’è venuta un’idea, useremo la musica per spiegare alcune cose di matematica!
Così fece in quelle due ore e Agron si sentì inorgoglito. Tornò ancora, nei giorni seguenti, la Proffe, su quel metodo che divertiva tutti. Ma capì che Agron aveva del talento e avvicinandolo, qualche giorno dopo a fine lezione, gli disse: – avrei piacere di parlare con tuo padre – e gli spiegò il perché.

Agron non lo fece subito.
Fin dal giorno dopo il furto, da quando aveva sfilato con cura lo strumento dalla custodia ed era rimasto leggermente inebriato da quell’aroma di vernice che da allora in poi sarebbe diventato per lui “l’odore della musica”, quello era il suo rito pomeridiano.
Scoprì che nella custodia c’erano strani aggeggi e un fischietto; trovò anche un libretto dal titolo “Manuale per chitarra - primo livello” e cominciò a sfogliarlo.
Lo impressionò subito la vibrazione della prima grossa corda metallica, spessa e tesa come quella dell’arco con cui giocava da bambino e che risuonava dentro il petto come la tosse quando aveva la bronchite; l’eco di campana della terza lo struggeva, ma con dolcezza, mentre la quarta – la prima di plastica – come diceva lui, non gli piaceva, perché smetteva di vibrare troppo presto.
Insomma, si appassionò. In due settimane era capace di leggere e suonare la scala di do maggiore su tutta la tastiera e di impostare le dita sui primi accordi facili.
Pensava già a quando avrebbe suonato qualcosa a Katia, la rossina della 3B che lo aveva guardato due volte nell’intervallo ma fu Babbo, una sera, entrato all’improvviso nella sua camera, il suo primo inaspettato ascoltatore.
–Dai suonami qualcosa – gli disse mentre i baffetti nascondevano un sorrisetto indecifrabile – sento che stai facendo progressi.
Agron allora suonò le scale che aveva imparato e un giro di do ben ritmato; si fermò in attesa della reazione. Babbo continuava a guardarlo con quel mezzo sorriso poi, brusco come sempre – dammi la chitarra – disse – ti suono io due accordi che staranno bene con i tuoi.
Corresse l’intonazione di un paio di corde, si schiarì la gola e incominciò a cantare con una voce baritonale tonda e calda una nenia che Agron ricordava di aver sentito al paese.
–Che stava succedendo?  Suo padre cantante, musicista. Come? Da quando? Che bello! –   Pensò.
Di fronte alla rivelazione di quel segreto, nella forma di un sentimento che solo la musica sa rendere così tenero, sentì, in quell’emozione improvvisa, prima la gioia che la sorpresa.
Si stabiliva per la prima volta tra padre e figlio la relazione intima che la vita finora aveva loro negato e che in quella sera, nella casa del dottore, aveva avuto una specie di prologo. La musica aveva iniziato e stava continuando a compiere il suo eterno miracolo, spostando il legame dalla crosta superficiale dei gesti quotidiani allo strato intimo che da un senso allo stare insieme.
Restarono muti per un po’, alla fine del pezzo, sbirciandosi schivi, non ancora capaci di sostenere con gli occhi il legame fresco che univa i loro cuori.
–E’ una canzone di Shkurte Fejza, la cantavo anni fa insieme ad altre cose che suonavamo in un gruppo un po’ folk un po’ rock, come ci veniva, tra amici. –
–Voglio imparare a suonare come te! – e in quel mentre si ricordò della richiesta della Proffe e glielo disse.
–Bene Agron, andremo; domani chiedile quando ha tempo.


Fu un dialogo franco e affabile.
Il comportamento del padre rivelò ad Agron una gentilezza e perfino un certo tono galante che ignorava, favorito, bisogna dire, dalla spontanea civetteria della donna.
Fu, per un attimo, in difficoltà solo quando la Proffe accennò allo spartito. Intervenne il ragazzo che, nel frattempo, s’era imbastito la storia di un cugino che voleva suonare, stava provando da tempo, continuava a scaricare dalla rete tanti spartiti, aveva schiantato una stampante ma non riusciva bene, insomma era un po’ somaro – la parola gli era scappata di bocca nell’enfasi del racconto e arrossì ancora – ma la Proffe rise e il padre abbozzò.
Uscirono con l’accordo che avrebbero cercato un maestro di chitarra.


Passò qualche giorno che fu come una pausa necessaria.
– Agron, ti devo parlare – gli disse il padre una sera, a tavola, mentre sbucciava una mela e ne porgeva una fetta al ragazzo – alla ditta hanno approvato un progetto.  Tre villette a schiera, di lusso, c’è lavoro per un paio d’anni, forse di più; facciamo tutto noi.
Capitava che gli raccontasse qualcosa del cantiere, qualche lavoretto che gli era venuto bene, un nuovo attrezzo migliore del vecchio, qualche stronzata del geometra, più di rado uno scherzo che s’era beccato Mircea con la pompa dell’acqua o quella volta, con la colla per i topi, che non riusciva più a staccarsi dalle scarpe e saltava con quella tavoletta sotto i piedi piroettando come sullo skateboard, tirando madonne in lingua originale.
Gliene parlava, del lavoro, Babbo, pensando che tra un po’ sarebbe stato anche il suo; ma, razza di imbecille, come poteva pensare che quello stare otto ore in mezzo alla polvere, al fracasso dei martelli, su per le scale arrugginite dell’impalcatura, nelle gelate di febbraio, cotto nudo al sole di luglio, potesse, quel lavoro di merda, essere anche il destino di suo figlio, di Agron, dalle dite delicate della madre e dal fiato corto, rianimato dall’aerosol quotidiano del broncodilatatore.
Aveva cominciato a cenare con l’intenzione di parlargliene, del lavoro, quella sera, ma con un’altra idea in testa e con un’altra coscienza.
Già, la sua coscienza, dove era finita tutto questo tempo?
L’ultima volta che ricordava di averle parlato era almeno cinque anni prima, forse sei; anzi, era stata lei a parlare a lui una notte che non prendeva sonno.
–Prendi il bimbo e vai; che fai ancora qui? Vattene, in Grecia, no, meglio in Germania; forse meglio ancora, vai in Italia, li capisci cosa dicono e sono un po’ stronzi come noi; vai li, che cosa aspetti? Vai. Qui non c’è futuro; per Agron, non per te, ti sto dicendo.
Così gli parlava la sua coscienza da un po’ di tempo, grezza, è vero, ma sincera come lui.
Gli aveva dato retta.
La resistenza in quel posto che amava come suo era ormai finita. I funghi spuntavano su una terra fertilizzata da sangue di uomini; dove capitava ancora che qualcuno trovasse, qua e là, nell’intrico dei boschi qualche straccio lacerato dal tempo di un disperso che reclamava così la sua piccola parte di pietà; lì dove, in fondo al paese, tra le altre, c’era la croce con inciso un nome di donna.
Stop. In quel punto la litania ricorrente del ricordo si interrompeva, ogni volta. Oltre, la sua memoria, chiusa in un cassetto di cui aveva perso le chiavi, si perdeva in un vuoto quasi demenziale senza un tempo e uno spazio precisi; un taglio implacabile che si rimarginava al rumore metallico dei suoi passi lungo la passerella del molo di Ancona e a quell’odore salmastro di nafta di porto, forte fino alla nausea, che aspirava sbarcando, tenendo il bimbo per la mano.
Almeno gli scafisti se li erano risparmiati.

– Agron, ti voglio parlare; apriamo un cantiere finalmente – iniziò così, ma poi  continuava a girare intorno a questa storia del cantiere, del nuovo lavoro, del progetto, con frasi spezzate, non conclusive che lo innervosivano, Agron lo vedeva bene,  finché si alzò di scatto, con la testa bassa e stava per uscire a fumare quando il ragazzo, approfittando di un’indecisione che lo aveva rallentato, lo prese per il braccio, vicino al polso e con la potenza che riusciva a dare a parole a lungo trattenute, urlò – continua a parlare,  per favore – ma il per favore quasi non si udì.
Quella reazione bastò.
Un orgoglio ferito e un’intelligenza adulta che reclamava di essere riconosciuta furono un segnale a cui il padre non poteva più sottrarsi.
–Possiamo fare una vita onesta, Agron, una vita giusta, voglio dire; era quello che volevo fin dall’inizio, sto rubare del …, senza senso; siamo miseri come prima – riprese il padre, con un’inflessione dialettale che usava con gli amici, coi compagni di lavoro ma che Agron non aveva mai sentito rivolgergli.
Nella sua testa di uomo semplice era scattata inconsapevolmente come l’esigenza di compensare l’altezza morale del concetto con cui si cimentava con l’immediatezza grossolana del gergo; declamare la formula solenne di un impegno con la lingua semplice della quotidianità, che lo rendeva più possibile.
–Andremo dal dottore e gli riporteremo la chitarra e quello che non ho ancora piazzato, in pratica tutto.
Quelle parole parvero ad Agron una preghiera cui non si poteva obiettare. C’era un muro da scavalcare per suo padre, lo capiva e, per lui, il buio al di là del muro forse faceva svanire il suo sogno appena cominciato; un groppo gli si strinse in gola ma annuì.

Il numero lo aveva avuto dal solito confidente.
Lo digitò la sera dopo, un po’ tardi, saranno state le dieci.
Sentiva il bisogno di concentrarsi; non era una telefonata qualunque. Non era paura, la sua, ma la previsione del disagio di un dialogo che poteva spingersi in territori poco praticati, con sfumature di parole magari difficili da cogliere per il suo italiano grossolano e il rischio di un’incomprensione che sarebbe stata il fallimento del suo progetto e della chance che voleva dare a suo figlio.
– Pronto dottore –
– Si, chi parla? – gli rispose la voce secca arrochita di uno che non parlava da un po’.
–Sono il ladro di casa sua.
Da uomo schietto qual era non gli venne in mente una prima risposta migliore. Così si sarebbe rotta subito la prima barriera, la più difficile da superare.
Seguì un silenzio che, con i cellulari, non si sa mai se è dovuto alla ricezione; col dubbio se uno abbia capito o no. Ma non se la sentì di ripeterla.
–Buongiorno – replicò il dottore con tono che parve gentile al suo interlocutore;
–mi sa che è riuscito a portar via poco di interessante da casa mia, il Samsung era scassato.  
Questa volta avvertì l’ironia e una dose di disprezzo nella voce, che si era fatta più forte.
Capì che era il momento decisivo per spiegarsi.
–Dottore, la prego di scusarmi – gli venne fuori in un italiano quasi perfetto.
–La scuso se mi dice perché ha telefonato.
Colse l’opportunità offerta e con tono da cui cercò di eliminare la minima impressione di una richiesta di compassione, riprese:
–Siamo stranieri ancora non dentro bene a questa società e il lavoro va e viene, non tutti li giorni lavoriamo.
Il dottore sorrise ma nessuno lo vide e non replicò, stando in attesa.
–Il figlio ha preso la chitarra e ora suona ma vuole riportarla a lei – disse l’altro con malizia.
La frase spiazzò il dottore.
– Quale figlio?
– Mio figlio, che ha preso la chitarra, spartiti e anche un libro
–Li ha presi lui?
Stava per chiedere cosa significasse questa cosa del figlio che ruba, quando l’altro aggiunse, anticipandolo:
– Si, la sua professoressa di scuola dice che è bravo
– Bravo a suonare?
– Si
–Con la mia chitarra?
–Si, anche lei suona dottore, vero? –
– Si, anzi, no, perché non ho più la chitarra.
Ci fu un’altra pausa.
– Vede che gliela riporto, è meglio
– Manda tuo figlio con la chitarra domani alle tre, l’indirizzo lo sai; adesso sono a casa; poi noi ne riparleremo; ok?
– Ok, domani, grazie dottore – ma non chiuse la telefonata e subito riuscì ad aggiungere, in fretta: – non sono più ladro, lavoro da muratore, se ha bisogno so fare tante cose; … posso risarcire.
Quel verbo finale e il tono con cui era stato pronunciato, a lui, avvezzo alle confessioni dei pazienti e a indagare dietro le loro parole, era parso così sincero che non si doveva riferire al banale rimborso di un danno, a una questione di soldi, ma poteva essere interpretato come il primo tentativo di condividere l’offesa provocata. La voleva dunque immaginare come l’offerta impacciata di una mano da stringere e, nel ribaltamento di umore provocato da quella parola, finiva per sentirlo come il gesto di un amico. Ne fu in qualche modo commosso e con tono più delicato disse:
– Domani alle tre, mandi il ragazzo, ci intenderemo, buona sera; a proposito, come si chiama il ragazzo? –
–Agron, come suo nonno albanese, buonanotte dottore.

Il citofono gracchiò per un attimo, la durata di un colpo di tosse; tanto che non era neanche certo che avesse suonato. Pigiò il bottone del cancello senza rispondere; il postino con le raccomandate passava al mattino e gli amici che venivano a trovarlo lo avvertivano prima.
In ogni caso erano le tre meno dieci.
– Sono Agron, – si udì con la voce elettrica dei citofoni che impedisce di abbinarla all’età, alla fisionomia e spesso anche al sesso del visitatore.
Il cancello automatico si aprì lentamente e il dottore vide dalla finestra, con un’inquadratura dall’alto, avvicinarsi a piccoli passi un ragazzino biondastro e magro, non alto per l’età che poteva avere.
Gli andò incontro e a metà rampa della scala, quando poteva vederlo meglio senza essere visto attraverso la porta vetrata; notò due occhi grandi e brillanti che si guardavano intorno smarriti, la giacca abbondante che gli cadeva dalle spalle, due gambe magre e si accorse che si era sbagliato; che era più alto della prima impressione che aveva avuto.
Ma ebbe subito l’inverosimile sensazione di averlo già visto e prima ancora di avere il tempo di formulare un’ipotesi, giunto alla porta d’ingresso, si ricordò dove. Tardò ancora un momento ad aprire mentre il ragazzo si era accorto della sua presenza al di là del vetro e si fissavano.
La somiglianza era incredibile: l’incarnato pallido, la piccola gobba del naso, le sottili orecchie a sventola emergenti dal contorno dei capelli tagliati corti, lisci e fini; cioè i lineamenti né belli né brutti della prima adolescenza.
Era sconcertante la somiglianza con la foto che sua madre, la madre del dottore, teneva vicino al letto, là a casa sua, in un’altra città: la foto del figlio alla stessa età o quasi, con l’abitino Principe di Galles della cresima; la foto del dottore, da ragazzo.
Si rammentò che, alla prima occhiata su quella figura sottile e ossuta, aveva avuto la chiara illusione che portasse gli stessi calzoncini corti dell’abitino grigio a quadri della cerimonia della foto, la sua foto; che il ragazzino in piedi al di là della porta, rigido col grosso fagotto della chitarra appeso alla mano sinistra e che adesso, al di là del vetro, gli rivolgeva un sorriso luminoso, allargando la bella bocca, fosse lui.
Con quest’idea in testa, lo accolse:
–Ciao Agron; vieni. Andiamo di sopra; è riscaldato; con questo tempo matto di marzo fa ancora freddo in queste vecchie case di campagna. Vai pure, non c’è bisogno che ti faccia strada.
Agron colse la scherzosa provocazione, voltandosi verso il sorrisetto del dottore, che lo seguiva più in basso lungo la scala.
Andò a destra come quella sera e, in piena luce, lo scaffale che occupava quasi intero l’orizzonte della grande stanza, incombeva su di lui, questa volta, evocandogli l’immagine di un grande uccello o di un angelo dalle ali spiegate che gli mostrava il suo tesoro nascosto, il segreto piacere della lettura.
Tirò fuori dalla tasca il libro giallo col cavaliere e lo ripose nel punto esatto dove l’aveva preso.
– Cosa fai? L’hai letto?
– Si
– Ti piace?
– Oh… si; c’è un ragazzo che fugge sugli alberi perché non sta bene a casa, anche se è un barone, un ricco e salta da un albero all’altro per tutta la vita
– Perché fugge da casa? – lo stimolò il dottore.
– Molti fuggono da un’altra parte perché non stanno bene
– Cercano qualcosa di diverso? Un altro mondo?
– Forse, non so se c’è un mondo diverso
– Penso ci sia il mondo dove viviamo, quello fatto dagli altri – riprese il dottore, – e poi c’è il nostro piccolo mondo; bisogna farli stare insieme, non pensi?
– Si, ma lui stava bene lassù, nel suo mondo volante
– Qual è, Agron, il tuo mondo volante?
Il ragazzo si guardò intorno, apparentemente esitante ma non poté fare a meno di incrociare lo sguardo col dottore, che lo incoraggiava.
Gettò un’occhiata alla custodia che aveva appoggiato al muro e fece per prenderla.
–Prendi anche il libro – si sentì dire – i libri appartengono a quelli che li amano di più; vieni di là così mi fai sentire qualcosa con la chitarra. Stava per dire – la tua chitarra – ma evitò, temendo di offenderlo.

Agron si sentì subito a suo agio nella “stanza della musica”, come l’aveva sempre pensata, fin da quella sera.
Sedette su una sedia senza sponde, appoggiò l’incavo della chitarra sulla coscia. Pizzicò le tre corde acute vuote, ad arpeggio. Come un prologo del suono; un modo ingenuo per non entrare troppo bruscamente nello spazio etereo della musica, alla quale si avvicinava ancora cauto, come si fa con un animale poco conosciuto.
Quando rincrociò lo sguardo del dottore, in attesa, ma che, indirettamente lo incoraggiava con l’atto diversivo di cercare qualcosa in tasca, iniziò all’improvviso, secco, lo studio n. 1 di Carcassi, che stava provando ininterrottamente tre ore al giorno da settimane, dopo avere imparato le note sul pentagramma.
Batteva il tempo pestando forte il piede a terra, come un bluesman e così si aiutava più a controllare l’emozione che a tenere il ritmo.
Al dottore, chitarrista dilettante da sempre, quel modo di creare suono, che non era ancora interpretazione ma già preannuncio di uno stile, piacque subito.
Gli fece sentire poi una canzone di moda, che aveva imparato negli ultimi giorni su richiesta degli amici della media, a cui dava un accento balcanico, esotico e malinconico.
Visto che il dottore lo ascoltava attento, con il suo solito sorriso, gli venne voglia di cantargli quello che aveva voluto imparare meglio che poteva: la nenia di suo padre.
Lo fece.
La canzone era una di quelle che parlava senza bisogno di conoscere il significato delle parole ma il dottore volle chiederglielo.
Agron declamò da bimbo un testo dalla traduzione non facile con i significati incerti e talvolta comici che danno i traduttori automatici dei computer; ma il senso intimo di quella musica si manteneva intatto.
– Non so bene, dottore, a cosa si riferisce; parla di un amore lontano – rispose Agron, pronunciando la parola “amore” con il tenero pudore di un bimbo che parla a un grande.
– Amore di una mamma – aggiunse e la parola “mamma” gli uscì di gola, sottovoce.
– Ah…, una mamma; come si chiama tua mamma, Agron, cosa fa? Immagino sarà giovane e anche bella – riprese il dottore quasi con allegria.
– E’ morta.

La risposta ricevuta, anche se sussurrata, era così perentoria da non consentire alcun immediato commento sensato.
Ci voleva una pausa da parte di chi l’aveva sollecitata, escludendola inconsapevolmente dal novero delle risposte possibili.
Nei pochi secondi di silenzio, in cui si alzò per guardare dalla finestra, come per voler alleggerire il peso della sua presenza dentro lo spazio vitale del ragazzo, in cui era piombato in modo così incauto, passò in rassegna tutte le possibili prosecuzioni del dialogo.
Se gli si fosse avvicinato prendendogli la mano o toccandogli la testa sarebbe parso il prete che ti offre un’intimità simulata e non richiesta.
Se avesse fatto finta di niente, che codarda marcia indietro rispetto al contatto verso cui si era spinto per aiutarlo e che aveva sentito, giunti a questo punto, come un coinvolgimento d’affetti.
Non gli restava altro che inerpicarsi nel sentiero impervio del dialogo con un ragazzo che gli aveva, in una sola parola, gettato addosso l’intero poema tragico della sua breve vita.
Non si avvicinò; restò accanto alla finestra.
Lo guardò, cercando di evitare di trasmettere segnali equivoci. La prese larga.
– Da quanto tempo sei qui da noi?
– Quattro anni; prima stavo a Prizren, con mio padre e mia madre, poi è venuta una guerra
– La guerra del Kosovo?
– Credo sia quella, ero molto piccolo; si è quella; – continuò – mio padre era andato con due amici del paese, soldato, aveva una giubba verde e un fucile kalascio, così lo chiamava mia mamma; non si è sentito per un po’; la mamma diceva che avevano colpito l’antenna; mi ricordo questo; mi ricordo che un giorno mia mamma mi ha detto che ritornavano presto, l’avevano detto per la televisione; mamma piangeva, mi ricordo; le donne venivano in casa e piangevano; le ragazze mi facevano giocare ma le donne piangevano e poi anche le ragazze si mettevano a piangere e non giocavamo più; una cantava una preghiera e anche le altre cantavano ma qualcuna molto male e allora mi mettevo a piangere anch’io, non so perché, ero piccolo; dopo è tornato mio padre, aveva una ferita alla spalla; la mamma diceva che non era brutta; poi ricordo male perché ci fu un bordello, – come dice mio padre ora – rumore, botti, alcuni lampi gialli; era notte; poi un rumore più forte, fortissimo; era troppo forte, mi sono coperto le orecchie ma mi coprivo anche gli occhi; nella bocca sentivo come zucchero ma era polvere.
…Ho visto le mani di mia mamma spuntare dalle macerie e l’anello al dito brillava alla luce della torcia.
Mi hanno portato via.
Lei era sotto.

Il dottore sentì, improvviso e forte esattamente come il rumore evocato dal racconto, un singhiozzo che lo gelò.
Agron, dopo aver cercato di trattenere due lunghi sospiri che gli agitavano il collo e aver piegato la testa prima a destra poi a sinistra come per liberarsene, con uno spasmo doloroso che gli impauriva lo sguardo, scoppiò in un pianto convulso a cui si abbandonò, immobile dalla testa in giù, con la chitarra in braccio e le mani intrecciate in grembo.
Il pianto distillava lacrime che cadevano ad intervalli regolari sulla fascia sinuosa della chitarra e di lì, a terra, in una piccola macchia scura.

Il cane del dottore, che aveva fino a quel momento sonnecchiato sul suo cuscino in un angolo della stanza, si alzò lentamente, gli si avvicinò e lo guardò con i suoi grandi umidi occhi neri di labrador.
Restarono a lungo così, vicini, il cane e il ragazzo; il primo abbandonando la grossa testa alle amate carezze di quel piccolo uomo sconosciuto, il secondo, sciogliendo pian piano gli spasmi del pianto nella smorfia di un sorriso velato.

Il dottore si allontanò, silenziosamente, nell’altra stanza, delegando al docile animale un compito per il quale l’istinto lo rendeva infinitamente più adeguato.

Quel giorno e questa storia finiscono così; con il dottore che guardava il ragazzo salutare dal cancello: una mano stringeva stretta la sua chitarra, l’altra faceva l’ultima carezza al pelo del cane che muoveva forte la coda.

Oggi Agron fa il 3° anno di conservatorio; suona tanti strumenti ma continua ad annusare l’odore di vernice della sua chitarra.
Suona a Katia tutti e venticinque gli Studi dell’opera 60 di Carcassi e lei lo ascolta sdraiata sul divano, ad occhi chiusi.
Quando ha concluso li apre e gli dice dolcemente:
–Dai Agron, amore mio, cantami il Liga.

Allora lui tira fuori il plettro dalla tasca, quello duro, e piegando la chitarra verso terra come fosse una Stratocaster, dopo quattro arpeggi di introduzione, con voce nasale attacca:

Ho fatto in tempo ad avere un futuro
Che non fosse soltanto per me
Più che un’ipotesi era sicuro
Era per tutti, era con te

FINE
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