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Paola Pozzolo
LAGUNANDO 2020 > selezionati 2020
Sono nata a Genova 56 anni fa e da due ormai vivo e lavoro a Cavallino Treporti, presso la Biblioteca Comunale. Laureata in Lettere con indirizzo artistico, a Genova ho lavorato presso la Civica Amministrazione, occupandomi tra l’altro di impiantistica sportiva e di organizzazione di grandi eventi.
Sono sempre stata attratta dalla storia medievale e rinascimentale e da quella veneziana in particolare.
Questa è la mia quarta partecipazione al concorso letterario internazionale “Lagunando”.

ORTI DEI DOGI
RACCONTO
MALAQUA

Non viviamo
né sull’acqua
né sulla terra
(Paolo Diacono “Historia Langobardorum”)

1

Amìala ch’â l’arìa amìa cum’â l’é
Amìala ch’â l’arìa ch’â l’è lê ch’â l’è lê
Amìala ch’â l’arìa amìa cum’â l’è lê
Amìala ch’â l’arìa ch’â l’è lê ch’â l’è lê 1
Nicolò in vaporetto, lo sguardo fisso sull’acqua che corre, ripete quelle strane parole: le ha imparate a memoria, dopo avermi chiesto di stampare il testo, e la traduzione in italiano ovviamente, che lui è veneziano, mentre io sono genovese.
Siamo decisamente una strana coppia, le Repubbliche Marinare cinquecento e oltre anni dopo, invece di sfidarsi, hanno fatto fronte comune, anche se per la verità ogni tanto ci punzecchiamo: io gli rammento come li abbiamo stracciati alla Curzola, con l’abusata tattica messa in atto alla Meloria,  lui mi rinfaccia il comportamento ambiguo di Gianandrea D’Oria alla battaglia di Lepanto… ne chiesi conto persino al mio ex sindaco, suo diretto discendente, che in quell’occasione però fu molto diplomatico.
Mi piacerebbe sentire anche il parere di uno storico imparziale, magari Alessandro Barbero, che ha anche scritto un voluminoso saggio sull’argomento…ma sto divagando, torniamo a Nicolò
Continua a ripeterle in modo quasi ossessivo, mandate a mente, proprio come quando, piccolino, sapeva recitare tutta la messa in latino: quando gli ho confessato che la prima volta che ci siamo incontrati ho pensato che, se avesse avuto indosso la veste cardinalizia, avrebbe potuto assomigliare a Mazarino, tanto erano curiali i suoi modi, ha riso, solo dopo, quando mi ha raccontato qualche episodio della sua vita, ho compreso quanto mi fossi avvicinata alla verità, basandomi esclusivamente su una impressione.
Le parole che ripete silenziosamente somigliano a una nenia araba, invece sono solo le prime strofe in dialetto di una canzone di Fabrizio de Andrè, “Faber”, come chiamo io, il mio illustre concittadino.
Una nenia araba… diverse parole arabe nel corso dei secoli sono scivolate nel lessico genovese, complice l’attività commerciale dei miei concittadini: una forma di globalizzazione del mondo medievale.
Gli ho anche raccontato la genesi di quella canzone, dal titolo “Dolcenera”, le cui parole gli ronzano nella testa, che Faber aveva dedicato a Genova, colpita dalla più grave alluvione della sua storia contemporanea, tanto da essere diventata nei ricordi e nelle parole della gente, “l’alluvione di Genova” e basta, senza nemmeno la necessità di precisare l’anno.
Siamo nel mezzo del mese di dicembre, il 15 per l’esattezza, domenica, è il periodo peggiore per Venezia, l’acqua tra ottobre, novembre e dicembre, l’assedia con brutalità: ogni anno in questo periodo la marea lambisce calli, campi e edifici, forse sperando finalmente di avere la meglio sulla città, ma poi, stanca della caparbietà dei veneziani, abbandona il campo, per tornare più agguerrita dopo circa dodici mesi.
A passo svelto, un passo veneziano, Nicolò si dirige verso la Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, di cui è confratello: anche la Scuola ha subito il nefasto influsso dell’acqua alta del 12 novembre, ora bisognerà correre ai ripari, come se già non fossero sufficienti gli interventi programmati per mettere in sicurezza lo scalone monumentale!
Oggi, l’incontro con i confratelli è per il consueto scambio degli auguri natalizi, ma è anche il momento per fare il punto della situazione.
È una mattina uggiosa, approdando con la motonave alla Pietà, si ha l’impressione che gli edifici che fanno da sfondo a un cielo grigio piombo, siano privi di colore, come se l’opacità plumbea del cielo ne avesse risucchiato le differenti tonalità.
Sceso a terra si incammina verso la piazza: sui masegni risuona l’eco dei suoi passi, poche le persone, un insolito silenzio sembra gravare sulla città, come se uomini, palazzi e chiese si stessero destando dal torpore di un sonno malato che li ha avvolti per più giorni, come le spire di una nebbia spessa e maligna.
Alla Scuola, la finestra che affaccia sulla porta d’acqua, mostra un canale pericolosamente al limite dell’ingresso.
In questi giorni prossimi all’inverno, l’acqua è tornata prepotentemente alla ribalta, affacciandosi impudentemente nella quotidianità veneziana senza nemmeno chiedere permesso e ha condizionato le nostre giornate, riportando alla memoria gli accadimenti di quel 4 novembre di 53 anni fa: da allora Nicolò non aveva mai più assistito a un disastro di tale portata.
Per la verità, con la mia pedanteria, tipica dello storico che sale in cattedra e che un po’ mi contraddistingue, gli ho snocciolato una serie di eventi altrettanto funesti a partire dal 589 dopo Cristo: «le maree eccezionali hanno accompagnato Venezia sino da quando si ha memoria della città.»
«Si, ma in passato il pericolo era costituito dall’acqua dei fiumi che si immettevano in laguna e non riuscivano a trovare sbocchi al mare, » ha controbattuto.
«Vero, ma quando i fiumi sono stati estromessi dalla laguna, il pericolo era costituito dalle maree,» l’ultima parola deve essere sempre la mia, è una abitudine che risale all’infanzia, ma Nicolò, con un sorriso saputo, ha spiegato a me, storica, quale fosse il comportamento della Serenissima, al tempo in cui era una repubblica.
«I veneziani ben conoscevano il loro territorio e forti del detto che “palo fa paluo”…»
«Cioè?» Lo interrompo.
«L’infissione di pali abusivi comportava il rallentamento della corrente e l’accumulo di melma, di conseguenza si formava una zona paludosa, paluo, appunto,» annuisco con il capo, mentre Nicolò riprende il racconto: «erano particolarmente attenti all’equilibrio lagunare, se si dovevano creare nuovi canali, si iniziava lo scavo e poi si osservava se modificava le correnti; se alterava gli assetti lagunari si annullava l’intervento, lasciando che la natura riprendesse il sopravvento. Grazie a tanto buon senso la laguna veneziana è sopravvissuta, rispetto a altre che hanno subito alterazioni notevoli.
Fu con la caduta della Repubblica che iniziarono i guai, aumentati in maniera esponenziale fino a oggi,» ha concluso.
A questo punto ero priva ulteriori argomenti, ma non volendo comunque concedergli l’ultima parola, ho convenuto con lui sulla bontà del governo veneziano, che di certo non avrebbe mai scavato il canale Vittorio Emanuele né tanto meno quello dei petroli, che si iniziò a scavare agli inizi degli anni Sessanta: « già durante lo scavo, la marea, senza che il canale fosse terminato, entrava più velocemente perché non aveva più barriere naturali: questo nuovo canale tagliava tutta la barena in linea retta, un vero sconvolgimento per la laguna.
Ad ogni modo se si osservano bene molte tele del Canaletto, è possibile notare come sui palazzi che affacciano sul Canal Grande, l’artista dipinse tracce di alghe e ciò fa pensare che l’acqua fosse più alta in un preciso momento antecedente la stesura del dipinto e le alghe non si formano in una notte,» alla fine, come al solito il punto l’ho segnato io.
Sorride e tace Nicolò, lo sguardo che corre lontano: solo un veneziano può essere un profondo conoscitore della laguna, che molti sono i segreti che detiene, come la conoscenza della diversa tonalità dell’acqua per la conoscenza delle correnti marine, o delle maree, per tramandarsi di generazione in generazione la conoscenza delle zone più basse.
Mai un veneziano si avventurerebbe all’interno della laguna se non nei punti segnati da bricole e paline, e forse solo un veneziano ha l’esatta comprensione della bellezza quasi selvaggia della barena affiorante, quando verso la fine dell’estate si colora del delicato colore viola del limonio…ma non aggiunge altro.
Attraversando speditamente le calli che lo portano verso la Scuola, osservando i danni ancora visibili dell’acqua salsa degli ultimi assedii, non può fare a meno di ricordare quei giorni di novembre del 1966, che ha rivissuto alcuni giorni prima con me, che allora avevo solo due anni e di conseguenza non ho memoria di quegli accadimenti.
2
Nicolò in questi giorni è a casa da scuola, in vacanza per il “ponte” dei Santi.
Una vacanza confinato in casa a Burano: da diversi giorni piove, l’aria è stagnante, sembra liquida,  oppressa da uno scirocco denso che quasi rende difficile respirare.
Dalla finestra della sua stanza che affaccia sulla laguna, volta verso sud, già dal giorno precedente ha notato come la marea si fosse presentata insolitamente alta, mentre il vento di scirocco continua a soffiare.
A tratti apre i vetri e affacciandosi viene investito da un’aria stranamente calda, fatto insolito per il mese di novembre, quasi si suda.
Nei pochi momenti trascorsi fuori casa ha ascoltato le chiacchiere dei vecchi pescatori, che si basano sulla loro esperienza di venti, maree ordinarie e astronomiche, acquisite in anni di duro lavoro: di solito sono loro che annunciano la marea alla popolazione dell’isola, un sistema che i buranelli chiamano “radio scarpa”, è efficientissima, puntuale e precisa, ma ancora nelle parole di questi uomini di mare, non si percepiva alcun timore.
Non c’è quindi negli abitanti dell’isola la percezione del pericolo incombente, e questo non solo a Burano, bensì in tutto il centro storico e nelle altre isole.
La vita continua a scorrere tranquilla nella sua quotidianità, in Terranova, dove Nicolò e la sua famiglia vivono, la quota è piuttosto alta e, nonostante il forte vento, perché la marea faccia danni, dovrebbe essere davvero eccezionale…
Suo padre è capitano dell’ACNIL e presta servizio sul percorso tra Fondamenta Nove e Treporti e quel mattino è andato al lavoro come sempre: Nicolò, conoscendo gli orari di transito, al momento opportuno abbandona le sue occupazioni e si avvicina alla finestra a osservare il vaporetto guidato dal padre che passa in quel tratto di laguna; lo scruta sino a quando scompare alla sua vista, è il suo modo per salutare suo papà, augurargli buon lavoro, nel suo intimo è convinto che percepisca la sua presenza, il suo sguardo.
Sono già diversi giorni, dal 27 ottobre, che piove quasi ininterrottamente in buona parte del nord-est, l’Adige, il Piave e il Tagliamento sono in piena: è ciò che provocherà l’innalzamento dell’acqua sul litorale e di conseguenza in laguna.
Maltempo e forte vento di scirocco saranno la causa della forte mareggiata, che spinge verso la città.
Il cielo è di un grigio plumbeo uniforme, della situazione critica nel resto del Veneto, c’è poca contezza nel capoluogo.
Quel 4 novembre scende una pioggia sottile e costante, proprio una pioggia da scirocco.
Con il passare delle ore la gente incomincia a rendersi conto che qualcosa non va: il vento caldo si intensifica e i vaporetti di linea provenienti dal Lido e da Pellestrina, recano già notizie allarmanti, con le onde furiose che si abbattono sui Murazzi, mentre il vento sull’Adriatico soffia a 70 chilometri all’ora.
Solo successivamente si saprà che già la sera del 3 novembre gli spettatori del Teatro Ridotto avevano segnalato per primi l’inizio dell’alluvione.
La mattina del giorno dopo il mare in burrasca sfonda i Murazzi, le antiche mura costruite dalla Serenissima nel Settecento per difendere la laguna dalla furia del mare, Pellestrina viene completamente sommersa, novella Atlantide, è abbandonata in fretta e furia dagli abitanti che si rifugiano al Lido.
A Burano nulla di tutto ciò è risaputo, Venezia tutta è priva delle sue difese, in balia del mare e della sua furia.
Una cappa scura grava sull’isola, il vento incessante si fa a mano a mano sempre più intenso, l’aria quasi irrespirabile: la mattina porta la prima onda di piena importante e invade il piano terra di casa, la cui porta di ingresso è rivolta a sud, verso la laguna da cui spira il forte vento.
Incomincia così il controllo attento della marea, la verifica del momento in cui inizierà il deflusso e tutto tornerà alla normalità.
Questa volta però non sarà così: l’acqua, che avrebbe dovuto defluire, si gonfia ulteriormente a causa del vento che continua a soffiare e del mare in burrasca, così, quando riprende a salire va a sommarsi a quella che si era assestata.
Le regole metereologiche per la prima volta sono state sovvertite.
Nessuno in città ricordava che la marea, trascorse le ore di crescita, non fosse defluita più o meno rapidamente, questa volta Venezia rimane avvolta nell’acqua, tutto assomiglia a un enorme e fangoso lago grigio, la laguna è  ridotta a un bacino fosco e torbido.
E non è possibile non pensare a una Venezia ben più antica, quella intorno all’anno Mille, quando le vie non avevano lastricato e le zone paludose erano un po’ ovunque in città eera possibile trovare canneti e piscine: il fango era condizione permanente.
L’unico rumore che si percepisce in tutta Venezia è lo scroscio della pioggia, accompagnato dal sibilare del vento.
Nessuno è preparato a una simile catastrofe.
L’acqua fredda e lurida si fa largo tra le calli, entra nuovamente in casa dalla porta principale come un fiume in piena e invade tutto il piano terra: sale dai pavimenti, fuoriusce dalle prese di corrente, l’energia elettrica viene a mancare, gli elettrodomestici sono perduti.
Ogni abitazione è ormai un lembo di terra a sé, famiglie completamente tagliate fuori dal mondo, senza avere idea di cosa sta avvenendo sulle altre isole, men che meno nel centro storico.
Il buio incombe, così vengono accese le candele, l’alloggio è privo di riscaldamento, chè anche la stufa è andata a bagno.
Rapidamente, Nicolò, i suoi fratelli e la madre, salgono al primo piano e si rifugiano nella camera dei genitori: il senso di impotenza mentre si aspetta che l’acqua si ritiri, il continuo salmodiare della madre che recita il rosario ininterrottamente, sono i ricordi più intensi di quei momenti.
Seduti sul letto matrimoniale, quattro ragazzini e una donna, stanno raccolti vicini per infondersi coraggio e scaldarsi.
A tratti Nicolò e suo fratello Renzo corrono alle due finestre della stanza per osservare quanto accade sotto di loro: i vetri vibrano sotto il forte vento e per mitigare il rumore, mettono dei piccoli stecchi di legno nelle fessure tra lo stucco e le lastre di vetro, per tenerle ferme, affinchè non rischino di rompersi; ogni tanto si affacciano dalla rampa della scala per verificare se l’acqua sta scemando.
Di tanto in tanto poi, il maggiore di loro, pensando al padre in navigazione, scruta nel buio con i suoi occhi miopi, nel tentativo di scorgere la sagoma del vaporetto da lui comandato.
La scena ricorda un quadro barocco, dai toni scuri, con brevi lampi di luce prodotti dalla fiammella delle candele che rischiarano i volti: è talmente vivida che pare di sentire nel buio della stanza, il silenzio rotto dalla preghiera e a tratti il sibilo del vento che urla rabbioso, simile a una banshee.
Con le prime ombre della sera anche un silenzio irreale cala come un sudario su tutta l’isola, il padre di Nicolò termina anche l’ultima corsa del vaporetto.
Dalla finestra di casa lo vedono passare, affrontando di prua il vento di scirocco e andare verso Treporti, appare così piccolo, tra i marosi in tempesta: il suo profilo sfuma laggiù, verso la casa bianca all’approdo di Treporti, unica macchia chiara su una tela sporcata dai più cupi toni di grigio.
Avrebbe potuto fermarsi a Burano, ma a bordo ci sono dei lavoratori che devono raggiungere Treporti e le loro case e lui non ha cuore di lasciarli in balia di se stessi in isola, senza che possano dare notizie alle loro famiglie,chè anche le linee telefoniche tacciono da ore.
Riesce poi a tornare verso Burano, approdare e con altrettanta fatica, mettere in sicurezza il battello all’ormeggio.
Avanza poi nell’acqua gelida e furiosa che lo lambisce sino all’altezza del torace, e riesce a arrivare fino a casa completamente fradicio.
È un momento di pura gioia in mezzo a quella sciagura che si prospetta di enormi proporzioni, un abbraccio corale.
Il buio quasi completo pare aver cancellato il mondo esterno: dai vetri si riescono a intravvedere le sagome delle altre abitazioni e qualche luce tremolante di candela, simili a fuochi fatui che si aggirano sinistramente per l’isola in balia dei marosi.
L’isola appare come se fosse abbandonata, nessuno osa uscire di casa per vedere cosa sta accadendo, sfidando la forza del vento e dell’acqua.
Chi ha la fortuna di possedere una radio a transistor può carpire qualche notizia, che non rende però appieno la reale portata del disastro che impotenti,  i veneziani stanno subendo.
Non è il caso della famiglia di Nicolò: asseragliati al piano superiore, la scala come unico baluardo contro la furia dell’acqua, sembra di essere in balia degli elementi all’interno di un’arca, ma come quella di biblica memoria, si tratta di un rifugio sicuro e l’angoscia è mitigata dall’essere tutti riuniti.
L’acqua, che con il calare della sera dovrebbe scemare, continua a mantenere pervicacemente il possesso della città, isolata dal resto del mondo, in balia di un  mare che pare voglia annientarla, farla scomparire tra i flutti ringhianti.
Burano è assalita da violente ondate del mare in tempesta, il cordone litoraneo non esiste più: le onde marine alimentate dal forte vento si congiungono all’acqua della laguna, ribollente anch’essa: “el mar s’ha tocà co la laguna”, diranno poi coloro che continueranno a avere memoria di questa tragedia.
L’isola di Sant’Erasmo, sentinella naturale che frena le acque del mare, soccombe di fronte alla forza dei marosi, scomparendo sotto una coltre d’acqua alta 4 metri.
Sul litorale, l’acqua salsa ha ricoperto i terreni, le coltivazioni sono andate distrutte, decimato il bestiame, perse imbarcazioni e macchine da lavoro.
Poi, improvvisamente, alle nove della sera, quando ormai erano rassegnati a subire il disastro completo, il vento cala, l’acqua è ferma, sembra non sapere cosa fare: in realtà non ha ancora la forza sufficiente per scemare via, perché il mare ancora non pare disposto a riceverla.
Poi inizia a calare, e lo fa in maniera repentina, altrettanto brutalmente quanto l’assalto che aveva condotto, producendo, se possibile, ulteriori danni a una città stremata.
Sfiniti dalla tensione e dalla fatica, Nicolò, i suoi genitori e i suoi fratelli abbandonano ogni velleità di fare la conta dei danni: domani è un altro giorno.
La mattina successiva tutta la famiglia è al lavoro: pulire, buttare fuori casa tutto ciò che l’acqua ha ammalorato, aprire le prese di corrente, aspettare che le canalizzazioni si asciughino, in attesa del ripristino dell’energia elettrica.
Ogni famiglia, ogni abitazione sembra un formicaio all’opera, nessuno perde tempo per vedere cosa è accaduto in giro, tanta è la necessità di ripristinare il proprio.
3
«L’acqua ha dato dimostrazione di cosa avrebbe potuto fare alla città se avesse voluto, poteva essere un monito, che però forse non è stato recepito come tale, perlomeno non da chi la città, con le sue leggi avrebbe dovuto proteggerla.»
Mi guarda, ha parlato a lungo Nicolò, utilizzando tutta la sua capacità di affabulatore per farmi comprendere la reale portata del disastro, ma soprattutto per farmi percepire lo stato d’animo di chi ha vissuto quelle ore terribili: è importante per me, voglio cercare di cogliere questi aspetti con le mie parole, riportarli su carta, ma non sono certa di essere altrettanto efficace e così vergo febbrilmente le sue parole, per dare vita e voce a quei ricordi e alle sensazioni allora vissute.
Vorrei che chi legge, chiudendo gli occhi possa ritrovarsi catapultato in quei momenti, viverli in prima persona, provare, se possibile, la medesima angoscia.
«In poche parole hai sintetizzato la morale che c’è nel mio racconto, a volte mi domando come fai.»
La butto sulla battuta, «sono genovese, pragmatica rispetto a te, veneziano, che hai conservato l’animo bizantino dei tuoi avi, » sorride suo malgrado.
«Una cosa non mi è chiara: al piano terra, dove c’era la cucina, tutto era andato perduto, per gli approvvigionamenti che erano difficili, come avete fatto?»
« Le condutture del gas ancora non giungevano in tutte le case, noi avevamo i fornelli alimentati da una bombola che non aveva subito danni, così mia madre riusciva a preparare qualcosa di caldo con le poche derrate che si erano salvate, ci siamo adattati.»
«Avreste dovuto munirvi di razioni K, come in guerra,» mi guarda in tralice, questa volta non comprende se sto scherzando o parlo seriamente, «nei giorni seguenti però,» continuo, «come vi siete organizzati?»
«Vicino casa c’era un negozio di alimentari, molto era andato distrutto, ma quello che era conservato nei ripiani più alti e si era salvato dall’acqua, veniva comunque venduto tranquillamente, non c’era la corsa all’accaparramento dei viveri, vivevamo nella consapevolezza che derivava dall’abitudine a situazioni non sempre ottimali.»
Penso che nell’era dei social e della connessione acca 24, noi invece, abbiamo perso tutto questo buon senso.
Seduta alla mia scrivania, ho cercato in rete i video girati durante quel giorno tremendo: le onde flagellavano le colonne di Marco e Todaro, per attraversare la piazza occorreva munirsi di un barchino, l’acqua aveva raggiunto l’ingresso della loggia del Sansovino.
Davanti a San Giorgio le gondole giacevano miseramente affogate, palazzo Ducale invaso da un metro e mezzo d’acqua, i pontili erano ribaltati, le barche, benchè legate, andavano alla deriva, chè la forza del mare le aveva sradicate dai loro approdi: sembrava quasi che una forza oscura stesse disperdendo su quel mondo di acqua e terra, tutta la sua crudeltà.
«Tanto si è parlato della furia distruttrice dell’Arno, del Crocifisso di Cimabue aggredito dalla melma trascinata dalla forza del fiume, molto meno si parlò di Venezia, nonostante in quell’occasione la città abbia rischiato di franare nell’acqua salsa.»
Le parole di Nicolò, scandite in tono amaro e tagliente, riecheggiano nella mia mente, mentre i vecchi filmati in bianco e nero continuano a scorrere davanti ai miei occhi.
4
Nera che porta via che porta via la via
Nera che non si vedevada una vita intera così dolcenera nera
Nera che picchia forte che butta giù le porte
Nu l’è l’aegua chà fa baggià
Imbaggiâ imbaggiâ 2
Non sono andata con lui a Venezia, tempo addietro avevo accettato un impegno di lavoro, inoltre questi ultimi assedii mi hanno provata, se non fisicamente, almeno mentalmente, è uno stillicidio continuo, apparentemente senza soluzione di continuità per il momento.
Venezia è meravigliosa in qualsiasi occasione, ma nelle giornate invernali, avare di luce, quando anche i toni caldi riflessi sulle facciate dei palazzi rifuggono all’occhio attento e  i contorni si fanno meno marcati, sfumando nella leggera nebbia che sale dai canali, allora diventa unica, risplende di un fascino antico, una città sospesa in un tempo tutto suo, arcano, di una magia lieve e particolare, che percepisci nell’odore salmastro che ti avvolge quando cammini a ridosso dei canali, che senti nell’aria sottile che ti sfiora il volto e muove appena le chiome, una città che di per sé non conosce frenesia: oggi però non è cosi, le ferite, le offese arrecate sono ancora troppo recenti, Venezia pare essersi ritirata in sé stessa.
Non sono abituata a queste situazioni, per me, che vivo qui da così poco tempo, sono condizioni avulse dal mio usuale contesto.
Certo, ho piena consapevolezza del disastro che si sta consumando in queste settimane, giacchè ho memoria di ciò che accadde nella mia città nel 1970.
Anch’io ho voluto portare il mio contributo, così ho cominciato a raccontare cosa avvenne in quei giorni.
«Erano i primi giorni del mese di ottobre, io frequentavo la prima classe elementare. Quella che si sarebbe scatenata potremmo definirla “la madre di tutte le alluvioni”, nessuno a Genova, proprio come voi veneziani, era preparato a ciò che sarebbe accaduto.
Tutto era iniziato la sera prima nel ponente cittadino, come accadde nel ’66 per l’aqua granda, solo parzialmente si ebbe la percezione del dramma che si sarebbe andato a consumare.
La pioggia battente, arrivata dopo un lungo periodo di siccità, aveva fatto esondare un torrente: Voltri, così si chiama la delegazione che per prima fu investita dal disastro, fu sommersa, il Leira esondando aveva provocato tredici vittime, il fango invase il quartiere e le zone limitrofe, trascinando verso  il mare automobili e vite umane.
I torrenti in Liguria sembrano innocui, ma con le piene diventano più pericolosi di un grande fiume, perché corrono con violenza inusitata e trascinano tutto ciò che il loro letto ha raccolto nei tempi di magra e che è sceso dalle colline retrostanti, dilavate dalla forza della pioggia.
Il giorno successivo pioveva ancora a dirotto e mia madre non mi mandò a scuola: ho ancora davanti agli occhi il ricordo dei disegni fatti dai miei compagni in occasione di quella giornata, che la maestra aveva appeso in classe, in particolare mi ricordo la sagoma di un bambino con una larga mantella rossa e un grande ombrello…»
Sorrido, a quel frammento di vita di oltre quarant’anni prima, che per qualche motivo incomprensibile è sempre rimasto vivo e nitido nella mia mente e torno a raccontare.
«Quella mattina, in ginocchio su una sedia, i gomiti appoggiati sul davanzale, osservavo la pioggia ininterrotta che frustava l’asfalto attraverso i vetri della camera.
Di fronte alla mia abitazione vi era una strada in salita di pietre e mattoni rossi, di quelle che in dialetto genovese si chiamano crêuze, poco più di una mulattiera che di solito fende verticalmente le colline retrostanti il centro storico: l’acqua era tanta e scendeva con una tale forza che il selciato non si vedeva, sembrava una cascata.
Al limitare, un tombino che non era più in grado di far defluire la massa liquida che scendeva verso valle era scoppiato, producendo un getto verticale che ricordava nella forma e nella forza un geyser islandese.
Il quartiere dove vivevo allora si trova sulle alture, a ridosso del centro storico, un quartiere popolare che negli anni del boom economico ha conosciuto una forte urbanizzazione.
Il territorio del genovesato ha una morfologia particolare, il rilievo è prossimo al mare, con un versante esposto a sud, protetto dai gelidi venti settentrionali: l’uomo ha sfruttato il territorio nella sua totalità e con una intensità che nel tempo si è fatta sempre più esasperata.
I genovesi hanno sfruttato il litorale per costruire opere portuali, abitazioni, monumenti e opere di difesa e man mano che le esigenze si sono fatte più pressanti, sono stati stravolti gli equilibri naturali, creando situazioni di rischio ambientale: i palazzi spuntavano come funghi, erodendo pezzi di collina.
Da lì, l’acqua che cadeva a terra a causa delle precipitazioni di intensità elevatissima, si abbatteva sulla città bassa come una valanga o come quando una diga cede e non trattiene più l’immenso volume liquido a cui ha fatto da argine; anche le violente mareggiate ebbero un ruolo fondamentale: le onde impedivano infatti all’acqua dei torrenti in piena di riversarsi in mare.»
«Esattamente ciò che accadde a Venezia.»
«Proprio così, » concordo e riprendo il mio racconto.
«Furono ore di panico, chi non ha mai assistito a simili scene non può nemmeno provare a immaginare cosa sia in grado di fare l’acqua che corre furiosa in discesa negli stretti caruggi: la sua violenza porta via qualunque cosa, anche gli uomini, strappa porte, suppellettili e vite…
Davanti alla stazione ferroviaria c’erano una trentina di persone tra cui donne e bambini intrappolati sui tetti dei bus dove erano saliti per salvarsi dall’inondazione e nemmeno i vigili del fuoco furono in grado di metterli subito in salvo, tanta era la forza dell’acqua che impediva ai loro mezzi di raggiungerli.
Tutti i torrenti cittadini strariparono, in particolare la piena del Bisagno  fu quella più distruttiva, perché l’acqua correndo verso valle, aveva incontrato la copertura del tratto finale del torrente, un manufatto che, dal punto di vista idrogeologico era una follia: solo averlo pensato era stata una pazzia, realizzarlo, una azione criminale.
Elevatissimi furono i danni, numerose le vittime, l’acqua e il fango invasero il centro, l’antico ponte romano-medievale di Sant’Agata crollò in parte, c’era voluta tutta la furia distruttiva degli elementi per abbattere un manufatto realizzato dai migliori architetti dell’antichità: divenne il perenne monumento alla stupidità umana.»
Infine mi zittisco, e rifletto su quanto troppo spesso i danni che l’uomo provoca, si ripercuotono su intere generazioni a venire.
5
È sera quando Nicolò  rientra, lo aspetto seduta sul divano, la luce soffusa, leggendo l’ennesimo libro: d’altronde lavoro in biblioteca, venendo a vivere qui ho coronato un sogno, anzi due.
Finalmente una serata di tregua dall’assedio dell’acqua: vero che noi viviamo sul litorale, ma la madre di Nicolò non ha mai abbandonato Burano e nonostante l’età importante e la fatica, resiste.
Io trovo che abbia un carattere tale che avrà sempre lei la meglio sull’acqua e sui figli, che avrebbero voluto allontanarla dall’isola, ma si sono arresi di fronte alla sua caparbietà.
«Sai chi mi ricorda tua madre? Nonna Abelarda, la forzuta vecchietta dei fumetti, la nonna di Soldino,» ride Nicolò, il paragone è azzeccatissimo.
Cala il silenzio, c’è una domanda inespressa tra noi e senza bisogno di ulteriori conferme, Nicolò riprende il racconto lasciato in sospeso.
«Passò diverso tempo prima che  la città potesse ritornare a una parvenza di normalità, dopo tre quattro giorni fu ripristinata l’energia elettrica.
Le scuole riaprirono e io ritornai in collegio e quando avvenne, non ero preparato allo spettacolo di desolazione a cui dovetti assistere.»
L’emergenza era conclusa, era il momento di tornare a scuola: transitando dalle Fondamenta Nove verso le Zattere, agli occhi di Nicolò si presentava una situazione tale che anche in futuro non troverà le parole adatte a descriverla: un tale disastro che solo con una fervida immaginazione si potrà percepire l’angoscia e la rovina che avviluppano la città.
Le rive sono una discarica senza soluzione di continuità, vi è  ammassato di tutto: mobili, suppellettili, elettrodomestici, ovunque pantegane e colombi morti…
«Si dice “fare la fine del topo”,» pensa Nicolò, osservando quello sfacelo.
Dopo l’acqua, tocca all’immondizia soffocare la città, ci vorranno più e più giorni per sgomberare.
Tutta Venezia è invasa dalla nafta, la nafta è ovunque, sui masegni resi scivolosi, nei canali galleggia in chiazze oleose avvolgendo i detriti di molte vite, giovani e meno giovani, lunghe strisce nere caratterizzano i palazzi a livello dell’acqua.
L’odore pungente prende alla gola, sembra penetrare in ogni dove, ti resta appiccicato addosso, sugli abiti, sulla pelle, non solo l’olfatto è intaccato, anche il gusto: un sapore acre  impasta la bocca, mentre gli elementi chimici che pervadono l’aria fanno lacrimare gli occhi, ma forse è solo il gusto e il senso di sofferenza che deve avere la disperazione, perché è questo che si percepisce ovunque, la costernazione di chi ha perso casa, lavoro, le fatiche di una vita andate a bagno…
Ha tredici anni Nicolò, eppure prova un dolore sordo e rabbioso per tutto quanto i suoi occhi e gli altri sensi riescono a vedere, sentire e percepire.
È convinto che nulla di ciò che era stato avrebbe potuto essere nuovamente.
L’acqua, che un tempo era stata la salvezza di questa città, i suoi bastioni difensivi, la vita stessa, ora ne aveva decretato la morte, portandosi via anche in parte la sua storia scritta: molti documenti e libri erano andati irrimediabilmente perduti, edizioni aldine spappolate, manoscritti preziosi a brandelli.
Pochi anni dopo avrebbe ritrovato quel pensiero, sulla caducità di Venezia, formulato con le medesime parole e sottolineato dalle immagini, in un film, “Anonimo Veneziano”: nel dialogo finale, dopo una lunga teoria di immagini della città con le sue nebbie, i palazzi cadenti, un malinconico silenzio, il protagonista afferma che “per capire Venezia bisogna avere il senso della morte”.
Quella che appariva ai suoi occhi era una Venezia decadente, una città ancora una volta sospesa fuori dal tempo, ma ridotta all’ombra di se stessa, un malato terminale al capezzale del quale il medico assiste impotente alla sua fine, non avendo più rimedi da offrire, se non il lamento, colonna sonora della sua agonia…
E nonostante il disastro, i tempi della rinascita saranno lunghi: solo  nel 1973, sarà varata la legge speciale, una disposizione nata per portare risorse in città, necessarie alla sua manutenzione e alla salvaguardia di un equilibrio così complesso e delicato come quello lagunare.
A poco a poco la città riprenderà a vivere: come quando, dopo una lunga malattia, si inizia la convalescenza e infine si rifiorisce.
Cala il silenzio, io rileggo le pagine fitte di episodi e considerazioni, mi pare quasi di percepire l’odore pungente di cui ha parlato Nicolò, di vedere le chiazze di nafta galleggiare sull’acqua dei canali e sfregiare una volta di più i palazzi lambiti da questo putridume, le pesanti striature nere che aggrediscono il biancore marmoreo del ponte di Rialto: ho la sensazione di scivolare sui masegni neri di nafta o bianchi della schiuma dei detersivi fuoriusciti dai magazzini e incoerentemente penso che l’accostamento dei due colori, bianco e nero, mi ricorda le antiche chiese romaniche della mia città.
Anch’io mi faccio vincere dal ricordo delle scene di “Anonimo Veneziano”, che rimandano a una Venezia lugubre e grigia, simile a una città colpita da un morbo pestilenziale o dalla guerra e inevitabile segue il confronto con il primo racconto che scrissi, dove narravo di Venezia colpita dalla peste, ma la città che io immaginavo era comunque uno sfavillio di luce e colori, nonostante il morbo che la flagellava e il silenzio rotto dai lamenti che l’avvolgeva.
Mi trovo a riflettere sul fatto che in fondo la rinascita di Venezia è andata di pari passo paradossalmente con lo spopolamento del centro storico e lo sviluppo di un’industria turistica senza precedenti che oggi, proprio come l’acqua, assedia Venezia, consumandola, mentre i fondi hanno preso altre vie e la crisi ha reso impraticabili interventi importanti come ripascimenti e pulizia dei rii e infine dò voce alle mie considerazioni.
«Venezia però oggi è vittima dell’eccesso turistico tanto quanto dei danni ambientali, per certi aspetti rischia di assomigliare a Las Vegas, un grande luna park, perdendo così la sua connotazione di città vera e vissuta, che come tale va difesa. Qui tutti sono colpevoli, amministratori, politici, ma anche i cittadini veneziani che in nome del profitto hanno finito per assecondare l’eutanasia di un malato terminale.»
Mi soffermo brevemente a riflettere, poi riprendo, «nel 1986 nel suo discorso a palazzo Ducale, l’allora Presidente del Consiglio, Craxi, disse che Venezia era un corpo vivo che non voleva vivere sulle rendite del passato, che era necessario ricostruire un ecosistema  che era stato violato e che pertanto non sarebbero più stati ammessi ritardi, che le opere per la difesa dall’acqua sarebbero state ultimate entro il 1995,» il tono della mia voce si è fatto via via  sarcastico, se penso che siamo nel 2020 e il MOSE è ancora di là da essere completato…
«Non è stato buon profeta, aveva però visto giusto circa il pericolo che la città potesse diventare una nuova Disneyland, abitata solo dagli addetti al turismo,» ammette Nicolò.
«L’idea che Venezia potesse essere una grande bottega dove dovevano trovare spazio tecnologie sofisticate e artigianato di alta qualità è affascinante, ma a mio parere si scontrava allora e si scontrerebbe anche oggi con logiche economiche piratesche.»  
«È la legge del profitto, schei schei e ancora schei,» conviene amaramente Nicolò.
6
Nera di malasorte che ammazza e passa oltre
Nera come la sfortuna che si fa la tana dove non c’è luna
Nera di falde amare che passano le bare
Âtru da stramûâ
 nu n’á â nu n’á 3
…………………
Acqua che non si aspetta altro che benedetta
Acqua che porta male sale dalle scale sale senza sale
Acqua che spacca il monte che affonda terra e ponte
Nu l’è  l’aegua de na rammâ
‘n calabá ‘n calabá 4
Mi alzo, appoggio il volto al vetro della finestra, il mio sguardo è perso in visioni di un passato lontano ma non troppo, è la mia volta ora, proseguire nel racconto, rivivendo quei momenti di cui allora non percepivo la reale portata del disastro che si era consumato sulle spalle di una intera comunità.
Ero ancora piccola, coccolata e protetta: improvvisamente mi assale una acuta nostalgia di persone che non sono più, mi sembra di udire le loro voci, percepisco la morbidezza fisica di mia madre, il sorriso vagamente ironico di mio padre, la dolcezza della mia madrina, di cui porto il nome, Valentina,  e la bonarietà del mio padrino, tutti raccolti intorno a me.
«Non sapevo cosa stesse accadendo nel resto della città, incollata alla finestra guardavo l’acqua scrosciare dal cielo e scendere giù dalla crêuza, mentre l’edicola sotto casa veniva inesorabilmente trascinata via, riversa su se stessa, legno e carta, come la casa della fiaba, crollata al violento soffio del lupo: il muro che delimitava la salita si era crepato, cedendo all’ondata di acqua e fango, seppellendo la piccola struttura e con essa il suo proprietario, che per fortuna  ne uscì sano e salvo.
Ricordo che la stanza era avvolta dalla penombra, rischiarata appena da pochi sprazzi di una livida luce naturale che penetrava dagli interstizi delle persiane sollevate di poco, quanto bastava per vedere cosa accadeva al di là delle sicure mura di casa.
Quando l’edicola venne meno, papà non indugiò oltre, indossò l’impermeabile della sua divisa e scese in strada.
Nel caos che regnava, le mostrine sul bavero e il suo tono risoluto, evitarono il peggio: mantenne la situazione sotto controllo sino all’arrivo dei vigili del fuoco.»
La voce si smorza, ripensando mio padre: mi pare ancora di vederlo sotto la pioggia impartire ordini, ho quasi la certezza  di udirne la voce, un modo tutto suo di scandire le parole, dando loro forma solida.
Lo sguardo interrogativo di Nicolò mi induce a riprendere il racconto.
«Infine, anche il cielo smise di vomitare acqua, i torrenti non ruggivano più, il liquido infernale si ritirò, lasciando cumuli di fango e detriti di ogni genere, una lunga scia di devastazione.
Il giorno successivo, agli occhi della gente si presentavano scene che oggi definiremmo da “day after”: fango ovunque, negozi devastati, macchine trascinate via dalla forza dell’acqua e accatastate l’una sull’altra.
Molti furono gli sfollati, ricordo ancora le immagini del “Biscione” un palazzo di edilizia popolare costruito sulle alture, così chiamato perché nell’immaginario collettivo la sua forma sinuosa ricordava un serpente, era in parte miseramente franato.
Molte scuole, soprattutto quelle delle zone più colpite, rimasero chiuse; mio fratello che all’epoca frequentava la prima superiore, e i suoi amici, autonomamente decisero di andare verso le zone colpite dal disastro per vedere se potevano essere di aiuto».
Rivedo le immagini in bianco e nero del telegiornale e ascolto il racconto di quei giorni che ha fatto mio fratello: avere un fratello maggiore di diversi anni, otto sono quelli che ci separano anagraficamente, è una fortuna, perché è lui la memoria dei miei primi anni, che altrimenti sarebbe andata perduta per sempre, mi sembra ancora di udire la sua voce rotta dall’emozione per il disastro di cui era stato testimone.
«Ancora nessuno si era organizzato, eppure soprattutto i più giovani erano già per le strade a spalare via fango con quello che avevano a disposizione, forse anche con le mani.
Nei giorni successivi giunsero i camion delle forze armate statunitensi da Camp Derby, la base vicino Pisa: i volontari così si ritrovavano davanti al liceo D’Oria, la scuola che anche Faber aveva frequentato, venivano smistati sui vari camion e partivano alla volta delle zone disastrate.
Lavoravano tutto il giorno, fianco a fianco persone che non si erano mai viste, forse addirittura persone che si detestavano, vuoi per idee  politiche o magari solo perché su due differenti sponde sportive: spalavano fango e detriti e quando pensavano di aver finito, ricominciavano perché i locali più bassi, magari quelli sotto il livello stradale, si allagavano nuovamente.
A Voltri i soldati statunitensi avanzavano con ruspe e scavatori meccanici, tanto era il disastro provocato dall’esondazione del Leira.
Si piangevano i morti, 44, e si continuava a lavorare, sulla prima pagina del Secolo XIX, il quotidiano genovese, quando le rotative ripresero a funzionare, comparve un titolo a lettere cubitali: “Genova resiste”.
Questi “angeli del fango”, emuli di quelli fiorentini di quattro anni prima, andarono avanti così per una settimana, poi, le scuole riaprirono e la città lentamente riprese a vivere, ma la gente comune non ha dimenticato, a differenza delle forze politiche che ci governavano.
Molti di coloro che di quelle scene ne hanno solo sentito parlare, o hanno visto fotografie di repertorio, si trovarono a viverle quarant’anni dopo e a ritrovare la stessa solidarietà che in allora aveva accomunato i loro padri: ancora una volta sconosciuti lavoravano fianco a fianco, portando via cuffe di fango in due, perché due sono le maniglie e due dovevano essere le mani che cavavano via la disperazione, così pesante.
La disgrazia di uno era quella di tutti, senza distinzione di classe perché quando la furia degli elementi si abbatte sugli uomini, non è selettiva: in “braghe di tela”, come si dice a Genova, ci resta sia il facoltoso che il proletario, anche se il secondo dopo poi ha vita più grama.
Anche nei giorni seguenti alle alluvioni successive si ripeterono azioni ormai note, con volontari a spalare, a piangere le loro vittime e a inveire contro la politica cittadina che aveva sottovalutato il pericolo che ancora una volta incombeva sulla città.»
Penso a come già in allora si incominciò a riflettere e a interrogarsi sullo sviluppo urbanistico della città, che aveva fatto scempio delle colline retrostanti, ma la lezione non era servita, se ripensiamo ai disastri degli ultimi anni, perché si continuò a costruire in maniera scellerata, senza prestare ascolto alle lezioni che la natura ciclicamente impartiva duramente.
Non si tratta di malasorte quando gli obiettivi del disegno urbano non sono stati curati, né tantomeno si sono considerate alternative progettuali, né previsti gli effetti  e le conseguenze dell’opera umana.
Eppure le parole pronunciate da Einstein, a proposito della bomba atomica, avrebbero dovuto illuminare chiunque: “non ho mai visto nessun topo costruire una trappola per topi”…
Ma l’uomo fatica a intendere e quando l’acqua torna con violenza inusitata, come nel 2011, reclamando anche le sue vittime, allora comprendi che non vi è rimedio a questa follia.
Qui i miei ricordi sono più vividi: «quel giorno stavo tornando a casa dal lavoro, un fortissimo temporale paralizzò la città, ancora una volta i torrenti che l’attraversano invasero strade e vie, la gente dai piano terra, fuggì sui tetti, acqua e fango avevano invaso le abitazioni.»
«In quell’occasione foste di nuovo presi alla sprovvista.»
«Non è esatto, secondo me si sottovalutò la reale portata dell’evento meteorologico.»
Riprendo a raccontare: «le vie del centro, quelle verso la foce del Bisagno, parevano fiumi in piena, l’acqua correva, portandosi via ogni cosa che trovava sulla sua strada: automobili, bidoni della spazzatura… chi era ai piani alti con il cellulare documentava quello che ancora una volta la città stava subendo.
Era il 4 novembre, una data che, decisamente, dovrebbe essere un monito: dalla mezzanotte alle 13 era caduta un terzo della pioggia che normalmente cade in un anno.
Pioveva in maniera battente, intorno alle 14 il Bisagno esondò, allagando la zona intorno alla stazione e il quartiere di Borgo Incrociati, in quel momento Genova ha cominciato a affondare: le strade erano invase da fiumi di fango, la città rimase isolata per ore, autostrade chiuse, voli cancellati, treni bloccati; in via Ferreggiano l’acqua aveva raggiunto i tetti delle automobili.
Non avevo preso lo scooter quel giorno, per tornare a casa utilizzai un ascensore che sale nel ventre della collina, quasi fino a dove era la mia abitazione, le poche centinaia di metri rimanenti le feci a piedi, giungendo a casa bagnata sino alla biancheria.
Quel pomeriggio, preoccupata, telefonai ai miei amici che abitano in una casa indipendente non troppo distante da uno dei torrenti esondati: la mia amica mi rispose dicendomi che avevano messo dei sacchi davanti la porta di casa, staccata l’energia elettrica e lei e i figli si erano rifugiati al piano superiore…quanta similitudine con il tuo racconto del 4 novembre 1966!
Alle 14 smise di piovere, restavano ancora una volta solo fango e detriti, automobili accatastate le une sulle altre, urla di rabbia e pianti di di disperazione, ma soprattutto quattro donne e due bambini, immobili in mezzo al fragore dell’acqua che nella sua corsa, rapacemente artiglia ogni cosa, anche la vita.
Ma non è finita qui, pare a che a Genova l’alluvione non finisca mai.»
«Cosa vuoi dire?»
«Nel 2014 la città affogò sotto due metri d’acqua, travolta dalla furia delle correnti, devastata dalla piena dei torrenti esplosi in poche ore.
Pioveva dalla mattina, ma l’allerta non fu mai diramato.
La fase critica si ebbe intorno alle undici e mezza di sera, quando esondarono i torrenti ormai tristemente noti: il quartiere di Borgo Incrociati, che nel 2011 era stato alluvionato, fu evacuato, diverse zone della città rimasero prive di energia elettrica.
Il mare si fece incontro al torrente Bisagno: il torrente era molto ingrossato e poiché non poteva sfociare liberamente, allagò la zona intorno al quartiere della Foce e il mare in tempesta valicò gli scogli a difesa dell’area urbana; mia figlia mi ha raccontato che in quell’occasione dall’alto del terrazzo di casa della sua amica del cuore era possibile vedere le due masse d’acqua venirsi incontro.»
Ricordo di aver pensato in quel momento al fenomeno rarissimo che avviene in caso di diversa densità delle acque: due mari si incontrano senza mescolarsi mai, ma quello è un fenomeno naturale e straordinario questo fu si, un fenomeno, che però di affascinante non aveva nulla.
7
L’acqua però è sempre in agguato e pazientemente erode coste, lambisce sabbia, vomita alghe e tronchi, poi attende il momento giusto per riappropriarsi della città e questa volta lo ha fatto altrettanto brutalmente di 53 anni fa, almeno è quanto è avvenuto il 12 novembre scorso qui in laguna.
Per quel giorno il centro maree aveva previsto una quota di 145 centimetri.
Nicolò, come innumerevoli altre volte, si era preparato e avviato con suo fratello verso Burano, mentre sua sorella, che vive a Mestre, era già sull’isola a attenderli.
Era tutto pronto, i casseri montati nei giorni precedenti, si trattava solo di aspettare, come sempre.
Mi aveva già raccontato come si trascorreva l’attesa della marea.
«La prima difesa è anche la più antica,» mi aveva spiegato, «si tratta di porre un asse davanti alla porta di casa che viene sigillato con gesso a presa rapida.»
«Una specie di mini mose,» lo interruppi.
«Si, ma questo funziona,» mi rispose, poi riprese a spiegare.
«Anche in questi momenti a Burano non è mai venuto meno il sentimento di coesione sociale e di solidarietà, i piano terra sono illuminati, le porte spalancate e si scambiano considerazioni con i dirimpettai o i casuali passanti.
Così “se speta” l’ineludibile piena della marea: che la difesa a oltranza della propria abitazione dai flutti, abbia inizio.
Puoi leggere sul volto di ogni buranello una serenità mista al fatalismo, che è proprio di coloro i quali accettano l’”evento” come inevitabile, una rassegnazione che, per citare Proust, è la modalità dell’abitudine che permette a certe forze di accrescersi: è forse questa la forza che contraddistingue questi isolani, è l’arma con la quale combattono l’acqua alta  e i disagi che provoca.
L’acqua salsa e di fogna tracima dai tombini, inevitabilmente si infiltra attraverso i muri perimetrali e dai pavimenti, è il momento di attivare le pompe aspiranti che conterranno l’acqua all’interno dell’abitazione a un livello accettabile: l’acqua putrida ancora una volta viola gli interni delle case e la storia si ripete, ogni volta il medesimo copione… infine la marea pare arrestarsi e incomincia il lento deflusso; riecheggiano per l’isola i colpi di martello che abbattono le tavole all’ingresso, è il segnale che sta per iniziare l’ultima fase, si lavano e si asciugano i pavimenti.
Le luci a poco a poco si spengono, a breve sarà giorno e la vita riprende il suo corso.»
E io penso che spesso è notte quando l’acqua cresce, sembra voler approfittare del buio, pensando di cogliere gli uomini di sorpresa, vigliaccamente, alle spalle.
In questa occasione però Nicolò ancora non sapeva che cosa lo attendesse, anche se già lo paventava: in vaporetto verso Burano vedeva le bricole quasi sommerse del tutto.
Eccola, l’acqua aveva già allagato la piazza, la statua di Galuppi pareva ergersi come un monolite su una distesa liquida in fermento, che si stava appropriando di spazi e anfratti, lambiva i gradini degli ingressi di abitazioni e negozi.
Altre volte le previsioni non erano state rispettate e la marea non era salita oltre i 125 centimetri, la soglia di sicurezza, lasciando indenne l’abitazione, ma non era stato questo il caso.
Alle dieci di sera la marea avrebbe dovuto toccare il picco massimo di 140 centimetri, invece aveva continuato a salire: minacciosa, inesorabile, ha aggredito l’abitazione.
L’acqua aveva iniziato a correre, si era alzato un forte vento di bora che la increspava e rendeva ancora più pericolosa.
Il cassero minacciava di non essere più sufficiente: se l’acqua avesse tracimato, la paratia l’avrebbe trattenuta in casa, trasformando quella che doveva essere una difesa, in un’arma di offesa.
Nel buio completo che avvolgeva l’isola, solo le luci all’interno delle abitazioni emanavano una lieve sensazione di calore, di non abbandono.
L’acqua aveva iniziato il suo assalto, fuoriusciva dalle fughe tra le piastrelle e dagli zoccoli delle pareti, impregnando i muri, risaliva dalle fondamenta spandendosi, strisciando furtivamente sul pavimento, era ora di mettere in funzione la pompa: la porta di casa venne spalancata, aprendo un varco al gelido vento del nord.
In calle la marea continuava a montare, a un certo punto fu chiaro che solo un cassero non sarebbe stato più sufficiente, era necessario rinforzare la barriera, ma con cosa?
Dario si avvide di un asse di legno che stava galleggiando davanti casa, portato dalla forza dell’acqua: l’istinto prevalse sulla paura, scavalcò il cassero che bloccava l’ingresso e scese in calle, l’acqua quasi a filo del bordo degli stivali, il freddo che stringeva le gambe in una morsa gelida lo fece restare senza fiato.
Avanzava a fatica, tagliando perpendicolarmente la forza liquida che spingeva, fino a quando raggiunse il relitto e lo prese al volo.
Stringendo la tavola di legno come se fosse un tesoro, percorse a ritroso i pochi metri che lo separavano da casa, Nicolò e sua sorella pronti a dargli manforte qualora fosse stato necessario.
L’asse,dopo essere stata messa rapidamente a misura con delle grosse tenaglie, fu presto saldata al cassero preesistente, il peggio venne dunque scongiurato.
Bisognava ora combattere con la forza che già aveva avuto ragione di ben altri bastioni di difesa e aveva invaso la cittadella assediata.
La pompa non era più sufficiente, occorreva ora fare come in passato, usare secchi e quanti altri contenitori possibili e buttarla fuori a braccia, mentre in calle inesorabilmente continuava a crescere, accompagnata dalla furia del vento che spingeva il mare in laguna: il timore che potesse tracimare oltre la finestra, si faceva di minuto in minuto sempre più reale.
La corrente elettrica venne meno e con essa il supporto fornito dalla pompa che divenne un oggetto inutile.
Nel buio profondo, il silenzio rotto dalle raffiche di vento e dalle voci concitate provenire dall’interno delle abitazioni, dove era in atto il tentativo estremo di arginare quell’esercito liquido che tentava di sgretolare le ultime difese, chi aveva memoria, tornava a quella battaglia di 53 anni prima, già consapevole dello scenario che sarebbe apparso il giorno successivo, quando nella tranquillità che segue e poi anche che precede la tempesta, si perlustrano i luoghi della devastazione.
Lavoravano senza sosta, affacciati dalla porta e dalle finestre, osservando l’acqua che pericolosamente lambiva i casseri, buttavano fuori acqua a secchiate, una situazione che aveva del surreale, e il vento da nord continuava a soffiare.
«Mettiamo in sicurezza il frigo e la lavatrice», l’urgenza nella voce di Nicolò: Dario rapidamente calò due sedie dal tavolo e non senza fatica, trascinò sopra di esse frigorifero, mentre suo fratello, uscito nella piccola corte interna, aveva raggiunto il bagno di servizio e aveva fatto altrettanto con la lavatrice, che l’acqua già lambiva, spostandola sopra il gabinetto; questa volta almeno gli elettrodomestici non sarebbero andati persi.
«Mamma, cosa fai sulle scale? Vai di sopra o ti ammali, che qui fa freddo,» il tono esasperato di Michela, nel tentativo di convincere la formidabile matriarca a abbandonare il campo.
Poi, dopo le 23, quando le forze già stavano venendo meno, improvvisamente, proprio come nel 1966,  il vento ha smesso di soffiare e la marea, questa volta lentamente, ha cominciato a ritirarsi.
Allora anche il ritmo ha cominciato a calare, si è iniziato a dare tregua alla schiena dolorante e ai muscoli irrigiditi che sembrano prendere fuoco: «non siamo più giovani,» è il commento un po’ ovvio di Michela, che si ferma per prendere fiato, appoggiandosi alla scala che dal tinello porta al piano di sopra: le sedie sono ancora rialzate sul tavolo, ora bisogna iniziare a ripulire.
Burano ha retto l’assalto ancora una volta, ma le previsioni per i prossimi giorni non lasciano ben sperare.
8
Ero rimasta in casa: avrei voluto accompagnare Nicolò a Burano, ma lui ha preferito di no, ha detto che essendo inesperta sarei stata più di intralcio che di aiuto: non aveva torto, ma mi sono sentita in colpa ugualmente.
Controllo continuamente e in modo spasmodico l’applicazione sul cellulare, vedo la marea che continua a crescere, il tempo scandito dal suono del messaggio che fornisce gli aggiornamenti in tempo reale.
A Burano non ne sono al corrente, ma la situazione in città è drammatica, si teme un altro 1966.
Seduta al computer osservo i video postati sui social: sembrano scene di un film, di quelli catastrofici, un fiume in piena ha invaso via Garibaldi, la riva degli Schiavoni e il Lido sono flagellati dalle onde, piazza San Marco sembra una enorme piscina, la basilica riflette la sua mole nell’acqua increspata dal vento che spira tra le colonne delle Procuratie, mentre il salso corrode colonne e sbriciola pavimentazioni, all’interno della chiesa l’acqua ha toccato il metro, la cripta è sommersa.
L’acqua non si ritira, spinta da raffiche di vento a 100  chilometri l’ora, che staccano le imbarcazioni dagli ormeggi e le scagliano sulle fondamenta che si frantumano sotto il peso, mentre le onde demoliscono ringhiere e parapetti: ancora una volta si è appropriata con prepotenza di ogni cosa.
Il vento ruggisce rabbioso anche qui sul litorale, il mare sembra arrivare fino in casa, a un certo punto è il black out, i mobili sulla loggia esterna si spalancano e sbattono con forza, temo addirittura che possano essere scaraventati a terra, ma l’urgenza ora è un’altra.
A tentoni cerco la torcia nel cassetto, poi esco nell’atrio del condominio per controllare il contatore, sperando che il calo di energia non sia dovuto a cause esterne.
Per fortuna è sufficiente alzarne la leva e la luce inonda nuovamente il soggiorno: la vedo filtrare dal vano della porta rimasta aperta.
Sento il mare che ancora si infrange con accanimento sulla battigia, la porta finestra spalancata, mentre cerco di fissare i mobili esterni, osservo la furia degli elementi, il cielo rischiarato da lampi, un forte odore di salsedine mi colpisce le narici.
Mi pare quasi impossibile che l’Adriatico, così poco profondo e dall’onda lunga, possa essere altrettanto letale quanto il Tirreno.
Penso al marito di Michela e alla moglie di Dario che, come me, sono rimasti a casa: è una preoccupazione identica quella che ci accomuna, ci avvicina in un abbraccio gelido e al tempo caldo, che sa di fratellanza, nonostante la distanza fisica.
È quasi mezzanotte e il peggio sembra essere passato.
L’acqua pare ritirarsi lasciando dietro di sé danni incalcolabili e una scia di polemiche che da domani, anzi oggi, rimbalzeranno ovunque.
Sono le 4 del mattino e Nicolò è finalmente rientrato a casa,  stremato, ha bisogno di lavarsi, per togliersi via l’odore di fogna che si sente addosso, e di riposare un po’, perché la battaglia non è terminata, l’assedio continua: Michela è rimasta a Burano, tra poche ore anche lui sarà nuovamente lì.
Una breve sosta, il riposo che pare duri quanto un battito di ali e e via di nuovo, anche se oggi la situazione è decisamente più gestibile, “solo” 144 centimetri alle 9 e 30 del mattino.
In città intanto è iniziata la conta dei danni, ma l’acqua non dà tregua, l’assalto prosegue ancora il 15 e il 17 novembre: si continua a combattere, l’acqua lambisce il secondo cassero sulla porta di casa a Burano e una seconda pompa è stata acquistata perché una sola non era più in grado di mantenere il livello dell’acqua all’interno a un limite accettabile, mentre la calle ancora una volta si è trasformata in piscina.
Anche questo assedio si conclude e mentre cala la sera, una foto mi giunge tramite watsapp: lungo le fondamenta intorno a Rialto, l’acqua che ancora sfiora la pavimentazione, pare uno specchio su cui riflette un cielo che si tinge di azzurro e rosa e su cui si staglia il biancore marmoreo del ponte.
Quattro sono stati gli eventi di marea eccezionale uno in fila all’altro, ma i veneziani non demordono e ecco la storia che si ripete, come nel 1966 a Firenze e qui a Venezia, come nel 1970 e nelle alluvioni successive a Genova, sono sempre loro, che con le scuole chiuse, si affacciano nelle calli devastate, avanzano di casa in casa, di negozio in negozio, trascinando via sacchi, spingono carrelli colmi di spazzatura, aiutano a spostare mobili, è l’altra faccia del disastro, quella che forse non ti aspetti, quella solidale, di una gioventù bella e forte e allora forse si può pensare che non tutto è perduto.
E nonostante la marea, anche con l’acqua alle ginocchia, a Burano i vaporetti hanno continuato a scaricare turisti, soprattutto orientali: vagano con una improbabile andatura per via dei calzari in plastica, tra le calli e la piazza, scattando foto e selfie, incuranti, o forse semplicemente inconsapevoli del dramma che da giorni questa gente sta vivendo.
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Acqua di spilli fitti dal cielo e dai soffitti
Acqua per fotografie per cercare i complici da maledire
Acqua che stringe i fianchi tonnara di passanti
È il 19 dicembre e sono in viaggio per Genova dove trascorrerò il Natale con mia figlia e ciò che rimane della mia famiglia, mio fratello, mia cognata e mia nipote: una tradizione che si è instaurata da quando ho scelto di lasciare la città.
Sono arrivata a tarda sera, dopo un viaggio estenuante, in autostrada ho trovato pioggia, ma per fortuna a Genova al mio arrivo le strade sono asciutte, nonostante l’allerta rossa, la pioggia qui non è ancora arrivata.
Un accogliente tepore pervade il mio piccolo appartamento, grazie al mio fratellone.
Il letto mi ospita in un morbido abbraccio e subito il sonno mi cattura, sprofondo nell’oblio e non ho idea, non odo nulla, non so se nella notte abbia piovuto o meno.
Il venerdì mattina però sulla città si abbatte una pioggia torrenziale.
Ho trascorso parte della giornata in visita agli ex colleghi: la pioggia non ha mai cessato di flagellare strade, palazzi e persone; non vedevo l’ora di rientrare, togliermi gli indumenti bagnati e, per scaldarmi, buttarmi ancora una volta sotto l’acqua, lo scroscio di una doccia bollente: ho anelato questo momento da quando, abbandonato il “Matitone”, l’alto grattacielo dove si trovano gli uffici comunali, ho percorso a ritroso la strada verso casa.
Indugio a lungo, tanto che il mio piccolo bagno scompare in una nebbia di vapore, lo specchio è appannato, il mosaico alle pareti umido, quasi non si respira e devo aprire la finestra: dallo spicchio di persiana sollevata vedo e sento la pioggia che continua a battere ininterrottamente.
La sera si alza un vento impetuoso: non riesco a prendere sonno, sento il vento cozzare contro le mura in pietra della mia abitazione e strapazzare le persiane, più di una volta ho temuto che una o più d’una potessero essere scardinate e cadere nel giardino sottostante.
Sento la pioggia variare di intensità, mi alzo più volte per scrutare dai vetri, temo già la mattina dopo di uscire e trovare alberi schiantati, moto rovesciate a terra… non sarebbe la prima volta, dai vetri osservo la pioggia che a tratti scende con violenza, quasi non si vede oltre la fitta cortina d’acqua, proprio come 49 anni fa, ma ora nel buio della mia stanza sono sola, o forse no...
Per fortuna il tempo pare essere clemente: esco presto, il sole non si è ancora levato del tutto e dalla piazza che affaccia sulla città bassa si può godere di uno spettacolo raro quanto speciale, la vista della Corsica: succede, quando l’aria è limpida e il tempo asciutto, assomiglia un po’ al fenomeno dello “stravedamento”, quando il Paron de casa, il campanile di San Marco, pare così vicino alle Dolomiti che sembra si tocchino, ciò accade quando in laguna l’aria è particolarmente tersa e limpida, non vi è presenza di umidità e la mancanza di rifrazione è favorita dai venti che allontanano la foschia. È così possibile una visione nitida dell’orizzonte e la percezione di avvicinamento.
È quanto probabilmente avviene anche qui, penso che in fondo queste due antiche repubbliche hanno molto più in comune di quanto si possa pensare.
Sorrido, non certo i caratteri di genovesi e veneziani, anche se entrambi sono caparbi e audaci, ma in fondo se una genovese ha stravolto la propria vita, ha abbandonato la Superba per la Serenissima, all’età di 54 anni, forse, a parte i fattori sentimentali, qualcosa che le rende simili deve pur esserci.
Anche Genova ha perso il colore grigio degli anni Settanta per tornare a essere una città piena di luce e tonalità, soprattutto nel centro storico, che continua a stupirti, quando cammini per i caruggi e alzi gli occhi e noti un portale riccamente scolpito, un’edicola votiva, una bifora su cui non avevi mai posato prima lo sguardo, o ancora, un melograno nato spontaneamente su uno stretto balcone, aggettante su un portone monumentale...
Come a Venezia la laguna è stata il suo baluardo contro ogni nemico della Serenissima, qui, l’insieme delle fortificazioni collinari, che fanno da corona alla Superba, rappresentano il suo baluardo e oggi un elemento di valore storico e paesaggistico eccezionale.
E se a Venezia respiri l’odore del salso, magari misto a quello dell’acqua marcia, qui in mezzo ai vicoli, l’odore del mare è un tutt’uno con i profumi delle sciamadde, le friggitorie, dove puoi trovare la farinata appena sfornata, la panissa croccante dal cuore morbido, o i rombi di latte dolce fritto, oppure con quello dei panifici, con il profumo della focaccia calda che con il cappuccino… fa inorridire chiunque non sia genovese, ma chi prova, poi torna.
E come a Venezia passeggi tra i pochi banchi del mercato di Rialto, retaggio del tempo che fu, quando la Serenissima dettava legge sul mercato, tanto che Shakespeare fa dire all’ebreo Shylock  “what news on the Rialto?”, qui ti muovi in un “bailamme” 5  di colori, suoni e olezzi del mercato orientale, destreggiandoti tra i banchi di basilico odoroso e spezie secche altrettanto odorose...
Così se a Venezia ti lasci guidare lungo il Canal Grande, gettando un occhio ora su una riva ora sull’altra, ammirando palazzi dalle architetture ardite e elaborate, a Genova attraversi Strada Nuova, dove sui masegni che oggi tu calpesti, i nobili genovesi del Seicento, proprietari dei lussuosi palazzi che fiancheggiano la via, tenevano le loro feste: Strada Nuova, la stessa che Madame de Staël paragonò proprio al Canal Grande, qui “i palazzi si toccano tanto sono vicini e passando dalla strada si vedono i soffitti patrizi tutti dipinti e dorati”, le parole di Gustave Flaubert riecheggiano nella mia memoria.
Mentre mi aggiro riappropriandomi della mia città, sono consapevole che anche oggi però a Burano si combatte e so che si combatterà anche domani: la marea non conosce il Natale, non comprende il desiderio di normalità che alberga in queste persone, stanche di trascorrere le loro giornate a tirar su acqua, disinfettare, si perché l’acqua alta che diverte tanto i turisti è acqua sporca, di fogna,  e infine asciugare e asciugare ancora…
L’acqua continua a far parlare di sé, non dà tregua, anche se so che in casa riescono a contenerla, per fortuna il tempo è clemente: il sole illumina l’isola e l’alta marea acquista inusitati colori pastello, frutto del riflesso delle abitazioni.
Uno striminzito albero di Natale resiste all’assedio, arroccato sul suo piedistallo, come un naufrago sopra uno scoglio nel mare in tempesta.
È vero che sono abituati a convivere con questo fenomeno, guardano con diffidenza al MOSE, che non potrà mai funzionare perché gli manca l’accento: non perdono il sorriso né la voglia della battuta anche nelle situazioni peggiori, hanno preso alla lettera il consiglio del loro sindaco-filosofo che li invitava a comprare gli stivali di gomma perché l’alta marea fa parte del dna della città, ma forse ora è troppo, non può bastare lo spirito di collaborazione né la solidarietà, i residenti sono ormai un numero residuale, un baluardo sempre più risicato contro la natura e gli uomini che la violentano.
Natale però, finalmente arriva e con esso il regalo più bello, termina il continuo flusso della marea: l’acqua, che pareva nascere, crescere e vivere dentro la città, alimentandosi dalla città stessa, stanca, ha deciso di ritirarsi e permettere a questa popolazione di ricominciare a vivere o forse è meglio dire, sopravvivere.
«E dopo giorni di servizi televisivi che hanno portato alla ribalta Venezia e la sua fragilità, anche a livello internazionale, nessun quotidiano ne parla più, la notizia è vecchia, superata, i politici hanno fatto passerella, si sono presentati davanti alle telecamere, maggioranza e opposizione, ora basta.
Nessuno ha riconosciuto che solo grazie alla loro forza di volontà, i veneziani hanno ripreso una vita normale, fatta di lavoro, ma anche di disagi, che molti pontili ancora oggi non sono stati ripristinati e alcune ferite, le più visibili, sono sotto gli occhi di tutti, come alcuni tratti delle balaustre marmoree di Riva degli Schiavoni ancora divelte e il monumento alla Partigiana che rischia di essere perso.
Venezia è dunque tornata alla normalità, come si dice: “passata la festa gabbato lu santo”,» riflettevo a alta voce con le mie giovani amiche Sara e Stefania che, sedute con me davanti a un aperitivo in un locale storico dei caruggi genovesi,  in questa sera della vigilia di Natale,  mi  domandano come fosse la situazione in città.
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La breve vacanza è terminata, Genova è ancora una volta dietro di me, senza nostalgia, perché in realtà quando torno nella mia città, provo la sensazione di non averla mai lasciata e che per quanto Venezia e il luogo in cui vivo, così speciale, tra mare e laguna, cielo, terra e acqua, Genova è e sarà sempre la mia città.
È una consapevolezza tutta nuova, che si fa strada mentre il treno viaggia verso est e lascio alle mie spalle mattine di albe rosso fuoco che si tuffano in un mare turchese: ho fugato qualsiasi dubbio che ancora potesse albergare dentro di me, ora so che si può continuare a amare la propria città senza rimpiangerla e vivere e amare contemporaneamente un altro luogo.
Il viaggio è quasi concluso, il treno rallenta la sua corsa, la terraferma è alle mie spalle, sono sul ponte della Libertà e come ogni volta mi avvolge una sensazione di libertà: libera dall’incoerenza della terraferma, sono nuovamente in un limbo, un luogo – non luogo, che ha mantenuto un tempo tutto suo, quasi che sulla Torre dell’Orologio, le ore vengano scandite in modo differente  dal resto del mondo.
Come sempre mi affaccio al finestrino e osservo il profilo della città che si fa sempre più vicino,  indugio a fissare la laguna ora liscia ora increspata dal passaggio di una imbarcazione, fino a quando tutto scompare, fagocitato dai binari e dalle banchine che mi ricordano lo scheletro di una balena: esco dal corpo della stazione e mi avvio verso casa, respirando l’odore della laguna e assaporando una città oggi vivibile;  e la sensazione di essere sospesa nel tempo, di aver attraversato un varco temporale e essere stata catapultata in un indefinito passato remoto, si fa più persistente.
Giungo finalmente alla Pietà per salire sulla motonave, mi sistemo a prua, come sempre, osservando la distesa liquida di fronte a me, costellata dalle bricole che segnano le vie d’acqua ai vaporetti di linea e a tutti gli altri natanti: mi appaiono come scheletri che spuntano dall’acqua, spingendosi verso il cielo, corrosi dalla salsedine e dall’incedere dell’acqua,  alcune sono divelte e galleggiano alla deriva, un altro sintomo della decadenza di una città che la storia ha voluto ricca, elegante e sfarzosa.
Tornano alla mente le parole scritte nel 1962 da Le Corbusier all’allora sindaco di Venezia: egli definiva Venezia “città sacra”, una città compiuta, costruita sull’acqua che la circonda, una città priva di ruote, il più straordinario avvenimento urbanistico, un miracolo.
Affermava che è una città dove anche gli aspetti più irrilevanti, riflessi dal movimento dell’acqua, diventano prestigiosi.
Riteneva che fosse una città da preservare, dove il turismo doveva essere “adorabile, ammirevole, umano”, una città che potesse diventare il luogo da cui nascevano le idee per l’avvenire del mondo…
Parole che stupiscono, se si pensa che sono state scritte 58 anni fa, eppure così attuali, parole gettate al vento.
La malinconia lascia presto spazio allo stupore che sempre si rinnova, quando il cielo incendiato dal rosso del tramonto si tuffa nella laguna piatta che rassomiglia a uno specchio molato, stemperando il colore caldo in toni pastello, quasi raffreddati dall’azzurro terso di alcuni tratti di cielo che si riflette nell’acqua immobile.
Eccomi dunque tornata alla mia nuova quotidianità, il corso normale della vita riprende, si ricomincia il lavoro, si torna a passeggiare tra calli e campi nei giorni di festa, immersi in una bruma sottile che si leva dai canali e invade i selciati, ovattando i suoni e attutendo il rumore dei passi sulle antiche pietre e quando si torna sul litorale, capita di ritrovarsi in mezzo al non colore delle acque e del cielo, che paiono un unico elemento, senza soluzione di continuità, mentre anche l’orizzonte, unica certezza, scompare nascosto da un velo sottile e grigio.
Anche il 31 dicembre arriva e in questa ultima notte dell’anno siamo ospiti della nostra amica Nicoletta in San Giacomo dall’Orio, un appuntamento che è ormai una tradizione: Nicoletta e Ferruccio, il suo compagno, sono amici di vecchia data, trascorriamo spesso piacevoli serate e momenti insieme, Nicoletta oltre a essere un’ospite perfetta, è una donna spassosissima e da persona intelligente qual’è, sa ridere delle sue avventure, che sono sempre numerose, tanto che mi sono ripromessa di iniziare a prenderne nota.
La serata non è per nulla fredda, incontriamo i nostri amici in Campo ai Frari: un aperitivo veloce in piedi, con l’occhio sulla monumentale facciata della basilica al di là del ponte e poi via verso casa, uno splendido appartamento all’ultimo piano di un palazzo del Quattrocento, dove l’acqua del 12 novembre scorso ha invaso l’androne, la corte interna e i locali al piano terra.
Nicoletta è fortunata, ma quella sera ha comunque trascorso ore di apprensione per sua sorella che vive al piano terra a San Giobbe e per la figlia che era a presidiare il suo negozio e lei non poteva essere di aiuto a nessuna di loro perché bloccata in casa dall’acqua che aveva invaso la calle, trasformandola in una appendice del canale limitrofo.
Sono pochi piani, ma le scale hanno una ripidità tale che ogni volta mi sorprendo a pensare che si tratti di scalini da selezione naturale.
Le finestre del soggiorno, di quella che è stata l’abitazione della sua infanzia, affacciano in calle: con la fantasia posso immaginare l’acqua che corre veloce verso il campo, come un fiume in piena tra le case, simile a uno dei torrenti della mia città, che quando si gonfia porta solo disastri e a volte, purtroppo, anche dolore.
È una Venezia insolita quella che abbiamo attraversato: manca la solita calca di turisti, le recenti acque alte hanno frenato l’intenzione di molti di venire per le feste, la città è decisamente più vivibile.
Passeggiare di sera a Venezia ha un fascino impagabile, quando sulla città cala la notte e il Canal Grande si ammanta di luci che riverberano sulle acque, mentre il vociare del giorno lentamente va scemando, trasformandosi in un leggero brusio: sembra quasi di potersi riappropriare delle pietre che la compongono.
Sentire il rumore dei propri passi sull’acciottolato, sfiorare la balaustra lucida di secoli del ponte di Rialto, pensando a quanta umanità e quanta storia l’hanno sfiorata, lambita, vissuta, regala quasi un brivido di piacere.
Torno con la mente a sere lontane, quando arrivavo da Genova nei fine settimana e attraversavo la città buia per dirigermi alla motonave, imbattendomi in spettacoli inusitati, quali la neve che imbiancava le gondole in bacino Orseolo e conferiva un aspetto da fiaba a Piazza San Marco, con la basilica illuminata dalla luna che, come diceva spesso Nicolò per prendermi in giro, qui è più bella che altrove e intanto la Marangona batteva i colpi della mezzanotte, che risuonavano grevi per tutta la piazza.
Poi il tragitto in battello, le ultime luci del Lido alle spalle, mi lasciavo inghiottire dal buio del cielo e della massa liquida, un tutt’uno nel quale l’imbarcazione sembrava venire risucchiata, come un’astronave che impavida attraversasse un buco nero, per riapparire in un’altra realtà, parallela ma differente e uscendo dalle tenebre, alzando lo sguardo, ecco apparire alcune stelle e sempre mi tornavano alla mente poche parole di una canzone, sempre quelle, chissà perchè: “seconda stella a destra, quello è il cammino…”
Chiacchierando ci incamminiamo verso San Giacomo, abbandoniamo i Frari alle nostre spalle, proseguiamo, lasciando alla nostra sinistra la Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, anch’essa immersa nel silenzio, lo splendido portale che apre sulla piccola calle che sembra illuminare con il suo biancore.
Altri ponti e calli, immersi nel buio e in un silenzio innaturale che precede questa ultima notte dell’anno.
In campo, Nicoletta sta ricordando con me i giorni dell’aqua granda del ’66, quando lei quel 4 novembre avrebbe voluto uscire e raggiungere il campo, ma già all’altezza del portone fu fermata dalla marea incombente, quando suo padre perse il suo negozio di alimentari, chè tutto era andato sott’acqua.
Mentre lei parla noto una scritta sul muro, “Il diritto alla città non ha prezzo”: mi sembra che mai come in questo momento quella frase sia pregna di significato.
Provo a fotografare quelle parole, ma è sera, la luce scarsa non aiuta.
In casa osservo la foto, cerco di ingrandirla per leggere il graffito, ma mi rendo conto che le parole sembrano evanescenti, si confondono nel buio: rabbrividisco, perché ho la sensazione che quella sia la loro sorte, invece non devono essere obliate, né rimanere solo un guscio vuoto, o uno slogan scritto in un momento di rabbia.
Forse è davvero giunto il momento che i veneziani reclamino a gran voce questo diritto.
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Acqua che ha fatto sera che adesso si ritira
Passa sfila tra la gente come un innocente che non c’entra niente
Fredda come un dolore Dolcenera senza cuore
atru de rebellâ
â nu n’à â nu n’à 6
L’Epifania, l’Epifania che “tutte le feste porta via”, qui a Venezia si potrebbe parafrasare che “tutta l’acqua si porta via”, perché ora è il periodo delle seche della berola,  e molti canali e rii sono ai limiti della navigabilità e dal fondo riemergono relitti che parlano di comportamenti non proprio corretti: copertoni, carretti, motori di barche…
Venezia ora mi rammenta un sontuoso appartamento ricco di tappeti sfarzosi, che è meglio non sollevare mai.
Oggi siamo nuovamente tra le calli, un lungo giro al di qua e al di là del Canale, complice il ponte dell’Accademia, che unisce le due rive.
La giornata è soleggiata, arrivando alla Pietà, si vedono i palazzi brillare sotto la luce di un sole invernale, un sole che appare più distante e si limita a accarezzare i volti, ancora non stritola i corpi nella morsa della canicola estiva, che tra qualche mese si farà più intensa, anche per il calore che le pietre rinviano,  bruciate dai raggi del sole.
Senza fretta ci avviamo lungo la riva, non vi è la solita calca di turisti sul ponte della Paglia che si affannano a fotografare il ponte dei Sospiri, l’immagine più scontata di Venezia.
Venezia è luce ovunque, nel baluginare dei raggi del sole riflessi sui palazzi affacciati sui canali, nella pietra bianca dei ponti, imbucata nella nebbia che acquisisce tonalità calde.
È una luce strana, che si riflette nei canali dai cupi colori indefiniti.
A Venezia bisogna perdersi, girare senza seguire un percorso, seguendo istinto e sentimento e per quanto strano possa sembrare, seguendo rii e canali, torni sempre al Canalazzo, la sua arteria pulsante, dove i sontuosi palazzi fanno a gara per catturare la luce e a ammantarsene, creando strane immagini distorte sul pelo dell’acqua, dove si specchiano come donne seducenti.
Ogni volta è una sensazione nuova, diversa, che rapisce gli occhi e il sentire dell’anima.
La piazza ci accoglie inondata da una luce pacata, i faticosi giorni di aqua granda per ora si possono lasciare alle spalle, inizia il tempo nuovo.
«Siamo fortunati,» dico all’improvviso, Nicolò annuisce, comprendendo il mio pensiero, tanto che non aggiungo altro, mi guardo intorno, per immergermi ancora una volta nella bellezza che ci circonda.
Sono consapevole però che ogni assalto eroda un po’ di più questa bellezza: il salso silente che risale pietre e mattoni, a ogni assedio lascia un segno, forse non tangibile nell’immediato, tanto che pare sempre di risvegliarsi da un brutto sogno, ma il tempo che rimane è sempre meno.
«Venezia è una città in bilico tra i compromessi e i tradimenti di una contemporaneità complicata, che sta sacrificando ciò che di bello esiste in natura e ciò che di affascinante l’uomo ha saputo realizzare, in nome del progresso. Resteranno solo i relitti di un grande passato, per usare le parole di Alvise Zorzi,» riflette a alta voce Nicolò.
«Nel mio immaginario Venezia è come l’aveva dipinta e pensata nel suo “Trionfo” il Veronese.
La vedo come una donna dalle forme opulente, il cui incedere nella storia appare come un fastoso corteo, in cui nel silenzio riverente, si ode il fruscio di sontuosi abiti di damaschi e broccati, simile alle vibrazioni prodotte dalle pigre movenze di una gondola lungo il Canal Grande.
Quello però è ormai il retaggio di un tempo che fu, oggi il simbolo di Venezia è il vaporetto scaraventato sulla Riva degli Schiavoni dalla furia delle onde. È una città abbandonata in balia degli elementi scatenati dalla follia umana: mai come oggi Venezia è tanto simile a don Abbondio, un “vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro”.»
«Forse è così, Venezia è fragile come il vetro e delicata come un merletto, ma ha cuore e animo saldi come il caranto su cui poggia e  a ogni assalto dell’Adriatico, questa comunità, nonostante tutto, riafferma la propria voglia di vivere.»
«Resilienza.»
«Cosa?»
«Resilienza, è la capacità di un individuo di affrontare e superare un periodo di difficoltà o un evento traumatico: i Veneziani sono resilienti da secoli, prima la peste, nel 1348, poi ancora nel 1423, nel 1576 e infine nel 1630, in mezzo, per non farsi mancare nulla, la guerra della Lega di Cambrai tra 1508 e 1516…» Nicolò annuisce, riprendo il mio ragionamento: «da giugno sarà operativo il MOSE, ma cosa accadrà alla prima alta marea che dovrà affrontare? Ammesso che funzioni, dal momento che fino a oggi sono state effettuate prove solo in condizioni meteorologiche ottimali, cosa accadrà quando l’acqua non potrà irrompere in laguna per via degli sbarramenti?
E comunque è progettato per maree di una certa importanza, pochi centimetri e le paratoie non si solleveranno, il che vuol dire che il problema per i siti più bassi della città, come San Marco, non è risolto.
Inoltre è una struttura dal forte impatto ambientale per la laguna, perché limiterà oltremodo il ricambio di ossigeno già limitato di questa massa liquida…»
Nicolò non commenta quest’ultimo aspetto, si limita a rispondere al mio primo quesito: «conosci il principio dei vasi comunicanti? L’acqua non torna certo indietro, deve pure trovare uno sfogo e quindi irromperà sui litorali, è una banale legge fisica, non bisogna essere scienziati per comprenderlo.»
Un brivido mi assale e ripenso alle parole della mia amica Jole, che vive a Treporti, quando mi ha raccontato dell’alluvione del ’66: “Io ho tanti ricordi dell’alluvione del ’66. Avevo 12 anni, frequentavo la seconda media; i miei genitori avevano terreni e un allevamento di maiali.
Per fortuna nei giorni che precedettero l’alluvione ne erano stati venduti più di trecento, ne rimasero circa una settantina e furono salvati dal morire annegati, perché disfammo i pagliai e con le balle di paglia coprimmo i pavimenti della porcilaia, alzandoli di mezzo metro.
I miei ricordi di quel giorno sono nitididissimi: in casa l’acqua non arrivò, solo alle sei di sera il passaggio dei mezzi anfibi per il canale di Saccagnana, provocò delle onde e l’acqua raggiunse casa, ma si ritirò subito.
Tra conigli e pollame morirono annegati più di 250 capi, perdemmo tutte le piante da frutto e come noi tutti i coltivatori, da Treporti al Cavallino, così mutò la tipologia agricola del territorio.”
Penso che ci vorrebbe il coraggio di ammettere il fallimento di quest’opera faraonica, che sarà una continua emorragia di denaro pubblico e di smantellarla, per permettere alla natura di tornare alla normalità, di lasciare che la laguna riprenda il sopravvento e pensare a un’opera meno impattante, meno dispendiosa e che non solletichi la cupidigia umana.
«E se l’acqua superasse le paratie?» Domando.
«Raccomandiamoci a Dio, forse è tornato il momento di ricominciare a credere.»
Lasciamo l’Accademia, dove ho rinfrancato il mio spirito tornando a ammirare la Tempesta di Giorgione, e poi Tintoretto, Veronese, Carpaccio, Bellini e lo splendido restauro delle storie del Martirio di Sant’Orsola.
Procediamo lungo le calli, in un silenzio quasi innaturale per Venezia, camminiamo assaporando il piacere di riappropriarci della “nostra” città.
«È di questo che Venezia ha bisogno, di un turismo consapevole, lento, o per usare un termine contemporaneo, slow,» rifletto a alta voce, guardandomi in giro.
Nicolò non ribatte, forse non ha nemmeno udito il mio commento, immerso nei suoi pensieri.
Dinanzi ai Frari si snoda una lunga coda di persone in attesa di entrare, che giunge sino al ponte.
L’attesa però non è lunga, il tempo di un caffè nello stesso locale che ci ha visto la sera dell’ultimo dell’anno in compagnia di Nicoletta e Ferruccio, ecco che le porte della basilica si spalancano e la piccola folla viene risucchiata all’interno.
Avanziamo lungo la navata centrale attraversando l’imponente coro ligneo e ci accomodiamo su una panca, proprio di fronte alla riproduzione dell’Assunta del Tiziano in restauro a causa dei tarli: non importa, l’effetto è ugualmente imponente e scenografico.
La chiesa è gelida, un soffio di aria fredda si insinua tra sciarpa e cappotto, mi stringo gli indumenti attorno al corpo, alzo il bavero, mi domando come facessero in passato con il solo tabarro, ma la mia è una domanda che resta senza risposta, inizia il concerto.
Nell’imponente scenario dei Frari, la musica di archi e violini si leva dall’altare e all’improvviso il freddo che ci attanagliava pare dissolversi.
Le note del concerto di Natale di Corelli evocano la speranza, mentre la Pastorale di Tartini, con il suo violino discordato che ricorda il suono delle cornamuse, esprime l’esplosione della rinascita.
Ed ecco le note del Magnificat del buranello Baldassare Galuppi: le voci del soprano e del coro riempiono la chiesa, salgono lungo le navate, avvolgono le opere che circondano le mura imponenti, paiono vibrare di una nuova vita.
Mi sembra di udire nelle note di Galuppi i colori di Burano fremere sotto i raggi del sole invernale che conferiscono alla luce un tono patinato, mentre anche l’acqua, senza soluzione di continuità tra fondamenta e canale, sembra impregnata dei medesimi colori, come se la mano di un pittore vi avesse sciacquato il pennello.
Non è una preghiera quella che sale al cielo, ma un inno di gioia e di speranza che sembra faccia scuotere la navata, riempiendola di note, sino alla volta della basilica: Venezia è viva.
























NOTE
Storicamente divise per secoli dalla lotta per la supremazia sul Mediterraneo, di cui sono state indiscusse protagoniste, oggi Genova e Venezia sono accomunate dalle loro fragilità.
La fragilità del territorio per la Superba, il cui dissesto idrogeologico provocato da una dissennata politica urbanistica portata avanti in nome del progresso, infine ha presentato il conto: un conto pesante, fatto di vite strappate e danni pesantissimi al tessuto sociale e economico della città.
La fragilità della Serenissima, che sta tutta nella città stessa, che ho descritto fragile come il vetro e delicata come un merletto, dove logiche economiche e politiche hanno volutamente oscurato la delicatezza di un ecosistema unico come quello lagunare, dove solo una piccola percentuale dell’intera superficie è costituito da terre emerse e da barene, che conoscono fenomeni di subsidenza, per il progressivo e naturale abbassamento del suolo e l’innalzamento del livello del mare.
Solo un poeta dei nostri tempi come Fabrizio de Andrè, “Faber”, poteva rendere con i suoi versi l’atmosfera apocalittica di un fiume d’acqua e di fango che invade la città.
“Dolcenera” è dedicata a Genova, ma bene riesce a rappresentare anche il dramma veneziano, perché se a Genova è come una colata lavica che “ammazza e passa oltre”, a Venezia “butta giù le porte” e è “nera di falde amare”.
E per entrambe finalmente si ritira, facendo cessare ogni battaglia per la sopravvivenza: “si risveglia la vita, che  si prende per mano, a battaglia finita”.


ISOLE DELLA LAGUNA
RACCONTO
Mal scuro


L’acqua salsa sa ancora di mare
La speranza cala e poi cresce,
come il mare non la puoi fermare
il futuro si può colorare
(“Ballata per Venezia”
Daniela Biscontin)


Nel 1348 un morbo omicida si diffuse in tutta Europa, provocando la più grave epidemia che il mondo medievale avrebbe conosciuto.
La laguna non protesse Venezia, così come non lo fece nel 1423, nel 1576 e poi ancora nel 1630.
1348 e 1576 furono due anni bisestili, così come il 2020… e il mondo contemporaneo è oggi messo a dura prova dalla più grave pandemia di questi primi anni del Ventunesimo secolo.
È un virus silente, ambiguo, in molti casi il contagiato non ne ha contezza, ignaro untore del nostro tempo, che contribuisce suo malgrado alla propagazione del morbo.
Io lo vedo così.

La quiete dopo la tempesta: Venezia sta faticosamente recuperando se stessa dopo il feroce assalto dell’aqua granda che l’ha invasa tra novembre e dicembre.
La città è ancora scossa, i suoi anticorpi faticano a riprendere il possesso di questo corpo fatto di isole, barene, velme, ghebi e canali, sospeso tra acqua salsa e acqua dolce, cielo e mare, dove il tempo pare scorrere in maniera differente che altrove.
Non è la Venezia che conosciamo, dove le calli straripano di turisti, dove si fatica a attraversare piazza San Marco e superare il ponte della Paglia ha qualcosa di eroico, come l’ascesa alla cima dell’Everest.
In città ci si muove in sordina, quasi domandando scusa.
Si attende la primavera, che non è mai un tripudio di colori, ma si presenta modestamente, consapevole di quanto la natura e l’uomo abbiano reso unici questi luoghi: si limita a rendere più vivida la luce che investe palazzi e chiese dopo la bruma invernale, lasciando alla prepotenza di quella estiva il ruolo di primadonna, quando le barene si preparano a mostrare a chi la sa apprezzare, tutta la forza e caratterizzazione della loro tavolozza, che da agosto a fine ottobre è  un tripudio di azzurro viola, che sconfina in dense e brillanti tinte rossastre.
È una natura che fa da contraltare al biancore accecante dei marmi e alle tinte metalliche dei masegni che rivestono i fabbricati e le vie della città.
Ma un pericolo è in agguato, a un occhio attento parrebbe di vedere un leggero sbuffo di fumo che si muove circospetto.
Va strisciando per calli e campi, subdolamente si insinua tra le persone, le ghermisce mentre ignare camminano, vivono la loro quotidianità, si intrattengono con i loro simili, allora le spire sembrano sfilacciarsi, migrano da un corpo all’altro, replicandosi all’infinito, senza soluzione di continuità.
È così ovunque, forse altrove con maggior virulenza rispetto a questi luoghi, dove l’inconsueta scarsità di presenze turistiche, non consente al maligno soggetto di gettare radici profonde.
Il contagio qui pare diffondersi a fatica, forse il caranto, l’argilla dura e solida che costituisce le basi su cui poggia la città, non consente al virus di penetrare a fondo: questa serpe infida non riesce a attecchire, scivola via, bruciato dall’acqua salsa e soffocato dal sentore di marcio che si leva dai canali quasi in secca, poche sono le sue vittime.
Velocemente si sposta con le sue sinuose movenze, sfiora l’acqua scura nelle notti buie e senza luna, quando meglio può occultarsi.
Si sposta verso nord, dove le isole della laguna si stemperano in barene e esigue strisce di terra sabbiosa: anche qui però, nelle isole scarsamente abitate, dove nidificano molteplici varietà di volatili e specie di serpi si sono appropriate di ciò che resta di lembi di terra emersa, o laddove esistono ancora comunità dove forte e radicato è il senso di appartenenza, trova le porte sbarrate.
Non è un terreno fertile, sibila indispettito, avesse i denti digrignerebbe, ma non vuole mollare la presa, è convinto che avrà la meglio anche su questa parte del genere umano.
È figlio di una natura irata, stanca di essere assediata, vituperata, offesa dalle azioni dell’uomo, e quindi ha inviato questo suo vile ambasciatore per metterci in guardia.
Forse è un modo per riportare l’equilibrio in un mondo che ha perso di vista valori importanti.
In una fase in cui il cambiamento climatico ha assunto livelli preoccupanti, i paesi maggiormente industrializzati e quelli emergenti sono costretti a fermarsi.
In un momento in cui una politica meschina e discriminatoria che credevamo di esserci lasciati alle spalle, sotterrata dalle macerie del secondo conflitto mondiale, la natura ci costringe a sperimentare su noi stessi, volontariamente, la segregazione e la discriminazione.
Laddove eravamo usi correre, ora siamo obbligati a fermarci, racchiusi dalle mura domestiche, in una bolla a-temporale, in cui non ci è più dato udire lo scandire delle ore, ma percepiamo, amplificato, il battito del nostro cuore e del nostro pensiero, non conosciamo più frenesia, siamo stati costretti a adeguarci al ritmo quotidiano della natura.
L’assenza fisica, la mancanza del contatto, abituati come eravamo a rapporti virtuali, oggi che vige il divieto non solo di avvicinarci l’uno all’altro, ma anche di sfiorarci, fa emergere con prepotenza tutta la solitudine in cui l’uomo contemporaneo è scivolato e viene alla luce con forza quanto quei contatti ci manchino: quanto saremmo disposti a dare oggi per scambiarci un abbraccio, percepire la solidità del corpo dell’altro, il calore avvolgente di braccia che ci circondano, il sentore della pelle quando accostiamo la guancia per un fuggevole bacio di saluto o di congedo?
E ancora: quanti di noi non avevano percezione di come fosse venuto meno il senso di appartenenza alla collettività, pensando ormai esclusivamente a se stessi, a quanto accadeva entro il proprio misero perimetro?
Siamo disorientati, perdiamo fiducia in noi stessi giorno dopo giorno, assediati dal morbo che ci flagella, ma forse è il principio di un nuovo modo di condivisione, di percepire nuovamente l’altro non come avversario, ma come una parte del tutto, quel tutto di cui ora ognuno di noi è tenuto a farsi carico: “take care”, sono le parole che mia figlia ha tatuate sotto il cuore, è ciò che dovremmo avere marchiato non sulla pelle, ma dentro di noi.
Il senso di comunità e di appartenenza sono aspetti del quotidiano che caratterizzano le comunità esigue.
Venezia e le sue isole sono una comunità esigua, dove da anni poche decine di migliaia di combattenti cercano di arginare l’assalto scomposto di questi eserciti di nuovi barbari invasori.
Una comunità che da tempo paga il prezzo dell’assedio sempre più pressante e violento dell’acqua che erode case, monumenti e barene, che corre sempre più veloce e aggressiva.
Una comunità che da giorni ha optato non per la fuga, ma per una ritirata strategica, ha deciso di non cedere al virus e compatta, in silenzio, ha assunto la formazione della “testudo” romana e si è posta a difesa di se stessa.
Senza clamore ha abbandonato campi e calli, in breve tempo la città ha conosciuto una nuova dimensione, il suo suono è cambiato.
Quel composito rumore di fondo, costituito dal ritmo sordo dei trolley trascinati lungo le vie e su per i ponti, il vociare delle comitive, il rombo dei mezzi a motore in Canal Grande o nei rii minori intasati di traffico, a cui ormai l’orecchio veneziano si era assuefatto, tanto da non percepirlo più come dissonante rispetto al rumore proprio della città…scomparso.
I suoni che avvolgevano Venezia, come lo sciabordio dell’acqua che si infrange sulle fondamenta, il suono argentino delle campane, oggi sono riconducibili a un unico assordante silenzio: la città è vuota e parla, parla con il lento movimento delle gondole ormeggiate davanti a San Giorgio, un mormorio che rimbomba tra gli edifici che delimitano bacino Orseolo.
La sua voce racconta la solitudine nel lieve sibilare del vento primaverile che si insinua nei sotoporteghi o nell’irosa voce del freddo vento del nord che a tratti torna a farsi sentire e si incunea lungo le gallerie delle Procuratie, in una piazza San Marco abbandonata anche dai colombi.
È il malinconico richiamo dei gabbiani che risuona salutando il giorno che nasce e la sera che avanza, planando sui tetti o sul bacino di San Marco, fisso come un vetro molato, che riverbera il rincorrersi incessante delle nubi o l’azzurro polveroso del cielo.
E tra queste voci, si leva stentoreo il suono della “Marangona”, a ricordarci che il “Paron de casa” monta la guardia fino a dove giunge il suo occhio vigile.
Tendendo l’orecchio forse pare di percepire in lontananza un grido che riecheggia nella città desolata: “chi gà morti in casa li buta zoso in barca”, ma è solo l’eco lontana delle altre mortali epidemie che colpirono la laguna.
A tratti invece si ode risuonare sul lastricato il passo di chi si affretta verso casa, il respiro accelerato, su e giù per i ponti, suoni che rimbalzano sulle saracinesche abbassate.
Chi sopraggiunge dal lato della canonica, coglie improvviso un susseguirsi di note provenienti dalla basilica che riempiono la piazza vuota e surreale, immagine inverosimile di un contesto incongruo, dove le righe bianche della pavimentazione sono nuovamente leggibili, mentre nel tratto di cielo racchiuso dalla prospettiva delle colonne di Marco e Todaro, si ammassano cupe nubi temporalesche che paiono risucchiare tutto il colore della città.
A quando dunque, poter ripercorrere la lunga prospettiva della Riva dei Sette Martiri che oggi, desolatamente vuota, riflette con maggior vigore la luce del sole a picco sulle lastre di pietra della pavimentazione e pare di sentirla vibrare nei suoi bagliori metallici.
L’occhio coglie lo spazio ampio e vuoto del bacino acqueo, a cui fanno da contraltare le costruzioni che poggiano sulle terre emerse che su di esso affacciano: la luce è mutevole, raggi di sole a tratti coperti da spesse coltri di nubi, creano giochi di ombre che modulano i volumi e le prospettive.
Lo sguardo sosta su Punta della Dogana: rassomiglia a una punta di freccia il cui freddo bianco marmoreo contrasta con il corpo cupo della laguna su cui grava e a ridosso incombe la mole imponente della Basilica della Salute.
La vista saetta quindi sul lato opposto del canale e coglie il baluginio dei marmi che compongono la splendida e lineare facciata del Redentore.
Sui due lati del canale, le due chiese votive raccontano altrettanti terribili momenti vissuti dalla città e la devozione dei veneziani: la luce pare farsi più intensa, scivola su entrambe le chiese, quasi le accarezza, vi indugia, poi, a poco a poco si ritrae, lasciando un alone soffuso, una leggera scia che pare fondere i due edifici.  
Ora, lungo il Canal Grande, silenzioso, dove nemmeno un refolo di vento increspa l’acqua, all’altezza del ponte dell’Accademia, si può scorgere solo il profilo della cupola della Basilica che spicca tra il blu notturno e gli ultimi scampoli di un acceso tramonto.
Avanzando verso Rialto, il buio si fa più fitto e sotto un cielo del colore del lapislazzuli, ammantato di stelle, la luce fredda della luna e quella calda dei pochi lampioni accesi, riflettono sulla calma piatta del canale i contorni di edifici dai toni caldi e vibranti.
Più a nord nella quiete serotina, il medesimo cielo avvolge le abitazioni colorate di Burano, che nel silenzio totale, rotto solo da qualche voce più acuta al di là dei vetri, sembrano farsi più piene, volumetrie a tutto tondo, come in un affresco michelangiolesco.
Nel canale sotto il ponte degli Assassini, con incedere regale, incuranti del nulla che li circonda, una coppia di splendidi cigni nuota rispettando il silenzio del luogo, mentre un attonito gatto nero si guarda intorno, stranito dalla solitudine.
Oltre i contorni di Burano, verso la terraferma, le isole treportine, un territorio dal sapore ancestrale, sospeso tra terra e acqua, mare e laguna, intricato movimento di ghebi, velme, barene e canali, dove il blu dell’acqua si diluisce nel grigio del fango e nei toni caldi e luminosi delle terre emerse, generose di piante selvatiche, sembrano perdere consistenza nel lento avanzare della notte.
Anche qui il silenzio è diventato la voce profonda di questo territorio, che si propaga come un’eco, accompagnata dal suono del vento e dell’onda che si allunga sulla battigia, mentre il tempo pare essersi cristallizzato.
In lontananza, sotto il profilo delle creste innevate appaiono come fantasmi i contorni di Torcello e delle isole limitrofe: il sipario sembra sollevarsi su un remoto passato, fatto di poche abitazioni a ridosso dell’acqua e di lente imbarcazioni che si muovevano con la sola forza dei remi tra secche e canali; dalle nebbie del primo mattino emerge il profilo della chiesa dell’Assunta, mentre una natura sempre più rigogliosa pare voler riappropriarsi di questo territorio che fu uno dei primi avamposti umani in laguna: è la Venezia delle origini, con i compositi paesaggi del suo quieto, millenario arcipelago.
Il paesaggio pare riappropriarsi di questo territorio, dei suoi nuovi severi silenzi, con i suoi nuovi residenti fino a ora marginali, residenti occasionali, venuti da cieli e acque più distanti.
La natura invade la città e i suoi luoghi, le acque dei canali non più smosse dai mezzi a motore che li percorrono, sedimentano sul fondo tutte le brutture, mostrando una limpidezza e una vita inimmaginabili.
Un’anatra nidifica alla fermata del vaporetto, mentre una coppia di germani reali si muove affiancata sulla pavimentazione lungo le fondamenta e un terzo nuota nelle acque trasparenti di un canale, divenuto tela di pittore, dove è riprodotto il profilo di un palazzo, nei suoi colori e forme.
Sui pontili le garzette osservano l’acqua che placida si muove, rinata a nuova vita, mentre alla Giudecca i cormorani sembrano essere divenuti i padroni dell’isola e i gabbiani popolano rive deserte, incuranti degli umani travagli.
Lontano, verso le bocche di porto, delfini salutano questa rinnovata natura.
Non si può fare a meno di pensare che qui, verso il Lido e oltre, verso Sant’Erasmo, erano i due lazzaretti, dove venivano confinati i malati di peste, per evitare la diffusione del contagio: vicino a queste isole, in tempi remoti e altrettanto bui, erano ancorati grossi barconi, simili a una armata che assedi una città di mare, che ospitavano gli appestati che non trovavano spazio negli ospedali, abbandonati a morire uno accanto all’altro, vicini, ma ognuno nella propria solitudine.
Oggi il confino, per i più fortunati, sono le mura ristrette delle abitazioni e affacciandosi dalle finestre, si incontra solo il vuoto silenzioso della calle e si resta sospesi a immaginare l’ampio respiro del bacino di San Marco e respirando profondamente ci sembra di percepire il forte sentore di acqua salsa.
Ogni epidemia alfine è sempre scemata e anche questo virus, pago delle vittime reclamate, abbandonerà i nostri luoghi.
Le perfette architetture, a lungo neglette dalle masse turistiche e che la pandemia ha reso nuovamente percettibili, torneranno a essere una quinta di teatro che verrà colmata con una nuova rappresentazione, più adeguata al tempo nuovo.
Non è il passato che deve essere rimpianto, né dobbiamo immaginare il futuro come un film in bianco e nero.
Se oggi questo mondo ci appare irreale, teniamo a mente che questo mondo è fatto soprattutto di acqua, un’acqua che cala e che cresce, come la speranza e anche la speranza, come l’acqua non la puoi fermare.
Il futuro per noi sarà ancora a colori, la città si risveglierà, come la principessa della fiaba, sfiorata dal bacio di un principe senza nome e tornerà alla vita.
Lentamente, ma inesorabilmente, la quotidianità avrà il sopravvento e il suo fluire lungo canali e calli riacquisterà voce, il sole tornerà a scaldare la pelle, mentre cauti percorreremo nuovamente ponti e campi e ricominceremo a riempire le vie.


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