Serenella Galdiolo
LAGUNANDO 2020 > selezionati 2020

Sono una mamma di 51 anni e lavoro come impiegata.
Scrivo da anni racconti, poesie e filastrocche, soprattutto per raccogliere fondi.
Ho pubblicato due libri ironici sui rapporti uomo/donna.
IL SENSO DELL’AMORE
L’amore non ne ha mai abbastanzadi baci… di carezze…Ritorna bambino…giocoso…e come nel grembo di una madresi protegge dall’indifferenza…L’amore non teme nullase si dissetae raccoglie la sua linfadalle radici del sentimento…L’amore si ricopre di piccoli gestidi emozioni inaspettatecome un raggio di soletra nuvole nere…L’amore deve respiraredeve conoscere…Si tinge ad ogni stagionetante tele tutte diverse…Ad ognuna la sua bellezzaa ciascuna il suo tempo…Ha bisogno di curedi pazienza infinitadi scrosci d’acqua repentinitra corsi troppo quieti…L’amore è come lo costruiscinon come lo immaginima ti stupiscead ogni respiro…E se lo incontriè un battito d’ali leggerocosì intensoda cambiarti al vita.
FOGLIE
L’amore è come una fogliArincorre le stagionIpoi s’adegua…Si assopisce nelle membradi un inverno qualunquee tra la quiete delle lunghe nottiaspetta.E come un germoglio riapparetra i primi raggi di solericoperto di rugiada mattutina…Riscopre il suo profumorinasce di nuovi colorie con l’estatesi accende.Poi… un giorno… per casola luce smette di esisterele notti non sono più ricoperte di stellee le giornate si pieganoad un autunno impaziente.E così l’amore muorecome una fogliadai colori ancora intensi...Si stacca piano dal ramoin silenzio…Ha aspettatoogni giorno un’alba nuovaun altro raggio di sole…Ma il vento è arrivatoad iniziare la sua danzaverso la terradove non voleva tornare..Le stagioni non aspettano…Così un amore rigogliosoè già appassito..Il crepitio delle foglie sotto i piedicosì deciso e ripetutoora lo sente il cuore..e le lacrime scendonocome la pioggiaa dissetare le radici…
LA PAZZIA DI UNA NORMALITÀ
Gesti ripetutiIn un quotidiano incertola voglia di essere diversidi impazzire allegramente.L’acqua del mare sulla facciala sabbia calda sotto i piediil profumo dell’erbaaldilà dell’inferriata.Vorrei sorrideresotto la mascherami manca l’arianon mi riconosco.Le mani non accarezzanonon toccano né sfioranola mente riesce a malapenaa contare Il tempo.Il mondo si è ribellatoha vinto sull’egoismodi noi disumanicogliendo in ogni attimola sua libertà.L’abbiamo barattatatroppe voltequesta sfrontatezzaper nostra madre terra.Ma il sole scalda ancoraIl vento soffia e smuoveI fiori sboccianoIl tramonto dipinge il cieloForse la pazzia che bruciaIn una normalità accanitalascerà il postoad una cosciente umanità.
MARTA
A volte, nella vita, dai tutto per scontato, ti lamenti del caldo, delle abitudini, delle zanzare, della domenica noiosa a camminare, del tempo che non passa mai e la noia, quella interiore, ti attanaglia fino all’osso, togliendoti il respiro.
E non sai dove ti trovi, dove stai andando, non ti manca nulla ma non hai niente, niente di ciò che nei tuoi sogni avevi già immaginato tante volte.
Eppure un giorno, un banalissimo giorno d’agosto, quelli in cui l’asfalto crea i miraggi come nel deserto, in cui l’apatia delle due di un afoso pomeriggio fa da padrona, ho deciso di mettermi in gioco.
L’aria era caldissima, pesante; pedalavo con calma, già affannata per la salita leggera, sudata e convinta di aver fatto l’ennesima cavolata.
Era da parecchio tempo che mi frullava per la testa l’idea di aiutare gli altri, penso sia per non fissare l’attenzione inutilmente su di me, sulla mia patologia fatta di tre singole lettere, con una definizione altisonante in lingua inglese (poco cambia) ma con scarse soluzioni.
Dicono che se ti concentri sugli altri, su chi sta peggio di te, o su chi ha bisogno semplicemente di qualcuno con cui affrontare un percorso di vita, ti ritorna mille volte al quadrato.
E allora quel giorno, invece di stendermi con le gambe all’insù, con gli auricolari e la musica, mi sono buttata, senza riflettere.
Ho alzato il mio corpo stanco dal divano, lasciando il nulla chiuso in una stanza, senza voltarmi.
E sono arrivata, in punta dei piedi, ma, silenziosamente osservavo, emozionata.
Quel palazzo verdognolo, che aveva sicuramente bisogno di una rinfrescata, era un pugno allo stomaco nel contesto generale; si affacciava al fiume, quel fiume così quieto ed azzurro.
I salici piangenti, con i rami piegati verso la riva, non si muovevano, ma sapevo già quanto sarebbe stato bello vederli danzare in un giorno di vento, un dondolio tra le acque in movimento.
Il loro fruscio sarebbe stato il loro canto, e aprendo le finestre, forse, sarebbe entrato anche il quell’edificio desolato.
Vi era anche un vecchio mulino, la ruota girava ancora, e risuonava nel silenzio di un’estate torrida.
Quel tocco di magia, la magia dell’arte creata dalla natura, senza la rovina dell’uomo egoista, è sparito non appena ho varcato la soglia dell’androne freddo e spoglio.
Mi si è presentata tutto d’un fiato la tristezza di una casa di riposo, delle mura di quel verde che ho ritrovato solo all’interno di una sala operatoria anni prima, le stampe sbiadite alle pareti.
Mi hanno accompagnata al piano superiore, ho fatto ogni gradino di quella scala di marmo col cuore in gola, mi sembrava di essere piombata in un'altra epoca, non sapevo cosa avrei provato.
Ho osservato il sole che filtrava con forza tra le serrande abbassate, quasi a voler dire che la vita aveva bisogno di luce, in ogni sua forma, in ogni sua età, in ogni suo luogo.
Eppure non vi era nessuna forma di gioia in quella luce.
Neanche il giardino dava un tocco di allegria; il prato era stato probabilmente sostituito da mattonelle grigie, che ricordavano il cemento, in tutta la sua bruttezza, pochi roseti, non ben curati e una Madonnina avvolta da un cerchio di pietre rossastre.
Quello che più mi affannava era il silenzio, pesante come l’ombra della morte.
L’odore acre del disinfettante si mescolava con quello del cibo precotto, lo stesso che c’è nelle mense scolastiche e che non piace neanche ai bambini.
Tutti erano diligenti, gli ospiti della “Residenza”, gli operatori, tutto era a misura di anziano, tutto al proprio posto.
Tante pedine messe in ordine sopra una scacchiera polverosa.
Non sentivo il profumo dell’umanità, come se la vita si fosse fermata alla soglia di questo palazzo, assieme alla mia bicicletta incatenata al palo.
Ho sentito un grido dentro, creato da una profonda ingiustizia che toccavo con mano, ogni minuto di più.
Camera 35, signora Marta, anni 88, autosufficiente.
E mi sei apparsa.
Ti ho osservata, così come si osserva un quadro, con la meraviglia di veder nascere un arcobaleno, all’improvviso, dopo un temporale.
Non riuscivo a staccarti gli occhi di dosso; avessi avuto la maestria di farlo, ti avrei dipinta con dovizia di particolari, per far emergere appieno la tua delicatezza, la tua fragilità, la tua innata eleganza, ma anche la tua forza, la tua fierezza.
MARTA
Mi hanno detto che ti chiamavi così, un nome semplice ma importante, dall’ebraico “Signora”, “Padrona”, dall’aramaico Miryam, il mio preferito.
Il destino mi ha portata lì, mi ha detto di entrare, di venire verso quella direzione che mi avrebbe cambiato l’esistenza, l’avrebbe resa più bella, riempiendola di tante emozioni, di quelle che non dimentichi.
Te ne stavi sola nella tua stanza: un letto, un comodino, una poltrona e qualche oggetto.
Quel palazzo, quella camera asettica, quasi ti denigravano.
Sembravi una fata, una farfalla delicata e leggiadra, con le ali ferite, incapace di volare.
Non meritavi di essere lì ad attendere il nulla, era come rinchiudere un vaso di cristallo in uno sgabuzzino.
Ho aperto la tenda, socchiuso la finestra.
E’ entrata magicamente la luce calda del sole, ad inondare il tuo volto, fisso sulla foto ormai sbiadita del tuo grande amore.
Si sentiva anche il mulino, quasi volesse ricordarti di ascoltare oltre a quelle mura.
Ti sei girata piano a guardarmi, pensando forse all’ennesima pazza annoiata che voleva aiutare, un singolo pomeriggio in tutta la sua vita vuota e ripetitiva, tanto per pagare il conto alla coscienza.
Ho percepito la tua riservatezza, il tuo orgoglio, nella tua solitudine.
Avrei voluto abbracciarti, coprirti di carezze, me lo diceva la testa, me lo chiedeva il cuore.
Eppure ho desistito.
Ti ho preso piano le mani candide, le ho strette tra le mie, più calde e vigorose.
Ma le tue mani erano la tua vita, le giornate trascorse nei campi, con la schiena spezzata, a lavorare; raccontavano dei panni lavati nel catino, del pane impastato, delle grosse pentole da lavare, ma anche delle carezze ai figli, dei pizzicotti e degli schiaffi, delle lacrime asciugate col grembiule, di nascosto,per poter andare avanti.
E ti aprivi con il cuore, giorno dopo giorno, fidandoti di me, sapendo dentro al tuo cuore, che ero sola anch’io.
Un leggero tremolio, che nascondevi tenendo lo scialle, mi ha ricordato quanto tu non volessi apparire vecchia e sola, bisognosa di aiuto.
Ti ho detto poco di me, perché era di te che volevo sapere, di tutta la tua bellissima esperienza in questo mondo ormai egoista e banale, in cui nessuno vuol sapere se non di se stesso.
E siamo diventate una cosa sola.
Aspettavo con trepidazione il momento in cui potevo venire da te, mi preparavo con cura, con calma, quella calma che tu mi hai fatto riscoprire, la pace interiore che ti da una persona saggia che sa guarire le tue ferite con le parole.
La tua voce era flebile, quasi impercettibile, a volte la sovrastava anche il cinguettio degli uccellini sugli alberi lì fuori.
Ho tolto dalle pareti quelle stampe oscene e vi ho appeso dei ritratti di donna, volti belli e importanti, con una storia dietro la tela, tanto intensa quanto la tua.
Volevo farti sentire speciale, anche lontana dalla casa in cui vivevi, lontana dai tuoi affetti.
Eri una piccola bambina fragile dalle trecce dorate, Marta, la dolcissima bambina che amava stare all’aperto e aiutare il nonno nei campi.
Mi sembra di sentire ancora le tue parole, quando descrivevi la casa padronale, la stalla, il fienile, il frutteto, le serate al chiaro di luna, con tutto il vicinato.
Sento ancora il profumo del fieno, dell’uva schiacciata, le risate davanti ad un bicchiere di vino ed il cane abbaiare nel cortile, i canti intonati nei giorni di festa.
Tu Marta, innamorata dei quel soldato, lo aspettavi davanti alla porta, la domenica sera, dopo la messa, quel ragazzo biondo e gracile, lo sguardo bellissimo, che aveva chiesto a tuo padre di averti in sposa.
E lo raccontavi, tutto il suo vigore di uomo, di marito, di padre, di nonno, traboccava dalle tue labbra e da quell’immagine che non ci stancavamo mai di guardare con gratitudine.
Sorridevi, forse sentivi ancora i suoi baci tra i capelli profumati di lavanda, forse ricordavi il giorno delle tue nozze, nel tuo abito candido, cucito la notte prima dalle tue sorelle.
I tuoi occhi dolci, d’un celeste chiaro, come un cielo a primavera, erano ancora vividi.
La tua mente lucida aveva riacceso il tuo passato, portando a galla mille ricordi, uno più bello dell’altro, uno più intenso dell’altro.
Mi sono messa a pensare quanto la nostra vita oggi sia banale, complicata, stupida, frenetica.
Corriamo verso qualcosa che non ci appartiene, con un bagaglio fatto solo di sciocchezze.
Lo sappiamo, ma facciamo finta di non vedere, è la via più facile dei codardi.
Eppure tu le hai viste cadere le bombe, hai visto tua madre morirci, tenendo tra le braccia la tua sorellina, ma non ti sei arresa.
Hai scavato nella terra, hai avuto cinque figli, nessuna vacanza, solo a Venezia, col treno, per il tuo viaggio di nozze.
Era maggio, portavi un tubino elegante, un filo di perle, la borsetta ed un foulard: quanto eri bella!
“Aspetto che la morte mi faccia l’occhiolino”, me lo ridacchiavi in continuazione ed io tornavo a casa col magone, pregando Dio di lasciarmi ancora questa grande amica.
Perché tu mi hai insegnato che la vita è bizzarra, ti da e ti toglie, ti appaga e ti delude, ti cerca e ti lascia, ma mi dicevi anche che la forza per andare avanti la dobbiamo trovare da soli, dentro.
La ragione non ti accoglie come il cuore, un sentimento ti rende speciale, lo vedevo nel tuo sguardo, così amorevole, così buono.
Perché l’amore quello vero, esiste, ne ho la prova, e non ci sono amori di passaggio, fatti solo di passioni mutevoli e di speranze che possano avere lo stesso valore di quello che hai vissuto tu.
Perché lui ha affrontato il suo cammino tenendoti per mano, aspettando le gioie, sorreggendoti nel dolore, ma senza mai staccare lo sguardo, scegliendo te ogni singolo giorno.
Ti ho regalato un morbido plaid di lana colorato, per le tue giornate fredde, ti avvolgeva come fa la nuvola con l’angelo, come la coperta calda su di un bambino addormentato, con tenerezza.
I tuoi capelli d’argento, la tua pelle bianca e ormai pallida non ti rendevano giustizia.
Ho aperto la finestra, era primavera, gli uccellini che ci avevano tenuto compagnia la scorsa estate, erano tornati.
Avevo imparato quanto era bello a far entrare l’aria frizzante, farti vedere il tramonto, portarti un mazzolino di fiori, piccole attenzioni.
Un giorno, uno dei più intensi, Il sole è entrato prepotente e tu mi hai abbracciata, consapevole.
Ho sentito una morsa allo stomaco, una fitta al petto: avevo capito che mi avresti lasciata prestissimo.
E così è stato.
Marta, sei stata quella brezza tra le nuvole che mi ha riportato il sereno, ora l’anima mia è quieta ed il mio volto s’illumina ogni volta che ti penso, perché mi hai scaldato il cuore, hai ridato un senso al mio cammino.