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Verdiana Maggiorelli
LAGUNANDO 2020 > selezionati 2020
Milanese d’adozione, vive sulle colline piacentine, dove coltiva le sue passioni: scrittura, cinema, teatro, psicologia, filosofie orientali.
Un passato di redattrice, giornalista e copywriter, un presente di scrittura su siti e riviste di settore.
Ha pubblicato tre sillogi poetiche: “Ho consumato le labbra a baciar rospi” (Altromondo editore), “EstroVersi” (Aletti editore) e “Double face” (Edizioni Creativa), due raccolte di racconti: “L’innumerevole fermento” (I Sognatori edizioni) e “Ballando sul filo del rasoio” (Edizioni Creativa), un libro di viaggi: “Con la polvere dell’India dentro i sandali” (Edizioni Creativa) e un romanzo breve: Xantofobia” (Montag edizioni)

ORTI DEI DOGI
RACCONTO
UN  GIORNO  QUALUNQUE  DI  FINE  FEBBRAIO




Stirare. Oggi è la giornata ideale per stirare. Il corso di scrittura è saltato, la mia azienda è chiusa, scuole, musei, biblioteche, cinema e teatri, tutto chiuso. Eppure è un mercoledì qualunque di fine febbraio, sarei al lavoro, non fosse per. Prendo l’asse da stiro da dietro la credenza. Lo apro sotto la finestra, oggi finalmente è uscito il sole, ma la via è deserta. Da quando è scoppiata l’epidemia cinese stanno tutti tappati in casa e si attengono alle regole trasmesse in questi giorni fino alla nausea da TV, radio, social e giornali. Io non faccio eccezione.
Un silenzio domenicale avvolge la casa. Ho acceso un incenso in soggiorno e il profumo arriva fin qui. Mi sento in vacanza. Riempio d’acqua il ferro da stiro e saluto con un sorriso l’apertura del giacinto che ho messo sul davanzale della cucina. E’ rosa!
Ho tutto il tempo per farmi venire un’idea per il racconto che devo presentare martedì prossimo. Sempre che martedì riaprano i  corsi.
Passo il ferro sul colletto della camicia a fiorellini - prima il collo e i polsini, poi il resto, mi ha insegnato mia madre. L’avevo indosso quando sono andata in gita a Cracovia con Antonio. Quanto tempo è passato? Eravamo ancora insieme, aveva una giacca blu e non mi passava nemmeno per la testa che potesse avere un’amante. La mia amica Patrizia dice che ci vogliono almeno due anni per metabolizzare la fine di una relazione. Meglio non pensarci, adesso. Devo cercare una storia, una location, una protagonista.

Eccola. Si chiama Ludwika e sta attraversando piazza Zgody in una fredda giornata di fine febbraio. Cammina in fretta, lanciando brevi sguardi di sbieco. Stringe al petto, contro il cappotto grigio, un piccolo pacco rettangolare.
Siamo a Cracovia, anno 1942. Piazza Zgody è proprio al centro del  ghetto ebraico, nel quartiere periferico di Podgòrze, oltre la Vistola.
E’ già passato un anno da quando Ludwika è stata strappata dalla sua bella casa nel centro della città, insieme alla sua famiglia. Li hanno sbattuti in un angusto appartamento di due stanze, che dividono con un ex gioielliere di nome Ambrozius, che di notte si agita e spesso urla.

Sono rimasti lei, la madre e il fratello dodicenne.  Il padre l’hanno caricato su un treno, destinazione ignota. La ragazza non vuol credere alle voci che circolano da un po’ di tempo sui giornali clandestini. Lei ha fiducia  che  prima  o  poi  la  guerra  finirà, e  i  tedeschi  batteranno  in ritirata, e ognuno tornerà alle proprie case, alle proprie occupazioni, ai propri affetti.  Dawid, amore mio!  Lui è rimasto di là.  Lui è ariano e lavora nella succursale  polacca  delle  acciaierie  Krupp.  Intanto  la  vita nel ghetto diventa ogni giorno più dura: il cibo scarseggia, il riscaldamento non funziona, mancano medici e medicine, le condizioni igieniche sono pessime e scoppiano epidemie che si portano via i più deboli. Ma la cosa più tremenda è che i militari nazisti hanno carta bianca, nel ghetto, e si divertono a prendere in giro gli ebrei, a umiliarli pubblicamente, a sottoporli a torture inenarrabili. Così, per divertirsi. E se qualcuno reagisce sparano. Il terrore ormai serpeggia in ogni via e in ogni casa. Per questo Ludwika cammina in fretta, guardandosi attorno. Ora sta entrando nella farmacia di Tadeusz Pankiewicz, non certo per acquistare medicine.
Mi mancano ancora una tovaglia, due lenzuola e tre asciugamani. Sospendo un attimo per mettere sul fuoco un pentolino d’acqua per il tè (oggi mi voglio coccolare, ho persino dei biscotti alla cannella) e tornando all’asse da stiro accendo la radio.  Stanno facendo il bilancio dei morti e dei contagiati. 67 le vittime in tutta Italia, 1580 i positivi al tampone. Nessun progresso nella ricerca di un vaccino.
Il virus si sta diffondendo alla velocità della luce e la mia provincia è zona rossa. Penso a Davide, il mio collega della contabilità. L’ultimo giorno di lavoro aveva la febbre e tossiva. Mio dio! Vuoi vedere che… Perché penso a me, invece di pensare a lui? A me che gli sono stata vicino, a me che gli ho stretto la mano, al suo fiato che probabilmente mi ha raggiunto, mentre mi parlava di conti e di fatture. E’ incredibile come si diventa egoisti, in casi estremi. Davide vive solo e anche quando sta bene è sempre immerso in una sorta di malinconia. Chissà che vita ha fatto fino ad ora. Perché non ho mai parlato con lui?
“Pronto, Davide? Sono Giuditta.”
“Ah. Ciao.”
“Come stai?”
Sento il rumore di un sorriso, prima della sua risposta:
“Nessuno mi aveva mai chiesto come stavo, prima d’ora e adesso sei la terza persona che chiama.”
“Beh, con il virus che corre non mi sembra tanto strano.”
“Hai ragione, scusami.”
“Come va con la febbre? Sai, forse è il caso…”

“Già fatto, non preoccuparti. Domani vengono a farmi il tampone.”
Ecco, ho finito le parole. In realtà ho l’aberrante tentazione di riattaccare e richiamare domani, o dopodomani, insomma quando ci saranno i risultati del test. Per fortuna mi spunta da chissà dove un briciolo di umanità.
“Se hai bisogno di qualcosa…”
“Ti ringrazio, ma ho fatto la spesa l’altro giorno, tornando dall’ufficio.
Sono a posto.”
“Davide?”
“Sì?”
“Come impieghi il tuo tempo in questi giorni?”
“Leggo. Ho tanti di quegli arretrati! In fondo non mi dispiacerebbe    risultare positivo al test: avrei almeno 14 giorni di isolamento e di pace.”
“Non dirlo nemmeno per scherzo, Davide. Non hai pensato che potresti morire?”
“E allora? Ho già vissuto abbastanza, credimi. Comunque, se hai letto i bollettini medici, questo virus non ammazza nessuno. Anzi, secondo me è stato prodotto in laboratorio per far fuori la Cina e seminare il panico nella popolazione. Un popolo terrorizzato, si sa, è più facilmente assoggettabile.” Andiamo avanti così per un buon quarto d’ora. Davide stava spendendo con me (e io con lui) più parole di quante ce ne eravamo dette in un anno di convivenza in azienda. Inoltre stavo scoprendo una persona, dietro il contabile della Bdb&Partner. Una persona che legge, che ha delle opinioni personali e qualche oscuro motivo per non apprezzare la vita. E adesso? Chi bussa alla porta?
“Ludwika!” Tadeusz Pankiewicz aggirò il bancone e si fece incontro alla ragazza, posandole le mani sulle spalle.
Nel ghetto si conoscevano tutti e tutti conoscevano Tadeusz. La farmacia l’aveva ereditata dal padre e pur essendo ariano aveva ottenuto dal Reich di continuare a gestirla in loco, riuscendo a convincere i nazisti che la presenza di una farmacia nel ghetto sarebbe stata utile in caso di epidemia. In quanto ariano aveva anche ottenuto un lasciapassare per poter entrare e uscire liberamente dal ghetto. Aveva molti amici tra gli ebrei e le tragiche circostanze in cui si era trovato a vivere, l’arroganza del potere tedesco e una sua naturale attitudine ad aiutare gli altri lo fecero avvicinare sempre di più a quel popolo.  Aperta ventiquattr’ore su ventiquattro, la farmacia “All’Aquila” divenne un punto di riferimento per gli abitanti del ghetto. Qui arrivava la Gazzeta Zydowska, il quotidiano ebraico che teneva aggiornati sull’andamento della guerra, ma anche tutta la stampa proibita. Qui  si tenevano riunioni clandestine e da qui passavano viveri, medicine e documenti abilmente falsificati.
“Come sta la mamma? Come sta Andrej? E’ un po’ di tempo che non  vi si vede. Ma tu hai un’urgenza. Vieni, andiamo di là”
La ragazza seguì il farmacista lungo un corridoio nel retro, fino a una grande stanza dove lui aveva sistemato una branda, un tavolo e qualche mobile, e dove lui viveva.
“Ho bisogno di un lasciapassare”, disse subito Ludwika. Intanto strappava la carta del piccolo pacco rettangolare, per offrire a Tadeusz  una preziosa icona in argento, raffigurante una madonna con bambino.
“Non ce n’è bisogno, cara - disse il farmacista allontanando l’offerta  - qui ci aiutiamo tutti senza dare o chiedere niente, lo sai. E’ bellissima  la tua madonna. Trova un posto sicuro e nascondila: chissà che un giorno non possa servirti per comprare il pane… o un po’ di felicità.”
“Un lasciapassare, signor Pankiewicz. - Gli occhi, le mani, l’intero corpo di Ludwika sembravano voler scansare ogni discorso superfluo per  tenersi tenacemente attaccati all’obiettivo - Ne ho bisogno per raggiungere Dawid al più presto. Mi è giunta voce che si è preso un brutto virus, ha la febbre alta, ha bisogno di me. Devo vederlo, potrebbe essere l’ultima volta!”
“Calma, Ludwika. Ieri abbiamo subìto una perquisizione della OD (e per fortuna non era la Gestapo!). Hanno trovato solo una copia della Goniec  Krakowski e me la sono cavata con tre bottiglie di acqua di colonia e una bella dose di morfina, ma dobbiamo stare molto attenti. Per il lasciapassare dovrai aspettare qualche giorno, forse addirittura qualche mese.”
“Non posso, signor  Pankiewicz. Sono incinta, Dawid sta malissimo e potrebbe morire senza saperlo.”
“Cara ragazza, vorrei tanto aiutarti, ma sono in difficoltà. Devi solo avere un po’ di pazienza. Pensa al tuo bambino, alla tua mamma, a tuo fratello.”
“Grazie, signor  Pankiewicz.”
Ludwika girò bruscamente le spalle e si avviò decisa verso l’uscita.
Tadeus cercò di trattenerla e di farla ragionare e alla fine sembrò che la ragazza accettasse di pazientare.
La notte stessa, dopo il coprifuoco, un’ombra esile strisciava lungo i muri di via Limanowski, in direzione del varco posto all’incrocio con via Lwoska. Ludwika era disposta a passare anche tutta la notte acquattata tra i cespugli e il filo spianto in prossimità della porta, in attesa che almeno una delle sentinelle che presidiavano il varco si allontanasse o avesse un colpo di sonno. Era pronta a tutto, pur di uscire dal ghetto e raggiungere Dawid.
A un tratto: “Altolà, vieni fuori, bastardo!” tuonò una voce, seguita da un colpo di pistola sparato in aria.
Scoperta. Ludwika uscì tremante, con le mani alzate.
Oswald Bousko in persona le stava davanti, le gambe aperte solidamente piantate sul terreno, la pistola puntata su di lei.  
Il tenente Bousko era il più ambiguo dei militari tedeschi, al ghetto lo conoscevano tutti.  Era stato uno dei primi ad arruolarsi nelle SS e ad inneggiare a Hitler, ma dopo aver aperto gli occhi sulle vere intenzioni del Furer fu il primo a voltargli le spalle, continuando tuttavia a mantenere un atteggiamento che non destasse sospetti. “Le mie urla sono la maschera migliore del mio stato d’animo”, aveva confidato un giorno a Tadeusz Pankiewicz e non era infrequente che aiutasse segretamente gli ebrei, anche se non in modo del tutto disinteressato.
“Dove siamo diretti, signorina?” chiese sovrastando la ragazza dal suo metro e novanta e piegando le labbra in una smorfia ironica. Ludwika non rispose. “A quest’ora vanno in giro solo le puttane. Dì un po’: quanto chiedi per una prestazione?” Ludwika chinò il capo.
Nel frattempo anche l’altra sentinella s’era avvicinata, pregustando un divertimento fuori programma. Bousko la liquidò bruscamente: “E’ mia prigioniera. Devo scortarla al Zentralgefagnis. Raus!” Il soldato batté i tacchi e sparì. “Adesso tu mi segui buona buona, senza fiatare. Tranquilla, ti porto fuori dal ghetto. Ma tutto ha un prezzo, e tu pagherai, non è vero?”
Appena fuori dal ghetto c’era un casotto che le sentinelle usavano per ripararsi dal freddo e ubriacarsi di vodka. Senza troppi complimenti Bousko vi spinse la ragazza e in un attimo le fu addosso. Ludwika si divincolava con tutte le sue forze, l’uomo riuscì a strapparle  la gonna e le mutande, ma quando tentò di baciarla lei gli diede un morso che lo fece sanguinare. Immediatamente partì un ceffone che lasciò tramortita la ragazza. Nonostante il sangue che usciva copioso dalla sua bocca, Bousko riuscì a penetrarla. Poi soddisfatto la lasciò lì per terra, svenuta. Uno dei suoi colleghi l’avrebbe certamente uccisa.

Oh, no! - penso tra me, ma non lo do a vedere. Sulla porta c’è Francesco, un mio compagno del corso di scrittura. Ex compagno, perché la sua schizofrenia s’è aggravata nell’ultimo anno, l’hanno ricoverato in psichiatria e, imbottito com’è di psicofarmaci, non ha più frequentato. Ai tempi gli avevo prestato attenzione, perché i suoi scritti, pur non rispettando le regole di grammatica e di sintassi avevano lampi di genio.
Sono stata l’unica a dimostrargli il mio entusiasmo e forse per questo mi sta ancora perseguitando. Una o due telefonate al giorno, sono sempre gentile, ma ho cominciato a non rispondere. Purtroppo se non rispondo per tante volte di seguito si presenta a casa.
“Ehi, Francesco! Non sei tappato in casa come tutti?”
“A me non mi tocca, la Cinese. Lo so per certo.”
“Scusa sai, ma devi stare a una distanza di almeno un metro e mezzo, sono le regole.”
“No ti dico, io posso anche toccarti.” Così dicendo punta il dito sulla mia spalla, io indietreggio, lui avanza fin dentro l’appartamento.
Sono incazzata nera, ma la follia mi fa paura, devo tenerlo a bada, divento quasi melliflua:
“Okay, entra (è già entrato), posso farti un caffè?”.
Armeggio con la caffettiera davanti al lavandino della cucina, sento la sua presenza alle spalle, fingo un’indifferente ilarità: “Come fai a sapere che sei immune da questo virus bastardo, Franci?”
“Io sento le voci - risponde - Me lo dicono loro.”
Faccio una risatina nervosa, accendendo il gas sotto la caffettiera: “Okay ci credo, però è meglio rispettare le regole del Ministero della sanità.”
“Non io!” grida all’improvviso Francesco. Cosa ho detto? In un attimo mi è addosso con tutti suoi novanta e passa chili. Sembra un ossesso, mi infila le mani dappertutto, ansima. Quando cerca di tapparmi la bocca con la mano gliela mordo, con tutta la forza dei miei denti. Getta un urlo da bestia ferita, mi molla un ceffone che mi tramortisce e scappa, infilando porta e portone, sempre urlando e tenendosi la mano ferita.
Mio dio! Mi massaggio il collo, mi copro il viso con le mani tremanti. Chi l’avrebbe mai detto che Francesco… Era sempre stato mite, nei nostri incontri precedenti. Accasciata sul pavimento della cucina incomincio a singhiozzare piano, mentre la caffettiera annuncia imperiosa la fine del suo lavoro. Spengo il gas, mi rialzo, mi asciugo gli occhi. Com’è innaturale tutto questo silenzio! Il debole sole di questa giornata malata è ormai tramontato e io sento un enorme struggente bisogno di una voce. Davide?
“Scusa, sono ancora io.”
“Che succede? Ti ho contagiato con le parole di prima?”
“No, stupido. E grazie che mi fai ridere, ne ho proprio bisogno.”
“Okay, ti ascolto.”
“Ho appena subìto un abuso.”
“Ah.”
“Oh, scusami, Davide. Ci siamo ignorati per mesi, abbiamo cominciato a spiccicare qualche parola solo oggi e adesso… Non posso buttarti addosso un carico da novanta in questo modo. Sono proprio una stupida!” (perché mi tornano su le lacrime, perché non riesco a frenarmi?)
“Su, non piangere adesso. Piuttosto come stai? Ti va di dirmi esattamente cosa è successo?”
“Era un mio compagno di scrittura, è venuto a trovarmi, ha dei problemi. Ho detto qualcosa che non ha gradito, non so che cosa e mi è saltato addosso. Ma mi sono difesa, non è successo niente, davvero.”
“Io credo che dovresti andare dai carabinieri a denunciare il fatto.”
“Oh no, Francesco è border line, ma non è cattivo. Se lo sapessero i suoi lo farebbero rinchiudere e lui ne soffrirebbe, ha un animo sensibile. E poi ho ridimensionato tutto, adesso. Sto bene. Dev’essere questo virus bastardo che circola, a dare alla testa a tutti quanti!”
“Sicura che Francesco non te l’abbia passato?”
“No, hai ragione. Forse siamo pari, adesso: due appestati. Magari potremmo anche vederci.” All’improvviso ho voglia di cucinare, di apparecchiare, di accendere il fuoco nel camino. E di chiedere a Davide cos’è che rende i suoi occhi così tristi, le spalle così curve.
“Posso venire a casa tua, se vuoi - azzardo - anche subito.”
Ancora sento il rumore del suo sorriso.
“E’ che aspetto un’amica, stasera. Sempre che non cancellino i voli per l’Italia.”
“Ah.  Da dove arriva la tua amica?”
“Da Cracovia. Ci conosciamo da sempre, si chiama Ludwika.”
“Ludwika?”
“Sì, perché?”
“…………………….”
“Giuditta, ci sei?”
“Sì, eccomi. E’ una giornata strana, Davide. Adesso devo andare. Chiamami, quando hai i risultati del tampone.”

Cara Ludwika,
Non so dove spedirti questa lettera, ma so che devo scriverla.
Spero che tu sia riuscita a raggiungere il tuo Dawid, a buttargli le braccia al collo, virus o non virus, a cercare con lui una vita migliore. Spero anche che un miracolo abbia sottratto tua madre e tuo fratello alle deportazioni nei campi di Auschwitz e Birkenau. Ci sono stata, sai? L’orrore di quanto è accaduto laggiù ti si deposita sulla pelle e ti sconvolge lo stomaco, anche se il verde, erba, rampicanti, alberi è cresciuto pietosamente ad addolcire quelle fabbriche di atrocità.
Sei milioni di uomini, donne e bambini uccisi solo perché erano ebrei. E’ difficile credere a una tale follia. Ma io li ho visti quei volti  schedati appesi alle pareti, ho visto le montagne di oggetti strappati ai deportati, e i forni, i pali delle impiccagioni, le fosse comuni.
Il ghetto dove tu hai vissuto per più di un anno è oggi un quartiere alla moda, pieno di piccoli bistrot e ristoranti.
Piazza Zgody è diventata piazza Bohaterow Getta, ovvero Piazza degli eroi del ghetto e la farmacia di Tadeusz Pankiewicz è ancora lì, sull’angolo. E’ grande quella piazza, e nuda.  Due artisti polacchi di cui non ricordo il nome hanno seminato sul pavé 70 enormi sedie di bronzo, a grande distanza una dall’altra, come tante solitudini  mute e senza nome. Dicono che si siano ispirati a una foto d’epoca, dove una bambina del ghetto è colta mentre trascina una piccola sedia, prelevata dalla scuola. Gliel’avevano ordinato, perché c’era da aspettare. Ore, giorni forse, sotto il sole cocente, che arrivassero i convogli della morte. Forse gli occhi di quella stessa bambina hanno visto uccidere lì, in quella piazza, i vecchi, i malati, i ribelli. E spogliare i cadaveri, e ammucchiarli nelle vie laterali. Forse le sue orecchie hanno sentito gli urli e le risate dei carnefici, i colpi di pistola e i pianti mescolarsi all’abbaiare dei cani e agli inni nazisti mandati dagli altoparlanti.
E’ una giornata strana, questa, cara Ludwika. Ti confesso che ogni anno, nel Giorno della memoria che cade il 27  gennaio, io non faccio che sbuffare di insofferenza davanti ai servizi sulla Shoa che riempiono TV, giornali  e social. Sono anni che vedo gli stessi documentari, sento le stesse interviste, sono sottoposta alle stesse fotografie. Sono anni che l’esibizione della Shoa mi disturba. Oggi invece, nell’isolamento e nel silenzio creato da un virus che viene dalla Cina, grazie a una camicia a fiorellini che ha risvegliato un ricordo e a una voce mai sentita prima che si è rivelata amica… Oggi hai bussato alla mia porta.
Sei entrata nella mia vita ora. Sei nella mia scrittura. E finalmente ti abbraccio. Siediti, ho appena finito di stirare. Ce la prendiamo una bella tazza di te? Con affetto. Giuditta
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