Annalisa Potenza 2021
LAGUNANDO 2021 > selezionati 2021
Già presente edizione:
2019
Laureata in Lettere classiche, insegno in una scuola media.
Dipingo in modo spontaneo da quando sono piccola, attualmente il mio genere preferito è il mandala.
In seguito a un grave problema di salute, scrivo da quasi due anni, conseguendo molti riconoscimenti nei concorsi letterari sia di poesia che di prosa.
Già Counselor e Pedagogista clinico, studio da autodidatta psicologia, filosofia e metafisica, con uno sguardo particolare alle nostre origini.
La mia visione della vita e del cosmo è olistica.
LEGGERE LAGUNE
POESIE
MUOVERSI NEL MONDO
Nel mondo mi muovo
in un modo diverso.
Non lo immaginavo,
ma è capitato:
le mie gambe si sono fermate,
mi dicono di essere un pò affaticate.
Le faccio riposare, le osservo
e, con tenerezza, le accarezzo:
“Vi voglio bene e vi sostengo.
Non dovete temere,
io ci sono sempre”.
E’ arrivata la primavera.
Sono in un campo di fiori
a inebriarmi di colori e profumi,
a godere dei raggi del sole.
Intorno a me api e farfalle
intrecciano coreografiche danze.
Verso l’alto alzo il viso:
nell’azzurro, maestosa,
volteggia un’aquila reale.
Lentamente si avvicina,
sulla spalla si posa,
i suoi immensi occhi mi parlano:
“Sono fiera di te: anche tu, come me,
guardi oltre forme ed apparenze
e del reale cogli l’essenza.
Pur non avendo ali, riesci a volare,
mentre gli altri prendono aerei.
Tutti camminano in fretta,
cercando di imboccare
la direzione migliore.
Non comprendono
che muoversi nel mondo
non serve a niente,
se prima non si costruisce insieme
una strada amorevole e pacifica
per cambiarlo in meglio”.
Amati o amàti: questione di accento
Amati,
non chiederti il motivo,
fallo e basta.
Non temere e spalanca la finestra.
Accogli i tuoi pensieri,
iridescenti nuvole di una vita
che nell’azzurro ti avvolge.
Senti le tue emozioni,
delicate onde danzanti
su un mare di sentimenti profondi.
Coccola il tuo corpo,
in ogni sua parte,
in ogni più piccola cellula:
riceverai mille carezze.
Amàti,
da chi ci sa apprezzare
per chi realmente siamo,
per come ci comportiamo,
per quel che all’altro offriamo
senza pretendere nulla in cambio,
solo una scintilla che parte dal cuore,
a illuminare l’esistenza
di chi sa donare e ricevere amore.
IL VIAGGIO
Rintocchi di un paese in festa!
Il mio cuore esulta per te,
per te, tornato da un viaggio.
Quanto tempo è passato…
Sul treno nessun passeggero.
Sei andato lontano,
nelle regioni più impervie,
negli angoli più remoti,
fino ai confini del mondo.
Quanti interrogativi, quante ipotesi
per trovare un senso.
Non lo hai trovato, nessun significato.
Mi chiedi perchè.
Cosa ho da dirti?
Nulla. Nessuna spiegazione
se non che ogni viaggio intrapreso
è un viaggio interiore.
RESTA ANCHE DOMANI
La fine non esiste per chi nell’amore crede.
L’orologio arresta la sua corsa
nell’istante in cui ti guardo.
Il tuo volto,
la pittura della mia emozione.
Il tuo corpo,
la scultura della mia passione.
Le mie mani sul tuo petto:
il respiro del tuo cuore.
Le tue sui miei fianchi:
un’immensa vibrazione.
Un altro minuto,
e sarà il tramonto.
Un altro ancora
e sarà notte.
Non andare via:
ancora un ultimo sospiro.
Non mi lasciare:
ancora un ultimo bacio,
prima che l’oscurità inghiotta tutto
e le nostre forme svaniscano nel nulla.
È già qui: troppo tardi per fermarla,
troppo tardi per evitarla.
È terminato il giorno.
Resta solo il sogno.
Forse no: resta anche domani.
ARRIVERA’ IL GIORNO
Arriverà il giorno,
il momento in cui tutto avrà un senso,
dalle più piccole cellule ad ogni atomo.
Ogni cosa andrà al suo posto,
tutto sarà perfetto, senza alcuna spiegazione.
Ritroveremo la vera ragione,
scopriremo il vero sentimento.
Ancora non lo vediamo,
quel giorno non è lontano.
Le fatiche cesseranno,
i corpi rifioriranno,
ogni necessità scomparirà,
ogni dissidio terminerà.
Una sola cosa avrà senso,
sapere chi realmente siamo:
parti integranti dell’Universo.
Piove mentre di donna
appena s’ode l’urlo tra la pioggia,
mentre si rompono i fili di rugiada
sui bianchi fiori raccolti da bambina.
ORTI DEI DOGI
RACCONTO
UN ALTRO ORIZZONTE
Quella mattina mi svegliai tardi, sentendomi molto riposato dopo il lungo sonno della notte. Da alcuni giorni i miei sogni erano popolati da meravigliose immagini nelle quali facevo lunghe passeggiate in campagna oppure al mare.
Appena mi alzai dal letto, mi lavai e poi indossai, al posto della solita “divisa”, un abito che non avevo mai messo. Mentre mi vestivo, notai che il mio corpo era meno dolente. Lanciai uno sguardo fuori dalla finestra, accorgendomi che era una splendida giornata, cosa che mi fece sentire di buon umore, dopodichè scesi giù in sala da pranzo. La trovai vuota: era evidente che i miei famigliari avevano già fatto colazione. C’era solo la governante, Maria, una robusta signora sulla cinquantina alla quale feci un bel sorriso e gridai “buongiorno!”. Non appena mi vide, sgranò gli occhi, smise di levare dalla tavola le tazze e a grandi passi si precipitò verso di me: “Signore, so che quanto sto per chiedervi può sembrarle disdicevole, ma potrei per favore toccarvi un attimo?”. Mentre mi chiedevo se fosse impazzita, le diedi il consenso. Si avvicinò guardandomi come se fosse la prima volta. Prima mi squadrò da capo a piedi, poi le sue mani scivolarono febbrili sulla testa, sul viso, sulle spalle e infine sul petto. “Sì, siete proprio voi” – disse. Scoppiai a ridere: “E chi pensavate che io fossi?”. “Nessun altro, signore, nessun altro” - farfugliò. Le chiesi se si sentisse bene e mi rispose che probabilmente aveva qualche problema alla vista. Disse che i miei genitori erano usciti presto per effettuare alcune consegne. Dopo aver mangiato, decisi di sedermi sulla poltrona e di rilassarmi un pò. Chiusi gli occhi, cominciai a respirare in modo regolare e dopo alcuni minuti, mi entrai nella stanza dei ricordi. Immagini della mia vita iniziarono a sfilare: mi rividi bambino quando, ancora pieno di speranze, mi affacciavo al balcone della vita; rividi i miei precettori, i quali, quando arrivai a compiere dieci anni, non sapevano più cosa insegnarmi in quanto avevo appreso tutto quel che c’era da imparare, motivo per cui decisi di studiare per conto mio, attingendo dai libri della biblioteca della mia casa. Presto divenni ben istruito nel latino, nel greco, nell’ebraico, nella filologia; scrissi, ancora adolescente, opere di compilazione erudita, componimenti poetici, sonetti, odi, tragedie. Lessi di tutto, in particolare l’Alfieri, Omero, Virgilio, Dante, l’Ortis, la de Stael; la mia brama di sapere era insaziabile, la voglia di apprendere incalzante e vorace; ogni lettura aveva su di me l’effetto di un afrodisiaco o una coppa di vino pregiato.
A volte ero preso da una frenesia così forte che mi fermavo solo per mangiare.
Ciò che facevo mi appagava e nello stesso tempo mi aiutava ad alleggerire l’atmosfera pesante e stagnante sia della casa che del paese in cui vivevo, lontano dalle tendenze moderne delle grandi città d’Italia e intriso di chiuso provincialismo. La mentalità dei miei genitori ne era il migliore esempio, così rigida, ancorata a vecchi schemi di comportamento e avara di affetto nei miei confronti. Per fortuna quest’ultimo, a partire da un determinato periodo della mia vita, mi fu elargito dal mio carissimo amico Pietro Giordani con il quale intrattenni un lungo rapporto epistolare. Gli sarò per sempre grato per avermi sostenuto, incoraggiato e per avermi aiutato ad allargare i miei orizzonti conoscitivi. La sua amicizia accentuò il desiderio di scappare da quella prigione, ma il mio tentativo di fuga presto naufragò come una barca abbattuta da una tempesta. Mi sembrava di impazzire, non avevo più alcun desiderio, neanche quello di morire perché in realtà ero già morto, sia nella mente ormai priva di stimoli che nel corpo, trafitto dalle lame del dolore.
Questa terribile esperienza acuì la mia percezione della nullità di tutte le cose e mostrò che la felicità è solo una chimera. Capii che la ricerca di quest’ultima dipendeva dall’innata tendenza dell’umana natura al soddisfacimento di un piacere di per sé irraggiungibile, impossibile da trovare nella realtà, al limite solo nell’ immaginazione la quale, nutrendo l’anima di speranze ed illusioni, diventa disperato tentativo di colmare un vuoto immenso, direi infinito.
Quando poi ebbi la possibilità di uscire finalmente da quel “borgo selvaggio”, potendo realizzare i miei sogni di libertà, mi sentii invece deluso, soprattutto dal falso perbenismo e dalla meschinità degli ambienti letterari della capitale. Avevo compreso che fuori da Recanati non vi erano, necessariamente, ambienti e persone migliori di quelle che il mio angusto paese offriva. Tuttavia non potevo né volevo trascorrere tutta la mia vita lì. Così, dopo esser rientrato in famiglia, scelsi di andar via. Quante città vidi, quante persone, contatti, e contratti di lavoro. I miei problemi di salute avevano alti e bassi, tuttavia li affrontavo con grande coraggio e determinazione a non lasciarmi sopraffare da essi. Nel frattempo il mio sistema di pensiero stava cambiando: ritenni che l’infelice condizione umana non era da attribuire al progresso della ragione e della civiltà che ci avevano nel tempo allontanati dalla nostra capacità di immaginare e di illuderci, ma alla natura che ci aveva creati desiderosi di essere felici, tuttavia privi dei mezzi per poterlo diventare.
E la natura stessa ci esponeva, indifferente, ad ogni genere di male: malattie, terremoti, vecchiaia, morte. Rividi l’immagine di Silvia, prima bella, giovane e piena di speranze, poi livida e fredda, baciata dall’ingannevole morte; rividi in tutti i fanciulli quello stato soave che l’età adulta avrebbe poi alterato con i suoi dispiaceri e con la lucida consapevolezza che la stagion lieta finisce presto.
Ed ora mi trovavo di nuovo qui, nella mia Recanati. Mentre ero immerso in quelle riflessioni, ebbi la sensazione che un manto invisibile avvolgesse il mio corpo e lo stringesse fin quasi a soffocarlo. Istintivamente interruppi quel flusso di pensieri e immediatamente mi sentii libero da quell’oppressione.
In quell’occasione notai che, quando mi capitava di riflettere intensamente su qualcosa, i miei pensieri erano quasi sempre accompagnati da immagini le quali, cariche di emozioni, si tramutavano in sensazioni fisiche. Se le immagini erano gioiose, anch’io ero pieno di gioia e stavo leggermente meglio anche dal punto di vista fisico; se invece erano tristi, ero anche io triste.
Nelle ore successive volli effettuare alcune “prove” basate sulla sola presenza di immagini gradevoli relative solo a me stesso. Mentre mi vedevo “come se fossi” in buona salute, privo di dolori, disteso e sereno, in varie situazioni di vita, mi accorgevo che percepivo meno dolore agli occhi, alla testa e al corpo. Era all’incirca la stessa sensazione di benessere che avevo quando mi svegliavo dopo aver effettuato sogni gradevoli. Da un alto la ragione mi diceva che le mie erano solo suggestioni e il fatto che mi sentissi meglio era una semplice coincidenza; dall’altro l’istinto o non so quale voce interiore mi invitava a continuare quella sorta di esperimento. E così feci sia quel giorno che in quelli seguenti. Con il tempo l’intensità del dolore diminuì leggermente in tutto il corpo. Certo, non mi sentivo bene, tuttavia quel minimo progresso rispetto alla situazione di salute precedente, bastò a regalarmi maggiore energia e più entusiasmo. Ebbi voglia di uscire e, anche se era inverno, e sapevo che il freddo non avrebbe giovato alla mia cagionevole salute, assecondai quell’impulso.
Camminai a grandi passi verso il centro del paese, sentendomi un po’ più sciolto nei movimenti e avvertendo maggiore forza nelle gambe. Avevo voglia di scambiare quattro chiacchiere con la gente del luogo. Lungo la strada incontrai la signora Sabbatini che mi passò davanti senza salutarmi; poi fu la volta dei signori Moretti, una coppia di una certa età: anche loro non mi salutarono, forse perché non mi vedevano da tempo. A seguire, la signora Berardini la quale mi conosceva da quando eravamo ragazzi. Doveva essersi sposata, dato che con lei c’erano due bimbi molto piccoli.
Mi fermai apposta per salutarla, attendendo che si avvicinasse. Quando arrivò davanti a me, mi tolsi il cappello e sorrisi, lei mi guardò un attimo e poi tirò diritto. Rimasi molto male, mi chiedevo che cosa le avessi fatto e perché la gente mi stesse evitando. Di seguito entrai nel negozio di Luca il carpentiere, per salutarlo. Ci conoscevamo da quando ero un bambino. Non appena mi vide, mi chiese che cosa desiderassi. “Non mi riconoscete? Sono io, Giacomo Leopardi”. “ Ma certo! Perdonatemi signore, è passato così tanto tempo”. Mi fermai a parlare con lui fino a quando arrivò un cliente. Pensai che in seguito alla mia assenza le persone si fossero dimenticate di me oppure ero così invecchiato da non essere riconoscibile. Tornato a casa, non mi accorsi che era già ora di pranzo. Nel varcare la porta della sala, trovando i miei famigliari a tavola, entrai a testa bassa, proferendo mille scuse per il ritardo. Nel sentire la voce di mio padre che mi invitava a non preoccuparmi e a sedermi, mi sentii sollevato e, contento, alzai lo sguardo. Mentre procedevo a grandi passi verso la sedia, notai che gli occhi di tutti erano puntati verso di me. Qualcuno aveva smesso di masticare, qualcun altro lasciò cadere il cucchiaio nel piatto oppure gli andò di traverso l’acqua, mio padre era diventato di pietra. Mia madre si alzò di scatto e si diresse verso di me, scrutandomi da vicino e toccandomi. Cominciai ad agitarmi: “Mi dite che avete tutti da guardarmi in quel modo? Cosa è successo?”. “Giacomo, sei proprio tu, vero?” A quel punto sbottai: “Certo che sono io. Chi dovrei essere? Di grazia, mi volete spiegare che cosa vi prende a tutti quanti oggi? Prima Maria resta esterrefatta non appena mi vede. Poi, quando esco, le persone che conosco da una vita fanno finta di non conoscermi, non mi salutano neppure e ora voi mi guardate come se provenissi da chissà dove”. “Vieni con me un attimo” - disse mia madre, prendendomi per un braccio. Mi portò al piano di sopra nella stanza matrimoniale dove c’era uno specchio enorme, a tutt’altezza e mi invitò a specchiarmi. Non appena vidi la mia immagine, rimasi sconcertato. Ero sempre io, ma sembravo diverso: i lineamenti del viso più morbidi, l’espressione degli occhi più luminosa; le spalle più dritte, il petto più largo, cosicchè apparivo un po’ più alto. Toccai tutte le parti del mio corpo, dal viso alle caviglie per sincerarmi che fosse vero, dopodichè, compiaciuto, sorrisi. Pensai che si trattasse di un evento miracoloso. Mi sentivo euforico: la mia immagine era diversa, mi piaceva, ma soprattutto le mie sofferenze erano diminuite. Di questo cambiamento ne beneficiarono i rapporti con i miei genitori che divennero più distesi: riuscivo a tollerare maggiormente la loro reazionaria monotonia, le loro provinciali riflessioni sull’economia e la politica.
Feci lunghe passeggiate nel paese e fuori di esso, notando una maggiore resistenza fisica e una maggiore vitalità che presto mi spinse di nuovo a viaggiare, ma questa volta con altri intenti: se prima desideravo soprattutto “evadere” ora volevo principalmente conoscere.
Per prima cosa tornai in alcune delle città in cui avevo soggiornato qualche anno prima per constatare come le avrei vissute alla luce del mio cambiamento.
Nel rivederle e, insieme ad esse, i rispettivi ambienti letterari, provai sensazioni diverse rispetto a quelle precedenti: tutto mi sembrava meno soffocante e più accogliente. I volti e i discorsi della gente della borghesia romana che un tempo mi apparivano meschini e vuoti, ora assumevano sfumature leggere, quasi caricaturali; quegli stessi salotti che, con la loro sterile ipocrisia, avevano esacerbato le mie emozioni e quasi inaridito la mia vena poetica, ora si rivelavano un comico teatrino sul quale si agitavano attori e comparse. Quelle donne della società cosiddetta per bene, impupazzate e rivestite, che avevano trovato i miei discorsi poco stimolanti, ora erano oltremodo entusiaste e sostenevano che bastava solo vedermi per sentirsi lusingate da una così importante uomo di cultura. Quando aprivo bocca per affrontare un qualsiasi argomento, notavo i loro corpi contorcersi e protendersi verso di me come api in attesa di suggere il miele da un raro e pregiatissimo fiore, mentre i loro mariti assecondavano quei curiosi e imbarazzanti comportamenti limitandosi ad annuire. Lo stesso fenomeno avvenne in altri posti dove fui accolto con entusiasmo, specialmente nei salotti gestiti da nobildonne. Provavo un certo gusto ad essere al centro della loro attenzione. “Sono lieta di rivedervi. Vi ricordate di me? Siamo stati presentati anni fa in casa del conte Falconieri” – disse una delle signore dell’alta società fiorentina. “Sì certo, eravamo ad una cena, seduti dirimpetto”- risposi. “Mi scuso se in quell’occasione vi sarò sembrata un po’ fredda, ma purtroppo, quando mio marito prende la parola, è difficile che io riesca a dire qualcosa”. “A proposito, dov’è vostro marito? Vorrei avere il piacere di salutarlo”. “Mi rincresce darvi la notizia che è dovuto partire per motivi di affari e farà ritorno tra un mese. Qualora il vostro soggiorno a Firenze si dovesse prolungare, sappiate che sarei onorata di potervi ricevere nel mio palazzo. Organizzo incontri culturali, in occasione dei quali potreste rendere edotte sia me che le altre signore sui vostri interessantissimi argomenti. “In cosa desiderate che vi erudisca?”. “Potete parlare di ciò che volete”- mi disse con sguardo languido, avvicinandosi di qualche centimetro di troppo.
Imbarazzato, indietreggiai quel tanto che bastò per renderla più audace e far sì che gli appuntamenti culturali divenissero la premessa per arrivare ad infrangere le regole del suo mal celato perbenismo e del suo matrimonio fallito.
Il “sodalizio amoroso” con la gentil signora durò quel tanto che serviva per soddisfare i nostri reciproci appetiti, dopodichè esplorai altre case: sarebbe stato scortese rifiutare ciò che con tanto slancio mi veniva gratuitamente elargito. Così tra feste, balli, cene, incontri, assaporavo quanto di meglio la vita potesse offrirmi.
Quella che prima mi sembrava insulsa mondanità, pian piano divenne normale e gradevole menàge; cominciai a sentirmi più sicuro di me stesso, non solo come intellettuale, ma anche come uomo e non trovavo affatto disdicevole il mio comportamento “estroverso”, in quanto assecondavo solo il mio modo di essere e di sentire. Continuai ad intessere relazioni sentimentali e sociali e a farmi conoscere nel mondo della cultura con un entusiasmo ed una partecipazione intensi.
Sempre a Firenze, rividi una nobildonna che avevo conosciuto non molto tempo prima, famosa per la sua cultura e come organizzatrice di incontri culturali, Fanny Targioni Tozzetti. In quell’occasione ricordai il recente passato: io che dell’amore non conoscevo che qualche semplice sussulto, a causa sua ne ero stato completamente soggiogato; io che, mai corrisposto da quella gentile creatura, avevo versato oceani di lacrime, sparendo dalla sua vita e affidando alla lirica i sospiri dello stanco mio cor, ero addirittura arrivato ad immaginare di acquietarmi nelle braccia della dolcissima e bellissima Morte. Ed ora ero di nuovo lì, nella città che aveva visto fiorire quel mio grande sentimento e non volevo farmi sfuggire l’occasione di parlarle ancora una volta. Mi presentai da lei, nella sua casa in via Ghibellina, insieme ad un mio amico che la conosceva bene. Quando mi vide, esclamò: “E’ un piacere rivedervi, accomodatevi”. Nell’osservarla, notai che l’angelica sua forma non era mutata affatto, anzi era ancora più bella con quei soffici capelli, la pelle bianchissima e il candido sorriso ed ebbi la conferma che l’incanto non era ancora caduto.
Insieme a me e al mio amico vi erano altri due letterati, uno di Firenze e l’altro di Pisa e alcune giovani dame. Presenziava anche il marito di Fanny che ad un certo punto si scusò e andò via per “improrogabili impegni”. Quel pomeriggio il tema dell’incontro verteva sulla felicità e ciascuno di noi era tenuto a mostrare le proprie considerazioni su di essa. Sull’argomento avrei potuto dilungarmi a lungo, tuttavia decisi di non mettermi al centro dell’attenzione, ma di ascoltare prima ciò che tutti avevano da dire. Quando toccò a Fanny, dalle sue radiose labbra si levarono le seguenti parole:
“Felice è colui capace di gustar, del dolce suo sapore, ogni spicchio della vita,
come un frutto maturo dall’albero più bello generato.
Felice è chi al Creatore rende grazie per il dono della salute
mentre chi non ce l’ha, prega che da Lui gli sia resa;
chi sa apprezzare di ogni più piccola cosa l’esistenza,
dalla rosa alla farfalla, dall’abbraccio del sole al bacio della luna,
dal brivido dell’acqua fresca sulla pelle,
alla carezza del vento primaverile sul viso.
Felice è colui che dell’amor proprio sa gioire,
agli altri sa renderlo e al contempo riceverne;
colui che della propria immagine esteriore non si vanta,
perché la sua vera forza è quella interiore; chi, nell’esprimere il proprio pensiero,
si sente libero, perché dei pregiudizi altrui non si cura, come noi amici che condividiamo questo spazio e questo momento irripetibile”.
Nella sala si levò un forte applauso. Estasiato, ammirai il volto della mia amata e avvertii una piacevole sensazione in tutto il corpo. Quando toccò che a me prendere la parola, piegai e misi in tasca il foglio con scritto il discorso che avevo preparato, non ritenendolo più adeguato. Mi alzai, e mentre la guardavo, lasciai spontaneamente esprimere il mio cuore:
“Mai mi fu nota la felicità,
pria che dalle vostre soavi labbia apprendessi cosa fosse.
Foste proprio voi ad avermi poc’anzi edotto,
quando ancora di averne una chiara idea mi ero illuso.
Voi, che giammai dal mio pensier foste separata,
ora, con il vostro, mi avete illuminato;
voi, a cui spontaneo porsi l’indomito mio cor,
ora con il vostro calore lo scaldate
e, con sapienti parole, in me accendete la speme
che la felicità non s’ annulla
né nella storia né nella natura”.
Mi sedetti subito, un po’ frastornato, quasi non capacitandomi di ciò che avevo appena detto. “Grazie, grazie per il suo contributo” – disse Fanny mentre, sorridente, applaudiva e tutti gli altri la seguirono. Nel sollevare gli occhi, notai che mi guardava con ammirazione e sembrava che avesse ben compreso sia i miei sentimenti che il mio ragionamento. Mi resi conto che ero riuscito a rivelarle, sia pure attraverso poche e improvvisate parole, ciò che non avevo mai avuto il coraggio di dirle e che fino ad allora avevo gelosamente affidato alle carte. Avevo compreso che era stata proprio lei, con il suo discorso, ad avermi ispirato, fornendomi l’occasione di riflettere che sul tema della felicità vi possono essere molte opinioni, anche diverse da quelle che avevo fino ad ora elaborato sulla base del mio sentire, dei miei studi, delle condizioni storiche e delle mie cognizioni. Avevo identificato la felicità con il piacere, ritenendolo inappagabile sia a livello storico, in quanto la nostra capacità immaginativa, l’unica che consente di conseguirlo, era stata circoscritta dalla cognizione del “vero”, sia a livello individuale, rimanendo esso confinato al mondo della fantasia, ad attimi di sospensione dalla realtà, come quelli nei quali mi dilettavo a comporre. Il punto di vista della mia amata fece in modo che riuscissi ad ampliare queste mie occasioni di distrazione, trasformandole da momenti “separati dalla realtà” a momenti “offerti dalla realtà”. Se è vero infatti che la natura non è propriamente una madre buona, non è neanche completamente malvagia in quanto esplica semplicemente la sua funzione e, come tale, dispensa e toglie. Spetta agli uomini, nell’ambito di questo ciclo perenne di distruzione e generazione, riuscire a cogliere ciò che di positivo essa offre, anche nelle più piccole e semplici cose, traendone soddisfazione o, come si suol dire, piacere. Ciò dipende da noi, dalla nostra volontà di percepire noi stessi, gli altri e le situazioni di vita in un modo piuttosto che in un altro, con conseguenze a livello sia personale che sociale. Il fatto che la gente mi vedesse in modo diverso, che avvertissi meno dolore e avessi ripreso a viaggiare, era dovuto proprio alla diversa percezione che avevo iniziato ad avere di me stesso e del mondo: se la natura ci fa ammalare oppure non dona una buona salute, nulla vieta di impegnarci per migliorare la nostra situazione fisica e psicologica.
Siamo dipendenti dalla realtà, ma nello stesso tempo anche liberi di modificarla e crearla, utilizzando le risorse di cui la natura stessa ci ha provvisti.
Mi resi conto che tra queste ultime c’è proprio l’immaginazione, una delle più grandi funzioni della mente alla quale attingere. Ma questa volta non volli intenderla più come un rimedio, benchè illusorio, all’umana brama di felicità, una sorta di rifugio personale in cui creare ciò che non si vede, idealizzare e sentire come vero ciò che non è concretamente presente, che è sfuggente, vago, indefinito. Questa volta la intesi come una sorta di alleata, nella sua capacità di far sentire come vero ciò che invece è concretamente presente, nella fattispecie me, dandomi l’opportunità di modificare l’immagine e la percezione che ho di me stesso, in quanto dal cambiamento dipende il mio benessere.
Fanny, con il suo discorso, mi aveva reso consapevole di questo processo in atto, aveva contribuito ad aprire uno spiraglio attraverso il quale potessi intravedere un altro orizzonte e da esso trarne ispirazione, perché al poeta, al letterato e in genere allo scrittore, è più di ogni altro data la facoltà di non fermarsi, di non arrendersi, ma andare oltre, elaborare nuove teorie, proporre nuovi modi di essere, indicare e percorrere strade, cogliere nella presenza della siepe e di ogni altro limite l’occasione per effettuare un salto simbolico, destinato a superare il vecchio immaginario e crearne uno nuovo, per sé e per gli altri. Fui grato alla “mia donna” e non mi curai affatto di cosa avessero potuto pensare di me le persone presenti in sala.
Quando mi congedai da lei, mentre mi accompagnava verso l’uscita, disse che mi trovava cambiato. Ora finalmente potevo comprendere che qual che gli altri vedevano in me, tutto ciò che di diverso percepivano di me a tutti i livelli, non era altro che la conseguenza del mio cambiamento interiore.