Vai ai contenuti
Bruno Pasetto 2021
LAGUNANDO 2021 > selezionati 2021
Nato e residente a Treviso.
Si è laureato allo IUAV di Venezia, ha svolto le professioni di architetto e insegnante.
Oggi vive da pensionato con una grande passione per la scrittura.
Ha pubblicato quattro romanzi e tre raccolte di poesie.
Già presente edizione:
2020


SCARICA
RACCONTO
LEGGERE LAGUNE
POESIE
MADRE MIA… da Giulio Regeni



Madre mia,
Oggi sconfiggerai la Sfinge,
Che io novello Edipo
Per dare risposte
Al suo imbroglio   
Ne urtai l’ombrosità,  
Lo farai con l’amore
Che accomuna la mia alla sorte
Di quel suo popolo schiavo
E domani il miracolo
Sarà l’occhio universale  
All’autenticità dell’alba,
Pennellata rossa sull’orizzonte
Da cui maturò Markus Rothko
L’artista astratto,
Planando di emozione la libertà
Con il volo pacificato
Su di un braccio ferruginoso
Accanto ai pennuti affiancati,
Lì a beneficio di quanto
Il gelo si scioglierà al nuovo sorgere
E la mia morte finalmente
Resterà nostra cosa domestica
Al fuoco impenitente svampito
A flebile candela insulsa
Di chi oggi tiene sul palmo maldestro
La preziosa piuma dell’antico Egitto,
Tu in cerca di bilanciare con rabbia
La disperata vena
Del sentimento ferito a morte
Per l’ennesima notte oltraggiosa al Cairo
Che ancora spegne insieme
Speranza e luna,
Ah madre, madre mia,
Sarai libera dal dolore
Solo quando le tue lacrime di giustizia
Accetteranno la perdita,
Non la disperazione.
PRIMO AMORE ADDIO


Sotto la loggia il nostro paradiso
era stato di archi a crociera
ma avevamo occhi incantati
sull’orizzonte che prometteva
una luce abbagliante di desiderio,
così le mani si strinsero ai corpi
e le bocche tra loro contorte
alimentarono linfa a crescere fiori
con colori irrecuperabili
da imberbi radici che parevano forti.
Il nostro bacio lo ricordo bene
nella stagione delle foglie,
quelle che oggi ti coprono caduche
quanto allora furono ballerine
al vento che invitò entrambi
a una colpevole imprudenza,
liberi di avere da altre labbra insipide
una consolazione superflua,
così il mio passo avvilito
fruscia ora tardivo e solitario
nel silenzio dei resurrecturis.
L’imponderabile eco che sale
chiama a sé l’incanto di quell’incontro
e del tuo volto senza più vita
un debole profilo, la parte acefala
del verso, una prima sillaba latente
che computo con pudore
al metro della distanza irrecuperabile,
precipitata in una tragedia di luce e ombra
quando dell’esistenza la pittura si fa tonale
per poter insieme ritrovare amore e morte.
Adesso niente e nessuno
mi ascolta più del silenzio,
Dio mio, ecco chi e dove sei!
I VECCHI


Dove sono finiti i vecchi di un tempo
nascosti dal fumo della pipa,  
gli stessi tonanti bestemmie
contro i muri con occhi d’aquila
sulle disgrazie altrui,
che solo persone e cose perse
svelavano loro la vita
al sorso amorevolmente speziato
del vino bollito in strada,
o a rimettere gli orologi
con le lancette del campanile,
presto puntando gli occhi
sull’asso al tavolo delle carte
dove a volte può dignità e decoro
appartenere naturalmente
alla migliore virtù delle origini.

E i vecchi della stagione in casa
stavano inebetiti davanti alla finestra
per guardare la calaverna di gennaio
pigiando tabacco sul fornello
a soffocare solitudine e rimorso,
che dentro appese al camino
erano penzolanti le calze
dell’unica povera epifania,
non più del blu di Maria
o dei magi apparsi nella notte
chini coi loro doni eccellenti,
né di pastori e angeli clamanti
ma di bimbi scombinati, belli,
trafelati d’ansia e grida
a pescare con mani di frenesia
sul fondo delle piccole sorprese.
ORTI DEI DOGI
RACCONTO
FASCINAZIONE PRESSO IL CIMITERO DEI BRION







Sopra l’impiantito il redivivo si accoccola per avvicinarsi alle foglie delle ninfee, simbiosi galleggiante di pensiero e vegetazione. Dal cielo un volo pindarico ha ricondotto la sua anima all’intima ospitalità del padiglioncino dei Brion, potendo riassaporare l’avvenenza del luogo  con il linguaggio del silenzio e il piano ribassato ma convincente della contemplazione.
Carlo Scarpa sorride a un ricordo della sua parentesi terrena.
Era una giornata del tardo autunno. In quel ritiro di meditazione l’improvviso stimolo al ventre lo aveva indotto a un desiderio inattuabile. Avrebbe voluto disporre di una provvida tazza in legno di canfora tirato a cera, decorata con la fredda eleganza di un maki rosso. Andò con la mente alle antiche latrine giapponesi ubicate all’ombra nel prato rigoglioso, intimità ideale tra corpo e spirito dei poeti per elaborare versi di haiku.
Si trovava giusto ad altezza di cane, sospeso tra aria e acqua, inquadratura mobile, lenta eppure ubertosa sul giardino, delicata nella forma e nella misura tra simbologie evidenti e  arcane, reiterato richiamo di vita e morte.  
La condizione del posto si rivelava come uno shantih dell’occhio, vaghezza schiva di quel racconto immortale che superava l’intelletto per travolgere muscoli e sangue, eccedendo l’esperienza, la cognizione, la sapienza.
Quella posizione, per lui inusuale, l’affascinava, tanto da suggerirgli un divenire sperimentale nell’ambito del suo stesso lavoro. Aveva apprezzato quel punto di osservazione durante la proiezione di un film giapponese, senza rammentarne il titolo e neppure il nome dell’autore. Invece gli erano ben presenti le inquadrature fisse. Sentiva restituito il lento movimento degli spazi interni, la ricchezza espressiva, la finezza di persone e cose, il controllo gestuale e la pacatezza che accompagnavano il dialogo degli interpreti.

_  Si può dunque sognare anche da morti? o risorgere presso il giardino alle spalle della tomba che mi ospita? con l’onorevole attributo di depositario della mia opera così compiuta? _

Pensò alla propria ascesa nella prateria dei celesti dove, appena giunto, Yasujiro Ozu l’aveva scorto e si presentò.  Quella persona austera, riconoscendolo, si era avvicinata all’architetto poeta dal naso bizantino e dallo stupore  fanciullesco. Dopo i convenevoli, l’uomo dell’oriente si era rammaricato con il Professore d’essere giunto in Paradiso già qualche anno prima, senza avere mai omaggiato in vita i suoi pregevoli manufatti. Negli anni si era spesso riproposto di esaudire questo desiderio e l’avrebbe fatto, magari in occasione di una Biennale del Cinema a Venezia. Purtroppo una malattia sopraggiunta incurabile gli aveva impedito di mantenere fede alla pressante aspettativa sempre differita nel tempo, fino all’impossibilità decisiva.
Il veneziano fiutò il regista engagé e, edotto circa quella mancanza, la liquidò perdonandola con un amabile sorriso, sorprendendo Ozu con la propria cortesia dialettica e affabulatoria. Così fedele al suo stile s’inventò una battuta imprevista quanto incredibile.

_  Non si preoccupi, amico mio, ho già in mente un viaggio di ritorno nelle mie terre e sarò felice se potrò farlo in sua compagnia _

L’inchino di prammatica non favorì, per desuetudine e impaccio, la gestualità di Carlo, ma sancì tra i due un sodalizio già forte di primo acchito e senza incertezze sulla qualità dei rispettivi spiriti liberi.  

Il ritrovarsi solo, sul luogo dalla raffinita sensibilità materica, con lo spirito catapultato dall’alto dentro una condizione di esistenza perduta e senza comprenderne il motivo, permette all’uomo di Bisanzio, così egli stesso si era definito, di profittare della favorevole circostanza secondo uno schema che da vivo era stato poco frequente. Quello di godere di una visita solitaria del proprio ultimo lavoro, il cimitero dei Brion.
E’ la volta degli sguardi ammiccanti, delle carezze ai dettagli, dei mille pensieri sulla scelta dei materiali o sulle particolari produzioni artigianali a lungo meditate anche nelle notti insonni. Un disegno, il suo, cresciuto con la intuizione descrittiva dell’orbe terrestre, per contribuire a un’idea salvifica dell’umanità tutta, dove lo spettatore avrebbe potuto confrontarsi con il personale obito,  non aveva importanza se laico o cristiano, universalmente compreso.
Ma è solo al declinare del giorno che l’incredibile sospensione temporale arriva a coinvolgere anche un’aria di trascendenza, per rendere significativo l’aprirsi di un avvento topico con il fine di  svelare l’arcano di questa speciale resurrezione, elargita con la benevolenza del volere di Dio.
La discesa delle prime gocce dal cielo sono distanziate da brevi intervalli. Grosse stille tintinnano sulla pedata dei quattro famosi gradini a sbalzo, pacificando l’ascolto al timbro di due sorgenti di cui una è l’eco della vera. La caduta a terra continua sempre più fitta. Eguaglia note di ampio respiro che, uniformandosi, si confondono a riempire i vuoti di un’armonia atonale. Il suono monta repentino dal niente del silenzio al tutto del sonoro con uno sviluppo dodecafonico. L’orchestra è una ma i musicisti sembrano sparsi nello spazio cimiteriale e la sinfonia perciò rincorre se stessa, sollecitata a ritrovarsi in tutti gli angoli del parterre dove vita e morte diversamente dialogano.
La fonia lo sorprende, geniale, ma lui la riconosce nella reminiscenza di una speciale amicizia di cui è stato famigliarmente partecipe durante  l’albergare, e poi l’andare e venire, a Venezia.
Il pathos coinvolge pioggia e musica, sorta di benedizione, battesimo dell’hortus conclusus. Il nuovo eden è  quello dove aleggia la sua ombra, facendo emergere una memoria ricca di fatti e affetti, di creature e cose, di progetti e incontri, affrancati da un intelletto notoriamente fluente, magnetico.
Tra l’udire e il vedere si palesa il potere di un richiamo di vita ancora in essere, ma per opera di chi se non del solo artista in grado di interpretare in magistrale musica la composizione della sua rivisitata corte persiana?
Luigi Nono ha scelto, per onorare il Maestro, due uniche note alte che  reiterano le iniziali del caro estinto, il C del do , la S del mi bemolle, e il concerto spazia impregnato di riscatto per ribadire la speranza dell’eternità dopo la dipartita terrena. La lettura musicale e costruttiva  coinvolge tutta l’umanità, eppure lo fa secondo la dottrina che sollecita ogni viandante a costruirsi da solo la strada della propria esistenza.     
Lo scroscio che continua ad abbondare dilava la patina dei fabbricati, mettendo le pietre educate a nudo con l’identica sacralità delle spoglie. E scava un labirinto di canalette sull’erba con allusione all’adorata laguna di entrambi, architetto e musicista baciati da una straordinaria tensione poietica.
Riecheggia il dolce naufragare di una barca dai vividi rumori della Venezia secolare. Ora l’acqua è quella del compositore delle… sofferte onde serene…  del suono delle campane, degli schiaffi del remo, dell’incedere sulle fondamenta, del gergo popolaresco, del carnevale irridente, dei botti nella notte del Redentore, dei palazzi nobilmente artigianali, dei baci ansimanti sopra i ponti, degli archi tesi verso tutti gli infiniti possibili.
Quando torna il silenzio, inviolabile e purificatore, il suono che tace diventa dopo anni quello della ritrovata conversazione.
L.N.  _  Ci sono momenti in cui credo di cogliere l’essenza della musica, infine mi convinco che forse soltanto con la morte potrò arrivare al suono eterno cui aspiro…

C.S.  _   Comporre musica, o qualsiasi altra arte, è già vivere avendo la morte a fianco, che altro non rappresenta se non il limite delle proprie possibilità…

L’occhio dello spirito e l’occhio del corpo stanno affiancati come l’arte orientale e l’arte greca.  Entrambi gli uomini possiedono lo sguardo anticipatore del loro gesto rituale e creativo, sulle vestigia di quanto appreso dai grandiosi esempi dell’antichità.

L.N.  _  Ho voluto spaccare la musica almeno quanto tu hai spezzato la materia, volevo vedere la sua anima dentro, plasmarla con il pensiero, redimerla con le mie mani…  
C.S.   _  Ti capisco, del resto solo così nascono idee impensabili per poter ottenere ciò che con esercizio e ambizione va oltre la bellezza, parlo di autenticità, di verità…

Le dita avvicinano alla bocca il legno laccato, silenzioso e delicato, con l’abbandono del palato al sorso salvifico che da millenni la terra offre ai propri figli, pieni di grazia e di amore.
La telecamera indugia sul profilo dei due volti, Carlo Scarpa e Luigi Nono, proiezione di ombre sulla parete di carta morbida, annegate da una luce opalescente, staticità e simmetria, riduzione all’essenziale, silenzio in sospensione fino alla parola che tarda a riprendere, rispettosa della consuetudine stimata dall’artista nipponico.
L’asceta sta sul vetusto spirituale rito del suo paese, la cerimonia del tè, esercizio calligrafico che appiattisce l’immagine contro la lieve umidità del divisorio, sortendo un’opera pittorica. L’inferno è fuori dalla porta e il genio della sottrazione filmica pareggia quello del nascondimento poetico dell’architettura e della musica dei due ospiti.
E’ qui, sul primo piano dell’ultima azione scenica che l’architetto risponde al compositore, dopo che lui per ultimo gli ha chiesto a cosa è paragonabile l’aldilà.

_  Eh anima mia bella, la cosa che più somiglia al Paradiso è il cinema di Yasujiro Ozu _
Torna ai contenuti