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Francesco Sindaco 2021
LAGUNANDO 2021 > selezionati 2021
Bolognese di nascita, scrivo narrativa, opere teatrali e canzoni da decenni, ho diretto diversi spettacoli in importanti teatri in Brianza e fatto centinaia di concerti in giro per l’Italia e all’Estero.
ORTI DEI DOGI
RACCONTO
AEROPORTI ABBANDONATI






1.
«Lei lo sa che non sono malata di testa»
«Io non so niente, io curo l’ingresso dell’istituto»
«Quindi se io una notte scavalco il cancello, lei mi prende con l’uncino?»
«Piuttosto che parlare a me, vada dal capoturno»
«Lei è gentile e di buon cuore, lo si vede»
«E poi dove vuole andare, che è inverno?»
«Io qui al padiglione uscirò pazza per davvero»
«Lo scriva a suo marito, gli dica ciò che dice a me, lui firma il foglio e se la porta via»
«Non verrà mai, sa bene che se lo vedo gli cavo gli occhi»
«Allora forse malata di testa lo è, signora»
«Al contrario! È questo che mi tiene sana di mente. Il pensiero di fargli gettare il sangue, a quello che mi ha rubato la figlia, la casa, la vita e mi ha sepolto qui dentro»
«Che Dio salvi la sua anima, signora!»
«Dio non mi serve a nulla, devo solo uscire di qui»

La campana assordante sovrastò le loro voci. Tutte le donne si alzarono di scatto, quelle sedute sulle panchine, quelle abbandonate sull’erba, quelle appoggiate sugli steccati. Il bastone aspettava chi rientrava in ritardo, e si affrettarono tutte sui vialetti che riportavano al padiglione.
Anche Miriam si alzò dalla panca di legno sotto il porticato all’ingresso. Fece un gesto secco al custode, che girò altrove lo sguardo e si sprofondò nel suo giornale. Lei fece una smorfia con le labbra, si sistemò una ciocca di capelli e scese sul sentiero del parco. Era una donna alta e leggermente ricurva, con grossi gomiti e ginocchia e un lungo naso. Intrecciava nervosamente le lunghe dita candide, da pianista, e lanciava attorno sguardi torvi, mentre superava il primo dei cancelletti interni. Scrutava tra gli alberi e i cespugli, cercando qualcosa o qualcuno, ma senza fortuna. Quell’idiota! Ancora una volta tardi e tornava alle cinghie, o anche peggio. Prese il sentiero largo, affrettando il passo, con il respiro che le si accorciava. Infine la vide là in fondo, accovacciata con la testa tra i rovi del muro di cinta, il grosso culo all’aria, scalza come sempre. Probabilmente a nutrire i topi. “Marta!!!” urlò con tutti i polmoni, ma niente, quell’imbecille aveva le orecchie tappate. La campana stava per cessare, il parco ormai era vuoto. Miriam prese un altro respiro, poi bestemmiò e si mise a correre verso i cespugli.

«Gentilissimo Direttore,
vengo a pregarLo acciò voglia farmi la grazia di farmi andar via di qua. Una decina di giorni di pratiche dicevano? Ebbene, oltre tre mesi e non se ne parla di nulla! E nessuno si fa vivo! Io La prego fervidamente di volermi rimandare con l’infermiera e così ringrazierò i cari Santi che possa riveder casa mia e basta questa penitenza. Lei è gentilissimo ma io qui sento mancarmi la vita e mi vengono svenimenti forti e le iniezioni non mi aiutano e mi sento storpiata.»
«Va bene così?» Miriam allungò il foglio alla donna raggomitolata sul letto, che lo prese e lo lesse lentamente, con molta fatica. «Sì benedetta, sì che Maria ti benedica» Miriam lo riprese «E poi Ossequio, e Vostra serva Annunziata» aggiunse la donna, e si rigirò verso il muro.

Marta mangiava come un animale, dormiva per terra e dovevano lavarla a forza, che strillava e graffiava. Ma quando si chetava e poteva stare all’aria e nell’erba, la mente le si snebbiava, e parlava da cristiana e rideva pure. Miriam sapeva di doverle parlare come ad una bambina, ma aveva quasi cinquant’anni e due figli partiti dai campi e morti in guerra che le avevano rubato il senno. L’inverno per lei era brutto, con gli scuri chiusi, le porte serrate e il terribile fuoco nel camino che temeva come il demonio. Stavano in un cantuccio aspettando il mezzogiorno e l’ora d’aria nel parco, una spilungona pallida come uno spettro e l’altra corta, nera e massiccia.

«Non è cosa di donne, Miriam» la suora aveva abbassato la voce ad un sibilo
«Parla di me, Madre, come fa a non essere cosa di donne?»
«Ridammi il foglio Miriam, e faremo finta di niente, va bene cara?»
«Immoralità costituzionale, ma cosa vuol dire? Io tutti i sacramenti ho fatto»
«Miriam queste sono cose di scienza, tu non le puoi capire, dammi quel foglio»
«Io glielo do, Madre, ma lei mi deve dire cosa significa»
«Figlia mia, tu non hai pace, e tutte queste domande, lo vedi da sola che hai bisogno di aiuto»
«Le iniezioni, sono quello l’aiuto? Che resto una settimana nel letto e vorrei morire da quanto mi scoppia la testa?»
«Miriam, qui ci prendiamo cura di te, lo so che è doloroso, ma ti toglieremo quel demonio che hai dentro»
«Demonio? Ma quale demonio! Il demonio è all’altro mondo, e si mangerà l’anima di mio marito quando finalmente arriverà la sua ora»
«Dio benedetto! Non bestemmiare, che il Cavaliere è tanto buono con te, e chiede sempre»
«Sì sì, il demonio gli mangerà l’animaccia e poi la sputerà fuori, tanto è marcia»
«Madre mia, madre mia, ora non rinnegare Dio e i sacramenti, ridammi il foglio bambina mia»
«Che vuol dire Immoralità Costituzionale, me lo dice?»
«Gaspare, vieni per favore!»
«E non chiami aiuto, non mi tratti come una pazza ora!»
«Gaspare vieni, in fretta!»
«Lasciatemi stare! Lasciatemi stare!”
Gli occhi erano offuscati da chiazze di luce e lacrime. Bloccata sul letto, riusciva a girare un poco la testa di lato, e strizzando la vista distingueva la finestra sul parco, nella luce grigia di novembre. Sul viale di ciottoli vide passare un’ombra nera, forse l’autovettura del Direttore. Un ricordo si destò, e insieme una fitta di rabbia. Il campo di aviazione militare a Centocelle, una cerimonia per i decorati di Vittorio Veneto, Egidio che scendeva da un’autovettura francese nuova fiammante, lei che lo affrontava urlandogli dei negozi di suo padre che scomparivano uno dopo l’altro. Gli occhi di lui che si facevano sottili, il sorriso guastato, e poi la sua schiena mentre si allontanava verso il campo di volo, pronto a ricevere l’onore dei commilitoni. Le bandiere del Regno, le aste degli anemometri, il palco delle autorità, la costruzione grigia e bassa che nascondeva la vista degli aeromobili, tutto si confuse in una nebbia mentre la sua coscienza svaniva.

2.
Più che il sole stesso, è il riflesso della luce di mezzogiorno che l’acceca. Le auto abbandonate sull’autostrada tremolano nella cappa di calore, i camion sono chiazze nere sfuocate. La pianura infinita si sfrangia in profili indistinti di filari, capannoni vuoti, cascine isolate. Anche con gli occhiali scuri Jo deve stringere gli occhi per vedere davanti a sé. Dieci chilometri ancora. Considera di fermarsi all’ombra di una stazione di servizio, far passare il caldo soffocante, ma decide di proseguire, ha ancora abbastanza acqua, si sente bene. Sente le gambe flettersi elastiche, i polmoni che ingoiano l’aria afosa, la fronte investita dalla brezza rovente, tutto è felicità nel corpo. E l’anima segue docilmente, senza chiedere. Il silenzio ormai è il migliore amico, ogni sussurro spicca nitido sopra il mare bianco, i grilli tra i rovi, le rane nei canneti lungo i canali, il fruscio dei topi negli interstizi del cemento, lo stridio dei corvi a vegliarla alti nel cielo. E poi gli echi residui del mondo degli uomini, il cigolare delle imposte sbattute dal vento, il ronzio di qualche generatore miracolosamente ancora in funzione, il motore di un auto che talvolta riesce a far partire. Il suo silenzio ha mille facce. Non è assenza di suoni, è assenza di voci umane. La sua stessa voce tace da anni, la tiene nascosta, in uno scrigno in fondo alla gola, in serbo per la fine del suo pellegrinaggio.

Scavalca il guard rail dell’autostrada, salta un paio di fossati asciutti, si avvicina ad un gruppo di case sparse alla ricerca di cibo e altra acqua. Una fitta rete di rampicanti ricopre ogni abitazione, la strada di ciottoli è coperta di muschio. Jo si muove circospetta verso la piazzetta centrale, seguendo un flebile fruscio di acqua corrente. La fontana non è che un torrentello convogliato in un mezzo tubo di granito. Beve, fa scorta. Di fronte alla fontana c’è un edificio crollato per metà, che doveva essere l’emporio del paese, ora divorato dai cespugli. L’orologio stradale ben in vista, fermo ad un’ora casuale dopo la fine di tutto.

Sale un vento caldo e fa vibrare le foglie di edera. Jo si accovaccia all’ombra di un edificio, su una piccola scalinata. Probabilmente era la chiesa del paese. Sopra di lei i corvi gracchiano poi si allontanano, lei li segue con lo sguardo fin quando non scompaiono nel riverbero dei campi. Strizza gli occhi, vede qualcosa, il cuore accelera, è un filo di fumo. Scatta in piedi, si rimette lo zaino, comincia a correre, poi si ferma. Calma Jo, calma. Non sarà nulla, non è mai nulla. Eppure, ogni volta la speranza maledetta riesce a farsi strada. Anche dopo tutti questi anni. Affretta il passo, è un gruppo di costruzioni, forse stalle o fienili. C’è davvero del fumo. Avvicinandosi scorge le fiamme che emergono dalle pareti di legno, e cominciano a consumarle. Autocombustione. Non c’è nessuno, come al solito. Jo si siede su una roccia e fissa il fuoco, che lentamente ha la meglio, finché il tetto non crolla con fragore, sollevando una nube enorme di scintille.
Accanto a lei si posano due grossi colombi. Lentamente si sfila lo zaino, apre una tasca e ne estrae un pacchetto di cracker, ne sbriciola un paio e li porge sul palmo della mano agli uccelli, che si avvicinano zampettando e in pochi secondi li fanno sparire.
L’aria ha odore di resina e di fumo, ma il cielo è limpido come vetro.
Jo si ributta lo zaino in spalla, e si rimette in cammino verso ovest.

La terra è in pace, finalmente. In pace con le sue stagioni, le siccità e le gelate, le tempeste e le alluvioni. È in pace con gli eterni ritorni che la governano, le maree di vita e morte, l’equilibrio cangiante ma immutabile fra gli stati della materia. La terra è in pace e finalmente respira, sotto gli orologi del cielo, così immensamente grande e accogliente. Così era il cielo prima dell’uomo, e così è tornato ad essere dopo l’uomo.
Jo ha smesso di chiedersi perché sia stata scelta a testimoniare il mondo dopo di noi. Ma ancora ringrazia ogni risveglio, ringrazia la pace del grande cielo, questo vento caldo e le sue gambe forti, i suoi compagni uccelli e il librone delle carte stradali del Nord Italia, che la guidano verso il prossimo aeroporto.

In passato ha usato le auto abbandonate per fare tratti più lunghi. Era diventata capace di aprire un auto in pochi minuti, e in molti casi la batteria era ancora carica, e c’era benzina in abbondanza. Oltre a quello, ricaricava regolarmente lo smartphone, quando ancora sperava di trovare reti attive. Talvolta trovava persino dei vecchi lettori CD, e metteva la musica a tutto volume, per sentirne l’eco nella pianura. Ma ora preferisce il silenzio, e preferisce avanzare a piedi. Passo dopo passo sente di avvicinarsi alla pace della terra.
Quando arriva all’aeroporto è un’alba fresca, con poche nuvole all’orizzonte. La tozza torre di controllo è ancora in piedi, e così pure i tralicci con i fari di segnalazione. Esce dalla strada e taglia i campi verso la recinzione. Si ferma, rilegge per la milionesima volta il messaggio nello smartphone e inevitabilmente, fastidiosamente, il cuore comincia a batterle forte. Si infila nella recinzione e cammina verso la pista e il terminal, affrettando il passo.

3.
«Santa Madre, mi fai scoppiare la testa!»
Miriam rise «Non è difficile, tu li hai visti gli aeroplani, vero?»
«Mai con questi occhi dal vero, ma Giannino una volta mi portò una cartolina con gli aeroplani, e poi vidi i manifesti di D’Annunzio e della guerra e il demonio austriaco»
«Ecco brava, ora immaginati un aeroplano cento volte più grande, con seggiole e tavoli per mille persone, tutto chiuso e liscio come un uovo e con le finestre tonde come i traghetti»
«Ma come te le immagini queste cose, figlia mia? Tu figlia di bottegai sei»
«Non me le immagino, è il sogno che torna ogni notte e mi accompagna»
«E che succede in questo sogno?»
«Nulla succede. Io cammino cammino sola nei campi, o sopra strade di cemento liscio, e non c’è un solo cristiano, nessun’anima viva»
«E dove vai?»
«Non lo so. Credo di cercare qualcosa. O di trovare qualcuno. Ma non so»
«E poi?»
«Poi entro negli aerodromi, ma non sono come quelli che ho visto io, no sono cento volte più grandi, e sono tutti pieni di questi aeroplani giganteschi»
«Madre mia!»
«Dovresti vederli Martina, sono di tutte le tinte, a strisce e con animali dipinti, e lettere e simboli»
«E volano? Partono e arrivano?»
«No, è questa la stranezza. Sono vuoti, lì fermi tutti in fila come in sortilegio, e neanche un cristiano in giro»
Marta si fece il segno della croce «E hai paura in questo incubo?»
«Non è un incubo, è un bel sogno. Il cielo è così grande, la strada è così libera… mi sento così bene che mi sveglio in lacrime.»

Con l’inverno era venuta la neve e la vita dura, sempre chiuse là nello stanzone di lavoro, scuri serrati, puzzo acre e sudiciume. Sedute su sgabelli e appoggiate al muro rattoppavano maglie e calzoni portati dalle suore. Alcune parlavano a voce bassa. Altre lavoravano corrucciate senza alzare gli occhi. Altre ancora non potevano tenere l’ago, e stavano solo sedute e guardavano fisso, sbavando, o ridevano e gridavano alle pareti. All’ora di mezzodì le portavano tutte in fila nel salone immenso dove donne e uomini attendevano in file separate, e dopo l’Ave Maria e il Padre Nostro riempivano la scodella e si sedevano su tavoli lungo le pareti opposte. Molti uomini non si tenevano e urlavano oscenità, altri ridevano toccandosi l’inguine finché qualcuno non esagerava tirando fuori i genitali, e veniva portato via di forza dagli inservienti. Sapevano bene che si finiva al flagello, ma non tutti resistevano. Molti erano matti di guerra, vittime come Marta, ebeti o melanconici, oppure isterici e maniacali. Miriam ne evitava persino lo sguardo, ma altre scappavano la sera, le trovavano ignude nei corridoi e finivano alle cinghie.

«Ripetuti accessi di ira e turpiloquio, aggravati da offese blasfeme alla fede cristiana. Ostentato spregio dei valori e ruoli della famiglia. Disprezzo dell’autorità e delle figure patriottiche e istituzionali. Deliri persecutori riguardo il personale, la direzione e in special modo riguardo il marito, il Cavaliere del Regno Egidio Occhipinti. Non è cosciente della propria condizione nevrotica e attribuisce ogni suo disturbo a macchinazioni dei suoi nemici» l’uomo si sistemò gli occhiali e alzò lo sguardo. «Ma voi certamente non vi riconoscete, vero?»
Miriam si torturava le mani, guardando in basso «È pazzia tutto questo? È per queste cose che seppellite viva la gente?»
«Signora, vi prego. È già oltremodo irregolare che io vi legga la cartella, ma in onore del cognome che portate…»
«Rimandatemi a casa, io non ho fatto male a nessuno»
«Miriam, non è questo il punto»
«Portatemi con la vostra macchinona oltre le mura, poi lasciatemi pure in strada»
L’uomo sospirò «Dovete avere pazienza, già vediamo tanti miglioramenti»
Miriam scattò in piedi «No, voi dovete dirmelo se questa è pazzia. Ve la voglio sentir dire questa bestemmia, da quelle belle labbruzze pallide»
L’uomo aggrottò la fronte, la voce divenne un sibilo «Voi signora non sbavate, se è questo che mi chiedete, non date la testa sui muri, non vi defecate addosso… ma la pazzia morale è forse ancor più feroce»
«Io non so di cosa parlate!»
L’uomo la interruppe, alzandosi «Lo so bene che non sapete! È l’onore insozzato, signora, l’onore di una famiglia decorata, è una figlia umiliata da una madre indegna… »
«Non nominate mia figlia ora!»
«…è un furore che non ha posto là fuori, in una società disciplinata e moderna, è una febbre isterica di rabbia che spazza tutto» si fermò, la voce si addolcì «Una febbre che noi però possiamo spegnere» le si avvicinò, le mise la mani sulle spalle «E poi vi riporteremo a casa, non dubitate»
«Fatemela vedere, almeno una volta»
«Tutto a tempo debito, signora, ve lo prometto»
L’uomo guardò il grosso orologio al muro «Ora però mi dovete scusare, già mi attendono» la porta dietro si aprì, Miriam abbassò lo sguardo, chiuse gli occhi, strinse i pugni. La decisione era presa.

4.
Un aeroporto abbandonato non è solo un edificio vuoto. Nelle case abbandonate Jo trovava ancora lo spirito degli uomini. Fotografie, abiti appesi, scarpe, giocattoli, fiori secchi. L’aeroporto invece non è di nessuno se non del movimento, del transito, delle ombre veloci. Vederlo così immenso e immobile le desta sempre un timore quasi religioso. Le grandi vetrate sulla pianura, le file interminabili di carrelli, i banchi silenziosi del check-in, come abitati da fantasmi. Una cattedrale del vento in disuso, in cui l’aria si intrufola ancora, talvolta, fischiando forte e sollevando in turbini carta e rifiuti. Lei cammina davanti ai grandi manifesti di moda, orologi di lusso, carte di credito, supermodelle in pose aggressive, alberghi esclusivi, auto sportive, e si sente sollevare in uno spazio astratto. Il silenzio qui dentro è alieno, gelido come lo spazio siderale, le opprime le orecchie.

Le luci in alcuni negozi di abbigliamento sono ancora accese, e i manichini lì in posa a riprodurre l’umanità, intenta in cose perlopiù inutili.
Incrocia uno specchio, si intravede e ha un sobbalzo al cuore. I suoi occhi chiari e induriti dalla solitudine, i capelli color cenere, la pelle cotta dal sole, i vestiti a strati, da vagabonda. Distoglie in fretta lo sguardo.
Una lunga passerella la conduce all’ultimo terminal, dove tre grandi aerei sono pronti per l’imbarco, e i finger aperti e bui conducono a bordo. Jo per un attimo pensa di dare un’occhiata, poi le prende un brivido e indietreggia. Qui non è posto per i viventi.
Riguarda lo smartphone, scorre il messaggio, fissa l’immagine ancora una volta.
La foto è presa certamente all’interno di un terminal, si scorge un finestrone sulla pista, delle poltroncine azzurre. Ma diverse da queste. No, non è questo il posto.
«Sono all’aeroporto, se c’è ancora qualcuno incontriamoci qui!» e nient’altro.
Jo non sa come abbia fatto a ricevere quel messaggio, arrivato ben dopo la fine del mondo, attraversando un etere ormai silenzioso, forse portato personalmente dagli angeli, o da uno stormo di corvi. Si riscuote, affretta il passo, deve uscire in fretta da quegli spazi morti.

Di nuovo sulla pista accecante di sole, respira a fondo sollevata. Qui gli uomini potevano volare. Qui milioni di uomini si staccavano da terra ed entravano nelle nuvole. Ora che non resta nemmeno la pallida ombra dell’uomo, a cosa serve questo luogo? Perché è proprio qui che lei deve cercare? Guarda in alto, guarda il cielo abbandonato dagli uomini. Immagina tutte le rotte, tutte le strisce bianche che sbiadiscono nell’aria. Immagina la sua propria rotta, un viaggio ai margini di tutto, oltre il tempo massimo, senza una destinazione. Gli uccelli girano, le tracciano cerchi immensi sopra la testa.

5.
Nel Padiglione mischiavano chi matto era e chi lo diventava, e anche le creature che mai avevano visto il mondo di fuori. Il loro di mondo era il Padiglione, urla improvvise, bocche spalancate, occhi sbarrati e merda per terra. Miriam leggeva libri ai piccoli, quello che c’era, Salgari era il preferito ma anche David Copperfield e copie del Balilla, le creature ascoltavano senza capire molte delle parole e Miriam s’ingegnava a spiegare il treno o i galeoni o il moschetto. Anche Marta e altre donne ascoltavano mute, e talvolta lo stanzone si faceva immenso e il vento dai punti cardinali soffiava voci da mondi misteriosi, fin negli angoli più bui. Spesso saltava su Ninì, un ragazzetto ossuto dalla testa riccia come un cespuglio, e faceva i versi delle scimmie, o sparava con la bocca e poi cadeva morto a terra. Non si teneva, tanto che dovevano zittirlo, o sarebbe arrivato l’inserviente e li avrebbe fatti smettere. Non si faceva toccare e viveva negli angoli, ma durante quelle storie i piccoli occhi gli si accendevano come braci e il viso gli si illuminava a giorno. Succedeva che si avvicinasse a Miriam e le desse uno spintone. Al terzo spintone Miriam alzava lo sguardo dal libro e gli dava uno spintone a sua volta. Lui rotolava a terra in modo drammatico e rideva. Tutti guardavano a bocca aperta, che Ninì non si avvicinava alle persone, e figuriamoci farsi spintonare.

Quando poi suonava la campana della sera i piccoli li portavano via, e la luce veniva abbassata. Loro tornavano lente verso la camerata, e Marta trotterellava accanto a Miriam, le si attaccava al braccio.
«Hai sognato ancora gli aeroplani?»
«Mmm»
«Dimmi il tuo sogno»
«Non ne ho voglia oggi»
«Che mi fa bene per dormire»
Miriam rise “È così noioso?»
«No, mi figuro gli aeroplani giganti che partono e così dormo»
«Bene»
«E allora?»
«Che tigna insistente»
«Racconta»
Miriam se la staccò dal braccio, si stese sulla branda e si stiracchiò «Ieri non c’era l’aerodromo. Cammino cammino sulla strada, in mezzo alle automobili abbandonate, che sono strane e rotonde e lisce come sottomarini. È quasi sera, ci sono nuvole all’orizzonte, e di colpo vedo davanti il riflesso del sole rosso nell’acqua. C’è acqua ovunque. La strada è interrotta, c’è una grande laguna, e canneti e isole di terra nuda»
«O madre! E che hai fatto?»
«Ci sono gli uccelli, i corvi a decine e decine che mi seguono sempre, sono sempre sopra la mia testa, e ora volano avanti sulla laguna, e poi scendono e si posano sull’acqua. Scendono dove l’acqua è bassa, dove io posso camminare»
«Segnano la strada»
«Sì, io entro in acqua, vado verso gli uccelli e loro svolazzano un po’ più avanti, mi mostrano il sentiero attraverso la laguna. Il sole sta tramontando, ed è come se camminassi sul mare, un mare rosso e liscio come uno specchio. Quando ritorno sull’asciutto è già quasi buio, e gli uccelli si alzano in cielo, gracchiano e scompaiono, e io riprendo a camminare. È come una magia, Marta, vero? Marta?»
Marta russa sognando di aeroplani, sogna che le portano indietro i suoi figli, pidocchiosi e magri da far spavento ma vivi, da curare e rifocillare e riabbracciare.

Miriam invece non dorme. Il buio è nemico, la notte è feroce. Niente facce smunte di suore da insultare, niente lettere da scrivere per le compagne, niente ricamo sugli stracci, niente Marta da rincorrere, niente camminare in cerchio nel parco gelato di brina. Solo il buio, che le riporta lo specchio dei suoi dolori, e non ha difesa. L’umiliazione di Egidio che la fa legare al suo letto, la sua amica seduta lì accanto che le sorride condiscendente, come ad una matta, e poi guarda Egidio di sottecchi, la troia. E dietro ad ogni cosa, sua figlia. Anche se ci prova non riesce a cacciarla giù nell’oblio. Sua figlia Iris che la chiama e lei non può rispondere, tanto l’hanno drogata. Una piccola di dieci anni non può capire. Egidio che la porta via dalla stanza, il suo viso ad oliva liscio come porcellana, gli occhi allungati e le gote rigate di lacrime. Via da lei, strappata via, estirpata dal suo petto. Miriam rannicchiata sulla brandina mugola come un’animale ferito, graffiando il muro con le unghie già tutte spezzate. Se c’è una giustizia qualcosa deve spezzarsi. Se c’è giustizia si spezzerà. E se la giustizia tarda, ci penserà lei.

6.
Jo sta alla larga dalle città. Le città sono dei topi.
Stavolta però non ha scelta. A nord il bosco si è mangiato tutta la campagna, e nel bosco non si può entrare. Il bosco è dei lupi. Con l’autunno in arrivo poi, il sole scende in fretta, e con il buio loro escono in branco, con i loro occhi vuoti, e anche le rovine di una casa potrebbero non essere abbastanza per proteggersi.
Vede già in lontananza un grande parcheggio. Deve essere un centro commerciale. Oltre dovrebbe esserci la tangenziale, che la porterà direttamente all’aeroporto. Così dice la cartina. Sempre che ponti e svincoli siano praticabili e non divorati dai rovi.
Si inoltra nella sterpaglia, fra grosse pozzanghere. Trattori, macchine agricole abbandonate. Gli stivali affondano nella terra fangosa. Ma con l’arrivo del freddo sono sparite le zanzare, ed è un bel sollievo. Spera davvero che gli uccelli restino con lei questo inverno. Anno dopo anno, sente di avere sempre più bisogno delle sue sentinelle lassù in cielo.

All’imbrunire arriva al grande spiazzo, pieno di auto abbandonate in ogni angolo.
È stata imprudente. Pensava di raggiungere la tangenziale prima di notte, e invece ora deve trovarsi un rifugio accanto ad un ipermercato, pieno di alimenti e quindi di topi. Passa davanti ad uno degli ingressi del centro commerciale, le porte sono spalancate, bloccate dall’edera, dentro è già buio. Di giorno si sarebbe avventurata, le serve del cibo, le servono scarpe, ma entrare adesso è un suicidio. Si allontana fino all’angolo più remoto del parcheggio, sceglie un SUV abbandonato, si rintana dentro facendo scattare il blocco serratura. I topi non aprono maniglie, ma si sente comunque più tranquilla.
Inaspettatamente, una luce del parcheggio si accende all’arrivo del buio. Poi un’altra, e un’altra ancora. Infine, proprio davanti a lei un grande schermo buio comincia ad animarsi, con strisce colorate prima spezzate, baluginanti, poi sempre più stabili, larghe, intense, finché alcune figure non cominciano a distinguersi. Facce, oggetti, scritte.

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I corvi gracchiano appollaiati sullo schermo, e guardano lo spettacolo che si ripete all’infinito.
Jo, gli occhi fissi sull’inatteso regalo del passato, scivola lentamente nel sonno con una sensazione dolce addosso. Le sembra di dormire a casa sua, nel suo letto.
Non è più l’intrusa nel mondo dei topi e dei lupi, la sopravvissuta, la fuggiasca, la protetta dei corvi. È il contrario, sente di avere tutto il diritto di essere dove si trova.

7.
«Portami con te»
«Marta non posso»
«Se c’è da fare qualcosa io la faccio»
«Non hai capito, non puoi venire»
«E perché?»
«È pericoloso»
«Io non ho paura»
«Martina, ti faccio una promessa»
«E cosa?»
«Che torno a prenderti»
«Quando?»
«Ritorno a casa, mi riprendo la mia vita, e tu vieni a stare con me»
«Con te?»
«Con me e con Iris»
Marta si segnò, poi aggrottò la fronte e cominciò a piangere in silenzio.
Miriam l’abbracciò forte, la cullò per un istante.
«Torna a letto subito ora, va bene?»
Marta taceva.
«Va bene?»

La neve rifletteva la luna, e il parco era immerso in una luce chiara. Miriam sapeva perfettamente dove andare, aveva provato quella strada mille volte. Dietro i cespugli, fino al muro di cinta. Aveva addosso il cappotto cucito di nascosto con gli scampoli di lana e le scarpe pesanti sottratte ad una suora, ma rabbrividiva comunque. Oltre il pozzo murato, lungo il perimetro fino al vecchio cancello in disuso. Lì ci si poteva arrampicare, e dall’ultima traversina arrugginita raggiungere con le mani la sommità del muro di cinta. Allungò il braccio destro in alto, tastò cercando un appiglio, quando un dolore lancinante alla mano le attraversò il braccio. Urlò, cadde all’indietro nella neve. Stordita, si guardò la mano. Aveva un taglio sul palmo, profondo e frastagliato. Vetri, o un chiodo. Maledetti bastardi. Pulì la mano con la neve, era fradicia e congelata, non sentiva più dolore, si rialzò, salì nuovamente sulle sbarre del cancello, allungò nuovamente la mano in alto, con prudenza. Sfiorò i vetri conficcati nel cemento, riuscì ad aggrapparsi al bordo del muro, allungò l’altro braccio e fece lo stesso. Mise il piede sull’ultima traversina del cancello, si tirò su a fatica. Oltre il muro, là in basso era buio. Aveva sbirciato fuori un giorno, e ricordava fitti cespugli.
Doveva calarsi, aggrappandosi solo con le mani, poi lasciarsi cadere e sperare. La mano le diede una fitta insopportabile. Si morse le guance per non urlare ancora.
«Ehi, c’è qualcuno là fuori?» una voce risuonò nel silenzio. Lei si raggelò. Una luce di lampada scendeva oscillando dal padiglione nel parco. Era allo scoperto, l’avrebbero vista. Guardò giù, era buio pesto, almeno tre metri. La luce si avvicinava «Chi è là? Fatevi vedere!» Miriam trattenne il fiato e si lanciò nel vuoto. Cadde malamente sulla gamba sinistra, rotolò giù nei cespugli, colpì qualcosa con la testa e perse i sensi.

Si svegliò nel buio, incastrata fra i rovi. Era fradicia di neve e sentiva un bruciore sordo al piede sinistro. Provò a fare un piccolo movimento, ma fitte acute la paralizzarono a terra. Respirò per controllare il panico. La mano le pulsava, e così la testa. Temeva di svenire ancora, così prese coraggio e con uno scatto si tirò a sedere, mugolando dal dolore. Aveva qualcosa di rotto, la caviglia forse. Ma era fuori!
Con immensa fatica, usando la mano sinistra e la gamba destra riuscì a tirarsi in piedi.
Appoggiandosi agli alberi, procedette un passetto alla volta fuori dai cespugli.
Fu presa da un attacco di brividi talmente forte che quasi cadde a terra. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Doveva camminare. Doveva arrivare alla strada. Confusamente, udì rumori lontani dietro di lei, aldilà del muro, ma non se ne curò. Tutto ciò che contava era camminare ora, un passo. Un altro passo. Tutta la sua vita, tutto il suo futuro erano in quei passi, uno dopo l’altro.

Distinse un baluginio in lontananza, dove gli alberi si diradavano, erano i lampioni della strada, subito fuori dall’istituto. La strada di casa. La strada, ampie curve, lunghi rettilinei e discese buie, e niente più muri fra lei e casa sua, fra lei e sua figlia. Ci sarebbe arrivata, doveva. Ma appoggiò il piede su qualcosa di cedevole nella neve, si sbilanciò e cadde ancora, quasi dolcemente, sul fianco. Restò giù senza fiato, con la testa che le girava all’impazzata. Non riusciva più ad alzarsi, il freddo la prendeva pian piano, era quasi come il sonno. Solo pochi passi, la strada era lì, appannata dalle lacrime. Di sudore, d’impotenza, di rabbia disperata. Non riusciva a muoversi, non ci riusciva. Ancora una voce, questa volta vicina, poco più avanti. Riconobbe il guardiano, chiamava il suo nome. Senza cattiveria, quasi con premura. Miriam avrebbe voluto restare lì. Lì immersa nel buio ad aspettare il sonno. Voleva morire lì fuori, libera dal demonio e dall’ingiustizia. Ma lui era un brav’uomo, non era il demonio. Non sapendo neanche perché, alzò una mano e con le forze rimaste lo chiamò, più e più volte. Le ultime cose che percepì prima di perdere i sensi furono la luce della lampada che si fermava, e si girava ad abbagliarla attraverso gli alberi, e il rumore di passi nella neve che le si avvicinavano.

8.
Sono le sette del mattino e la nebbia domina la pianura. L’aeroporto visto dall’alto dello svincolo è uno spettro scuro che emerge dalle nuvole. Un quadrifoglio alieno, accerchiato dai dorsi di decine di giganti alati che affiorano appena dal mare bianco.
Jo ha il cuore in gola. Gli uccelli sopra di lei oggi sono centinaia, accorsi per un grande spettacolo. È qui, non ha dubbi. È arrivata alla sua destinazione. Se lo sente sulla pelle. Cammina veloce, quasi corre quando passa accanto alla fila interminabile di taxi vuoti a bordo strada. Ci sono carrelli con migliaia di bagagli pietrificati dal sole, dal gelo, dal vento e dalla polvere.
Le prime porte automatiche sono bloccate, ma una porta antincendio laterale la fa accedere al grande salone delle partenze. Dovunque ci sono tracce di presenza umana recente. I negozi sono stati svuotati, ci sono enormi casse di acqua minerale accatastate sulla vetrata posteriore. Infine, uno dei grandi corridoi che dal centro del terminal portano ai gate è ostruito con lunghe casse di plastica, incastrate a mo’ di mattoni. Davanti, lunghe strisce di veleno per topi che attraversano il corridoio da parte a parte. È lì che si rifugia, ne è certissima, chiunque sia.

«C’è qualcuno?» grida più forte che può «C’è nessuno?» risente finalmente la sua voce, che si accende e prende forza. Ma nessuno risponde. Sposta alcune casse, riesce ad intrufolarsi oltre nel corridoio. Da dietro un angolo, sente provenire un sottofondo di musica classica. Sporge prudentemente la testa e resta immobile, attonita.

In mezzo al corridoio c’è una lunga tavola, riccamente arrangiata per un banchetto. Seduti ci sono sei manichini maschili e sei femminili. Sono vestiti di tutto punto, con abiti elegantissimi, cravatte ricercate, gioielli, foulard e collane.
Sopra la tovaglia di seta piatti di porcellana, calici di cristallo, zuppiere d’argento e decine di bottiglie. Champagne, Sassicaia, Sauternes, Amarone. E scatolette di fois gras e caviale grigio del volga, impilate a decine. L’insieme appare come un grottesco set fotografico. Un posto è libero, a capotavola.
Oltre il banchetto, grosse tende nere chiudono il corridoio, e Jo deve infilarsi di lato.

Dietro il tessuto pesante di colpo si piomba nella semioscurità, punteggiata da spilli di luce rossi e gialli. Un profumo penetrante di incenso la assale. Appese al perimetro, lampade lava con bolle color fucsia e arancio. Gli occhi si abituano all’oscurità e Jo distingue sagome immobili, teste, braccia levate in alto sopra una grossa ombra, forse un divano. D’istinto si irrigidisce, ma realizza in pochi istanti che le presenze sono ancora manichini. Si avvicina, sono donne in biancheria intima, arrangiate in varie pose sessuali, che circondano il grande divano, coperto di cuscini. Jo distingue un tavolino, forse di cristallo, con sagome di bottiglie appena intuibili, un bicchiere, altri piccoli oggetti. Da lì sente provenire il profumo di incenso bruciato. Non c’è altro, non ci sono viventi neppure qui, un sudore freddo la invade, cerca veloce un’uscita e passa oltre, sbucando fuori dai tendaggi.

La luce intensa la obbliga a coprirsi gli occhi. Ovunque immagini e scritte lampeggianti. Le due pareti del corridoio sono completamente tappezzate di televisori ad alta definizione, accesi su programmi diversi, collegati ad una ventina di lettori DVD allineati lungo una parete da un intrico di cavi neri. Scontri di auto, bombardamenti su città, sfide mortali fra robot giapponesi, combattimenti di arti marziali, scene di sesso, fuochi, esplosioni, metallo, uragani, eruzioni, onde giganti. In mezzo al caos di immagini una poltrona girevole in pelle nera, una cuffia con led lampeggianti, un telecomando brulicante di tasti. Jo sente il malessere che cresce, nausea e formicolio a mani e piedi, un forte giramento di testa. Non sofferma gli occhi sulle immagini di guerra attorno a sé, supera i secondi tendaggi. Lungo il muro ronza un generatore a benzina, accanto ad una tanica semivuota e a quattro frigoriferi grossi come armadi, stipati all’inverosimile.
Passa accanto alle porte dei bagni, sprangate e sigillate con nastro adesivo. Infine il corridoio termina nella grande sala circolare dei gate da 21 a 35, che si affacciano direttamente sulla pista.

La nebbia si sta alzando, il sole filtra nell’ambiente, e la vista fa trasalire Jo ancora una volta. Decine di sagome sui sedili, alcune in piedi, alcune penzolano dal soffitto. Manichini, ovviamente. Viaggiatori con trolley, bambini con pupazzi, coppie abbracciate sulle poltroncine, che guardano i monitor spenti. Hostess alle gate che invitano con sguardi fissi i passeggeri in fila ad affrettarsi, l’aereo imbarca il settore A, prima gli executive, first class e business, poi le famiglie con bambini e i disabili.

Ma le figure appese in alto sono qualcosa di diverso. Sono vestite di nero, con drappi lunghi e braccia aperte come angeli dannati. Jo si ferma sotto ad una di loro. Il viso è dipinto di giallo, gli occhi sono cerchiati di nero. Tengono in mano dei filamenti trasparenti, forse brandelli di plastica, che penzolano nel vuoto, come a cadere sui passeggeri ignari.
Jo non ricorda, non ricorda nulla, ma quelle figure le ghiacciano il sangue. Alcune sono monche, alcune decapitate. Frammenti di manichino sono sparsi un po’ ovunque sul pavimento. Alcuni pezzi di plastica sembrano bruciacchiati. Jo si guarda ancora intorno, e scorge sul lato opposto della sala un lungo tavolo completamente coperto da armi. Pistole automatiche, fucili da caccia, pugnali e bastoni chiodati. E decine e decine di scatole di cartucce di ogni calibro.

Il rombo del motore di un auto la riscuote, è ancora lontano ma si avvicina rapidamente. Corre verso la vetrata, alta sopra la pista di decollo. Vede apparire i fari nella nebbia in fondo, e un istante dopo la macchina rossa le sfreccia di fronte a velocità folle. Vede altre macchine sportive allineate a bordo pista, all’uscita della scaletta a chiocciola proprio sotto di lei.
Indietreggia, torna di corsa verso il corridoio, poi si ferma, incerta. L’eccitazione di un’ora prima si è trasformata in panico. L’auto sta tornando, il motore si spegne, poi di nuovo silenzio. Dopo pochi istanti, passi rapidi e pesanti sui gradini di metallo della scala a chiocciola. Non c’è tempo, Jo si rifugia in un gate cieco, dietro ad una delle hostess.
Un uomo entra dal gate 31. È vestito con un giaccone lungo di pelle nera, e indossa una specie di cappello da cowboy. Ha un fucile a tracolla, gli occhiali a specchio e una folta barba scura. Fa alcuni passi, poi si ferma, guardandosi attorno. Jo si raggela nel suo angolo. L’uomo le passa a pochi metri, lentamente. Jo sente rumori metallici, poi un urlo rabbioso e uno sparo. Sobbalza, ma ha abbastanza freddezza per non muoversi. Una risata, un altro urlo, un altro sparo. I passi si allontanano. Jo sbircia tra le gambe del manichino, vede brandelli di un angelo nero davanti a loro. Parte una musica hard rock, attutita dai tendaggi. L’uomo deve essere alla sala dei televisori. Jo scivola silenziosa di gate in gate, fino alla 31, arriva alle scale a chiocciola metalliche. Si ferma. La musica continua. Jo scende rabbrividendo ad ogni scricchiolio dei gradini. Apre la porta di sicurezza, e l’aria gelida e pulita l’assale, come una benedizione.

Mentre corre a perdifiato verso i campi, immagina ad ogni passo uno sparo che la colpisca alla schiena. Ma nessun rumore rompe il silenzio. Un’ora dopo Jo è nuovamente in alto, nascosta fra gli alberi che ricoprono lo svincolo autostradale, a guardare l’aeroporto in basso con il binocolo. Ora vede l’uomo. È uscito sulla pista, sembra molto agitato, muove le braccia, probabilmente sta gridando qualcosa. Si è accorto del suo passaggio, la sta cercando. Jo prende un profondo respiro, poi guarda in alto. Gli uccelli si disperdono, Jo è dispiaciuta per loro. Forse si aspettavano qualcosa di grande, ma purtroppo nulla può più succedere, lo spettacolo è finito.
Ora si parte davvero, si vola al sud per l’inverno. Jo si scopre a sorridere, annuisce. Al sud.

È il pomeriggio di un giorno di fine gennaio quando Jo supera l’ultima collina. Scende in un canalone roccioso, rabbrividendo nel giaccone, con l’aria che le gela il fiato. Evita i cespugli di rovi, poi si cala ancora più giù attraversando un bosco di pini ricurvi. Alla base di una ripida balza di rocce, come per prodigio il vento smette di fischiare. Pochi minuti dopo Jo emerge dagli alberi e si trova davanti il mare, incuneato lì in fondo fra due scogliere e tinto di colori miracolosi. Affretta il passo giù per il sentiero scosceso, finché non arriva ai resti di una strada asfaltata. In meno di un’ora giunge al villaggio fantasma, addormentato sulla spiaggia di ciottoli fra i due promontori. Scende fino al porticciolo, in cui relitti di piccole barche ancora ondeggiano con la marea. Segue il molo fino all’estremità, poi si siede sul bordo, appoggiata all’ormeggio di metallo. Guarda davanti a sé verso l’orizzonte gli uccelli neri che danzano nel cielo, riflessi nel mare.
Ecco il suo capolinea. Da qui in avanti gli uccelli proseguiranno senza di lei.
Sente i muscoli delle gambe che si rilassano, il suo viso riscaldato dal debole sole, il suo respiro rallentato. È così stanca. E ora? Chiude gli occhi lentamente, si lascia cullare dallo sciacquio delle onde, accoglie il tepore che le entra nelle ossa. Domani. Domani.

9.
Marta non la tenevano più. Era tornata la bestia dei primi giorni all’istituto. Gridava, scalciava, non stava più nel letto né in fila per il cibo. Era lercia da non potersi avvicinare. Le cinghie servivano a poco, che liberata e smaltite le droghe tornava tale e quale, a mordere e bestemmiare. I capisala discutevano se ormai fosse senza speranza, e da rinchiudere in isolamento con gli psicotici. Finché un giorno madre Benedetta le si avvicinò e le sussurrò qualcosa. E Marta si fermò come d’incanto.
Era sera, e la suora camminava nel corridoio semibuio. Marta la seguiva docile e silenziosa. Salirono due rampe di scale, fino all’ultimo piano. Arrivarono davanti ad una porta, madre Benedetta entrò senza rumore, poi fece un cenno con la testa a Marta, che la seguì, facendosi il segno della croce.

Miriam era sdraiata sul letto sotto una grande finestra, aveva gli occhi semiaperti ma non vedeva. Era pallida come la neve, ma pettinata e pulita. Il parco fuori dalla finestra era anche stanotte illuminato dalla luna. Madre Benedetta le sfiorò la fronte bisbigliando una preghiera, poi si voltò verso Marta, che era rimasta sull’uscio, pietrificata e senza parole.
«Non sta soffrendo, figlia mia. È in pace ora, e ci prendiamo cura di lei. Vieni avanti»
Marta tentennò, poi si avvicinò al letto.
«La sua bambina viene a trovarla. Potrai venire anche tu ogni tanto, ti ci porterò io. Puoi prenderle la mano se vuoi»
Marta singhiozzava in silenzio, ma si fece forza e le prese la mano. La suora fece un passo indietro, guardandole con compassione, aspettando.

10.
Non possono più prenderti ormai, sei nella corrente, scivoli avanti, cento anni più avanti. Un battito di ciglia per il creato, una lunga interminabile discesa per te, avvolta in un guscio fluido e lucente. C’è un freddo immenso e benvenuto, c’è beatitudine nell’apnea, nella vertigine e nella dispersione. Ora non c’è più paura, non è più soltanto un sogno, è tutta la realtà che sei diventata.
Cento anni nel futuro e ora anche l’altra donna ti si affianca, e ora sei tu e sei l’altra tu, non più sole, insieme in questo precipitare verso l’alto.
Altri cento anni più avanti, insieme. Vi tenete per mano senza vedervi né sentirvi.
Finché alto e basso si confondono, e sotto di voi il vuoto senza fine finalmente diventa boschi e laghi e montagne e nuvole basse. La terra di nuovo, rifiorita dopo il lungo letargo.

Il vento gelido vi sferza la ali nere, immense, dandovi un piacere profondo. Siete grandi come una nuvola, nate per volare, siete il guardiano del cielo. Vi avvitate su voi stesse e scendete in picchiata. Vedete qualcosa nella foresta, tra le volute di vapore. Vi stupite della vostra vista sovrumana. Sono rovine, quasi completamente cancellate nel verde. Passate rasenti al suolo, guardando curiose quelle mura consumate. Ancora poco e scompariranno. Ma non voi. Voi potrete volare alto sopra gli oceani, bucare i temporali, esplorare le vette del mondo. Voi potrete farlo rinascere il mondo, ancora una volta, ne sarete prime testimoni, danzando nell’aria, seguendo le curve dei fiumi, accordando il canto degli uccelli. Le vostre due antiche identità sbiadiscono e scompaiono veloci in questo sogno, ma non il vostro spirito, che finalmente dopo tanto vagabondare ha trovato la sua ultima destinazione.
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