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Liliana Paisa 2021
LAGUNANDO 2021 > selezionati 2021
Già presente edizione:
2020


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RACCONTO
Infermiera professionale.
Ha pubblicato: “I pensieri bianchi”, “Briciole di respiro”.
È presente nelle antologie:Montedit, Dantebus, Aletti Editore, Pagine.
1° posto “Autore dell’anno” 2017-Torino; 1° posto “Le occasioni C.19” 2020.
Ha ottenuto numerosi riconoscimenti e menzioni d’onore.
LEGGERE LAGUNE
POESIE
QUEL GIORNO


Quel giorno le anime erano appese al cielo.
Forse qualche Dio ha fatto il bucato.
Le sue lunghe camicie, i calzoni,
coprivano le nostre facce girate insù,
le nostre bocche rimaste aperte nello stupore dell’accaduto.
Dio nudo camminava su di noi
come fossimo acque.
Quel giorno le anime rimanevano appese al cielo,
spezzate dalla pioggia.
Dio era lì, lavava i piedi e la parola caduta
insieme a noi.
L’INGANNO

Abito nei tuoi risvegli senza comprenderli.
Gli attimi si sgretolano come le paure
rimaste nel gelo.
La mia pelle copre la tua
e non sappiamo di chi sono le ferite.
La casa non ha più memoria,
la sua materia cade sulla nostra.
Nei meccanismi fini
la menzogna del tempo diventa legge.
Continuiamo ad abitare
uno nelle rinunce dell’altra.
I nostri gesti si confondono.
I MORTI ABITANO SOPRA


Mio padre annaffia l’erba nelle ossa,
comprende la natura della solitudine
e appende nelle crepe del cielo
una luna piena.
Di notte esce dalla sua terra,
canta con i grilli, attacca i nomi dei figli
alle foglie e pensa ancora di ritrovarli.
Gira mio padre nel suo orto.
I cespugli del rosmarino lo riconoscono
e fioriscono.
È già alba e lui sa che deve ritornare
nella rugiada.
IL BUCATO


La signora del primo piano stendeva i panni
e la solitudine.
C’era tanto vento nel suo tacere.
Lei badava all’ombra appesa ai fili.
La signora del primo piano raccoglieva
i suoi panni asciutti insieme ai sogni.
Chiudeva la porta sui pensieri
e sapeva che doveva rifare il bucato.
SENZA FERITE


Lo spazio cambia pelle
e me rimasta nelle sue pieghe.
Ho ancora sulle palpebre i ritratti remoti
dell’ultima parola, del silenzio messo all’asta.
Senza ferite il movimento delle molecole,
senza nome il corpo di paglia.
Lo spazio ingoia sé stesso e me
fuggita dall’ultima utopia.
ORTI DEI DOGI
RACCONTO
NON E’ RAFFREDDORE





Adele stava davanti a quella valigia e pensava che era per la prima volta che metteva dentro solo le cose di Lucio, suo marito. Stendeva per bene le pieghe della camicia celeste e la metteva dentro, poi la toglieva e la rimetteva. Ogni volta le sembrava di non averla piegata per bene. “All’ospedale non c’è modo per stirarla” pensava lei. Vicino alla camicia mise i pantaloni blu, quelli che Lucio indossava ai battesimi, alle cresime o ai matrimoni dei parenti. Erano i preferiti di Lucio.  Adele aveva cura di mettere dentro anche un cappello “non si sa mai, può comunque servire” pensava lei e continuava a mettere anche i fazzoletti, le caramelle di menta. Senza pensare troppo si trovava con la valigia piena. Poi le sembrava che non era l’ordine giusto e tirava fuori tutto. Il cane la guardava girando intorno al tavolo. Ogni tanto abbaiava e mordeva, per gioco, il cordone dalla vestaglia di Adele. “Amos, non è il momento”, diceva lei sistemando la mascherina. Da quando si era scatenata la psicosi del virus non l’ha mai tolta. Lo fa solo quando è costretta. Aveva una bella scorta. Mascherine mandate dalla figlia. Potevano essere lavate e riutilizzate. Adele cambiava solo il filtro. Era così impaurita che ha prolungato volontariamente la sua quarantena. “Sei matta” le diceva il marito che usciva tutti giorni e che di mascherina non voleva nemmeno sentire. “Mamma, esageri, la mascherina non ti serve dentro casa. Non sei contagiata” le diceva la figlia per telefono. Adele non voleva sentire altro. Continuava a modo suo. Pensava che a settantaquattro anni c’era sempre un rischio. Stare dentro casa per lei non era un problema. Quella casa ne ha viste tante, il matrimonio, la nascita della figlia, l’amore, le liti. Tutto. Forse le piaceva per questo. Tante volte pensava che i pensieri, le storie, la vita stessa rimangono ambrate nelle pareti, negli oggetti. Per lei, quel posto era un confidente. Ha imparato a toccare con delicatezza le superfici. Lì, da qualche parte, le loro impronte difendevano la casa e la storia rimasta nelle pareti.
Adele stava ancora davanti alla valigia. Aveva tra le mani la foto di loro tre. In quella foto Stella, la figlia, aveva cinque o sei anni. Mise la foto dentro, sotto il libro preferito di Lucio, “Andare per silenzi”. Ha iniziato a leggerlo prima di ricoverarsi. Adele aveva nella mente la loro abitudine, di pomeriggio, nel soggiorno, Lucio leggeva e lei ricamava una nuova tovaglia. Ogni tanto lui alzava lo sguardo e seguiva le mani di Adele. Sembravano esercitarsi in un rituale segreto. La vita da pensionati le piaceva tanto. Sentiva per la prima volta che il tempo le bastava e sapeva che non era poco.
Da giovane non aveva mai tempo, era sempre in crisi per qualcosa. Si ricordava come correva da mattina fino alla sera. In sartoria alle sette di ogni mattino, la corsa per prendere Stella dall’asilo, la spesa, le faccende di casa, la cucina.
Tante volte si addormentava in piedi davanti al tavolo da stiro o in cucina mentre preparava il pranzo per il giorno dopo. Una busta termica per Lucio, per lei e Stella. Hanno risparmiato su qualsiasi cosa per pagare gli studi di Stella. Per la loro vecchiaia dignitosa hanno lavorato fino all’ultimo, lei come sarta, lui nell’autofficina.
Adele, quella mattina era particolarmente nervosa. Continuava a girare intorno alla valigia. Provava a chiuderla. Quella valigia vecchia quanto loro non reggeva più. Pensava di comprare un’altra ma non si sentiva di farlo. Quella valigia mezza rotta era più di un oggetto. In quella valigia ha messo l’abito da sposa, quello del viaggio di nozze, le loro cose intime per ogni vacanza. Si sentiva in dovere di mettere il guardaroba di Lucio proprio lì dentro. Non aveva importanza l’aspetto pietoso. Alla fin fine era solo una valigia per chi guardava. Sapeva che Lucio sarebbe rimasto contento di trovare le sue cose così come lei le aveva preparate. Mancava solo un calzino blu. Quello che il cane è riuscito a tirare fuori e nascondere. Lo faceva sempre.

2.

Adele diventava matta a cercare le cose che Amos portava via. Le trovava nei posti più impensati. Non riusciva a salvarne una. Morsicate fino alla rovina le doveva buttare. Ha provato con i giocattoli per i cani. Non li guardava nemmeno. Era sempre alla caccia dei calzini, scarpe, sciarpe e tutto ciò che Adele non poteva chiudere nell’armadio. Il calzino blu di Lucio lo doveva trovare prima che fosse troppo tardi. “Amos, bestiaccia, vieni qua, smettila. Non è un gioco” ma il suo bellissimo cocker, nascosto sotto il letto, non prendeva sul serio le minacce della padrona. Adele gli tirò addosso una delle pantofole di Lucio. Quella pantofola mezza rosicchiata. Gli toccò appena la coda. Sembrava che il suo cane la ignorasse. Ad Adele dava fastidio. Cinque anni fa l’avrebbe lanciata meglio, quella scarpa ed il cane sarebbe scappato via. Forse per via delle sue mani che da un po’ di anni avevano perso la sensibilità. Lucio, suo marito, insisteva nel darle aiuto. Adele non pensava nemmeno. Cercava in tutti modi di controllare la sua artrosi, ma non era semplice. Rinunciò a ricamare le sue tovaglie. Le dita non riuscivano a stringere l’ago. A volte, per non darle vinta, finiva a tutti costi ciò che stava facendo. Poi si copriva le ferite sulle mani, altrimenti Lucio si sarebbe arrabbiato. La guardava e capiva subito. Adele sentì appena il campanello. Sistemò la sua mascherina e andò contrariata verso la porta. Chi era l’incosciente che andava in giro in questi tempi strani? Non aveva paura del virus, non aveva sentito del distanziamento da rispettare? Un altro come lui, che non portava la mascherina, che era uscito di casa di nascosto e che era finito all’ospedale per quella maledetta febbre, per quella tosse che non dava tregua.
Pensava a suo marito, Adele, e quando lo faceva le sudavano le tempie, le venivano giù le lacrime e bagnavano la mascherina. Voleva finire di preparare quella valigia per lui e portarla all’ospedale. Sapeva di non poter vederlo, ma c’era pur qualcuno che poteva portare la valigia al posto suo. Lucio, secondo lei aveva proprio bisogno di quelle cose. “Chi è?” chiese lei senza aprire. Prima di aprire voleva sentire la voce. “Mamma, mamma, mi senti? Aprimi, sono Stella!” La voce sembrava quella di sua figlia, ma lei non credeva. Secondo lei non poteva essere Stella. Ancora non sono aperti i confini. Doveva essere qualcun altro. Il campanello continuava a suonare e Adele ad avere dei dubbi. La raggiunse pure Amos che fece il suo dovere di guardiano del posto. Abbaiava come un matto, tanto che Adele non distingueva più la voce da quell’altra parte della porta. “Deve essere qualcosa di importante” pensò lei ed aprì appena la porta. Si dovette appoggiare al muro per non svenire per la sorpresa. Era veramente Stella, che lasciò cadere il suo bagaglio e strinse la madre in un abbraccio così forte che ad Adele mancò l’aria. Già poca per via della mascherina. Rimasero abbracciate e senza parole per un paio di minuti mentre Amos girava intorno a loro e scodinzolava di gioia. Stella provò a togliere la mascherina e lasciò perdere visto che la madre continuava a tenerla attaccata alla sua faccia come fosse la seconda pelle. Sapeva che era diventata ormai una questione psicologica. Aveva parlato pure con uno specialista che disse di darle tempo per riprendersi, visto che ad Adele era stato diagnosticato una forma leggera di Alzheimer.
Stella appoggiò il bagaglio sul tappeto color bordeaux a quadrati chiari, nella sua stanza. Girò velocemente lo sguardo. Sembrava tutto come quindici anni prima.
Ben conservato dalla esagerata cura della madre. Nemmeno un filo di polvere, nessuna ragnatela. Guardò la finestra, la tenda color panna sembrava appena messa. Sentì la madre chiamarla. Lasciò la finestra socchiusa, per cambiare l’aria e chiuse la porta. Teneva tra le mani un pacchetto coperto di carta regalo con un grande fiocco bianco. Lo mise tra le mani della madre accarezzando i capelli bianchi. Si ricordò che Adele non si era mai tinta i capelli. Le piaceva tenerli corti. “Mamma, ti ho portato qualcosa che ti piaceva tanto.

3.

Aprilo!” Adele abbracciò la figlia e aprì il suo regalo. Era un piccolo quadro dipinto da Stella. Una coppia sotto la tempesta. Lui teneva il suo braccio sulla spalla della donna. Il cielo cupo sembrava cadere sulle loro teste. “Non hai mai smesso di dipingere, vero?” Stavi sempre chiusa nella tua stanza e dipingevi. Eri molto brava. Io e tuo padre lo sapevamo. Sempre abbiamo detto che un giorno avremmo visto la tua mostra. E così fu. Mi ricordo che avevano scritto bene sui giornali.
Adele continuava a guardare il dipinto tenendo stretta la cornice.  Mi dispiace che sono dovuta partire lontana da voi. Non avevo scelta. Sono fortunata, mamma, faccio un lavoro che mi piace ed in più ho tempo per dipingere. Che dici, adesso ci mettiamo un po’ sedute a mangiare qualcosa? Adele spostava lo sguardo dalla figlia al quadro. Lo appoggiò sul comodino della stanza dal letto e raggiunse Stella in cucina. Tirò fuori dal frigo un contenitore di vetro. Sollevò il coperchio e si girò verso la figlia che stava in piedi davanti al piano di cottura.
“Qui ho delle polpette di melanzane fatte ieri. Penso di avere ancora anche una porzione di lasagne in bianco. Mi ricordo che ti piaceva tanto. Che dici?” e guardò Stella dritto negli occhi. Brillavano come i suoi. Forse le lacrime hanno lo stesso effetto anche su di lei. Adele si mise ad apparecchiare il tavolo litigando con il cane che non faceva altro che stare tra i piedi. Mise un terzo piatto, un terzo bicchiere e le posate. Tirò fuori da un cassetto del mobile da cucina un tovagliolo con il disegno di foglie di basilico, “il preferito di Lucio. Lui amava tanto il basilico. Lo metteva dappertutto” disse lei. Stella guardò la madre che ogni tanto sistemava la mascherina. Voleva dire tante cose su ciò che stava accadendo. Non trovava la forza. Cercava solo di capire cosa pensava la madre. Si sedettero al tavolo con il cane sotto che aspettava le sue crocchette. “Mamma, sai che papà è ricoverato in Terapia Intensiva, vero? Perché hai apparecchiato per lui?” Adele teneva la mascherina nella tasca della vestaglia. Mangiava e guardava nel piatto e ogni tanto alzava lo sguardo verso Stella. Non rispose. Forse lo sapeva o forse voleva credere che suo marito poteva entrare in casa da un momento ad altro. Lei comunque apparecchiò anche per lui, come sempre aveva fatto. Perché cambiare adesso. Tanto tra pochi giorni uscirà pure. Ha solo una brutta polmonite. Ne ha avute tante nella vita e ne è uscito sempre fuori. Doveva andare anche stavolta come tutte le volte. “Stella, tuo padre deve arrivare. Forse anche adesso. E se non arriva oggi gli ho preparato già la valigia. Magari domani andiamo insieme e lasciamo tutto in portineria. La porteranno loro da tuo padre. Ho messo dentro tutte le sue cose”. Madre e figlia si guardarono. Sapevano tutte due la verità e nessuna di loro aveva la forza di parlare. Continuavano a mangiare in silenzio. Loro al tavolo, il cane sotto. Ogni tanto si spostava e la sua coda color cioccolato toccava i piedi delle sue padrone. “Mamma, ho parlato con il dottore” decise Stella di rompere il silenzio. Sono venuta a stare con te per un po’ ed anche a vedere come andrà con papà. Il dottore dice che la situazione non è bella. Ha il virus, mamma, hai capito. Bisogna sapere le cose come stanno, mammina cara. Io sono qui, avrò cura di te. Non ti lasciò da sola.
Ho fatto tutte le cose richieste da loro per poter entrare nel paese. Il tampone è negativo, ma devo comunque fare la quarantena qui. Ecco, ho detto ciò che dovevo dire. Mi preoccupa il fatto che tu metti sul tavolo il terzo piatto quando sai bene che lui è ricoverato. Prese il bicchiere e finì l’acqua rimasta. Adele rimase immobile. Guardò la figlia, le prese la mano e disse “tesoro di mamma, non essere triste, tuo papà verrà presto.” In quel momento Stella capì che la situazione stava precipitando. Forse era una crisi specifica dell’Alzheimer. La memoria della madre si era bloccata in un ricordo lontano, quando lei era piccola. Forse la sua mente rifiutava la realtà, visto che era tanto legata al marito. Stella si impegnava a non far vedere alla madre quanto soffriva.

4.

Teneva tanto al padre e non poter vederlo era struggente. Sapeva che poteva essere fatale una situazione del genere e che se fosse accaduto davvero non avrebbero potuto nemmeno dargli l’ultimo saluto. Era troppo anche per lei. Capiva perché la madre si nascondeva dietro ad una storia creata dalla sua mente. Adele mise subito la mascherina e Stella si sentì costretta a fare la stessa cosa. Provò ancora per l’ennesima volta a convincere la madre che la mascherina non serve dentro casa. Adele continuava a tenerla attaccata illudendosi che potesse coprire anche la sua anima. “Sparecchi tu, tesoro, io devo finire la valigia per tuo padre!”. Si alzò e si mise a fare quello che dalla mattina continuava a fare, mettere e tirare fuori le cose di Lucio.
Un movimento compulsivo che per Stella significava le risposte a tante domande. Va bene, mammina, fai quello che devi. Io finisco di sistemare la cucina e poi magari ti aiuto. Stella spostò il terzo piatto, il terzo bicchiere, le posate ed il tovagliolo preferito del padre. Lasciò tutto in un angolo, pronte ad essere usate. Sentiva la testa pesante, un forte dolore passava da una tempia all’altra. Aveva bisogno di gridare, piangere, rompere qualche piatto o bicchiere, magari quelli messi da parte per il padre assente ormai. Sapeva di dover trattenere tutto questo, per il bene della sua mamma. Prese dalla borsa una compressa di nurofen e la mandò giù senza acqua. Sistemò quella maledetta mascherina e ogni tanto guardava Adele che metteva le cose di Lucio nella valigia con una delicatezza che sembrava quasi una carezza. Squillò il cellulare e rispose. Andò nella sua stanza a parlare e ritornò nella cucina dove Adele provava a chiudere la valigia. Provò ad aiutarla, una chiusura cedette. Rimase chiusa a metà. Per Adele poteva andare anche bene. Stella non provò nemmeno a dire alla madre che era vergognoso portare una valigia così malandata all’ospedale. Lasciò perdere. Sapeva che quella valigia non avrebbe lasciato mai la casa. Si sentì squillare il telefono fisso. Adele si fermò in ascolto. Decise di rispondere. Teneva il telefono appena vicino all’orecchio.
Forse aveva paura di sentire quel dottore. Stella guardò la madre, seguì ogni mossa e si impegnò a capire dallo sguardo quello che stava succedendo. Adele ascoltava, annuiva ogni tanto senza emettere un suono. Si sedette sulla sedia vicina e ascoltava. Annuiva e ascoltava. Sembrava non finire mai quella attesa. Stella capì solo che era il dottore e che parlava troppo. Raccontava e lei voleva tanto sapere cosa. Adele non la aiutava a capire. Era muta ed immobile. Lo sguardo fisso, come cercasse nel vuoto di quella aria qualcuno che le mancava tanto. La mano che teneva il telefono cadde nel grembo. La sentiva fredda e sudata. Non aveva la forza di muovere un dito. L’apparecchio dondolava davanti a lei. Da quell’altra parte il silenzio. Stella chiuse. Prese le mani della madre nelle sue. Tolse la mascherina. Guardava le mani arrese nelle sue, come una storia senza lieto fine. Appoggiò le labbra su di loro con la paura di non commettere un sacrilegio. “Hanno detto che tuo padre…” sussurrava nel dolore che si disperdeva nell’aria, nella valigia rimasta aperta.
         







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