Luca Bertini 2021
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Ho 51 anni, sono sposato con un figlio e lavoro presso il comune di San Giuliano Terme, all’ufficio tecnico.
La passione per la scrittura ha attraversato varie fasi della mia vita, in cui ho sperimentato varie forme compositive.
Da alcuni anni ho ripreso vecchie idee, a cui se ne sono aggiunte di nuove.
Da circa vent’anni seguo una costante pratica meditativa come allievo di Raja Yoga.
ORTI DEI DOGI
RACCONTO
TAKE A STAND
Nel mese di ottobre, che corrisponde all’inizio della primavera, il clima di Sidney è di solito gradevole e lontano dai picchi che può raggiungere nelle torride giornate estive. Questa parte dell’Australia è però crocevia fra i venti caldi provenienti dalle zone desertiche del nord-ovest e quelli freddi che si originano a sud, così ci possono essere giorni in cui il loro rapido volgere muta radicalmente le condizioni meteorologiche nel giro di poche ore, come a dirci che non c’è niente di stabile, e che ogni sconvolgimento può essere più veloce di quanto ci si aspetti.
Nella tarda mattinata di quel giorno di metà ottobre dell’anno 2005, raffiche di un vento caldo e carico di polveri spazzavano le piste dell’aeroporto Kingsford Smith, costringendo coloro che lasciavano l’auto nei piazzali prossimi al Cooks River a tapparsi con un fazzoletto sia la bocca che il naso per non respirarle.
I due uomini, arrivati presso la lunga linea dei terminal, che si dipanava da sud a nord quasi parallela al Cooks River, si accodarono ad un altro gruppo di persone dirette verso quello dei voli internazionali.
Tra loro sembrava ci fosse molta familiarità.
Il più anziano, che doveva avere poco più di sessant’anni, si tergeva spesso la fronte con un fazzoletto. Di altezza media, appesantito da quella pinguedine che il tempo porta inclemente in dono con l’avanzare dell’età, stempiato e con l’ovale del viso incorniciato da leggeri occhiali retti da stanghette metalliche, non dava l’idea di poter esser stato in gioventù un velocista di livello mondiale.
L’altro era un trentenne dalla corporatura massiccia, con i capelli rasati di colore scuro, la barba appena pronunciata, e un piccolo orecchino in corrispondenza di entrambi i lobi.
Durante il percorso interno al terminal il più anziano dei due, affaticato dalla calura della giornata, rallentò spesso l’andatura, cosicché dopo un lungo corridoio mobile a scorrimento una delle persone che li seguiva li apostrofò ad alta voce. Il più giovane si voltò indignato ed avrebbe voluto rispondere ma l’altro, stringendogli con la mano destra uno dei polsi, gli fece capire che non ne sarebbe valsa la pena.
Circa due ore dopo entrarono nel corridoio rialzato, diretti al portellone d’accesso del velivolo che da Sidney li avrebbe condotti a Los Angeles.
Appena lo raggiunsero mostrarono i biglietti agli assistenti di volo.
“Signor Peter Norman, il suo posto è nella corsia destra della decima fila, lato finestrino. Quello di suo figlio Matt è accanto a lei.” Fu la risposta dell’assistente.
Colui che si chiamava Peter Norman entrò e andò a posizionarsi nel posto indicato. L’uomo che lo accompagnava, che non era suo figlio ma suo nipote, dopo aver posto i bagagli a mano nello scomparto che li sovrastava, prese da essi un libro e si sedette accanto a lui. Si strinsero le cinture in attesa del decollo, e subito dopo Matt Norman si rivolse allo zio.
“Avrei voluto dirgliene quattro, faccia a faccia, ma soprattutto avrei voluto fargli sapere chi eri stato”.
“Non ne sarebbe valsa la pena, eppoi sono diventato veramente lento da quando ho avuto problemi cardiaci”, fu la risposta.
Peter Norman prese dalla tasca del giacchetto un piccolo libro, lo poggiò sul tavolino reclinabile, e si mise a guardare fuori dal finestrino.
Il tempo stava già cambiando, e all’orizzonte enormi nubi scure avanzavano rapidamente.
Mentre rollavano i motori, si sforzò di pensare all’ultimo volo che aveva preso all’epoca in cui gareggiava, e si accorse che se lo era dimenticato. Dopo più di trent’anni tanti particolari li aveva rimossi, come i volti di molte delle persone che aveva conosciuto in quell’ambiente, e così non riuscì a ricordarsi se quel volo l’avesse portato in America o in Europa, e a quale manifestazione avesse partecipato.
Poi, spostò lo sguardo fuori dal finestrino e osservò quel cielo lucente mentre l’aereo si staccava da terra, fino a quella sensazione di vertigine quando curvò, che lo portò a guardare verso il basso, con l’immensità di quel mare che si stava aprendo sotto i suoi occhi, calmo come il suo nome, e si ricordò di averla già provata molte volte in quella che gli stava apparendo come un’altra vita.
Infine, chiuse gli occhi e s’immerse nei propri pensieri.
Mentre l’aereo continuava la lenta parabola ascendente che l’avrebbe portato a raggiungere l’altezza di volo, Peter Norman posò il libro che stava leggendo e osservò la pioggia che aveva appena iniziato a tamburellare sui finestrini, dapprima in modo quasi indolente, fino a che quel ticchettio non si fece particolarmente intenso. Il frastuono dei motori gli impediva di percepirne il rumore, e così restò ad osservarla, come lo si fa davanti a quei paesaggi innevati racchiusi in una palla di vetro, rapito da quel battito incessante o forse da qualche immagine che, attraverso di esso, trapelava dalla sua memoria.
Fu il passaggio di una delle hostess con il carrello delle bibite a distrarlo, così riprese in mano il libro che aveva posato sul tavolino.
Quel libricino l’aveva acquistato quasi due settimane prima. Era stata una frase di Nelson Mandela, riportata a corredo del titolo in prima di copertina, ad attirare la sua attenzione: “Un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso”.
Uno dei paragrafi, che aveva letto da poco e sul quale si era di nuovo soffermato, sosteneva che chi ti accompagna per un tratto della tua esistenza sono coloro con i quali puoi condividere i tuoi sogni.
Questa considerazione lo portò a riflettere su quali fossero stati i suoi. Così pensò al viso di sua moglie, assieme alla quale aveva cresciuto cinque figli, a quello del suo allenatore, che l’aveva condotto ad essere uno dei migliori velocisti al mondo, e infine ai volti di due velocisti afroamericani, con i quali era stato solo lo spazio di una sera durante le olimpiadi messicane, che aveva segnato per tutti e tre ognuna di quelle che l’avevano seguita. Quindi, si soffermò su quei due volti, quello di Tommie Smith, che a quelle olimpiadi aveva vinto la gara dei duecento metri piani, e quello di John Carlos, che nella stessa gara era arrivato dietro di lui al terzo posto, che poi erano il motivo per cui aveva preso quell’aereo.
C’è una foto, scattata la sera del 16 di ottobre del 1968, che è diventata l’icona di quei giochi. Li ritrae tutti e tre sul podio, durante la premiazione di quella gara.
Tommie Smith e John Carlos tengono un braccio alzato, con il pugno chiuso coperto da un guanto nero, che riprende il gesto di protesta delle Black Panthers. La loro testa è rivolta verso il basso, e quei pugni, spinti a lacerare la calma di quella sera olimpica, sono lì per ricordare i diritti negati agli afroamericani.
Il volto di Peter Norman sembra che faccia quasi da contrasto con il pathos che ci trasmette, e dal suo sguardo si ha l’impressione che non abbia la minima idea di cosa stia succedendo alle sue spalle, ma non fu così perché era pienamente consapevole di ciò che avevano intenzione di fare. Sulla tuta, pressoché all’altezza del cuore, si era appuntato il simbolo di quella protesta: una spilla bianca, di fattura semplice, con una corona d’alloro e una scritta: “Olympic Project for Human Rights”, e sono convinto che abbia anche percepito il momento in cui alzarono i pugni dai volti delle persone che erano attorno a lui.
Peter Norman quella foto la vide solo il giorno seguente, forse durante una trasmissione televisiva o sulla locandina di un giornale, poco importa, e da allora entrò nella sua vita come il più importante dei suoi ricordi, anche se non ne fece mai parte.
C’è però un altro momento di quella sera, più importante per lui di quell’immagine e di ognuno dei venti secondi che impiegò per agguantare sul filo di lana il secondo posto del podio, e fu quello in cui decise d’indossare la spilla.
In quel frangente erano tutti e tre in una sala interna allo stadio, in attesa di essere chiamati per la premiazione. Tommie Smith gli aveva appena rivelato ciò che avrebbero avuto intenzione di fare, e John Carlos aveva ribadito quel concetto senza aggiungere una parola, guardandolo come per dire che non c’era minimamente da provarci a fargli cambiare idea, perché ciò che avevano in mente l’avrebbero fatto comunque, sia che a lui fosse andato bene che nel caso contrario.
Avrebbe potuto rispondergli che comprendeva le loro ragioni e non avrebbe fatto alcunché per ostacolarli, e nessuno avrebbe preteso di più, ma non si accontentò di questo, scelse di sostenerli e per farlo gli chiese di avere una spilla uguale a quella che avevano appuntato sulla loro tuta, ed insistette in quel proposito fino a che sia Tommie Smith che John Carlos accettarono.
Fu in quel momento che decise di barattare la sua passione per l’atletica con il peso di quella spilla, perché fu ciò che poi gli venne chiesto.
Peter Norman era solito dire alla moglie che di quella giornata non si sarebbe mai dimenticato niente, nemmeno i momenti più insignificanti, eppure quando gli apparvero quelle due immagini, prima quella di Tommie Smith con gli occhi sbarrati dallo stupore, e dopo quella di John Carlos con la bocca appena aperta come se volesse sorridere e allo stesso tempo imprecare, non riuscì a legarle a nessun episodio di quella sera.
Gli ci volle qualche minuto per rammentare che quelle erano le espressioni dei loro volti non appena compresero ciò che aveva intenzione di fare. Stupite, confuse, perché di solito quello che più ci disorienta è ascoltare ciò che non ci si aspetterebbe di sentire.
Se ne era quasi dimenticato di quel ricordo, e solo su quell’aereo qualcosa sembrava fosse riuscito a farlo riemergere dalla profondità della sua memoria. Così rimase con gli occhi socchiusi per un tempo che non avrebbe saputo quantificare, e dietro a quel ricordo, un’idea attraversò la sua mente, come uno di quei bagliori che aveva intravisto dal finestrino attraverso la coltre di nubi, e pensò che quella risposta fosse stata sempre stata dentro di sé, fin da piccolo, fin da quando i suoi genitori lo portavano alle manifestazioni per i diritti degli aborigeni, e che quell’evento inaspettato l’avesse solo risvegliata dal torpore.
Peter Norman si cullò con essa per qualche minuto, e dopo la lasciò andare come si fa con i sogni, quando al mattino osserviamo la luce del giorno con gli occhi appena aperti.
Così tornò a pensare a quella sera, a cosa ne fosse stato di loro e a come il tempo li avesse cambiati durante tutti quegli anni.
Dalla stagione seguente non aveva avuto più notizie di nessuno dei due, quasi che fossero scomparsi, e si chiese se quell’immagine avesse pesato come su di lui, ostinata come il tempo che aveva realizzato in quella finale, che dopo trentasette anni era ancora record australiano.
Poi, la sua mente si riempì di altre immagini, di episodi del suo passato legati a quella vicenda, che a sua volta richiamarono ancora altri ricordi: dell’Australia della sua gioventù, di quegli anni in cui le tensioni per i diritti civili degli aborigeni erano divenute più accese, di quella spilla che era apparsa come una presa di posizione contro la maggioranza del paese, della stampa che l’aveva osteggiato, nonostante fosse stato il primo australiano a vincere una medaglia olimpica nella velocità dopo più di sessant’anni, e della Federazione australiana d’atletica leggera che non lo iscrisse alle successive olimpiadi, anche se aveva ottenuto più volte i tempi di qualificazione. E quella marea di ricordi lo condusse ancora una volta fino al momento in cui smise con l’atletica, e ancora oltre in un tempo in cui i volti di Tommie Smith e di John Carlos erano diventati solo un’impronta del passato.
Quella medaglia era stata il miglior risultato di un australiano nelle gare di velocità dai tempi di Stan Rowley, che alle prime olimpiadi di Parigi conquistò due bronzi, sia nei cento che nei duecento metri, e con quella al collo gli si sarebbero dovute aprire le porte del comitato olimpico nazionale, mentre il ricordo di quella spilla non lo faceva essere neppure fra coloro a cui veniva consegnato qualche biglietto omaggio prima delle finali nazionali.
Infine, socchiuse gli occhi e provò ad abbandonarsi al leggero torpore che lo stava prendendo, mentre il libro gli scivolò lentamente dalle mani.
Il pianto di un bambino lo risvegliò qualche minuto dopo. Non stava trovando nessun film che potesse essere di suo gradimento fra quelli in visione, e né il padre e né la madre stavano riuscendo a calmarlo, fino a che l’intervento di una delle hostess lo distrasse, e smise di piangere.
Peter Norman raccolse il libro da terra, e lo pose sul tavolino reclinabile. Dopo prese dalla tasca dei pantaloni il telefono cellulare, dalla forma simile a quello di un mouse, lo aprì, guardò l’orario e vi appoggiò anche quello.
Erano partiti da più di un’ora.
Si voltò verso suo nipote e vide che era riuscito a prendere sonno. Dormiva con la testa reclinata su di un lato.
Avrebbe voluto sonnecchiare anche lui per qualche ora, ma la sua mente era agitata da troppi pensieri, sballottata fra i ricordi del passato e ciò che lo attendeva durante quel viaggio.
Suo nipote, che lavorava nell’ambito cinematografico come assistente alla produzione, quella mattina gli aveva fatto sapere di avere intenzione di realizzare un documentario sulla sua vicenda, e fra pochi giorni avrebbe assistito all’inaugurazione di una statua in memoria di quanto era avvenuto trentasette anni prima su quel podio.
Tutto attorno a lui gli sembrava che fosse rimasto immobile per anni, come se le lancette del tempo si fossero fermate, e non si era accorto che non era così e di come i cambiamenti stessero già prendendo forma, come quando nel suo angolo d’Australia, le correnti antartiche nel giro di poche ore ripulivano l’aria dai venti caldi che opprimevano le giornate, senza che niente avesse annunciato il loro arrivo.
Peter Norman tornò ad osservare fuori dal finestrino. La pioggia continuava a battere sul vetro anche se con minore intensità.
Circa un anno prima era stato contattato da un dipendente dell’università di San Josè, nel nord della California.
Sembrava una sera come tante altre. Aveva da poco cenato e stava guardando una serie televisiva che lo faceva divertire. Poi, aveva iniziato a squillare il telefono, e una voce dal tono basso e dall’accento chiaramente straniero, l’aveva convinto a prestargli ascolto.
Costui gli aveva detto di chiamarsi Alfonso De Alba e di essere nato in Messico proprio quel sedici di ottobre del 1968. Dopo gli aveva parlato di quella foto, che diceva di aver visto per la prima volta a sedici anni, e di quanto la trovasse più eloquente di una miriade di parole, e aveva continuato parlandogli del suo periodo di studi presso la San José State University, e di come fosse venuto a sapere che ci avevano studiato sia Tommie Smith che John Carlos, e che da allora avesse sognato di riunirli tutti e tre per un evento che li potesse ricordare.
Gli disse anche altro, che in quell’ateneo ci era rimasto come dipendente, che grazie all’aiuto di un’associazione studentesca era riuscito a raccogliere i fondi per incaricare un’artista portoghese di realizzare una statua commemorativa, e che questa avrebbe trovato posto all’interno dei giardini dell’ateneo, e ancora che pensavano di inaugurarla per l’anniversario di quella gara, il sedici di ottobre dell’anno successivo, il 2005.
Lo contattò altre volte.
In una di queste gli descrisse la forma che avrebbe dovuto avere la statua, con tre figure alte più del doppio di un uomo su un enorme podio, ognuna tempestata da una moltitudine di azulejos. Fu durante quella telefonata che Peter Norman fece un’osservazione che il suo interlocutore non si sarebbe aspettato, dicendogli che su quel podio avrebbero dovuto esserci solo due figure, quella di Tommie Smith e di John Carlos, perché quella era stata la loro protesta, e lui era già stato fortunato ad esserci su quel podio, e ad avergli espresso la sua solidarietà.
Fu solo nell’ultima telefonata che gli venne comunicata la data definitiva dell’inaugurazione, che per volontà dell’amministrazione universitaria era stata posticipata al successivo lunedì diciassette ottobre. Gli fu detto inoltre che la statua, per iniziativa dell’autore, era stata leggermente variata, che le figure erano state ridotte a due, e che ci sarebbe stata anche qualche altra piccola sorpresa.
Peter Norman continuò a guardare fuori dal finestrino.
Una serie di domande era tornata ad affollare la sua mente, a partire dalla curiosità di vedere come era stata realizzata quella statua, fino a chiedersi che senso avessero avuto tutti quegli anni, con le difficoltà che aveva attraversato e le possibilità che avrebbe potuto avere e che non gli avevano permesso di cogliere.
Ognuna di quelle domande sembrava che stesse cercando una risposta che la soddisfacesse, che lui in quel momento non era in grado di dare.
Si voltò e casualmente il suo sguardo si soffermò sul suo piccolo cellulare, appoggiato sul tavolino.
Sua moglie glielo aveva fatto acquistare quando aveva avuto i primi problemi cardiaci. Gli aveva fatto capire che in quel modo si sarebbe sentita più sicura.
Pensava di non adattarsi a portarselo sempre dietro, anche se quel modello aveva il pregio di occupare poco spazio, ma ben presto aveva scoperto come, in alcuni momenti, scrivere un messaggio o fare una breve telefonata potesse essere di grande utilità, e che quando non avesse voluto essere raggiunto, avrebbe potuto spegnerlo, e magari dare colpa all’inefficienza rete. Si era anche accorto di aver preso l’abitudine a guardare l’orario sul suo display, per cui avrebbe potuto fare anche a meno del suo vecchio orologio, che qualche volta non si ricordava di mettere al polso.
Un piccolo sorriso si aprì sulla sua bocca. Il tempo aveva cambiato il suo aspetto fisico, le sue abitudini, e stava facendo lo stesso anche con le sue aspettative.
In occasione delle Olimpiadi di Sidney avevano continuato ad ignorarlo, nonostante che il record nazionale dei duecento metri fosse ancora nelle sue mani, ma non gliene era interessato granché. Era andato lo stesso a vedere la sua gara, lontano dalle telecamere e dai riflettori, e aveva sorriso quando sullo schermo dello stadio aveva visto apparire il tempo del vincitore, di tre secondi superiore a quello della sua finale di Città del Messico.
Il resto, le occasioni che avrebbe potuto avere, sentiva che fossero parte del suo passato, e forse in quel momento non avrebbe saputo neppure che farsene.
La sua vita era corsa veloce come una delle sue gare, ed era stata piena, e da quel viaggio, che aveva voluto affrontare nonostante i problemi di salute, non si aspettava granché oltre alla possibilità di ritrovare i compagni di quella sera.
No, forse qualcosa c’era ancora di tutta quella vicenda a cui chiedeva una risposta, ed era capire che cosa ne fosse rimasto agli altri.
In quel momento Peter Norman si voltò verso l’oblò, e vide che l’aereo era riuscito finalmente ad ergersi sopra a quei cumuli di nubi, nella calma di un cielo chiaro, lontano dalla turbolenza che imperversava sul mare, e lentamente si abbandonò al sonno.
Nel primo pomeriggio di lunedì diciassette ottobre il sole risplendeva su tutta la parte meridionale della baia di San Francisco, dallo stretto sul quale è stato edificato il Golden Gate, fino alle terre acquitrinose della San Francisco Bay National Wildlife Refuge, nel suo lembo estremo, a sud delle quali inizia l’abitato di San Josè.
Peter Norman e suo nipote arrivarono con buon anticipo sull’orario fissato per l’inaugurazione.
Matt Norman, che si era portato una piccola telecamera, iniziò a fare qualche ripresa.
La statua era ben visibile in uno dei giardini dell’ateneo, con le due enormi figure rappresentanti Tommie Smith e John Carlos alte circa quattro metri, rivestite da una gran quantità di azulejos, che riflettendo i raggi solari di quelle prime ore pomeridiane, sembravano impreziosirle di minuscoli brillanti.
A mano a mano che la schermatura degli alberi veniva meno, Peter Norman percepì la pienezza scenica di quella statua, e gli sembrò che il disequilibrio di quella forma esprimesse allo stesso tempo sia una mancanza che una possibilità.
Non ebbe però tempo di pensarci oltre perché in quel momento arrivarono sia Tommie Smith che John Carlos.
Li riconobbe dagli sguardi, e mentre sembrava che dovessero essere i loro corpi a parlare del tempo trascorso, fu solo nella profondità degli sguardi che riuscì a cogliere qualche frammento delle loro storie, e bastò il calore di un abbraccio e lo scambio di qualche battuta per attraversare un ponte lungo ben trentasette anni.
Poco dopo ebbe inizio la cerimonia e Peter Norman non pensò più alla statua.
Ascoltò il discorso introduttivo di Alfonso De Alba, quindi venne il turno di Tommie Smith, quello di John Carlos e infine il suo.
Raccontò un breve aneddoto su quella sera. Sia Tommie Smith che John Carlos avrebbero dovuto portare allo stadio un paio di guanti neri, ma al momento di prepararsi per la premiazione John Carlos si era accorto di esserseli dimenticati in albergo, e fu suo il consiglio di spartirsi il solo paio che avevano.
Tommie Smith si tenne il guanto destro e a John Carlos dette quello sinistro.
Dopo venne il momento delle foto, prima sul prato con la statua in secondo piano e poi sulla statua stessa, ognuno al proprio posto.
Fu in quel momento che vide l’iscrizione, posta dallo scultore sul secondo gradino del podio.
Riportava la seguente frase “FELLOW ATHLETE AUSTRALIAN PETER NORMAN STOOD HERE IN SOLIDARITY. TAKE A STAND”.
Prendi una posizione.
Che era ciò che aveva fatto, che era ciò che da trentasette anni non gli veniva perdonato.
Furono infine i ragazzi, salendo su quel posto vuoto, un po’ per gioco, un po’ per emulare ciò che poco prima avevano visto fare durante l’inaugurazione, a far assumere a tutto un senso.
A quella sua scelta.
A quei trentasette anni.
* Fu solo nel 2012 che il Parlamento australiano approvò una dichiarazione di scuse nei confronti di Peter Norman, riconoscendone il coraggio avuto nell’indossare il simbolo del Progetto Olimpico per i Diritti umani sul podio, come gesto di solidarietà verso Tommie Smith e John Carlos, e riabilitandolo alla storia con queste parole:
«Questo Parlamento: 1) riconosce lo straordinario risultato atletico di Peter Norman, che vinse la medaglia d’argento nella gara dei 200 metri piani ai giochi Olimpici di Città del Messico del 1968, in un tempo di 20.06, ancora oggi record australiano; 2) riconosce il coraggio di Peter Norman nell’indossare sul podio uno stemma del “Progetto Olimpico per i Diritti Umani”, in solidarietà con gli atleti afroamericani Tommie Smith e John Carlos, che effettuarono il saluto di “potere nero”; 3) si scusa con Peter Norman per il trattamento da lui ricevuto al suo ritorno in Australia, e nell’aver mancato di riconoscere il suo ruolo ispiratore prima della sua prematura morte nel 2006; 4) riconosce tardivamente il significativo ruolo che Peter Norman ebbe nel promuovere l’uguaglianza di razza.»