Luigino Vador 2021
LAGUNANDO 2021 > selezionati 2021
Pubblicazioni: 148 Racconti - 24 Libri.
Riconoscimenti: In concorsi letterari in Italia e all’estero, ha ottenuto oltre ottocento riconoscimenti.
Nel 2008 ha avuto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il riconoscimento per l’Opera “OPZIONE ITALIANI!” -
Nel 2017 ha avuto dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con il riconoscimento per l’opera “SENZA RITORNO”.
ORTI DEI DOGI
RACCONTO
LECTIO MAGISTRALIS
(L’allodola e il giogo)
Era un uomo di poche parole mio padre. Se però parlava di natura o di animali, le parole gli uscivano fluide ed io lo ascoltavo quasi rapito. In quel tempo, nelle campagne, la vita era fatta di lavoro duro. Divertimenti o libri erano roba pressoché sconosciuta.
Quando avevo finito la prima elementare papà cominciò a portarmi in campagna con sé. Seduti sul bancale del carro tirato dai cavalli, mi elencava i nomi di ogni pianta, albero o cespuglio che fosse. Il nome di piccoli animali che incontravamo e degli uccelli che a tratti volavano radenti, casomai adocchiassero qualche seme rimasto incastrato tra le assi del bancale. Quando smetteva di parlare per rollarsi una sigaretta o per salutare qualcuno che transitava in biciletta, io sbuffavo per l’interruzione, ma piano per non farmi udire. Era inconcepibile allora incalzare o pretendere, dai grandi, attenzione in esclusiva. Nel momento in cui riprendeva il filo del discorso con me, io lo ascoltavo con la meraviglia appesa alle pupille che avevano il colore esatto delle sue. Ero convinto che sapesse tutto e meglio del maestro a scuola.
La prima volta che aveva deciso di portarmi al lavoro con sé, me lo disse la sera quando, ormai a letto stavo recitando le preghiere. Quella notte l’eccitazione per la novità, mi aveva fatto salire su un’altalena che alternava sogni ingarbugliati a continui risvegli. Era ancora buio quando udii mamma alzarsi e scendere in cucina. Papà aveva atteso ancora qualche momento poi, si era vestito e l’aveva seguita. Anch’io mi ero vestito e sceso i gradini della scala a balzi. Sul tavolo c’era, per me, la scodella colma di latte fumante delle nostre mucche e il pane del nostro frumento; per mio padre la frittata con il salame e caffè di orzo. Mentre mangiavamo, mamma aveva preparato la borsa di foglie di granoturco con la merenda di metà mattina: pane, formaggio, una bottiglietta di vino per mio padre e una d’acqua per me.
In cortile ci aspettava il carro con la falciatrice agganciata dietro. Papà aveva strigliato i cavalli, li aveva rifocillati con biada e farina di fiore, li aveva abbeverati e attaccati al carro. A quel punto ci eravamo seduti sul bancale uno accanto all’altro, le gambe penzoloni. Lui aveva stretto le briglie tra le mani, le aveva alzate, battute delicatamente sulle groppe e con un “Andiamo” appena sussurrato, aveva invitato il Bianco e il Rosso a muoversi.
I cavalli erano partiti al passo. La falciatrice al traino nonostante sferragliasse, non mi pareva un sottofondo sgraziato ai loro passi cadenzati, anzi, mi sembrava musica.
Lo sfalcio che ci attendeva era in un prato che non conoscevo e piuttosto lontano da raggiungere. Sapevo però che l’erba pratense sottile, andava falciata prima che il sole asciugasse la rugiada altrimenti, per la falciatrice, era impossibile catturarla per tagliarla.
Il cielo, all’imbocco del lungo stradone, cominciava a schiarire. Papà aveva lasciato andare i cavalli a briglia sciolte quindi mi aveva guardato dicendo: «Piccolo, respira a fondo, l’aria frizzante rinforza i polmoni». Io avevo ubbidito, ma il risultato era stato un tossire convulso.
«Devi inspirare lentamente perché funzioni» e mi aveva mostrato come fare.
M’impegnai e percepii l’aria frugarmi tutto all’interno come una fresca corrente, una sensazione sconvolgente, mai provata prima.
Alla fine dello stradone, ripreso le briglie, papà fece svoltare i cavalli a sinistra imboccando una stradina stretta con i due cigli vestiti di cespugli e alberi d’alto fusto. Le cime che s’incrociavano in alto, formavano una galleria e, il sole che stava sorgendo, bucando le foglie, disegnava chiaro scuri sul terreno. Quando sbucammo all’aperto il sole era una palla di fuoco a levante.
Ancora un breve tragitto e fummo davanti all’entrata di un prato, chiusa da una sbarra. Papà era sceso, l’aveva aperta. I cavalli si erano avviati senza comandi e avevano raggiunto un lato del prato delimitato da alti platani, qui si erano fermati.
Accanto scorreva un placido fosso d’acqua limpidissima. Papà aveva preso dalla sporta le bottigliette del vino e dell’acqua e le aveva sistemate in una piccola rientranza tra alcune radici esposte. Poi, staccato dal carro la falciatrice, aveva attaccato i cavalli e dato il via allo sfalcio, partendo dal lato esposto al sole.
Io ero rimasto a guardarlo.
Il prato era lungo e lo sferragliare della falciatrice, oltre la metà, sfumando quasi spariva. Rimaneva visibile la nuvola di insetti che impazzava davanti all’incedere dei cavalli. Fatto una decina di andirivieni, papà mi aveva chiamato. Ero corso da lui calcandomi in testa il cappello di paglia.
Afferrandomi per le ascelle lui mi aveva alzato e fatto sedere sulla punta della sella raccomandandomi di ancorarmi alle sue gambe onde evitare di cadere e, magari, finire tra i denti della falciatrice. Aveva riavviato i cavalli che, a metà prato e senza ordine alcuno, si erano fermati.
«Ssst…» aveva sussurrato mio padre balzando a terra e passandomi le redini. Con fare circospetto era andato davanti ai cavalli. Qualche passo, poi un battito d’ali e, un uccello dal piumaggio bruno striato di nero, era schizzato in un volo rapido e verticale. I cavalli avevano sbuffato, ma erano rimasti fermi mentre papà, con le mani, cercava qualcosa tra l’erba alta. Aveva fatto ancora qualche passo ed ecco un altro uccello uguale alzarsi a seguire il primo. Poi, appena più in là, un terzo. Vidi papà strappare qualche ciuffo d’erba e deporla a segnare quei punti. Era quindi tornato da me e ripreso posto sulla falciatrice aveva riavviato i cavalli.
«Ci sono ben tre nidi di allodola», aveva detto sorridendo ed evitando i luoghi segnalati per salvaguardare i nidi.
«E’ chiamata “messaggera dell’alba” e in primavera si nutre di germogli di cicuta», aveva aggiunto. “Messaggera dell’alba” mi era sembrata una definizione bellissima. La cicuta non avevo idea di che cosa fosse, ma mi aveva inorgoglito il suo sapere e la cura mostrata nei confronti di quei volatili.
Tornando infine verso il carro, Bianco, cavallo sensibilissimo ai rumori, si era bloccato spaventando il Rosso, suo compagno di tiro.
Papà mi aveva fatto scendere ed era andato ad accarezzare, l’uno dopo l’altro i loro lunghi musi mostrando così di conoscerli profondamente e di sapere che, quell’improvvisa irrequietezza, stava a significare qualche presenza insolita. Infatti, aveva fatto pochi passi, si era tolto il cappello e, raccolto qualcosa tra l’erba, l’aveva posta dentro.
Era tornato da me. Mi aveva tolto dalla testa il capello e travasato il contenuto del suo. Interrogandolo con gli occhi guardai quelli che sembravano degli ovetti di gomma.
«Sono uova di ramarro, - spiegò - e il loro guscio pare di gomma.»
Era ormai metà mattina e ci eravamo fermati per la merenda.
Avevo aiutato papà a staccare i cavalli dalla falciatrice e, accompagnati all’ombra dei platani, li avevamo rifocillati con il fieno stagionato portato da casa. Da casa avevamo portato anche il secchio per abbeverarli. Era andato al fosso, l’aveva riempito d’acqua e posto al sole perché l’acqua s’intiepidisse. Era una premura indispensabile perché fredda, avrebbe fatto male ai cavalli sudati.
Io avevo aperto la borsa e tolto la merenda. L’aria aperta mi aveva suscitato un grande appetito. Lui era tornato al canale e aveva prelevato le bottigliette del vino e dell’acqua.
Seduti accanto ai cavalli, avevamo posto i cappelli sull’erba e addentato i panini.
Nel nastro che circondava il suo cappello era inserita una piuma di gazza. Un vezzo o più propriamente un segno che esprimeva la sua sensibilità verso gli uccelli. Prima di indossarlo, inumidiva il pollice e l’indice della mano destra e la lisciava. Mentre mangiava, papà controllava con lo sguardo attento tutto d’intorno e, d’improvviso, portata da vento lieve e giocherellone, ecco posarsi una piuma. Lui l’aveva raccolta e chiesto di passargli il mio cappello. Io avevo preso tra le mani gli ovetti e glielo avevo dato. Lui aveva infilato la piuma nel nastro che lo circondava; inumidito poi con la saliva il pollice e l’indice, l’aveva lisciata donandole una forma a sciabola: «Ora, gli uccelli, quando vedranno la tua piuma, ti saranno amici!» aveva detto serio.
Mio padre aveva quindi raccolto un fascio d’erba falciata, vi aveva affondato il viso poi invitato me a fare altrettanto. L’avevo ubbidito e, mi si era aperto un mondo sconosciuto. Il miscuglio di aromi che quell’erba sprigionava, racchiudeva l’essenza della natura.
Chiaro che ero piccolo per apprezzarlo a fondo, ma così esaltante da farmi desiderare di ripetere l’esperienza. Immaginai di fare, con quel fascio d’erba, un cuscino e addormentandomi avvolto dal suo profumo. Mi aveva distolto da quel desiderio inedito un frullio d’ali che veniva dal luogo dove papà aveva visto i nidi: «É l’allodola» aveva detto papà.
Infatti si era alzata rapida ed era salita fino a diventare un puntino nell’azzurrità del cielo.
«Attento che ora torna scendendo con le ali chiuse» aveva aggiunto.
Infatti eccola e, in discesa era una scheggia che pareva dovesse sfracellarsi al suolo. Avevo aspettato lo schianto pronto ad urlare ma, la messaggera dell’alba, spalancato le ali, aveva frenato la discesa, poi, dopo essersi esibita in alcuni volteggi ampi e circolari, era atterrata.
«Come mai non fa il nido sugli alberi?» avevo chiesto incuriosito.
«Essendo un uccello di terra, l’allodola ama nidificare nella tranquillità profumata di prati come questo. Anche per il ramarro questo è un luogo ideale» mi aveva spiegato papà.
Dopo la merenda, lui aveva ripreso lo sfalcio mentre io giocavo con le uova di ramarro come fossero delle biglie. Quando papà aveva finito il lavoro le avevo rimesse nel cappello per riportarle là dove mio padre le aveva raccolte.
Camminando verso la tana vidi le uova rompersi e i piccoli ramarri, liberandosi da frammenti di guscio, salire velocissimi sull’ala del cappello e con un salto tuffarsi a terra disperdendosi tra l’erba. Ero rimasto allibito e avevo guardato mio padre preoccupato. Che cosa avevo combinato con la mia sbadataggine?
Lui calmo mi spiegò che i ramarri, quando escono dalle uova, sono già autonomi. Ero salito sul carro. Mio padre aveva asciugato le schiene dei cavalli coperte di sudore e pulito i petti dai tafani. Mentre lo faceva: «I cavalli sono animali straordinari - disse - condividono con noi il lavoro e ci sollevano dalla fatica.» Anche papà era sudato e infilato la giacca, si era rollato una sigaretta, l’aveva accesa. Si era quindi seduto sul carro accanto a me: “Andiamo”, aveva detto ai cavalli e loro, al passo, avevano preso la via di casa. Arrivati alla sbarra era sceso e l’aveva chiusa. Mi ero fermato un attimo a guardare il prato: il sole al centro del cielo lo illuminava tutto e, l’erba tagliata, era un brulichio di insetti.
Ero elettrizzato per l’esperienza vissuta. Aveva sollecitato la mia sensibilità verso la natura. Le parole di papà seppur poche, erano state lo strumento. Lungo la strada, passando davanti ad una fila di salici, papà era sceso dal carro, aveva preso dalla tasca la roncola e scelto un ramo, con un taglio netto l’aveva reciso.
Era risalito e in pochi minuti, lavorando di roncola, aveva realizzato un flauto.
Io durante il suo scortecciare, scavare, forare, guardavo incantato le sue mani che si muovevano rapide e sicure. Me l’aveva dato infine: nella parte inferiore aveva prodotto uno stantuffo
«Che – disse – avrebbe variato il tono del fischio a seconda che lo avvicinassi o lo allontanassi dal pertugio di fuoriuscita dell’aria». Lo provai subito soffiando a pieni polmoni dentro quello strumento, mentre lui fischiettava allegramente. Arrivati a casa, mi permise di aiutarlo a sistemare i collari dei cavalli. Il loro posto era nell’apposita stanza in fondo alla quale stavano impilati vari oggetti dei quali non conoscevo l’utilizzo. Forte della disponibilità mostrata in quella giornata da mio padre, chiesi una spiegazione: «Eh! - disse lui - sono attrezzi che usava mio padre per fare i gioghi ai buoi. Dovrei decidermi a disfarmene, ma mi manca il coraggio. Quando li guardo, ricordo ciò che mi diceva: “Gli animali sono i nostri fratelli di sudore!” ed è vero sai. Al suo tempo i buoi o le mucche aiutavano l’uomo a dissodare la terra e, per guidarli doveva camminare al loro fianco mescolando così il suo, al loro sudore. Allora io avevo la tua età di adesso e c’era la guerra; avevo frequentato la prima e quando riprese la scuola, entrai in seconda elementare, ma dopo due giorni tutto fu interrotto.
Mio padre affinché potessi mangiare almeno un pasto al giorno, mi mandò a fare il servo in una famiglia benestante. Mi misero proprio a guidare i buoi e le mucche e, il giogo che vedi, serviva a tenere uniti a due a due gli animali. Io, spesso, mi aggrappavo al giogo un po’ per farmi trasportare e un po’ per gioco, in fondo ero un bambino di neppure otto anni. Poi, finita la guerra, tuo nonno decise di comprare un mulo. Uno di quei muli che l’esercito metteva all’asta perché feriti nei combattimenti in montagna e, il giogo, finì a riposo e mai più usato. E’ sempre rimasto qui a ricordarmi la fatica, ma ancor di più a testimoniare la lotta per uscire dal giogo dell’umiliazione che opprimeva la gente più povera.»
Il giorno dopo tornammo nel prato per rastrellare il fieno, caricarlo sul carro e portarlo a casa. Quando stavamo per raggiungerlo, papà mi spiegò che quel prato a forma di triangolo equilatero aveva i lati lunghi cento metri e una superficie complessiva di circa sette ettari.
L’erba cresceva senza che fosse mai stata seminata. Per lui quel luogo rappresentava un dono di Dio.
«Qui ho visto erbe, insetti, uccelli e animali come in nessun’altro in questa zona e, questo, vorrà pur dire qualcosa! Che ne dici?» Ero lusingato che mi chiedesse un parere, ma io non potevo rispondere nulla, non ero ancora in grado di cogliere appieno i ritmi, l’armonia, le peculiarità della natura e lui lo sapeva. Comunque il mio cenno di approvazione, fatto con la testa, gli era bastato.
Capivo adesso perché all’entrata del prato aveva messo una sbarra di legno: nessuno doveva entrare a calpestare erbe e fiori e a disturbare i suoi abitanti. Mi aveva detto di essere molto contrariato dal fatto che alcuni cacciatori non osservassero il divieto e perciò, quando si apriva la caccia, al mattino presto, si preparava davanti alla sbarra e, come una sentinella, controllava che andassero oltre.
Quando la meccanizzazione in modo prepotente venne a modificare il lavoro in campagna, papà comprò un trattore e dovette decidersi a vendere un cavallo. Tenne il Bianco, baio docile e affettuoso, lo tenne quasi esclusivamente per gli sfalci del prato così che quel luogo rimanesse incontaminato e la natura fosse rispettata. Andò in contrasto con i fratelli quando, nel boom economico anche l’agricoltura venne stravolta. Bisognava produrre di più e il prato, con tutto quel terreno vergine, non poteva rappresentare una misera riserva di fieno. Fu una lotta dura, ma papà aveva un carattere forte, non permetteva a nessuno di prevaricarlo e la spuntò. Il prato restò intatto, continuò a produrre il fieno e con le nuove conoscenze si comprese che l’erba conteneva varie specie di piante officinali adatte a curare le malattie gastrointestinali delle mucche, dei cavalli e avevano pure un potere ricostituente. Mi ricordai allora delle allodole che si nutrivano dei germogli di cicuta.
Negli anni, l’attenzione ed il rispetto, attribuiti alla terra dai nostri padri, cedettero al mero guadagno e si andò perdendo il senso di onestà dovutole. I concimi chimici, i pesticidi e i diserbanti, usati in modo indiscriminato, se da un lato aumentavano la produzione, dall’altro bruciavano l’humus riducendolo a polvere inerme. Aumentava quindi in modo esponenziale anche il bisogno d’acqua, provocando l’impoverimento delle falde acquifere.
Il prato non fu indenne! Cominciò la sua sofferenza dal perimetro esterno, contaminato dalle terre circostanti. La germogliazione rinsecchiva e neppure il fosso che le scorreva accanto era in grado di ristorarla. Papà fu risparmiato dal vedere lo strazio del suo prato, i suoi occhi si erano ammalati ed era diventato cieco e solo; mamma l’aveva divorata un terribile cancro.
Io intanto mi ero fatto uomo e lavoravo in città. In uno dei nostri incontri, tenendomi le mani per sentire il mio contatto, improvvisamente tornò al lontano giorno in cui mi aveva portato per la prima volta a falciare il prato.
«Ricordi che quando tornammo a casa ti parlai del giogo? - chiese cercando di inquadrarmi con i suoi occhi spenti - Vorrei che tu lo tenessi con te, è il segno di un’epoca difficile, ma rispettosa della natura.»
Non aggiunse altro ed io non risposi perché, una strana magia mi aveva fatto tornare bambino davanti a lui giovane, con le sue pupille verdi e lucide che scrutavano ogni centimetro quadrato del prato per controllare le mille presenze che lo animavano, annusando i mille odori che lo profumavano.
Ho conservato quel giogo accanto a tutti i suoi attrezzi che forgiava con la passione di chi ama sperimentare ogni materiale per dare una forma alla fantasia. Il giogo era l’attrezzo che teneva appaiati e legati i buoi e le mucche, l’uno l’altro. Ma sapevo bene che aveva un secondo significato, più profondo e importante che me l’aveva insegnato lui. Superato quell’attimo che mi aveva profondamente coinvolto ed emozionato fino alle lacrime. Mi feci forza e cosciente che sarebbe stato uno degli ultimi incontri che ci avrebbe visto così uniti di cuore, gli rivolsi la domanda che avevo tenuta sempre sospesa, per quell’alto senso di riservatezza che aveva sempre caratterizzato i nostri rapporti.
«Papà, come mai ti sei sposato nel 1940 e hai aspettato tanti anni prima di generarmi?» E lui con un sorriso che mai avevo visto così solare e felice, cercando di inquadrarmi con quegli occhi ormai spenti, mi strinse forte le mai fino a tremare e disse: «Tua mamma ed io, aspettammo tutti quegli anni perché volevamo che nostro figlio nascesse nella libertà!»
Non ci furono risposte. Lo abbracciai e piangemmo assieme stretti e felici.
Era stato il suo testamento. La sua “Lectio Magistralis!”
Sono trascorsi tanti anni da allora e il giogo si è trasformato in uno strumento musicale: una lira. Dalla costrizione, alla libertà della musica. L’ho fatta io. Io che avevo ammirato le grandi mani di mio padre muoversi come leggiadre farfalle per creare cose incredibili, mi sono ritrovato a muovere le mie quasi che fosse lui a guidarle e, lo sento presente ancora, come allora.
«Sei stato un grande papà! Grazie della lezione.»