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Michele Faidiga 2021
LAGUNANDO 2021 > selezionati 2021
Nasce a Trieste il 22 gennaio 1967.
Dopo gli studi tecnici ed economici si trasferisce a Venezia assieme alla moglie Jiao ya per fare impresa.
Personaggio schivo, eclettico, ama la poesia, la fotografia la musica e tutto ciò che le circonda, appassionato di fisica e di storia, colleziona libri antichi.
Tornato a vivere vicino alla sua amata città, nel carso goriziano, alle porte della riserva naturale dei laghi di Doberdò e Pietrarossa, assieme alla moglie e ai loro sette figli, scopre il piacere di scrivere che esprime in questo suo verso:
“Con la penna in mano, posso tracciare i contorni d’una vita limpida e schietta. La mia vita prediletta.”
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RACCONTO
ORTI DEI DOGI
RACCONTO
Il canottiere






La sveglia non serviva più a tanto, oramai il sonno si consumava sempre un attimo prima dell’alba, si potrebbe dire che il Giudice si destava con un piede nel giorno che fu e uno in quello da venire. Dal tempo della scuola, ogni mattino al crepuscolo, rinvigorito da una frugale colazione, si recava alla Società dei canottieri e accompagnato da qualche solitario gabbiano in cerca d’avanzo usciva in mare a vogare. I primi tempi lo faceva per gareggiare, in compagnia d’altri come lui, pronti a vantarsi delle buone prestazioni e delle faticate vittorie, d’esibire i muscoli plasmati dallo sforzo alle giovinette innamorate. All’università, assai impegnato, ugualmente si sforzò di conservare l’abitudine mattutina, per goliardia e perché tante ore di studio in vetuste biblioteche chinato sui libri, pretendevano un po’ d’aria fresca e del moto che lo sport del remo forniva in buona misura. Nominato Giudice nel tribunale della grande città, stimato nel dirimere complesse controversie e conteso per l’insigne compagnia, le uscite rematorie si erano ridotte in numero. Oramai attempato, tardivamente sposato, l’alzataccia avveniva a giorni alterni ma non la domenica, riservata per volere della moglie alle occasioni mondane. Anche le distanze programmate, gli obiettivi che fissava scrupoloso ad ogni uscita in mare s’erano adeguati al suo stato, meno audaci, costretti, invecchiati.
Il giorno del pensionamento, s’era attardato al risveglio, aveva disertato la Canottiera, ignorato l’allarme del telefonino sostituito al trillo metallico della sveglia, oramai ferraglia riposta in soffitta. Inerme, seduto sul letto di casa a capo chino, i gomiti sulle ginocchia e le mani incrociate, aveva atteso che il sole penetrasse a lancia tra le fenditure degli scuri, trafiggendolo, cogliendolo in fallo, spaesato, intimorito, dolorosamente, intrinsecamente svuotato.
Non permise mai più al giorno di sorgere senza essere pronto a riceverlo, si fece scudo delle sue radicate abitudini e riprese le uscite in mare.
Una mattina d’inizio estate, seguita a giornate di bora e aria sbarazzina, un’improvvisa bonaccia aveva imprigionato il golfo, che si presentava piatto e denso come catrame, acceso a est dal riflesso del crepuscolo mattutino che dai monti allagava la città.
Ritto sul pontile, l’esile “skiff” da regata già in acqua, lo sguardo del Giudice, attratto dallo spettacolo fiammante, rimase ancorato al mare aperto, all’orizzonte lontano.
“Sior Giudice tutto bene?” chiese il custode mentre ne aspettava l’imbarco trattenendo la barchetta per gli scalmi.
“Caro Fabio mi ha sfiorato un pensiero bislacco: Per tutta la vita ho remato lungo la costa, al sicuro, senza mai spingermi al largo,” disse mentre si sistemava a fatica sul carrello e afferrava i remi lisciati dall’uso, “non ho mai desiderato farlo, mi accontentavo di guardare le vele all’orizzonte, nient’altro, ma ora che invecchio e faccio fatica a camminare…, ebbene vorrei averlo fatto, aver remato al largo”
Fabio, che aveva fretta di attrezzare le barche degli altri, rispose istintivamente per togliersi l’impiccio: “Giudice non si va al largo con queste barchette! Se salgono onde o tira vento non si torna indietro,” e senza attendere risposta lo spinse, con un gesto ripetuto chissà quante volte, allontanandolo dal pontile.
Ha ragione, è meglio remeggiare accostati a riva, protetti dalle onde e dal vento, a portata di voce dagli altri. Se ti lasci invogliare dal mare e cedi al suo richiamo, alle correnti impetuose, alle sue infinite promesse, rischi la burrasca, ti giochi la vita stessa. Si disse ripetendo un ritornello conosciuto a memoria, sul quale, forse perché logorato dal tempo e dall’uso, si scorgeva qualche crepa.
Intanto la luce del giorno l’aveva avuta vinta e ora l’azzurro del cielo si distingueva a fatica da quello appena più cupo del mare. L’anziano canottiere doppiato il porticciolo, notò poco al largo una barchetta, dalla quale spuntavano, come antenne di un gambero, delle lunghe canne da pesca ricurve, attorno alle quali trafficava un tipino con un berretto da pescatore, di quelli fatti per agganciarvi gli ami e proteggersi dal sole. Due palate più vigorose per regolare la prua in quella direzione e in un baleno raggiunse la barca.
“Ha fatto buona pesca? Abboccano?” Chiese intrigato dalla vista di tutta quella attrezzatura.
“Macché i pesci si sono fatti furbi, girano al largo,” rispose l’ometto con un’espressione del viso rassegnata.
“Vengo qui ogni mattina da trent’anni, più che altro a trascorrere il tempo, a prender aria.” Disse quasi tra sé.
“E dunque non pesca? Non si diverte, com’è possibile?”  Fece il giudice, anch’egli rivolto quasi a sé stesso.
Ricordava che da piccino un lontano zio di campagna lo aveva portato a pesca sul fiume, e s’era invogliato a vederlo armeggiare con le lunghe canne, i mulinelli, gli ami, alcuni con le piumette colorate e i piombini adatti ad ogni fondo e ad ogni misura di pesce.
“Divertirmi?” Gli fece eco l’ometto come se avesse frainteso, “che stramberia, non c’è divertimento a star solo in barca, glielo ridico, s’ammazza il tempo e null’altro,” e si voltò di spalle a tendere una lenza e a rilanciarne un’altra.
A meno di un centinaio di metri, prossimo al fanale rosso che segnala ai naviganti la bocca del porto, stazionava all’ancora un magnifico Cutter a vela, di quelli con lo scafo in legno pregiato, maturato in paesi esotici e le attrezzature in ottone, al cui albero si stavano issando due candide vele di fiocco.
Il Giudice, seccato d’aver incontrato un tal personaggio, incapace a rallegrarsi del tempo trascorso a pescare non era disposto a ritornare al suo consueto tragitto. Calcolò che con qualche buona remata lo si sarebbe potuto raggiungere e così fece. Intanto la riva, il porticciolo e la pineta ridosso gli scogli rimpicciolivano, mentre il mare alle spalle s’allargava. Nemmeno il tempo d’ accostare il piccolo veliero che giunse un secco richiamo: “Ehilà’ del canotto, prestate attenzione, se proseguite finite a cozzare.”
Girò il capo mentre la barca esauriva l’abbrivio e rispose:
“Niente paura volevo solo avvicinarmi, per guardare, di golette così se ne vedono poche oramai.” E proseguì fermatosi al fianco: “Non voglio interrompervi, chissà a quante cose dovete attendere. Vi si prospetta una gran traversata?”
Lo chiese perché godeva egli stesso al pensiero dei preparativi, della frenesia della partenza, dell’attesa di solcare mari inesplorati.
“Tutt’altro siamo in rada a provare il nuovo velame, poi si torna in bacino e si pranza a casa, dalle mogli.” Disse il marinaio in maglietta a righe e pantaloni di tela bianca, indicando con una mano i fiocchi issati a metà e parandosi gli occhi dal sole con l’altra.
Il Giudice non voleva arrendersi, sciupare la buona sensazione provata al pensiero della traversata e affermò di rimando: “Che vita leggera e corsara è la vostra, un’esistenza a vele spiegate, da una costa all’altra, in tutta libertà.” Aggiunse un mezzo sorriso con le sopracciglia arcuate e un rollio del capo come a dire che lui lo sapeva bene, non lo si poteva ingannare.
“Amico non voglio mentire, sarò franco, oggi si provano le vele e il sartiame, per vendere; se tutto va bene domani mi libero di questo fardello che mi costringe a tanti sacrifici e magari mi compro una barchetta come la sua, meno impegnativa, due palate e si va dove si crede,” dichiarò il marinaio e si mise a girare l’elegante manovella in ottone per issare una vela.
Era di nuovo mal capitato. Questo pelandrone non sapeva quel che diceva, di sicuro si trattava di uno di quelli che comprano la barca perché l’anno tutti, per la moda o per un capriccio della moglie e poi si pentono, non sanno navigare, se ne vogliono sbarazzare.
Il pensiero del Giudice venne interrotto dal suono sordo e regolare, stuf, stuf, stuf, di un motore al largo, lento, capace a far girare le eliche senza strappare l’acqua, a mantenere una modesta andatura.
La chiatta del carbone attraversava il golfo dal deposito fino alla centrale elettrica e viceversa. La si scorgeva ogni mattina, una collinetta scura alla deriva, distante, irraggiungibile. Ma ora era più vicina e un’occasione come questa non capita due volte, si disse il Giudice. Dovette spingere a fondo sulla pedaliera, e reggere la tensione dei remi sulla schiena e sulle braccia dolenti, ma alla fine si trovò vicino la chiatta che aveva arrestato il motore.
“Che vi capita, avete rotto uno scalmo, un remo? Vi ha trascinato la corrente?” chiese il Capitano con la pipa in bocca e le mani nere come il carbone che trasportava.
L’aspetto della chiatta non era quello che si immaginava dalla costa, mascherato dalle foschie e dalla distanza. Si trattava di un rottame arrugginito che spandeva nella scia dell’elica olio di macchina e nell’aria polvere di carbone che s’era posata a velo sulla barca e sulla schiena fradicia di sudore del Giudice. Dopo una breve esitazione alzò il capo per rispondere:
“Tutto bene perdonatemi e solo che avevo pensato di vogare al largo, tanto per cambiare” disse a corto di argomenti, distratto dalla vista di tale miseria.
“Per la malora, proprio oggi che sono in ritardo sulla consegna con questo relitto che sta a galla per miracolo, mi deve capitare un pazzo. In malora tutti i canottieri come te!” ringhiò il Capitano masticando il bocchino della pipa, e ordinò avanti tutta, stuf, stuf, stuf.
Che sciocco a venire, cosa ti puoi aspettare da un marinaio d’acqua dolce, che naviga sul golfo da riva a riva neanche fosse un lago, che ne sa lui del mare aperto, della libertà.
Il mare riempiva ogni spazio attorno la barchetta, la costa era scomparsa alla vista, conosceva la direzione da cui era venuto ma riprese a vogare all’opposto, verso la figura affusolata di una petroliera ancorata oltre le dighe di porto, ai margini del golfo.
Senza acqua e con il sole a picco che ne bruciava la pelle, le forze del vecchio Giudice cominciavano a mancare, ma la ricerca dei veri marinai, quelli che vivono al largo ogni giorno della loro esistenza, gli diede la forza per percorrere la distanza che lo separava dalla enorme imbarcazione.
Lo scafo oceanico, straordinariamente grande, si presentava con una murata alta più di venti metri che sorgeva dal mare come una parete rocciosa inespugnabile. Il giudice unì le mani e con voce impastata e roca chiamò a gran voce:
“Ehilà della nave,” e ancora, “Ehi della ciurma!” Senza ottenere risposta.
La petroliera inficcata nell’acqua non risentiva dell’onda e sostava perfettamente immobile e silenziosa, un’isola deserta, abbandonata. L’equipaggio era sceso a terra quella mattina, alcuni ad ubriacarsi nelle bettole del porto, altri in visita a donne che giuravano fedeltà a ognuno di loro se questo bastava a mitigare la solitudine della navigazione. L’ufficiale di guardia e i due marinai rimasti a bordo scrivevano a casa, denunciando la loro impazienza di fare ritorno e il desiderio di radicarsi a terra per sempre, ben sapendo di mentire.
A uno di loro parve di udire un’improbabile voce fuori bordo. Lentamente per non turbare l’immobilità generale, raggiunse il ponte e si sporse dal parapetto appena in tempo per distinguere a poppa una forma nell’acqua, pareva un’imbarcazione di quelle da canottaggio, in rotta verso il mare aperto, sospinta dal vento di Grecale intento a spazzare il golfo che si apprestava al tramonto.

Le ricerche furono inutili. La guardia costiera, gli elicotteri e anche l’idrovolante chiamato a rinforzo dalla regione vicina, rientrarono senza nulla di fatto. I quotidiani riportarono la notizia nelle prime pagine:
“Disperso in mare il Giudice D., magistrato modello, esempio di rettitudine e onestà.” Rimandando alle pagine di cronaca il ricordo dei tanti che lo avevano conosciuto e apprezzato.
Alla messa di suffragio convennero centinaia di conoscenti, ex colleghi e famigliari. Commossi e addolorati per il destino di quella brava persona, che si additava ai figli per insegnare loro la disciplina, il carattere. Tutti ne avevano stima, tutti ambivano una vita come la sua.
Tranne uno, che palata dopo palata proseguiva il suo viaggio al largo, là dove si abbracciano il cielo e il mare. Dove si rema in libertà.
















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