Paola Nascimben 2021
LAGUNANDO 2021 > selezionati 2021
ivo e spesso scrivo perchè “AUT INSANIT HOMO AUT VERSUS FACIT”
ISOLE DELLA LAGUNA
RACCONTO
LA MORTE IN LAGUNA
Sul far della sera di un giorno d’ottobre dell’anno 1630 un uomo sedeva allo scrittoio di una stanza ormai in penombra. Aveva appena riposto la penna e chiuso il calamaio. Ora prendeva la ceralacca, la riscaldava al fuoco diafano di una candela per metà consumata, chiudeva la lettera che aveva riletto con cura, vi imprimeva il sigillo del suo anello e chiamava il servo. Si raccomandò che seguisse le istruzioni che già al mattino gli aveva impartito, ché la consegnasse puntualmente al corriere nell’ora stabilita e al luogo convenuto, senza indugiare minimamente lungo il cammino. Si fece ripetere con puntiglio l’itinerario che avrebbe seguito, ché la strada fosse quella e non un’altra, e ogni calle, ogni campo, ogni ponte corrispondessero alla mappa che aveva disegnato accuratamente nel cuore ancora prima di spiegarla a voce. La sua lettera era la sua persona, la voce del suo animo che aveva cominciato a parlare mentre lui era chinato su quello scrittoio e da lì, come un’onda, per la via tortuosa ma sicura che per lei aveva predestinato, doveva raggiungere la sponda dove avrebbe trovato riposo.
Non dubitava affatto dell’intelligenza dell’uomo, con lui da molti anni e del tutto fidato, ma una particolare inquietudine lo spingeva ad aggiungere indicazioni che sapeva inutili e pur tuttavia rassicuranti. Era di vitale importanza che quanto aveva scritto affaticandosi ogni sera, svegliandosi anche di notte dal sonno tormentato per aggiungere un pensiero accorso all’improvviso, o per cambiare un’espressione che gli era parsa sul momento opportuna, e poi non più, non veramente consona al suo sentire, non comprensibile appieno a chi l’avrebbe letta, giungesse al destinatario, e vi giungesse in tempi rapidi.
Il servo uscì, l’uomo si alzò dallo scranno e spense la candela. Passò una mano tra i folti capelli candidi che gli ricadevano ondulati sulle spalle e che incorniciavano un volto ancora giovane, dall’alta fonte bombata, e dal naso piccolo, quasi femmineo, come i delicati lobi delle orecchie. Il tutto conservava un’idea di nobile integrità e di un candore privo di amarezza quale è raro trovare in un individuo adulto cui non siano ignoti gli inevitabili dolori dell’esistere. Gli occhi azzurri, increspati di linee sottili agli angoli, erano vigili e assorti, ma benevoli nell’ansia del momento. Fissava dalla finestra la grande via d’acqua sottostante il grande palazzo, deserta e muta di voci e di rumori. Una leggera foschia si stava alzando dal mare; penetrando lentamente nel canale dalla parte della Piazza, come fosse una minaccia di male e di dolore segreto si insinuava scorrendo malevola tra i rii, mescolandosi al fumo acre di incendi lontani. Priva di riflessi nel novilunio opalescente appena intravedibile nel cielo che si andava oscurando, l’acqua pareva una lastra di piombo stagnante. L’unico suono era il ritmico sciabordio contro i gradini del portone, un monotono scandire dell’ora avviluppato nel buio che avanzava inesorabile. A sinistra il nuovo ponte, sbiadito nella caligine, sembrava ergersi con sforzo sopra la liquida massa minacciosa; gli agili eleganti archi traforati, avviliti dal crepuscolo incombente, avevano perso il nitore sfolgorante della pietra carezzata dal sole di giorni lontani, gravati da una pesantezza che pareva insostenibile. Sul lato destro sporgevano brevemente i rami di un platano, ultima propaggine del grande giardino retrostante. Le poche foglie immote, nere macchie frastagliate contro un fondale di un grigio lattiginoso, disegnavano un curioso arabesco tra l’angolo del cielo, il canale e lo spigolo estremo dell’edificio, come una mano o più mani che si protundessero scheletriche sull’acqua per un’estrema invocazione di aiuto. Una si staccò, ormai sfibrata, e fluttuando nell’aria ferma andò ad adagiarsi pigramente sull’acqua e da lì si lasciò docilmente trasportare allontanandosi dalla riva. Ne seguì il tragitto rassegnato fino a quando scomparve dalla vista.
Per un breve momento gli parve di cogliere un lamento provenire flebile da qualche parte del palazzo di fronte, oltre il canale, ma le imposte, chiuse ed oscurate, non suggerivano nulla che si potesse minimamente intendere. Non una luce che parlasse di vita e di speranza; tutto era ombra silente nel grande slargo del mercato, fino a pochi mesi prima vociante di traffici dall’alba al tramonto. Passava il tempo, e lui stava alla finestra, al buio, senza potersi muovere. Un debole bagliore veniva dal grande camino nel profondo del salone dove la legna era ormai diventata brace. I vetri rosseggiavano debolmente di una luce sfocata, come se il fuoco morente parlasse sottovoce di un segreto trattenuto e l’eco flebile ne arrivasse alle alte finestre piombate senza che esse potessero rimandare una voce. Aspettava il ritorno del servo, ripetendone nella mente i passi in andata e al ritorno, calcolando con precisione la durata del tragitto e soffocando l’ansia che a tratti lo assaliva con lo strazio del ferro che tormenta la carne, che l’uomo avesse trovato qualche intoppo o, peggio ancora, che avesse mancato l’incontro con il corriere oppure che fosse stato fermato dagli ufficiali di ronda. Ma aveva calcolato tutto, si ripeteva: nulla, nulla poteva impedire che la lettera partisse la sera stessa da Marghera; e poi, una settimana dopo al più tardi, sarebbe stata aperta, e letta, e finalmente anche lui avrebbe avuto pace.
Il servo tornò. Lo sentì aprire il portone e poi salire pacatamente i gradini dell’alto scalone. Gli andò incontro e, al cenno di quello che confermava silenziosamente che la missione era compiuta, si accomiatò da lui e dai suoi pensieri, e si apprestò al riposo notturno. Suonava il tocco del campanile della Piazza nel silenzio ovattato del mondo malato e a quel segnale, quasi istantaneamente, come avesse ricevuto la benedizione di un viatico a lungo agognato, si addormentò.
Quell’uomo era l’ambasciatore del Principe Palatino a Venezia, e la lettera che da poco aveva lasciato la città era rivolta personalmente al suo sovrano. Il plico affidato al corriere in realtà conteneva anche un altro dispaccio, indirizzato alla Cancelleria di Palazzo. Il contenuto della lettera ufficiale, che l’uomo aveva compiuto ormai da giorni, e quello dell’allegata missiva personale che tanto invece aveva penato a redigere e che, come ultimo pensiero, mentre il sonno lo coglieva, immaginò in cammino nella pianura silenziosa verso le Alpi lontane avvolte nelle tenebre, era quanto segue.
Nell’anno del Signore 1630, il dì 17 di Ottobre, in Venezia, all’Eccellentissimo Augusto Signore l’Elettore Principe del Palatinato, per il tramite della di Lui Sovrana Cancelleria, dal suo fedele servitore ed amico il conte Joachim von Arnim.
Affido la presente missiva nelle mani di un corriere fidato, dal quale ho avuto ampie assicurazioni in merito alla meta finale di essa. Egli è uomo prudente et assennato, aduso a compiti siffatti. Viaggerà per terra, essendo preclusa a tutti la via del mare, attraverso la Strada d’Alemagna e il Ducato d’Austria. Se non troverà intoppi significativi, ho speranza che questo mio scritto giunga nelle Vostre commendevoli mani al più tardi a far data otto giorni da oggi.
La Vostra lettera mi fu recapitata venti giorni or sono, attraverso quali peripezie non sto a riferirVi, ché è da ritenersi già grande fortuna che essa sia giunta alla sua destinazione, benché la malaugurata sorte non ne abbia risparmiato l’infelice latore, caduto vittima anch’egli, come molti altri, del morbo funesto che da troppo tempo, e con crudele ferocia, tormenta la nostra amata Patria insieme all’Europa tutta.
Gioisco nell’apprendere che l’Eccellenza Vostra è salva, e con Essa molti degli amici più cari ad entrambi, quantunque non mi soccorra l’animo nel dirVi quanto io partecipi al Vostro immane lutto per la perdita della giovane Principessa Vostra Figlia e della di lei Augusta Madre.
Sappiate almeno che, avendo io medesimo conosciuto nella mia persona sì gravi patimenti, Vi sono partecipe dal profondo del cuore, mantenendo al contempo la consapevolezza che la mia condivisione, per quanto veritabile essa sia, non potrà in alcun modo alleviare il Vostro dolore.
Mi chiedete notizie della città di Venezia, e desiderate conoscere le mie intenzioni. Sappiate dunque che, allorquando l’incalzare della ferale pestilenza raggiunse le lagune, mi trovavo, come a Voi è ben noto, e in obbedienza ai Vostri ordini, al disbrigo di quel carico di stoffe che fu l’ultimo a raggiungere il Palatinato.
Attesi a tutte le incombenze alle quali ero doverosamente obbligato per quanto a lungo potei, e secondo i resoconti che mi avete assicurato di aver ricevuti. Per breve tempo, ahimè! In capo a giorni quindici da quella data, fu giocoforza abbandonare l’Arsenale, i Magazzeni del Sale, il nostro Fondaco stesso, giacché era impossibile trovare lavoratori disposti ai carichi, alle manutenzioni, agli approvvigionamenti. Chi non era già morto, cadeva malato; non pochi anzi di quegli infelici soccombettero dinnanzi ai miei stessi occhi.
Mi ritirai dunque io medesimo in casa, in obbedienza alle disposizioni del Sovrano Consiglio di questa città, ed attesi nuove da Esso e da Voi medesimo. Nei giorni che seguirono, i fatti andarono precipitando; il contagio diffondevasi e le morti moltiplicavansi senza fine. Confesso di aver avvertito l’ardente ma subitaneo impulso di far ritorno all’amata Patria, ovvero di trovar rifugio dai tentacoli del male nella vicina terra ferma, così come vedevo fare da altri gentiluomini che pure ho in grande stima. Costoro mi sollecitavano ad imitarli, ad abbandonare l’infelice nazione, a cercar riparo in luoghi più salubri, senza peraltro sapermi indicare lor medesimi quali essi fossero con ragionevole certezza, ché ovunque si spinga lo sguardo non vi è plaga in codesto cristiano continente che non sia stata ghermita dal veleno della malefica fiamma divoratrice.
Respinsi con agevole ponderatezza quel breve moto dell’animo, senza peraltro conservarne rammarico alcuno. Considerai infatti, innanzi ad ogni altro punto, il mio personale stato di individuo che il fato ha voluto fosse disciolto da quei più cari legami affettivi i quali, secondo l’unanime consenso, sono ritenuti imporre l’obbligo di una premurosa e consolante vicinanza ad essi medesimi. Con maggiore forza e quasi nell’immediatezza, per mia buona sorte, mi raggiunse indi la vivificante persuasione che il permanere in questa città mi avrebbe consentito, almeno, di soccorrere questa povera gente in qualità di medico. La professione che ho sospeso per lungo tempo allorquando, per mio onore, fui da Voi eletto ad altre regali incombenze, ma nella quale tuttavia il mio spirito era andato forgiandosi in molti anni di studio e di sperimentazione, è divenuta, in questo calamitoso frangente, un comando al quale sento di non potermi in alcun modo sottrarre. Tanto imperioso, oso dire, da consentirmi finanche di ricusare la fraterna e preoccupata sollecitudine che sento trasparire dai Vostri amorevoli motti. Non aggiungerò alcunché riguardo ai doveri che mi obbligano a Voi et alla nostra beneamata nazione. Se non bastassero le calamità presenti a sollevarmi da essi, sento in tutta sincerità di esservi sciolto mercé le parole che testé avete vergate, e che per l’addietro –pronunciate invero col più amichevole degli accenti – mi hanno ripetutamente significato la Vostra magnanima vicinanza. Se dunque, come mio Sovrano, non Vi fosse possibile accogliere codesta mia risoluzione, Vi supplico di concedermi almeno il perdono di un amico fraterno, così come in umiltà io lo concedo a me stesso. Il ricordo delle passate liete stagioni spese nella nostra terra diletta, e i mutui scambi di dolci affetti tra noi trascorsi mi confortano in siffatto arduo cimento.
Agirò dunque per quanto sarà nelle mie possibilità, assecondando al pari i dettami della scienza che ho appreso e della coscienza in cui sono nato, fedele al sentire che so da Voi condiviso, secondo il quale non ci è dato ambire a più nobile scopo, nel tempo lieto, che spendere le nostre brevi ore mortali per assicurarci dell’altrui felicità col maggior impegno possibile ovvero, qualora la sorte ci fosse avversa, per alleviare nell’ugual misura le sofferenze dei nostri consimili.
Dovesse essere questa l’ultima missiva che da me riceverete, sappiate che quanto farò sarà stato compiuto nel rispetto dell’onore che devo a Voi, alla mia cittadinanza, al mio essere uomo.
Accluso a questo troverete un diverso scritto che, come è mia speranza, potrà forse esaudire la Vostra richiesta di informazioni più dettagliate.
Raccomando a Dio la Vostra e la mia salute e mi firmo il Vostro fedele suddito ed amico, Joachim von Arnim.
Verace relazione intorno al morbo accaduto in Venezia nell’anno del Signore 1630, nell’acclusa missiva all’Augusto Principe Palatino, la quale sia da intendersi come indirizzata all’esclusiva lettura dell’Eccellentissimo medesimo.
Fui obbligato a che il presente racconto Vi pervenisse disgiunto dalla missiva relata alla Cancelleria Sovrana giacché, restando tale sciagura, l’illuminato Consiglio che presiede alla splendida e rinomata città nella quale mi onoro di risiedere da alcuni lustri, cara al mio cuore al pari della terra che mi diede i natali, severamente ingiunge che in nessun modo si abbiano a divulgare nuove oltre i confini di essa, acciocché non ne debbano patire quanti commerci e consimili relazioni codesta Serenissima Repubblica intrattiene in Europa e nelle terre oltremarine. Considererete pertanto interamente confidenziale quanto in brevità non posso mancare di riferirVi, essendo esso un lacerante spettacolo dal quale ad ogni levar del sole vengo squarciato nel cuore.
Se dunque nella nostra Patria, ad aggravio del morbo funesto, una guerra sanguinosa concorre ad aggiungere male al male, vieppiù calcando con impietoso tacco ferrato gli animi e le carni dei nostri infelici compatrioti, non Vi sarà arduo inferire in quale stato versino codeste terre lagunari, fiaccate come sono da una pestilenza che qui palesa il suo volto demoniaco con maggior ferocia che altrove. Venezia è un’isola, o mio sovrano, e perciò stesso si trova ad essere separata nel fisico e nello spirito suoi da ogni altro umano consorzio, disgiunta e negletta in tale calamitoso frangente come una figlia lo sarebbe da una madre nell’ora più perigliosa. Quomodo sedet sola Civitas Venetiarum! Allorché da Ossoduro e Cannaregio ebbero inizio le prime tribolazioni, gli infelici che vi hanno dimora appaiono conoscere l’abbandono di Dio e degli uomini tutti, potendo essi unicamente fidare nella saggezza del Governo che paternamente li guida e nell’umana pietà di quanti tra loro siano ancora salvi dal male.
Tanto selvaggio et atro deserto essa si mostra che, ad ogni nuova luce, mi par di andarvi cieco e smarrito come in notte fonda. Non alti navigli delineano il vasto orizzonte del mare, svuotate le calli e i campi invasi da l’erbe; sprangate son le botteghe e disabitati i fondaci, inchiavardati gli usci degli appestati ivi forzatamente serrati. Tacciono i sonagli dalle alte torri cristiane, non inni sereni nell’aere si spandono, sì d’impetranti e mesti cortei nell’ora dell’Ave Maria ogni tramonto conclude un tragico giorno. Non sabbie roventi circondano codesta serpica landa, ma acque immote e putrescenti di umani lacerti e carogne ferine insieme natanti nella lacustre Caienna; non ululati di iene fameliche si levano al limitare di essa, sì bene incessanti lamenti di cani e grida di orfani, di vedove, di umani affamati e senza governo. Sovra ogni voce un lacerante urlo sovrasta, l’eco del quale in nessun’ora, se non la mia estrema, potrà abbandonarmi la mente: “Chi gà morti in casa, li buta zo in canal”.
In siffatta guisa gli infami pizzigamorti, non altri che galeotti e malfattori levati alla catena, dan segno dell’opera loro. Potrebbe mai esservi più atroce comando che voce umana pronunzi?
Quando non salgano a levare quanti da tempo son morti solinghi, allorché l’intollerabile lezzo avverte del loro decesso, ovvero non provvedano ad abbattere gli usci, per forza traendo sulla via del Calvario i moribondi che ricusano andarci, siffatti messi dell’Ade vanno arpionando i poveri corpi che dopo molti travagli la vita ha lasciato e che i congiunti abbandonano all’onda senza che verun cristiano compianto possa alleviare il duolo dei pochi che restano né onorare la memoria delle miserrime anime che lasciano codesta terra infelice.
Coi miei occhi vidi l’altrieri una povera madre sporgersi ai vetri della cadente dimora, stringendosi al petto l’infante sua figlia vestita dell’ultima candida tunica. Non sapeva risolversi essa a deporre l’adoratissimo carico; a lungo esitò respingendo, tra disperati singulti, gli incitamenti oltraggiosi degli infami aguzzini. Lo abbandonò infine sfinita, e con un ultimo grido, alle stigie lagune, umilmente invocando che avessero cura del tenero corpo, ché essa era una buona, una cara piccina. Seguì poi con lo sguardo l’acherontica arca sino al limitare del rio, le braccia protese nel vuoto come per un estremo commiato e, se rientrò senza gettarvisi anch’essa, io credo che solo la cura di altri suoi teneri pargoli, ben presto ahimè destinati ad un’identica sorte, la trattenesse dal farlo.
Immani pire s’innalzano all’estremo confine di sì desolato orizzonte, et un atro e fetido aere ammorba e ghermisce quest’urbe violata fin dentro al suo cuore, in San Marco e in Rialto.
Trascorrono esse dal Lazzaretto Vecchio, estrema infame stazione del feroce martirio cui giungono insieme i trapassati e gli infetti prossimi alla fine. Tratti, se pur in agonia, dai lerci giacigli e gettati da vivi nel mucchio dei morti, in alterni strati di terra e di calce bollente son poi livellati, misere spoglie immolate all’insaziabile fame dell’ingordo Vulcano.
Se mai ebbi cuore di visitare l’incandescente ultima Thule, obbligo volle che andassi invece, et in più fiate, alla Vigna Murata, ove in migliaia hanno forzato ricetto i contumaci dal male. Pur qui tuttavia essi muoiono, decine sovra decine in un giorno. Le rende amara corona un’armata di barche, quanta neppure in Lepanto contro il Turco si vide schierata, carche di quanti la piccola isola non sa contenere. Un minaccioso nero vessillo et una forca innalzati sul mare ne indicano il valico, impietosi divieti a quanti intendessero da qui dipartirsi.
Molto, molto di più vorrebbe dovere che in punto aggiungessi; molte diverse pitture, e molti pietosi riquadri accorrono in folla alla mente sfinita. Lasciate, Vi prego, che quanto Vi ho detto sia per ora bastante, giacché Voi medesimo nell’opra pietosa sapreste fornirmi ausilio gravoso. Eppure, dolore sommato a dolore non altro che disperazione può generare. Il Cielo non voglia!
Ah! Lontani, lontani i giorni splendenti, le ore felici vissute in codeste divine lagune! Son essi, e il loro ricordo che soli scaldano l’animo in quest’ora funesta. Ad essi soli la mente si avvince, in essi soli trova ristoro lo spirito da tanti mali gravato! Al pari di un balsamo, ad ogni angoscia opprimente, mi corre in soccorso l’immagine nostra, fanciulli, gioire della tiepida rena nel lido al tramonto dell’estiva giornata. I nostri giochi sfrenati, fino al riposo del sole, e le corse gioiose tra gli alberi, insieme ai nostri compagni; ovvero le gite sull’acque, in ogni stagione. Andavamo in piccole barche solcando le onde tortuose e l’incanto dell’ombre, il baluginio dei riflessi tra verdi chiazzati meandri rimandavano alle menti fanciulle i misteri dagli adulti svelati. Torcello, e Lio Piccolo, e il Maggiore, e il Porto seccato, Equilium e alfine Altino scomparsa, parlavano degli uomini antichi, e delle loro gesta gloriose. Con noi nei navigli divenuti nel sogno grandiosi Cleomene cogli uomini suoi, e gli antichi Romani, Giasone e gli intrepidi eroi anelanti su Argo al vello dorato, e la calma, sapiente mitezza degli Enetici primi dall’Asia venuti. E quando, turgidi di giovinezza matura, a me che lasciavo per poco le fatiche nello Studio di Padova si univa alfine la Vostra frenetica brama, per lunghi mesi in algide piane alemanne sopita, di lidi assolati, di liquido tepido aere! La caccia autunnale di uccelli di passo, e l’accorta pesca con reti, la trepida attesa di prede agognate, di virili trionfi in casoni scaldati dal gelo brumale da mani di fervidi servi o in scomode botti calate in acque stagnanti tra nebbie di albe rosate… Nel fulgore del cielo turchino svettavano i monti lontani: era il Nord, la terra natale, l’infinito richiamo del capo del mondo, da dove spira Borea i suoi gelidi aliti. Gli spari, le grida, i silenzi protratti, null’altro che il cielo e il tremolare dell’acque, innumerabili gocce dissolte nell’aere, diamanti dispersi da un mago cortese, e l’attesa, l’attesa… Di cosa? Del nostro futuro, del Vostro destino di giusto regnante, e del mio erto cammino calcando le orme di Ippocrate saggio, ovvero di altro, qualunque esso fosse, giacché giovinezza è speranza, fervore nell’alma d’infinito potere, e disdegno che ignora le offese arrecate dai giorni. E Venezia, Rialto, San Marco, e le grandi terre isolate che, quali gemme splendenti, le fanno corona! Gli amori che colti vi abbiamo, inalando in delirio l’aroma di fiori inebrianti eppur mestamente caduchi! La Vostra ardente passione, e la mia, che divenne mia sposa, e che ora ho perduta…
Ma, no; ciò non sia! Che di quanto è passato vengano a me solo ricordi gioiosi, con Voi, e con tutti i nostri sodali! Mi visiti solo in quest’ora la tenera immagine di noi che, sfiniti, il giorno trascorso e morente, alzando lo sguardo al bagliore disfatto sul mare andavamo cercando erranti navigli dispersi e, nel silenzio del liquido mondo sopito, seguivamo i frenetici voli di esseri alati come noi al nido tardivi. Ordinavano i nostri padri le barche, ché era d’uopo il ritorno in Venezia, ma noi indugiavamo, nei recessi dunali nascosti ai richiami, supini godendo l’incanto del mondo, a ciò che esso durasse nel cuore anche dopo, una volta lontano, nello spazio e nel tempo. Sognante, novella beatitudine alla mente bambina, presaga talora di duoli futuri ossia, con maggior verità, dell’Eliso straziante dell’umana cangiante esistenza.
Ovvero, più innanzi, le corse sfrenate coi baldi destrieri al galoppo, in gara sul lido di Erasmo, inseguendo l’ultima barca per tornare in Venezia; al fine l’approdo alla Piazza inondata dal sole all’occaso in questa città, dove la pietra sembra in eterno dissolversi in ala…
Torneranno quei tempi gloriosi? Il mio cuore vacilla, e nera caligo, come di un mare in tempesta, invade in quest’ora la mente spaurita. Quale soccorso, quale valido aiuto potremmo noi medici offrire a codeste misere anime? Inane la nostra povera scienza, e vuote abbiamo le mani. Ritengono molti che, come non si vede cessare la fortuna dei flutti se prima non cessa il furore dei venti, così non abbia a scemare la furia del morbo se il gladio della divina giustizia non fosse prima deposto. Così io non credo e, se tralascio i meschini espedienti dei ciarlatani, ovvero gli imbrogli di ciurmatori e disonesti speziali, accolgo il parere di cari e fidati sodali che affermano la pestilenza passare sua sponte, non essendoci dato per ora saperne le cause. Sì, io lo so! Altro tempo verrà, più fortunato, allorché di Natura il reame ci sarà meno arcano. Potremo forse in quell’alba lontana svelarne le leggi a nostro vantaggio, per quanto io creda nel profondo del cuore che sempre nuovi mali verranno, giacché immutabile legge è imposta agli umani, che mai il male sia dal bene disgiunto. Rinnovo con Voi il patto che in più fiate, e più giovani, ci siamo in fede scambiati: inchinarci al volere del Fato nostra unica fragile sponda, e gli altri e noi stessi con pietas onorare.
Vi chiedo venia. Non so più continuare.