Sabrina Tonin 2021
LAGUNANDO 2021 > selezionati 2021
Vvo a Budapest dove mi occupo di recupero energetico.
Dopo il liceo ho frequentato la scuola politecnica di design di Milano sotto la guida di Bruno Munari.
Recentemente, spinta dalla noia del lochdown ho iniziato a partecipare ai concorsi e con mia sorpresa i miei racconti stanno risultando vincenti... non è mai troppo tardi!!
ORTI DEI DOGI
RACCONTO
Aspettami sul pontile
Ho verniciato la parte sommersa della chiglia di blue, un blue frammisto a polvere d’argento che si confonde con il mare, quando il sole lo illumina a mezzogiorno.
La parte della chiglia fuori dal pelo dell’acqua l’ho verniciata di bianco madreperla e ho tracciato una sottile riga bordeaux con frammenti di polvere dorata, per esaltare la linea sfuggente della barca.
Le vernici me le ha mandate il figlio di Naim dalla sua fabbrica di Izmir, l’antica Smirne.
Naim l’ho conosciuto tanti anni fa, quando la Turchia sembrava potesse diventare occidentale e che si potesse attraversare il ponte sul Bosforo, da Oriente ad Occidente, verso il libero pensiero.
Safoit mi aveva trascinata in quel viaggio alla ricerca di certi documenti del defunto padre, figlio di Jamil Mardam Bey, nipote del Gran Vizir Mustafa Pascià e banchiere di Re Farouk, un viaggio che si preannunciava un’avventura e che oggi con la coscienza della maturità non rifarei.
Durante il giorno eravamo sommerse da scatoloni pieni di vecchi documenti, la gran parte scritta in arabo che comprendeva solo Safoit, io non potevo esserle di aiuto.
A onore del vero non lo sarei stata nemmeno se avessi potuto leggerli, profana come sono in materie economiche, ma a Safoit serviva solo un’amica fidata che le desse il coraggio di capire quello che suo padre era stato e cosa aveva lasciato dietro di sé, pertanto le stavo accanto e quando vedevo che vacillava o sconfortata voleva abbandonare, la spronavo e la incoraggiavo.
La sera uscivamo e raggiungevamo il centro storico.
L’Istiklal Caddesi è un vialone del centro storico
di Istambul, lungo quasi tre chilometri, costellato di palazzi di ogni genere architettonico, tardo- ottomano, neoclassico, art nouveau.
Pullula di ristoranti, locali notturni, gallerie d’arte, antiquari, negozi di frutta e spezie coloratissime ed è affollatissimo e vivace.
Ero entrata in un piccolo ristorante e mi aveva colpito il fatto che c’era un piccolissimo tavolino nell’atrio, con una sola sedia, perfettamente allestito per una cena, era il tavolino per chi aveva fame e non aveva soldi per pagare.
Ogni tanto entrava qualche pover’uomo, si accomodava ed un solerte cameriere gli portava subito una pietanza.
Non solo questo mi aveva colpita, ma anche il fatto che poco dopo era entrato un uomo con un lungo grembiule nero che con i palmi delle mani massaggiava alacremente una pallina di carne, la riponeva in una tasca del grembiule, ne prendeva un’altra e ripeteva il rito all’infinito.
Erano polpette di carne e spezie che cuoceva con il calore, la pressione e lo sfregamento delle mani, per ore ed ore, e gli era consentito venderle ai clienti del ristorante.
Naim era seduto al tavolo accanto al mio e conversava con i suoi commensali in perfetto francese, parlava anche qualche parola di italiano, perché in Italia viaggiava di tanto in tanto per lavoro, tra le sue parole avevo capito che parlava di colori e solventi.
Non sembrava turco, era alto e biondo con modi occidentali.
Terminata la cena, con Safoit e alcuni suoi amici che vivevano in città mi ero trasferita in un locale notturno poco lontano, giusto qualche minuto dal ristorante.
La musica era assordante e faceva vibrare il diaframma dello stomaco, era piena di fumo e di gente, era difficile trovare lo spazio per ballare o anche solo per sedersi ad ascoltare.
La gente beveva direttamente dal collo delle bottiglie, spesso i tappi sfuggivano dalle prese e lo champagne inondava qualcuno, come di lì a poco sarebbe capitato a me.
“Merde” avevo esclamato in francese e il colpevole era scoppiato in una risata fragorosa, era Naim.
Ero scoppiata a ridere anch’io e da lì era nata un’amicizia che è durata per decenni, tra una telefonata e qualche veloce saluto in qualche aeroporto, tra un viaggio e l’altro.
L’indomani Naim ci aveva invitate a visitare la sua fabbrica dove produceva vernici per barche, le sue vernici venivano esportate anche in Italia per i motoscafi Riva.
Erano diverse dalle solite vernici, avevano riflessi argentei e dorati, a tratti davano l’impressione di essere completamente trasparenti, a volte sembravano avere frammenti di madreperla che le rendevano opalescenti.
Nella darsena accanto alla fabbrica, le barche sembravano sculture tanto erano belle.
“Un giorno costruirò una barca e la vernicerò con queste vernici Naim.”
“Inventerò i colori più belli e li avrai solo tu.”
Quando gli ho telefonato per dirgli che dopo quasi trent’anni era arrivato per me il momento di costruirmi una barca ed andarmene per mare e che volevo chiedergli se ricordava la promessa, Naim aveva già lasciato questo mondo, ma il figlio custodiva due barili di vernice con il mio nome incollato.
Naim aveva lasciato una cinquantina di barili impilati uno sopra l’altro, con vernici di tutti i colori e li aveva contrassegnati con i nomi dei molti amici di tutta una vita.
Ogni barile di un colore diverso, pensato per un preciso amico, di modo che quel colore fosse unico, perchè per Naim ogni amico era unico.
Forse dopo tanti anni non erano più utilizzabili, ma aveva creato quei colori per me e valeva la pena di tentare.
Il risultato era sorprendente, la mia barca era come la volevo, un “legno” di undici metri, dalla linea sfuggente, che brillava sotto il sole nel porticciolo di Pirano dove l’avevo ormeggiata, la più bella di tutte.
Era perfettamente equipaggiata, ma per la meta che dovevo raggiungere non servivano grandi cose e nemmeno grandi scorte di cibo, solo un po’ d’acqua, frutta, carne secca, formaggio, una coperta, una bussola e delle buone cime.
Uscita dal piccolo porto avevo preso direzione sud e a mezzo miglio avevo issato le vele, bordeaux.
Il sole faceva brillare le onde e la carena della mia barca come fossero brillanti, qualche folata di bora spirava sottovento portandomi velocemente in rotta.
Solo poche miglia, ancora in acque istriane, vedevo profilarsi alla mia sinistra il promontorio oltre il quale c’era il fiordo di Leme.
I fiordi croati non sono veri e propri fiordi come lo sono in Norvegia, il fiordo di Leme un tempo era una valle carsica dove scorreva un fiume che si gettava nel mare, poi l’innalzamento del mare l’ha sommersa creando un canale lungo dodici chilometri.
Una leggenda dice che il fiume ha paura di gettarsi nel mare e disperdere le sue acque dolci nelle acque salate, ha paura di lasciare i monti e le valli che ha percorso, perché non comprende che la sua vita non finisce ma si trasforma, non sarà più fiume ma sarà mare, sarà solo cambiato, ma sarà vivo per sempre.
Il fiume Leme era forte, coraggioso e orgoglioso, la corrente lo portava inesorabilmente verso il mare, ma lui si dibatteva per restare vivo e continuare a scorrere.
Così Nettuno, il Dio del mare, aveva avuto compassione di lui, o forse rispetto per il suo coraggio e gli aveva permesso di tornare nel suo letto, trasformato in mare, ma vivo e nella sua casa.
Con la mia vela impiegherò quasi tre ore per navigarlo fino alla fine e tornare in mare, giusto quando il sole tramonta, in tempo per trovare un’ansa dove ancorare e passare la notte.
Sono sola con la mia barca, devo accendere il motore ed abbassare le vele, perché il vento si è placato.
Le sponde sono colline alte almeno duecento metri, si sentono canti di uccelli disturbati dal mio motore e nulla più.
In fondo al fiordo getto l’ancora per raggiungere a nuoto la riva che qui si abbassa, voglio cercare la grotta.
San Romualdo da Ravenna, prima di farsi frate aveva condotto una vita turbolenta che era sfociata in una lite tragicamente mortale, come sarebbe accaduto al Caravaggio, così aveva deciso di prendere i voti per mortificarsi dell’orrore che aveva commesso e trovare la pace ed il perdono di Dio.
Ma neanche nel Monastero benedettino dove si era rifugiato riusciva a trovare pace ed aveva infine deciso di condurre una vita da eremita, rifugiandosi in una grotta in fondo a questo fiordo, placando le sue angosce e trovando la pace dello spirito.
La grotta è nascosta dalla fitta e rigogliosa vegetazione che la mano dell’uomo ha risparmiato, l’ingresso è ostruito da pietre carsiche franate dal colle sovrastante e mi impediscono di entrare.
Mi siedo sui ciottoli pungenti della piccola baia e mi chiedo in cosa Frate Romualdo avesse trovato la pace che anche io anelo, quando ad un tratto tutto mi è chiaro.
Dall’altra parte, a nord ovest, verso il mare, il sole sta tramontando, i raggi entrano obliqui nella valle ed illuminano l’acqua, sembrano spade lucenti che si inabissano in profondità, una miriade di pesci sorge dalle acque e salta attraversando i raggi argentei, riflettendo la luce sulle squame, ora comprendo.
Per quel poco che vale, la vita ha valore, nessun dolore è senza fine, nessuna prova è troppo ardua, nessuna sconfitta non nasconde in sé una speranza di riscatto.
Puoi risorgere da acque melmose, puoi trovare il sentiero in mezzo alla nebbia, puoi credere e lottare fino all’ultimo respiro, puoi tornare a sorridere e asciugare le tue lacrime al sole.
Se hai paura di affogare, un pesce che balza nell’acqua e brilla al sole ti fa capire che puoi riprendere il cammino.
Quante volte mi sono fermata sull’orlo del precipizio, in bilico su una zolla di terra.
In basso il vuoto, intorno a me solo nebbia ed un vento sferzante che mi feriva il collo.
Quante volte ho urlato il tuo nome, ma eri troppo lontano ed inesorabile l’eco restituiva le mie invocazioni.
Ogni volta arrivava un segno che mi dava il coraggio di ritentare, di cercare ancora, una farfalla fuori stagione che ti volteggia intorno, un angolo di strada che riconosci, il profumo del mare in burrasca o il profumo del fieno bagnato da un temporale estivo.
Tutto tace, gli animali rientrano nei boschi per prepararsi alla notte, impiegherei troppo tempo per tornare fuori dal fiordo, sono pervasa da un senso di pace e decido di passare la notte qui.
Domani riprenderò la rotta per raggiungere la mia meta, che ancora non conosco ma so che la troverò.
E quando la troverò capirò che la meta non è un luogo, ma è l’inizio di un nuovo viaggio, e più sei lontano e più ti verrò a cercare.
Perché non esiste un luogo dove tu non sia presente, dove i ricordi non mi tornino alla mente.
Veleggiando verso sud la costa si fa più piatta, si intravede qualche piccola lingua di sabbia, la vegetazione si dirada e si distinguono dune brulle che si insinuano fino al mare.
Il mare che fino a poco fa era piatto, ora si sta increspando, il vento si fa sempre più teso, un’improvvisa folata muove il boma e la barca stramba in poppa portandomi più al largo.
Tra le onde che si sono fatte più grosse, intravedo in lontananza altre dune, in mezzo al mare, solitarie.
Non le avevo mai viste, seguo il vento e mi avvicino, ora le vedo bene, sono piccole isole, brulle, devono essere le isole Incoronate, sono tante, bianche, senza vegetazione.
Abbasso le vele e riduco la velocità, mi addentro in quello che sembra un labirinto un po’ intimorita, mi assale la paura di non riuscire a governare la barca e di incagliarmi in qualche fondale basso, ma è uno scenario a cui non so resistere e proseguo.
Il vento di colpo si è fermato, la barca lentamente arresta la sua corsa, il mare è diventato piatto, getto l’ancora e mi siedo a prua a guardarmi intorno, tutto è silenzio.
Non si sente nemmeno lo sciabordio delle onde sulla chiglia.
Se non fosse per il mare che circonda me e gli isolotti, potrei dire di essere finita sulla luna, tanto lo scenario che mi appare è spettrale.
Nessuna forma di vita, non vedo pesci nell’acqua cristallina, non ci sono gabbiani che osano arrivare fin qui, tutto è silenzio, mi tuffo e raggiungo un isolotto.
Il suolo è in prevalenza roccioso, la pietra è bollente sotto il sole cocente, qua e là qualche conchiglia di madreperla, ne avvicino una all’orecchio per sentire l’urlo del mare come facevo da bambina e mi sembra che urli il tuo nome.
E’ per te che sono qui, è per te che ho preso il mare, è per guardare dentro di me e capire chi sei stato che mi trasformo in pesce e nuoto, che mi trasformo in vento e volo, che mi trasformo in onda e bagno la sabbia come le lacrime che ora bagnano il mio viso, è per te che fuggo da questo mondo.
Inesorabili i dubbi mi assalgono, mi hai mai amata davvero?
La nostra pelle era liscia quando i nostri corpi si accarezzavano, la nostra fronte guardava avanti sfrontatamente, senza paure o vergogne e senza i solchi che oggi le rughe hanno disegnato.
Ti sei scoperto innamorato di me sul finire dei tuoi giorni, ma era me che amavi?
Oppure ti sei innamorato del ricordo della nostra giovinezza, del rimpianto di un amore che poteva essere felice ed al quale non hai dato nessuna possibilità di scelta?
Ti sei innamorato del mio buon cuore che sa perdonare ed accogliere, perchè l’amore perdona, abbraccia e consola?
O perché con il mio viso ed il mio corpo il tempo è stato clemente e non gli ha permesso di solcare i troppi dolori, i troppi amori, le troppe delusioni, le troppe fatiche, le troppe gioie?
Perché amandomi ti specchiavi come Narciso e rivedevi la tua giovinezza, i tuoi capelli biondi, il tuo vigore?
Oppure mi hai amata da sempre senza il coraggio di amarmi?
Ed io perché ostinatamente ho continuato ad amarti senza dividere con te i miei giorni?
E se fosse perché si ama una sola volta e l’amore rimane nell’aria, percorre centinaia di migliaia di chilometri, attraversa il tempo senza orologi e torna ad invadere le vene?
Se fosse come disse Pirandello che:
E l’amore guardò il tempo e rise,
perchè sapeva di non averne bisogno.
Finse di morire per un giorno,
e di rifiorire alla sera,
senza leggi da rispettare.
Si addormentò in un angolo di cuore per un
tempo che non esisteva.
Fuggì senza allontanarsi,
ritornò senza essere partito,
il tempo moriva e lui restava.
E’ per cercare una risposta che vado per mare, il mare che ti appartiene, che hai nelle vene da che sei nato.
Ho fame ed ho finito le scorte, devo uscire da questo dedalo di isole e portarmi sotto costa, attraccare in un porto sicuro e cercare del cibo.
Finalmente vedo un minuscolo porto, è un villaggio di pescatori, si vedono le reti stese ad asciugare su pali piantati nella spiaggia, lancio la cima ed un pescatore mi aiuta ad ormeggiare, sorpreso che ci sia una donna sola a governare una barca.
Arrivano uomini, donne e bambini incuriositi, accarezzano la mia barca, mi dicono che non hanno mai visto una barca così bella e i colori poi, non ne parliamo, stupefacenti!
Chiedo dove posso comprare qualcosa da mangiare e dove posso trovare acqua dolce per lavarmi.
Nel villaggio non c’è acqua corrente e nemmeno elettricità, mi portano dei secchi d’acqua pescati in un pozzo.
Una donna porta del pane caldo, ne taglia delle fette, lo irrora di olio di oliva e ci taglia sopra qualche scaglia di tartufo che il suo cane ha scovato nell’entroterra, è buonissimo.
Poco distante c’è un cumulo di cenere fumante, tolgono la cenere con mosse abili, senza scottarsi ed appare un pentolone di ghisa rovente, è una peka, una pentola pesantissima tipica di queste parti, la scoperchiano ed esce un profumo inebriante, hanno cucinato un polipo con delle patate e delle erbe di campo, non ho mai mangiato qualcosa di più buono.
La notte è calda, mi sono sdraiata a dormire sulla spiaggia, il mare è calmo e le onde arrivano lente a lambire la sabbia e suonare una musica dolce, come dita affusolate che accarezzano la tastiera di un pianoforte.
Mi torna alla mente Marion e le nostre notti sulla spiaggia a guardare ad est, verso il profilo della costa istriana e dalmata, per scorgere qualche luce.
Marion era alta, aveva i capelli bianchi e due occhi immensi ed azzurri, come il mare da dove veniva.
Era nata in un villaggio di queste parti, sulla costa dalmata, con il mare a fare da cornice ai suoi giochi, con le onde a bagnarle i piedi sudati dal tanto correre.
Un giorno sua madre, suo padre e sua sorella erano andati nel bosco a raccogliere legna secca da ardere e l’avevano lasciata sulla spiaggia a custodire la peka dove avrebbero cotto il polipo che Marion aveva pescato.
Le ore erano passate una dopo l’altra ma nessuno era tornato.
Marion aspettava ed aspettò fino a sera quando arrivò una sua zia e la condusse a casa.
La fece sedere sotto il portico e le disse che i suoi cari erano partiti verso Nord per raggiungere Trieste e poi Venezia, e l’avrebbero aspettata lì.
Non avevano potuto tornare a prenderla perché il vecchio autobus stava partendo e non ci sarebbe stato il tempo di tornare alla spiaggia.
La zia le aveva promesso che nel giro di due o tre giorni al massimo sarebbero partite anche loro per ricongiungersi a Venezia, sarebbero salite su un camion che le avrebbe portate a Pola e da lì avrebbero preso il piroscafo.
“Ma quando torneremo qui?”
Chiedeva la piccola Marion, perché l’idea di lasciare il suo mare per la laguna veneta proprio non le piaceva!
Arrivò a Trieste ma non trovò i genitori e la sorella ad aspettarla, forse avevano già raggiunto Venezia, c’era solo tanta gente che le guardava e sputava loro addosso.
Le appesero un cartello di cartone al collo con scritto “Esule numero 24.400”.
La portarono in un magazzino del vecchio porto e la accompagnarono ad una branda, dicendole che doveva mettere la sua piccola valigia sotto la branda, sedersi ed aspettare.
Ed aspettò Marion, aspettò ore, giorni, mesi, ma non vide mai arrivare i suoi cari perché erano finiti in una foiba.
Li avevano caricati su un camion e portati verso Nord, tra le colline carsiche, come tanti italiani d’Istria e Dalmazia, colpevoli solo di essere italiani.
Non erano fascisti, erano solo italiani che soccombevano sotto la furia dei titini comunisti di quella che allora era Croazia e poi sarebbe diventata Jugoslavia.
Li avevano legati con il filo di ferro uno all’altro e messi in fila sul limitare di una foiba.
Avevano spinto il primo della fila che aveva trascinato tutti gli altri nella cavità che si insinuava verso il centro della terra, dove avevano trovato la morte, a volte dopo ore o giorni di agonia.
Ma questo Marion non lo avrebbe saputo per molti anni, la zia le aveva raccontato una pietosa bugia, le aveva detto che sua sorella voleva diventare un fiore, voleva essere un narciso che fiorisce ogni primavera.
La mamma e il papà allora l’avevano portata nel bosco, l’avevano trasformata in fiore ed erano rimasti accanto a lei per proteggerla dai cervi che non la calpestassero e per abbeverarla, così che ogni primavera sarebbe rifiorita.
Davanti al mare, quando scrutavamo la costa lontana, Marion diceva che un giorno sarebbe tornata a cercarli e quando li avesse ritrovati, avrebbe piantato tanti narcisi a far loro compagnia.
Provavo dolore, rabbia e indignazione per quello che aveva vissuto Marion e la mia rabbia era ancora più grande quando pensavo che l’Italia taceva la verità su quegli eccidi, amavo Marion anche per questo.
Quando mi vedeva guardare l’orizzonte e piangere, intuiva l’angoscia che mi attanagliava la gola e non mi faceva respirare.
Mi osservava in silenzio entrare in acqua e sospingerla verso il mare aperto, come a voler mandare un messaggio a qualcuno che lo aspetta ma non sa da dove arriva e quando arriva, e mi sussurrava:
“Un giorno tornerò a cercarli, troverò dei fiori, perché come sementi li hanno interrati e torneranno a fiorire.
Non affannarti ora, non è ancora arrivato il momento neanche per te, arriverà un giorno quando sarà giusto che arrivi e troverai quello che cerchi.”
Lei si fidava di me e mi raccontava quello che tanti esuli come lei non avevano il coraggio di raccontare ed io sapevo di potermi fidare di lei e solo a lei potevo raccontare le mie angosce.
L’amicizia è questo, sapere che ti puoi fidare e ricevere la fiducia dell’altro.
Eravamo due donne, separate da almeno quarant’anni di età, ma unite da un dolore nascosto, da una meta che stava al di là del mare.
Anche per Marion ho preso il mare con la mia barca.
L’indomani, al sorgere del sole riprendo la mia rotta, voglio andare ancora più a sud fino al Montenegro, alle Bocche di Cattaro, alla fine del mondo.
Veleggio tutto il giorno e parte della notte, fino a quando vedo delle luci sulla costa e distinguo l’imboccatura del fiordo, dormo in rada, voglio entrare nel fiordo con la luce del sole, voglio vederlo nel suo splendore, sarà la meta che dovevo raggiungere.
Da qui tornerò indietro, o forse continuerò il mio viaggio, o qui resterò.
Ad est, oltre i monti si intravedono le luci dell’alba, il cielo si colora di viola, poi di rosa, infine di arancione e quando il sole sorge, superando le vette, si tinge d’oro.
Lentamente, a motore spento, senza vele, con la sola forza della marea entro nel fiordo.
Sono letteralmente sopraffatta da quello che vedo, il fiordo si insinua tra monti alti quasi duemila metri, completamente ricoperti di vegetazione che arriva senza soluzione di continuità fino a lambire il mare.
Intorno a me solo il silenzio assoluto, vorrei attraccare ma mi pare di violentare una natura così inviolata e getto l’ancora per raggiungere la riva a nuoto.
Sulla sommità del monte che sovrasta la fine del fiordo si vede il campanile di una piccola chiesa e decido di raggiungerla.
Il sentiero non è impervio, sale dolcemente lungo il pendio, interrotto da ruscelli a cui dissetarsi.
Ogni tanto la vegetazione lascia spazio ad uno squarcio da cui guardare in basso verso il mare e scorgere qualche porzione del fiordo.
Un cartello di legno all’inizio del sentiero ammonisce il viandante di dosare le forze e di non avere fretta perché il cammino era lungo almeno sei ore.
Proprio come il cammino della vita, non devi bruciare le tappe o raggiungerai la meta troppo presto, non ti accorgerai di chi e di quello che ti sta intorno, non comprenderai il profilo delle cose, il profumo della gioia, il sapore delle lacrime.
Gli anni passano e il mio passo è malfermo, ma non ho mai lasciato il cammino della vita senza tentare di arrivare in fondo, ho corso tanto, rincorrendo il treno della felicità, ma non fermava alla stazione e non sono riuscita a prenderlo al volo, eppure sapevo che sarebbe passato una sola volta.
Non mi fermerò adesso che la meta è vicina, ancora un passo e poi un altro, con il cuore in tumulto, annaspo tra le ultime asperità della salita, certa che alla fine troverò la pace.
Quando giungo alla vetta vedo una radura sulla quale si staglia una minuscola chiesa bianca con accanto un campanile che svetta altissimo verso il cielo.
Mi siedo sugli scalini della chiesa e finalmente paga della mia fatica guardo in basso davanti a me.
Ora comprendo di essere arrivata alla fine del mondo, alla fine della mia strada.
Il sole sta tramontando dove il fiordo si apre al mare, i tramonti dell’est sono indescrivibili, il cielo si colora di mille sfumature.
Il sole diventa una palla enorme che dà il meglio del suo fulgore prima di tuffarsi nel mare, e continuare il suo viaggio verso nuovi mondi da illuminare.
I monti fanno da cornice e non più illuminati diventano neri.
La mia barca di distingue chiaramente laggiù al centro del fiordo, la sua vernice brilla sotto gli ultimi raggi del sole.
Dio mio, quanto è bella la vita, quanto è colpevole non viverla fino alla fine a cui sei predestinato!
La mia barca mi aspetta perché questa non è la meta, è ancora lontana e tanto mare ancora è da navigare.
Mi hai chiesto :
“Che cosa farai dopo di me?”
Ti ho risposto :
“Costruirò una barca e andrò per mare.
La chiamerò Donna Leonia, come il “legno” inglese con cui veleggiavi da ragazzo, quello che il mare del Golfo di Biscaglia, in una notte di tempesta ha scagliato sugli scogli sfasciandola in mille pezzi e tu hai creduto che il tuo sogno di veleggiare intorno al mondo fosse morto.
Ti sei arreso, hai smesso di lottare ed hai atteso il tuo destino.
Io riprenderò la rotta per te, la mia barca mi condurrà alla fine del mondo, tu aspettami sul pontile, ti verrò a cercare.”