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Silvano Visintin 2021
LAGUNANDO 2021 > selezionati 2021
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Nato a Venezia il 13/05/1949. Maturità classica. Laurea in Lettere.
Docente materie letterarie negli istituti superiori di Venezia dal 1977 al 2013.
Polisportivo, Alpinista e  marinaio.
E’ stato per vent’anni skipper in Mediterraneo e lavorando nelle navi mercantili ha effettuato per due volte il giro del mondo.
Vincitore del concorso “I segreti di Lio Piccolo” – 2015.
Menzione speciale al Concorso Poetico nazionale – Villa Bruno 2016 – Napoli.
Pubblicazione nell’Antologia “Il cioccolato” Carta e Penna 2016 – Torino.
Vincitore del premio poetico “Massimo Troisi” – Concorso Poetico Nazionale Villa Bruno 2017 – Napoli.
Vincitore della “XXVI° edizione del Festival internazionale di poesia erotica – Baffo – Bonafè” Carnevale di Venezia 2017.
LEGGERE LAGUNE
POESIE
Da quando siamo stati


Da quando ci siamo stati
su un umile vascello
tempo brutto o tempo bello
fluttuiamo precipitati
tra onde gravitazionali
e buchi neri

Difficile essere sinceri
travolti da tutti i mali
innamorati ostinati
seppur mortali

Soli giocolieri
le stelle nel cielo terso
scrutiamo fin da ieri
specchi coscienti dell’universo.

E tu che studi i quanti
e tutte le loro stringhe decidi
in cerca dei tuoi bracieri
non vedi che gli stessi polimeri
le stesse quattro basi
in un giro che si tiene
sono per batteri e balene
per virus ed elefanti?

Cerchi un senso al bricolage
ma non c’è niente
nel riutilizzo del materiale
già esistente
delle mille evoluzioni
che confermi l’apofenia
come naturale teologia

Sono solo trasposizioni
una beffa che crea mutazioni
con talento d’anarchia
e propone nuovi suoni
nella banda dei trasposoni
Sentenza tra le più dure
che ribalta la memoria
la bellezza viene da storture
senza progetto della storia

Allora se la ragione tace
metto l’animo in pace
E senza pause
nel mare mi getto
Niente più cause
solo effetto
Corposo stupore
Irriducibile amore.
In sala d’attesa


Nel grigiore della stanza
esplode la stranezza
fuori da ogni prosopopea

Unica la bellezza brilla
di donna come una dea

Fantastico azzardo
l’attesa dello sguardo
sul cuore trafitto pesa

Occhi dolci rubati alla notte
luci inattese che aprono il mondo
confortano le ossa rotte
e raggiungono l’anima in fondo

Fiato corto che l’aria divora
sogno che si fa respiro
prima che lei si allontani

diabolico raggiro
nell’attesa di un nuovo ancora
che forse non avrà domani

Poi senti sul viso l’energia
del mio amore poco saggio
e privo di coraggio

Ti alzi e mi compiaci d’un sorriso
complice di semplice umanità
che tutto sovrasta

Tanto mi basta

Anche se ora vai via
per un attimo lo so
sei stata mia
con piena solidarietà.


Ott.2020

La vecchia foto


D’improvviso
dal libro scivola sul viso
la vecchia foto

E apre il tunnel del tempo
a precipizio

Come un vecchio vizio
mette in moto
il ricordo in bianco e nero
dei trascorsi ardori

Sentimento sincero
che rinnova i colori
ormai liniti
ma non del tutto sbiaditi

Pegno della comune promessa
fatta all’inizio della salita
lungo il sentiero strano
e che ancora non cessa
anche se giunti lontani sull’altopiano

Tenerezza mai finita
che si aggiunge all’antica stella
d’amore
Luce nella notte sorella
Pulsante bagliore.
Neve


Lieve silente
come fosse accaduto niente
sorprende col bianco fatato
il mondo ora cambiato

Perfino la rabbia più nera
che ancora avvolgeva la sera
di tenebre iraconde
ora più lieta risponde
al mattino

Agli occhi ingenui di bambino
sorpreso dal felice girotondo
la manna veste il fondo
di tenere curve di mamma

Bianca luce pura perdura
e rende così vicini
i bianchi batufoli agli umani

Destini che volano lontani
e ritornano dopo essersi persi
Fiocchi di neve
Tutti uguali
Tutti diversi.










22/1/2021
Orgasmo


Folle illusione dell’io
che ritorna al fuoco primordiale
al di là del bene e del male
e con placida serenità
sperimenta il confine attraversato

Quanti pensieri alle spalle
declama
il momento liberatorio
energia complessa
che cessa di stringerti il collo

Senza sotterfugi
inequivocabile
il piacere determina
un salto nel vuoto assoluto

Lì da dove è venuto il botto
antica esplosione che ancora perdura
e offre momenti perenni di calma
sicura

Nel tempo ormai rotto
ridotto all’inverno
scintilla la stella
che guida all’eterno

Desiderio che per un attimo tace
Raggiunta è la pace.






Ott. 2020
LEGGERE LAGUNE
POESIE
Amplifon
(Laguna immobile)


Provate a usarlo
quel tappo dei rumori
Capirete di cosa parlo
appena siete fuori

Sull’acqua immobile
intendo
dove il silenzio
s’impone urlando

Non è assenza dei rumori
non uditi intorno
È il rientro al naturale
con pieno suo contorno

diviso in cento raggi
Il canto dell’uccello
è il soffio dei miraggi
che ritorna fratello

Il magico strumento
ha un suo interruttore
Appartiene solo al momento
di ritrovata vita e suo amore

Oh certo c’è calma di vento
Il tempo s’è fermato
Il sole splende contento
Dimentico è il passato

Però attento! Per sua natura
che appartiene all’anima incerta
Il tocco più a lungo dura
se lasci la porta aperta

Allora come ispirato
dal dolce suono intriso
anche se solo o annoiato
Sul volto tornerà il sorriso.



15 Apr. 21
Gabbiani


E tu stridente gabbiano
che feroce il verso acuto
al mio boccone lanci da lontano
come da altri mondi venuto

In picchiata cominci la battaglia
tumultuante incrocio di voli
concerto come asino che raglia
appena non siete soli

È feroce la contesa
il frullo lo sbatter d’ali
minacci col becco l’offesa
fame è l’origine dei mali

Nessuno che funga da paciere
grosso il piccolo allontani
La lotta è ormai senza quartiere
come chiede la natura pagana

Unica legge in questa corte
che non conosce pietà dei destini
è il becco e la zampa del più forte
che travolge femmine e pulcini
Nello schiamazzo che riempie la sera
mentre scivola la barca solitaria
mi chiedo se anche gli umani sono schiera
spinta dalla stessa boria che vedo in aria

Poi come d’incanto riprendi il volo
tracci controvento la tua armonia
Io rimango sospeso a quel momento
e credo di cogliere segreta poesia

Quando sei basso raso terra
costretto dalla vita è il tuo salto
Ma aperte l’ali fine della guerra
con l’aria pura voli più in alto.
Gli Ottagoni


Come un valzer di stelle
alla corte d’affannati turisti
danzano barche tra isole belle
e trascurano quasi imprevisti
le austere delle acque sentinelle

Oh i miei amati ottagoni!
Doppi tetragoni obbedienti
costruiti per fermar le genti
di scimitarra insanguinata
ora divenuti terra abbandonata

Cinque sono, uno squadrone
Il primo antica veglia
fu nel trecento a fianco di Poveglia
E poi la famiglia a ripetizione
qualcuno disse di Sansovino
Da ogni lato sparava il cannone
in acque basse e nessun vicino

Dall’assolata riva lontana
nella foschia quasi si perde
quello detto Campana
ormai preda di selvatico verde
Che pur tra  i romani campioni
fu porto con alterna fortuna
tra Malamocco e Alberoni
nel cuor della laguna
Medoaco antica fondamenta
ove un tempo tacita e bruna
al mar scendeva la Brenta

E poi come compagno fido
con abito ancor stirato
ecco alla fine del Lido
il meglio conservato
Invidia dei poveri fratelli
costretti ormai in rovina
come stracciati fraticelli
in testa e in fin di Pellestrina

Io soffro di tanta ingratitudine
per i servizi a lungo prestati
frutto di stolida abitudine
a veder sull’attenti i soldati

Son stati buoni servitori
e ancor portano memoria
del genio dei dottori
e dell’antica gloria

E penso alle gesta di una vita
condotta con senso del dovere
di chi spesso molti altri aiuta
e rinuncia al facile piacere

Finché fu utile il servizio
ci fu rispetto perfino devozione
finita l’opera per italico vizio
fu solo oblio e rapida rimozione

Un urlo lancio allora
a nome di tutti i pensionati
che la dignità rinnovi ancora:
quei muri fedeli vanno onorati!Ott. 2020
Isola di Santo Spirito


Accende nuovo stupore
impastato di silenzio
e di dolore
Santo Spirito
scolpita dai resti cadenti
su cielo e acqua coincidenti

Il segreto la tiene
come rifugio solo di sirene

Isola solitaria
senza persona alcuna
sulla grande piatta laguna

È la fine del viaggio
lì dove delle nuvole fuggenti l’aria
sull’acqua immobile
si specchia il passaggio

Perfino il suono
celebra il crudele abbandono
Sordo pure il ricordo
degli antichi fasti benedetti
e le bellezze di grande pregio
devastate da furti e sfregio

Deserto immobile indisturbato
angolo al tempo scappato.Ott. 2020
“Stravedimento”
Miracoli veneziani – Montagne sul mare


Eccole!
Nella notte Ercole le ha riportate
Dovevano essere in tanti
così del tutto imbiancate
c’è voluta una squadra di giganti
Chissà quanto lavoro
per trasportare l’immenso pandoro

Ora pare quasi una foto finta
Un artifizio di natalizie vetrine
l’accecante teatrale quinta
che spinge alle spalle le chiese vicine

E’ l’aria fredda pungente
che rende la vista più chiara
Conforta di speranza la mente
e all’anima distoglie la tara

Un sogno magnifico si staglia
richiamo delle vette sul mare
I campanili son scale di meraviglia
Silenti saliamo..
e siam tutti lassù a sciare.


26/12/20

ORTI DEI DOGI
RACCONTO
L’inaffondabile








Gunter Sachs aveva ventun anni quando ricevette l’ordine d’imbarco. Era divenuto sottocapo dopo 18 mesi di servizio e la sua specializzazione nella batteria contraerea era molto richiesta. Fu quindi con un certo orgoglio che accettò il trasferimento a bordo del gioiello della marina tedesca. La corazzata Bismark, la più inespugnabile fortezza del mare. Lunga 251 metri, per 36 metri di larghezza, era in grado di navigare a 30,5 nodi, cioè circa 56 Km orari. A mezza forza, aveva un’autonomia di circa 30mila Km.. Gunter sarebbe stato uno dei 2100 membri dell’equipaggio, che prevedeva 103 ufficiali.
La Bismark era stata riarmata in funzione di un nuovo sviluppo della Kriesgmarine, dopo che Hitler aveva stracciato gli accordi anglo-tedeschi, relativi alle limitazioni degli armamenti. Vennero quindi costruite navi qualitativamente all’avanguardia. Erano corazzate che potevano considerarsi tra le più potenti del mondo (superate solo dalle gigantesche Yamato giapponesi, tuttavia più lente).
Varata il 14 febbraio 1939 ad Amburgo, alla presenza di Hitler e di tutto il suo cerchio magico, ebbe come madrina la nipote del famoso cancelliere di ferro che le aveva dato il nome.
Ora, nella primavera del 1941, era stata inserita nell’operazione Rheimiburg in Atlantico. Si trattava di ostacolare il traffico mercantile verso la Gran Bretagna. Missione segretissima e particolarmente cara al fuhrer. Anche la scelta dell’equipaggio fu commisurata all’importanza della spedizione. Gunter lo venne sapere dall’amico Franz, che lavorava all’ammiragliato e la confidenza fu nuova fonte di soddisfazione.
Come sempre, però, il destino gioca su più tavoli. Nella licenza che gli fu concessa prima dell’imbarco, il nostro giovane capo ebbe un incontro decisivo con la graziosa Gertrude, fidanzata dai tempi del liceo, che nella notte sfavillante di stelle di Amburgo, dopo una serata nel piccolo albergo, decise di sposarlo. Mentre si dichiaravano eterno amore, seduti sulla panchina del lungomare, un gatto nero dal collo bianco, saltò in grembo alla giovane amante. Interrotti nelle loro effusioni, si compiacquero a lungo delle esibite fusa che il giovane felino seppe interpretare con lodevole maestria. Per un caldo batuffolo di pelo luccicante, che si struscia ronfante, languido e tenero, è facile sedurre una giovane, nel pieno dell’eccitazione amorosa. Riuscì perfino a suggerirle silenziosamente il significato simbolico di quel gesto voluto da Dio.
“E’ noto che i gatti portano fortuna – iniziò Gertrude, che aveva competenze di storia antica – già gli Egiziani li adoravano – proseguì con la convinzione di Cleopatra rivolta ad Antonio – e non è un caso che sia comparso ora… tra noi.. è il protettore del nostro amore, portalo con te.” Concluse, senza lasciare scampo.
Gunter tentò una pallida obiezione, era nuovo su una nave che non conosceva. Certo, avrebbe voluto anche lui tenerlo, perché la carezza al felino avrebbe rinnovato il ricordo delle loro tenere effusioni. Però, un gatto a bordo della nave.. di quella nave poi.. e come avrebbe fatto a portarlo a bordo?
Gertrude era tedesca, di madre tedesca e di padre tedesco, sottufficiale di marina. Una corrazzata.
“Lo sai che i fenici divennero famosi per aver diffuso i gatti in tutto il mediterraneo? – esordì – e che i gatti a bordo delle navi sono utilissimi per la caccia ai topi? – proseguì incalzante – Non stai portando una sventura, ma una vera fortuna – concluse – E poi, a cosa servono quei giganteschi sacchi che avete in spalla quando salite a bordo?”
Gunter rispose con la stessa retorica, alla domanda “A far salire a bordo i gatti!”
Si baciarono e continuarono insieme le carezze alla bestiola, che furbescamente continuava a dichiarare indissolubile il loro amore, con delle fusa che avrebbero stordito il più cinico degli umani
Gunter s’imbarcò quindi con il gatto Mau nel sacco (antico nome egizio del gatto sacro, divenuto simbolo di benevolenza degli dei verso gli umani, patrono della fertilità, ecc.. Gatti così sacri, che venivano mummificati dopo la morte. Così sostenne Gertrude).
Non trovò ostilità a questa iniziativa. Non era per niente campata in aria l’utilità dei gatti a bordo, nella feroce battaglia di territorio con i topi. La presenza dei felini era una costante nella tradizione marinara, benché diversa nella riduzione dei danni, dopo che l’utilizzo del metallo nella costruzione delle navi, aveva già ridotto la facilità nel legno dei fori-tana dei topi. Gertrude aveva ragione (sempre le donne hanno ragione). Ed anche dal punto di vista psicologico, la presenza dell’animale domestico, ricordava a tutti le gioie delle famiglie lontane. Sempre si faceva a gara per conquistarne la simpatia e poter godere di quelle carezze che rilanciavano al calore del divano domestico. Mau, poi, aveva un suo temperamento eroico nell’esibire prede fresche e insieme molto languido nell’accettare le ricompense dei marinai. Insomma, sapeva come si fa a diventare una mascotte, e il fondo nero del suo mantello dava conferma dell’etimologia stregonesca del termine.

La Bismark, dopo un periodo di preparazione segreta, salpò da Gortland, in Danimarca, il 19 maggio 1941. L’affiancavano il Priz Eugen e tre caccia torpediniere, nel segretissimo tentativo di raggiungere l’Atlantico. Lì, avrebbe attaccato le navi mercantili britanniche e le loro scorte, con la forza dei suoi lunghi cannoni da venti metri, che potevano distruggere obiettivi a quasi quaranta chilometri di distanza.
Non aveva fatto i conti con il radar. Qualcuno dice che fu la Raf ad avvistarla, altri credono al decriptaggio delle note di Enigma, insomma come nei migliori polizieschi, fu scoperta nel tentativo di forzare lo stretto. Si scatenò una rapida e violenta battaglia. Fu quella che passò alla storia come la battaglia dello stretto di Danimarca, contro le navi inglesi Prince of Walles e l’incrociatore da battaglia Hood.
Quest’ultimo, 42mila tonnellate di stazza, orgoglio della marina britannica, e conosciuto come “la nave più potente del mondo”, dopo cinque minuti di combattimento, colpito nel deposito di munizioni, esplose con tutto l’equipaggio. Una nuvola alta più di trecento metri, secondo i testimoni, segnalò la fine immediata di 1400 marinai. Solo tre furono i superstiti. Una tragedia che suscitò pena perfino ai nemici della Bismark, coscienti che quello poteva essere anche il loro destino.
Anche la loro nave fu danneggiata e, pur uscendo vincente dal blocco britannico, si trovò a dover decidere se rinunciare al vantaggio d’aver conquistato l’Atlantico e rientrare per le riparazioni, o proseguire sfruttando il vantaggio dell’oceano aperto. Scelse la seconda e fu la sua condanna.

Mau era sparito durante la battaglia. D’altronde pochi avrebbero avuto il tempo di osservarlo nella frenesia di quei momenti tumultuosi. Come un conforto protettivo, ricomparve alla fine delle esplosioni, passeggiando lungo i corridoi, silenzioso e a suo modo regale. Sembrava Napoleone che onorava i gloriosi combattenti e nello stesso tempo verificava quali fossero state le perdite. Gunter fece in tempo ad accarezzarlo, felice d’essere stato coraggioso in quel suo battesimo del fuoco. Aveva ricevuto i complimenti dell’ufficiale di guardia e lo avrebbe scritto alla sera a Gertrude. Ora, strusciava il pelo morbido e accogliente, con emozione commossa e ringraziava la compagna di averle imposto quella presenza.
“Proseguiamo in Atlantico! – Urlò l’ufficiale – ogni squadra sia pronta secondo il proprio turno!”
L’Atlantico, pensò Gunter, è enorme. Ci aveva giocato scorrendo col dito sul mappamondo del nonno, quando bambino gli aveva raccontato l’impresa di Colombo. E già le grandi onde che frangevano sulla prua imperiosa della nave gigante, dichiaravano l’enormità della distesa d’acqua. Non sarà facile trovarci, pensò, mentre si teneva aggrappato per sostenere gli sbalzi più forti dell’irregolare rollio. Non sapeva ancora che la nave era ferita e arrancava meno potente del suo vero potenziale. Soprattutto non poteva conoscere quanto grande fosse l’orgoglio ferito degli inglesi e la loro determinazione a vendicare la sorte dei marinai affondati con l’Hood.

Il primo ministro Churcill furente decretò che la Bismark fosse oggetto di una caccia senza quartiere e mobilitò tutte le forze disponibili. Servizi segreti, caccia ricognitori, resistenza danese, intercettazioni radio, navi disposte a raggera lungo le ipotesi di fuga, tutto fu messo in gioco per la caccia. Finché giunse rapidamente il risultato sperato, favorito dalla scelta errata di proseguire del comandante tedesco.
Il 26 maggio 1941, cominciò l’attacco alla Bismark da parte di numerosi caccia decollati dalla portaerei britannica Ark Royal. I primi siluri non intaccarono le robuste murate d’acciaio. Risolutivo fu quello che si disse un colpo disperato quanto fortunato. Un caccia, respinto dal fianco della nave per i colpi furiosi delle postazioni contraeree, sulle quali sparava anche Gunter, decise di scivolare verso poppa. Dopo una rapida cabrata, si rituffò verso la nave volando a pelo d’acqua. Lasciò cadere il siluro quasi al contatto con la poppa che miracolosamente evitò, con un guizzo rapido di gabbiano. Il siluro parve scivolare nel vuoto, mentre la nave avanzava veloce. In effetti, non colpì lo scafo, ormai oltre la sua rotta. Penetrò, però, esplodendo nella pala immersa del timone, rendendo la nave ingovernabile.
Il timone rimasto bloccato a 15 gradi costringeva la corazzata ad un lento, prevedibile lungo cerchio. Il comandante disperato, tentò di manovrare con l’uso delle eliche, inutilmente.
La Bismark divenne un bersaglio per un’esercitazione di tiro, impossibilitata ad ogni azione di offesa e difesa.
L’indomani, quattro navi da guerra britanniche, svolsero meticolosamente il loro compito vendicativo. Circa 300 colpi centrarono in pieno la nave, che tuttavia persisteva ostinata nel galleggiamento. Molti marinai si gettarono in acqua, cercando di allontanarsi rapidamente. Il comandante morto, secondo alcuni suicida, aveva  infatti ordinato prima l’auto affondamento.
Così, tra un brulichio di marinai che nuotavano disperati, come neonate tartarughine che cercano di sfuggire ai predatori, alle 10,39, la nave dei sogni della marina militare tedesca, con le sue 50.000 tonnellate d’acciaio, affondò nel profondo oceano, 650 km. a Ovest del porto franco di Brest. Molti dei suoi 2104 marinai morti, furono trascinati a fondo dall’enorme gorgo che si era formato. Altri, furono lasciati deliberatamente in acqua (c’è chi sostiene per esplicito ordine di Churchill) dalle navi britanniche, che abbandonarono rapidamente la zona “per il rischio degli U-Boat tedeschi”.
Solo 116 marinai si salvarono. Tra di loro non c’era Gunter.
(L’8 giugno 1989 – lo statunitense Robert Ballard, localizzò il relitto ai piedi di una catena montuosa sommersa, alla profondità di 4.791m. La posizione dello scafo confermò l’ipotesi dell’auto affondamento. Il governo tedesco conserva le coordinate segrete del relitto, dichiarato “sacrario militare”)

Ma la storia continua, perché, come racconta lo storico militare polacco Janusz Piekalkiewicz, nel suo libro Seekrieg 1939-1945 (Guerra navale 1939-1945):
“Qualche ora più tardi, il cacciatorpediniere Cossack solca queste acque nel suo viaggio di ritorno. Uno dei marinai scopre tra resti e cadaveri un gatto che galleggia su una tavola. Il cacciatorpediniere si ferma e prende a bordo il gatto bagnato fradicio e tremante per il freddo”
Era Mau cui fu dato stavolta il nome di Oscar.

Jack O’Connor era stato lo studente prediletto del professore di letteratura al liceo. Avevano la stessa passione per i gatti. Si erano rivelati il reciproco vizio, quando il giovane allievo era andato a trovare a casa il suo insegnante, vittima di una rovinosa caduta. Tra le ginocchia dell’anziano docente seduto in poltrona, ronfava delicatamente un gigante mantello di pelo rosso, indifferente a tutto. Da lì, iniziò la lezione indimenticabile, non appena Jack rivelò che anche lui aveva un “compagno” inseparabile, che lo aspettava a casa. Ricordava bene quante volte aveva dovuto frugare tra le carte della libreria del professore, seguendo le sue indicazioni, più su, no, no, lì di fianco, sotto quella cartella, sì, ecco, bravo. Sembrava un gioco, una caccia al tesoro. E in un certo senso lo fu. Scoprì con le parole dell’appassionato docente, la storia dei gatti in Irlanda. Dalla testimonianza scritta più antica, nel MedioEvo, quel gatto leggendario chiamato Pangur Màn che significa “follatore bianco” (la follatura è l’operazione di pulizia della lana) comparso in una poesia, scritta dal monaco irlandese Sedullius, sul manoscritto Reichenau Primer.
“Capisci Jack, com’è bella, intensa e.. interessante questa coppia di inseparabili, lo scriba e il gatto che si allena a diventare il più bravo a catturare i topi e l’altro che… si forza di migliorare la scrittura.. – cercava il passo con la mano tremante che reggeva il foglio – sì, ecco.. così da trarre “la luce dalle tenebre”. E’ fantastico, non credi ?”
Jack annuiva, impossibilitato a contenere l’entusiasmo dell’anziano.
“Da questa poesia prendono ispirazione tutte le leggende, le fiabe, i racconti dei gatti e delle avventure in cui affrontano draghi, maghi, e…. Insomma, tutte quelle storie che avranno raccontato anche a te quand’eri bambino.. – Si fermò un attimo e lo fissò negli occhi cercando conferma al patto di complicità – Ora viene il meglio.. sei il primo a cui lo dico.. è stata una mia scoperta quando ero ricercatore all’Università di Dublino… eh sì, bei tempi…”
Si fermò di nuovo, catturato dall’onda del ricordo di un tempo che doveva essere stato felice. Il gatto percepì quell’onda emotiva e per la prima volta sollevò la testa, fissando con occhi penetranti e indagatori il giovane, quasi a chiedergli cosa stesse combinando.
“Questa è la copia della lettera che James Joyce scrisse al nipotino Stephen James… - affermò con orgoglio il professore – già.. tu non puoi sapere, ma in questa lettera Joyce scrisse una storiella, The Cat and the Devil che è diventata poi famosa. Eh sì, sono stato io, Martin O’Hara a scoprirla.. poi come al solito … ma lasciamo perdere.”
Stavolta il gatto rosso si rizzò sulle quattro zampe e si mise seduto sopra le gambe del professore. Due occhi verdi, tagliati nel centro da due verticali, strette ogive nere, gli conferivano un’aria di severa inquisizione ipnotica che per un attimo spaventò Jack.
“Che occhi eh! – esclamò il vecchio che aveva intuito il disagio – come nella poesia di Yeats… quella che avevo letto in classe.. the Cat and the Moon.. ricordi?”
“Certo – rispose trionfante Jack – il poeta con il paragone tra gli occhi del gatto e la luna.. uniti nella mutevolezza.. – recitò il giovane studente – esalta il senso del mistero.. e dell’alterità del gatto”
“Bravo! Avevo capito subito che eri il migliore!”
(Per chi non credesse alla storica passione “pazza” degli irlandesi per i gatti, consigliamo di esplorare la recente notizia che a Clonsilla, un sobborgo di Dublino, una clinica veterinaria cerca un “accarezzatore e coccolatore di gatti” - con adeguato stipendio, sic!)
Non fu dunque un caso se Jack fu il primo ad avvistare dal Cossak il gatto naufrago. E l’incrollabile dedizione ai felini, gli diede anche l’energia necessaria per convincere ad accostare la nave. Non ebbe, invero, grande difficoltà. Il soccorso in mare è statuto mitologico dei marinai e quel gesto voleva insieme onorare anche la tragica sorte dei caduti. A lui fu anche riservato l’onore di attribuire un nome alla bestiola malridotta. Jack sulle prime sfogliò gli altisonanti nomi classici, poi si ricordò del film “Via col vento” e dei molti premi che aveva conquistato nel 1940 e fu inevitabile pronunciare “Oscar”.
Piacque a tutti. Facile da pronunciare, con quel quid di amichevole che trasformava subito il gatto in uno di famiglia. Piacque anche a Mau, che nel contesto, non si preoccupò certo di questioni anagrafiche, abbandonando la tradizione teutonica per una più opportuna attitudine mediterranea (Francia o Spagna purché..). Mentre era amorevolmente asciugato dal premuroso irlandese, si degnò anche, con arguta intuizione, di emettere un leggero miagolio. Decifrato come un grazie riconoscente, scaldò i cuori di tutti, come sempre accade quando si diviene consapevoli della buona azione svolta.
La fortuna miracolosa di Oscar gli diede un’aurea di omerica eroicità che consentiva ogni libertà. Invero, il gatto riprese anche la caccia ai topi, che non mancavano come in ogni nave che si rispetti. Ma fu soprattutto la sua disponibilità alle carezze, spesso premiate da gustosi bocconcini, a conquistare l’intero equipaggio. Almeno per un po’ di tempo ci si poteva distrarre dalla guerra spietata che minacciava la vita dell’equipaggio giorno e notte.
Il Cossack era una piccola nave con solo 190 uomini di equipaggio e il suo utilizzo non era collegato alle grandi operazioni. Anzi, accadde che fosse dirottato in attesa di ordini nel Mediterraneo, una zona molto più tranquilla dell’agitato imbuto verso l’Atlantico. Per quasi tutta l’estate, il mare calmo ed un sole splendente nel cielo senza nuvole premiò l’equipaggio e consentì a Oscar di rimettersi in forza e conquistare il titolo di porta fortuna. Durante tutta l’estate 1941 la nave non ebbe contatto con i nemici.

Nel mite autunno del 1941, il Cossack fu dirottato a Gibilterra.
Il 24 ottobre anche il sommergibile tedesco U563 passeggiava da quelle parti.
“Quota periscopio!” Fu l’ordine, per assolvere la ronda di sorveglianza appena arrivata, dopo la macchinosa traduzione di Enigma. Il comandante, Albert Kranz, da mesi non aggiungeva una crocetta alla personale classifica di affondamenti. Sapeva che una sosta così lunga non solo comprometteva la carriera, di cui in realtà importava ormai poco, ma poteva anche suggerire al commissario politico un’accusa di scarsa dedizione alla causa. Forse era vero, ma non poteva certo dichiararlo ora, la moglie attendeva il secondo figlio e lui sapeva quale destino spettava alla famiglia di un “disfattista”. Quindi, fu felice quando, sul lato di dritta, a circa 800 metri come dichiarava la gradazione dell’oculare, scorse la poppa di una nave. Emerse l’emozione del cacciatore, quella che lo aveva portato alla scelta dei sommergibili, quella che faceva dimenticare ogni dubbio, nel dinamismo delle scelte antiche quanto la storia dell’uomo e di ogni predatore. Non a caso gli U-Boat in Atlantico erano soprannominati “branco dei lupi”. Lui preferiva essere lupo solitario.
“Barra 15 gradi a dritta! Preparare siluri 1 e 2- Pronti al lancio obiettivo a 800 metri – macchine a tutta forza! Giù periscopio!”.
Si accorse di aver urlato gli ordini in sequenza senza aver riflettuto. In fondo non aveva ancora identificato la nave, ma chi altro poteva essere se non una nave nemica in quel contesto di mare? L’avrebbe accertato più tardi. Ora era importante non perdere il vantaggio. Doveva raggiungere l’obiettivo da dietro. Era noto che il sonar lanciava il suo segnale da prua e quindi conveniva arrivare quatti quatti dal retro, come fanno i lupi, o meglio forse le pantere, ma anche i gatti quando puntano un merlo. La difficoltà stava nel ridurre la distanza dalla nave, che poteva correre molto più veloce in superficie. Dalla qualità del fumo che emetteva, stava però navigando a mezza forza. Forse era in scarsità di carburante e puntava a Gibilterra per il rifornimento.

“Stasera saremo in porto, finalmente –suggerì il primo ufficiale inglese al comandante – non ho mai amato questo tratto di mare”
“Certo non è il migliore da percorrere a mezza forza, con questa luce abbagliante del tramonto poi.. “
Sul ponte, intento a revisionare le dotazioni di sicurezza, Jack indossò un giubbotto di salvataggio appeso al lato dei salvagente. Strinse bene i lacci per saggiarne la consistenza, giusto in tempo per sentire la crudele, insistente, drammatica sirena d’allarme e le urla delle vedette.
“Siluri a poppa!”
Si erano aperti a ventaglio, uno a dritta e uno a sinistra. Rendevano difficile la scelta e non c’era più tempo.
“Tutto il timone a sinistra!”
Azzardò il comandante, come il giocatore che lancia sul tavolo verde l’ultima disperata fiche.
Non funzionò. L’esplosione fu così violenta che 159 marinai inglesi persero la vita. Ma la Cossack non affondò subito. Né il comandante Kranz ritenne di doversi attardare per finire l’opera. Troppo pericoloso e non necessario. La dimensione dell’esplosione aveva dichiarato di suo che non c’era nulla da recuperare. I 31 superstiti, molti feriti e disperati, tentarono qualche manovra di salvataggio, ma fu tutto inutile, non riuscirono ad abbandonare la nave che andava alla deriva.
L’indomani giunse un rimorchiatore, che doveva trainare il cacciatorpediniere fino a Gibilterra. Faticosamente fu allestito il convoglio, ma a causa delle cattive condizione climatiche, si dovette abbandonare il progetto, perché i cavi del rimorchiatore si spezzarono.
Così, il 27 Ottobre 1941, la Cossack affondò al largo di Gibilterra.

Il cacciatorpediniere Legion, accorso anch’esso in soccorso, salvò i naufraghi, tra cui c’era Jack, gravemente ferito. Nella desolazione del naufragio, galleggiava sulle acque agitate un tavolone. Sopra, bagnato fradicio e sporco di gasolio, troneggiava Oscar, meglio di Orazio Nelson a Trafalgar. Ancora una volta sopravvissuto al naufragio.

In seguito Oscar fu portato a terra. Fu una meritata licenza, dopo cinque mesi in mare e due esplosivi naufragi. Il capo del porto, il Visconte John Vereker Gort (il generale famoso per aver salvato le truppe inglesi a Dunkerque), sentita la storia raccontata dai marinai, decise che quel gatto si era guadagnato un comodo posto al comando di terra. Il suo ufficio in fondo aveva bisogno di un predatore di topi e fu felice di tenerlo con sé.
Dopo un paio di settimane passò a Gibilterra l’enorme portaerei Ark Royal, i cui arerei, come ricordate, ebbero ruolo decisivo nell’affondamento della Bismark. La nave aveva dei problemi con i topi che attaccavano i viveri, accatastati nelle enormi stive. I gatti già presenti a bordo non riuscivano a debellarli. Quando l’ufficiale di collegamento, il tenente di vascello James Cole entrò nell’ufficio del comandante del porto, sapeva già tutto e aveva le idee chiare.
“Dunque, ecco qui il nostro eroe, Oscar. Mi pare si annoi “– dichiarò indicando il gatto che stava godendosi in poltrona il suo riposo diurno.
“Ha fatto la guardia di notte – replicò Gort – Guardi!” E indicò il cesto dell’immondizia dalle cui carte sporgevano due inequivocabili lunghe code.
“Me li ha messi davanti alla porta, stamattina. E’ uno che sa fare bene il suo lavoro”
“E’ proprio quello che ci serve, in questi momenti d’emergenza – incalzò Cole che aveva trovato il giusto aggancio – A bordo siamo disperati. Circa duemila persone.. lo sa che quantitativi di provviste dobbiamo stivare? Quei maledetti topi ci sguazzano nel mare di scatoloni che dobbiamo stivare in fretta e i pochi gatti che abbiamo, non ce la fanno.” Aggiunse con un’aria di pietosa autocommiserazione.
Gort si era affezionato ad Oscar. In un certo senso lo stimava per le avventure che aveva vissuto, e in più gli era simpatico quel suo essere socievole, ma anche molto e concreto quando serviva. Un po’ gli assomigliava. Anche lui nella carriera, aveva associato bonaria cordialità ad una pragmatica valutazione del momento e dei rapporti di forza. D’altronde non si diventa comandanti del porto senza qualche qualità, se non altro la resistenza ai naufragi, perché nella sua storia qualche caduta c’era stata. Quindi, pensò, non era il caso di aggiungerne altri. L’ufficiale che gli parlava con cortesia in realtà era la voce dell’Ammiraglio che comandava. Come poteva giustificare un diniego?
“Oh certo Oscar saprà contribuire a risolvere il problema. E’ un marinaio che sa eseguire gli ordini senza discutere” Aggiunse, spedendo con ciò la propria fotografia ai superiori.

La Ark Royale salpò subito dopo, per un ‘operazione a Malta. A bordo, Oscar che i nuovi marinai decisero di chiamare Sam, ma lui non si offese, dovette condividere gli spazi con altri robusti gatti. Non fu un problema. Gli fu assegnata una stiva grande quasi come due campi da tennis. Non si perse d’animo ed ogni giorno timbrò il cartellino con prede fresche. Si tenne anche qualche spazio per libere uscite, nelle quali la sua fama crescente gli valse affettuose donazioni. Insomma, come un saggio che sa seguire la corrente del fiume della vita, senza chiedere e senza opporsi, Sam si trovò a suo agio anche su questa nave.

Il sommergibile tedesco U81 pattugliava quasi da solo quel tratto di mare che portava verso Gibilterra. La maggior forza sottomarina della Germania era impegnata in Atlantico, per contrastare i trasporti verso la Gran Bretagna. I piccoli convogli che percorrevano la rotta verso Malta erano ben protetti e non di grande pregio. Fu dunque åun’incredibile sorpresa cogliere la Ark Royale di ritorno da Malta e diretta a Gibilterra. Un’occasione da non farsi sfuggire.
Il 13 novembre, quattro siluri ben diretti dal comandante Friedrich Guggenberger colpirono lo scafo della portaerei e la fecero in poco tempo inclinare a dritta di dieci gradi. Nella gran confusione per l’inaspettato attacco, fu deciso di tentare il salvataggio della nave. Circa 1350 uomini furono trasbordati nei caccia torpedinieri Legion e Laforey. Il comandante e altri 250 uomini restarono a bordo nel tentativo di portare la nave al sicuro nel vicino porto di Gibilterra.
Il contrammiraglio britannico Sir William Jameson, nel suo libro Ark Royal 1939-1941, descrive la concitazione nelle operazioni di evacuazione della nave, con i marinai che non portarono nulla con sé salvo “Uno dei gatti della nave, un enorme gatto giallo”. Il che conferma la presenza di molti gatti a bordo, ma anche che di Sam non vi era traccia.
La mattina dopo, lo sbandamento della nave, dovuto all’allagamento delle caldaie, aggravato anche dall’imperizia di chi non aveva chiuso le porte stagne, aumentò in modo preoccupante. Verso l’alba, l’inclinazione raggiunse i 27 gradi, una curva ormai irreversibile. Alle 4,30 gli ultimi membri dell’equipaggio e il comandante abbandonarono la nave. L’agonia fu breve. Alle 6,13 la prima portaerei britannica progettata e costruita in quanto tale, il gigante del mare lungo 244 metri, orgoglio di tutta la marineria, si capovolse verso destra e affondò.
Vi fu un solo morto in questa operazione.

(A metà dicembre del 2002, la BBC annunciò che una troupe aveva avvistato il relitto a 900 metri di profondità, 48 km al largo di Gibilterra)

Come racconta Sir William Jameson:
“Un motoscafo che avanzava tra i resti scoprì un gatto della nave aggrappato a un pezzo di legno, irritato ma a parte questo incolume”
Era il nostro Oscar-Sam, che aveva le sue buone ragioni nel ritenere eccessivo il terzo naufragio esplosivo consecutivo. Tuttavia, a essere obiettivi, avrebbe potuto davvero rallegrarsi con la sorte, che gli aveva proposto sempre una tavola di legno, al posto giusto e al momento giusto.

Oscar fu riportato nell’ufficio del Governatore di Gibilterra che fu felice di rivederlo. Interpretò quel ritorno come un segno favorevole di un destino, che ormai li vedeva accomunati. Se ce l’ha fatta lui, per ben tre volte, pensava, riusciremo anche noi a sopravvivere a questa tragedia. Una versione forse semplicistica, ma comprensibile in quei tempi bui di espansione nazista.
Fu dunque un po’ contrariato, anche se non lo diede a vedere, quando pochi giorni dopo il capitano Morrison, comandante di un sommergibile britannico appena giunto dalla Gran Bretagna, si recò in visita da lui con un’esplicita richiesta.
“Generale, stiamo partendo per una lunga missione e non abbiamo un gatto a bordo - esordì il giovane capitano - ho saputo che altre volte Lei ha provveduto…”
“Oh, solo un caso fortuito, una coincidenza comandante, unica… La può vedere … eccolo lì - e indicò Oscar che al solito ricaricava le pile in gran comodità, sulla poltrona preferita - è quello che ormai tutti chiamano Sam l’inaffondabile… e..”
E con ricchezza di particolari, specie riguardo alla frequenza ravvicinata dei naufragi, non senza una punta di malizia, descrisse la storia nota dei  tre salvataggi del gatto.
Non servì molto altro per convincere il sommergibilista che il gatto era stato davvero fortunato, ma il resto degli equipaggi molto meno. Sapeva che ci vuole poco per creare una pericolosa superstizione a bordo. Rinunciò cortesemente.

Sir John apparteneva a una vecchia famiglia irlandese-inglese. Decise che il gatto poteva ormai essere messo a riposo e lo trasferì nella sua sede ufficiale di Governatore. Nel congedarlo dal servizio militare attivo, fu celebrata una piccola cerimonia nella quale fu consegnata a Oscar la medaglia commemorativa che, nelle foto di circostanza, indossa con elegante indifferenza.
Dopo un periodo di dorata convalescenza in casa del Governatore, il gatto fu imbarcato per l’ultima volta e riportato in Inghilterra. Fu poi sistemato, su disposizione di Sir John, in un istituto per marinai di Belfast, chiamato “Home for Sailors”.
Qui trascorse tutti i successivi anni della sua lunga vita, non trascurando la preferita caccia ai topi in cui fino all’ultimo eccelleva, ma profittando anche delle amorevoli attenzioni dei ricoverati. Di uno, in particolare, si dice che divenne inseparabile. Trascorreva molto tempo tra le cosce di quel marinaio cui erano state amputate le gambe. Nella sedia a rotelle percorrevano insieme i lunghi corridoi e, quando il tempo lo permetteva, uscivano in giardino, in un angolino assolato vicino alla fontana con i pesci rossi. Oscar allora si addormentava tra le dolci carezze dell’uomo, al suono di una voce calda che recitava versi classici. Fu lì che spirò, ormai vecchio, nel 1955. Tra le braccia dell’amico Jack O’Connor.-


(Il ritratto di Sam l’inaffondabile, dal titolo “Oscar, the Bismarck’s Cat”, opera di Georgina Shaw-Baker, fa bella mostra di sé alle pareti del Museo Nazionale Marittimo di Greenwich)

S.V. Marzo 2020
ISOLE DELLA LAGUNA
RACCONTO
Gli specchi di Versailles





La folla spingeva sempre più eccitata. Finita la processione, deposte le insegne ufficiali, anche le autorità poterono abbandonarsi al clamore della festa. Era il 6 dicembre 1664. E Murano onorava per l’ennesima volta San Nicolò, il Santo patrono dei vetrai. L’isola consacrava orgogliosamente il confinamento obbligato che risaliva al 1292. Quando, con decreto dogale, tutti i maestri vetrai e le loro famiglie furono obbligati a operare e risiedere nell’isola poco distante da Venezia. La scusa, non del tutto inattendibile, fu quella di prevenire i disastrosi incendi che perseguitavano la città e le “fornaci” ne avevano avuto qualche responsabilità. Ma nel riserbo del Consiglio dei Dieci, il tema più sviluppato fu quello di tutelare il segreto di quell’arte che costituiva un’esclusiva, preziosissima risorsa commerciale, la cui natura era irrimediabilmente legata ai segreti di una secolare lavorazione che andava protetta senza pericolose indulgenze. I vincoli per chi viveva e lavorava nell’isola furono severi e tutelati da un vigore applicativo che toglieva qualunque aspirazione di fuga. La Serenissima sapeva colpire ovunque, perché ricca e potente e senza scrupoli quando si trattava di difendere il futuro commerciale della città.
I nobili presenti quel giorno erano molti. Avevano lottato a colpi di monete per aggiudicarsi i preziosi manufatti del tradizionale mercatino di San Nicolò. La devozione al Santo aveva origini lontane. C’è chi dice che vi fosse già nel 1416 una “Scola S.Nicolay” o addirittura che a lui si ispirasse la “Scola Vitrariorum” del 1315. Di sicuro, viene menzionato nei rituali della corporazione, nell’antica Mariagola “dell’arte dei Vetrieri muranesi” del 1441. Da quando le reliquie del Santo furono portate a Venezia, al ritorno della prima crociata nel 1100, la figura di miracoloso protettore di spose e bambini derelitti, aveva acceso una particolare devozione. Anche le opere d’arte eseguite dai maestri vetrai muranesi e donate alle due parrocchie dei Santi Maria e Donato e di San Pietro Martire, avevano un intento benefico. I maestri si misuravano in una specie di gara per dimostrare la loro bravura. Nascevano così opere sublimi, un vero e proprio repertorio delle lavorazioni più difficili e impegnative. Il ricavato delle vendite, fin dal xv secolo, serviva per le confraternite al sostentamento delle persone meno abbienti. In particolare, erano offerte per le vedove, per gli orfani dei vetrai, per favorire l’ingresso dei giovani al difficile e faticoso mestiere di vetraio e anche come dote delle figlie da maritare dei maestri vetrai. Si trattava di cifre importanti. Ecco perché gli oggetti erano donati ai più istruiti parroci, che avrebbero incassato il frutto delle vendite, garantendo un’equa e onesta distribuzione ai bisognosi.
Non sempre la fede protegge dalle tentazioni. L’aiuto parroco, Prè Mario Furlan, appartenente alla parrocchia di Santo Stefano e incaricato a Murano per la sua dimestichezza con i numeri a conservare le preziose offerte, era stato folgorato l’anno prima dalla bellezza della giovane Bertina, sorella di Zuane Civran detto Polo, e promessa sposa a Antonio Cimegotto detto dalla Rivetta. Non che si potesse dargli torto. Oltre agli occhi scuri di sorridente profondità e al viso dolce e le labbra invitanti, tutto il corpo slanciato non dimenticava di esibire quelle rotondità orgogliose che fanno sospirare i laici. Il prete aveva fatto voto di castità, ma era una promessa già altre volte infranta e ritenuta in fondo relativa rispetto alle energie dedicate al mantenimento della parrocchia. Purtroppo il suo fascino era condizionato un po’ dalla veste che suggeriva il sacrilegio e molto dal suo aspetto francamente repellente. Dunque, le sue segrete conquiste erano tutte mercenarie e, quando poteva, raccolte tra le più bisognose di assistenza. Bertina era orfana, davvero bella e davvero povera. In quegli anni, i vetrai attraversavano momenti di difficoltà e più volte la corporazione aveva chiesto l’aiuto del governo senza ottenere un vero sostegno. Le nazioni concorrenti invadevano i mercati senza badare a sotterfugi e anche se l’arte insuperabile veneziana garantiva una richiesta qualificata, in alcuni settori più popolari ci si accontentava di accettabili imitazioni. Insomma, anche se il fratello Domenico, lavorava come il suo promesso sposo Antonio, il reddito era scarso e non consentiva una dote adeguata. Le fu consigliato perciò di rivolgersi a Don Furlan e che ne avrebbe avuto sicuramente diritto.
“Figliola accomodati - suggerì il prete, indicando un piccolo divano - arrivo subito”
Bertina si guardò intorno, stupita dalla singolarità dello spostamento. Era andata in Chiesa dove in genere avvenivano gli incontri. Poi, quasi improvvisamente, le era stato chiesto di spostarsi in sagrestia e da lì salire nella saletta superiore. Certe questioni bisogna discuterle in modo riservato, era stata la motivazione, perché ci sono tante orecchie aperte e pronte a giudicare, magari in maniera sbagliata che è meglio essere prudenti. Insomma, Bertina non aveva capito bene cosa volesse dire, ma quella dote le serviva e non aveva sospetti particolari su quel prete che veniva dalla città e pochi conoscevano. Però, quando rientrò e chiuse la porta a chiave, cominciò a credere di aver sbagliato qualcosa. Non era ancora una certezza, ma già il semplice sospetto la indusse quasi involontariamente a ricoprire con lo scialle la scollatura della camicia.
“Dunque… dunque - iniziò il prete - una bella figliola come te si vuole sposare e però non ha la dote - lo sguardo dell’uomo fissò una compiaciuta panoramica della ragazza - però.. però le doti.. naturali certo non mancano… il Signore è stato generoso - proseguì avvicinandosi lentamente alla giovane che ascoltava in piedi, quasi paralizzata - Ma siediti, dai - proseguì il prete divenuto cordiale - ecco qui - le avvicinò una sedia - io mi metterò vicino, così potrai.. potrai confessarti.. eh, perché quando si è giovani.. e belle come te, qualche peccatuccio può scappare, niente di grave, si capisce, ma - avvicinò di più la sedia a quella della giovane e ora le ginocchia si toccavano - questa dote, comprenderai, è un dono del Signore.. e per averlo bisogna essere pure, cioè confessate e assolte, come con la Comunione, mi capisci?”
Veramente Bertina non aveva chiaro quale fosse il succo del discorso, ma quel che cominciava a capire non le piaceva per nulla. Sentiva come una colata di viscidume che cominciava ad appiccicarsi al corpo. D’improvviso sentì anche l’odore del sudore che penetrava la tonaca e si accorse di come il volto del prete si fosse fatto paonazzo e grondante.
“Però.. però.. lo sai per avere l’assoluzione ci vuole la penitenza.. solo con quella poi ti sentirai meglio, più libera e giustamente meritevole di quel grande dono in denaro…”
“Ma io non fatto niente… di grave… sono un’onesta lavoratrice… vado a Messa e alle funzioni.. Sono… Sono.. ancora.. sì.. sì sono ancora vergine!”
Si pentì quasi subito di averlo detto. All’inizio le pareva che quella dichiarazione potesse bastare per chiudere il tortuoso dibattito, poi capì che involontariamente era entrata nel suo gioco, era caduta nella tela di quel ragno nero che lavorava da lontano, quasi distratto, aspettando che la falena colpisse la sua tela. Eccola ormai prigioniera.
“Oh, oh certo, brava, non avevo dubbi - proseguì come premiandola per la sincerità - altrimenti non avrei neppure iniziato il discorso. Però… su.. dai - si avvicinò col volto a quello della ragazza - a me lo puoi dire, che sono confessore e ne ho sentite tante, quei giochetti che si fanno tra giovani, ma sì dai, quelle cose che vengono naturali quando si sta stretti stretti e il cuore si gonfia - Il respiro del prete seguiva il crescendo del racconto, accompagnandolo con una montante eccitazione - eh..eh.. che tutto si gonfia e poi… bisogna sgonfiarlo.. in qualche modo.. dai che lo sai e che ti è anche piaciuto.. è un peccatuccio.. non si dovrebbe.. ma si può fare… con la mano… con la bocca… con il c…”
Bertina si scostò decisa quando la mano del prete le impugnò la coscia. Aveva ben capito ora cosa chiedeva il maiale. Però le restava ancora l’illusoria speranza di poter contrattare in qualche modo l’ottenimento di quella dote, che tutti dichiaravano le spettasse quasi di diritto, per la sua condizione di orfana di padre morto sul lavoro in fornace.
“Cosa dite monsignore? - provò a recitare - mi mettete in imbarazzo…”
“Figliola mia - dichiarò esplicito il prete - se negate anche di aver favorito il godimento del vostro moroso, non siete sincera e dovrò prenderne atto - concluse con quel tocco di legalitario che spetta ai giudici - purtroppo, come vi avevo avvisato, il dono spetta solo a chi si presenta con cuore sincero, senza nascondere nulla… quindi..”
“Ma io… va bene … sì .. qualche volta l’ho accontentato.. “
Di nuovo capì di aver sbagliato ed era la seconda volta. Ma non ebbe il tempo di rimediare perché il parroco non aspettava altro e subito l’incalzò.
“Ah brava.. vedi che hai capito.. e dimmi, dimmi.. di mano? Di bocca? Di…”
“Di mano, di mano” Tentò di chiudere rapidamente l’elenco Bertina.
“Ecco che ci risiamo! - protestò il prete - ma non capisci che così peggiori la situazione? Andavi così bene fino a un attimo fa, è semplice, basta dire la verità. Ma poi ecco che torna il diavoletto… Di nuovo la bugia.. E che vuoi dirmi che con quelle belle labbra..”
“Sì, sì, magari una volta..” Terzo errore di Bertina.
“Una volta? Magari facciamo qualche volta - proseguì il reverendo che ormai aveva trovato il filone della sua miniera - perché queste cose poi vi piacciono e una volta provato non si torna indietro e bisogna farlo di nuovo.. eh, eh, diventate golose … e vi capisco...”
“Adesso basta - protestò la giovane cosciente di aver perso la partita - questi sono affari miei e del mio fidanzato”
“E bravi voi due - riprese la guida il prete, con cipiglio crudele di chi si trova spiazzato proprio sul più bello dell’eccitazione - voi vi divertite per benino e poi venite da me a chiedere il dono della dote che si concede solo a chi è puro. Non solo, ma vorreste anche l’assoluzione dai vostri peccati e la mia benedizione. E tutto gratis... senza penitenza...”
“Va bene - osò Bertina che, molto ingenuamente, pensava alle penitenze della sua parrocchia, fatte di Pater nostre e Ave Maria - ditemi la penitenza e la faremo.. ma quei soldi ci servono”
“Se ti servono davvero - il prete si avvicinò al suo volto, tanto che poté odorarne integralmente il fiato denso di aglio e gengive infiammate - dovrai ripetere con me i peccati che hai commesso con il tuo moroso. Solo così li santificheremo e renderemo la tua anima pura e meritevole del dono del Signore. Senti…”
Concluse la sua sacrosanta sentenza guidando la mano della giovane verso l’interno della tonaca, dove un funghetto odoroso era spuntato dal bosco macerato dal sudore.
Bertina non ce la fece. Per un attimo aveva anche pensato che in fondo se lo avesse accontentato con la mano.. poi però prevalse lo schifo, ma conservò la ragione.
“No, no... non qui... monsignore... va bene... ma qui non ci riesco... qui è un luogo sacro... e poi mi aspetta qui fuori... sì il mio moroso... - si fece ancor più vicina come a garantire che l’accordo era trovato - però... una sola volta e che nessuno sappia mai.”
Il prete non era uno sciocco, però era un uomo molto eccitato e quel bel pezzo di figliola che finalmente pareva arresa alla sua penitenza riuscì a rompere qualunque sospetto.
“Va bene, va bene… una volta sola - concordò - ma dev’essere tutto quello che avete fatto… Senza inganni davanti a Dio che poi vi deve assolvere e quindi anche il c...”
“Certo ho capito, ma anche voi dovrete concedermi poi la dote senza chiedere più nulla”
“E così sia!”
Bertina si sentì sicura solo quando il portone si chiuse alle sue spalle. Allora capì che la dote era perduta, ma già pensava alla vendetta che avrebbe congegnato. E forse…

Aspettavano dietro il portone sicuri che sarebbe passato di là. L’invito di Bertina al prete era stato chiaro, la casa rossa appena dietro l’angolo della calle, il portone socchiuso e la porta sarebbe stata aperta al primo piano. Per carità, non si facesse vedere da nessuno e non provasse a chiamare. Quel clima di segretezza aveva di fatto eccitato ancor più il prete che mai aveva tramato così facilmente con una giovane tanto bella. In un primo tempo gli era sorto qualche dubbio, poi aveva cancellato ogni sospetto pensando che la verginella dove va proprio essere scaltra e che non era certo la prima volta che organizzava queste festicciole. Chissà quante ne aveva combinate col suo moroso. Ora le avrebbe dovuto ripagare tutte per penitenza se voleva l’assoluzione e la dote. Eh sì, aveva ripassato bene tutto il catalogo delle posizioni e si ripeteva che non doveva essere troppo veloce. Se lo doveva gustare proprio tutto quel ben di Dio, che un’occasione così non si presenta sempre. Già sudava e un po’ ansimava. Aveva dovuto accelerare il passo appena era sgusciato lateralmente dalla processione, fingendo necessità urgenti che lo richiamavano in città. Era  il 1665, la vigilia della festa di San Giovanni che a Murano si onora il 24 giugno. La folla allegra, la musica, le urla dei ragazzini avevano tacitato in fretta le insistenze ad aspettare il banchetto. “Un’altra volta, un’altra volta!” Aveva urlato, allontanandosi veloce per la calle buia dove fingeva l’aspettasse la gondola. Aveva un ben altro banchetto in testa e non intendeva perdere tempo.
Anche il cuore di Antonio Cimegotto batteva forte. Gli era montata una gran rabbia quando Bertina aveva raccontato l’incontro in sagrestia. Ancor più violento divenne il livore allorché Zuane Civran detto Polo, fratello di Bertina, confermò che da informazioni raccolte in città, la fama del prete confermava senza dubbi lo sporco vizietto di sfruttatore. Molte altre giovani e qualcuno aggiungeva anche giovinetti, erano dovuti passare per la sua assoluzione e spesso la voce popolare affermava che poi il prete si dimenticava di rispettare il patto, anzi minacciava conseguenze se mai avessero parlato, forte delle sue importanti amicizie nella magistratura.
Insomma, avevano deciso di dargli la lezione che si meritava, così che la smettesse di torturare degli innocenti. Al gruppo si erano aggiunti anche i più cari amici, Pietro Bertolussi,  Domenico Morasso e i fratelli Domenico, Girolamo e Marco Barbini, tutti lavoratori del vetro, decisamente arrabbiati nel sentire che non solo la crisi li conduceva ormai ai limiti della povertà, ma c’era anche chi speculava sulla beneficenza dei grandi maestri, senza rispetto della loro dignità. Si erano posizionati dietro la calle ai lati dell’edificio, pronti ad intervenire se qualcuno fosse avanzato in quella direzione.
Prè Mario Furlan rallentò il passo. Ormai era giunto al portone. Aveva guardato alle finestre del primo piano. Dietro le tende, un languido bagliore di candele gli fece immaginare la suggestione dell’alcova e pensò al profumo di quella fresca pelle liscia e a quelle rotonde colline su cui sarebbe affondato. Il buio era fitto, solo piccoli riflessi di una torcia lontana facevano risaltare i dettagli metallici del maniglione di bronzo. Fissò lo sguardo a terra per accertarsi che la soglia separata garantisse l’apertura, com’era stato promesso. Fu allora che vide la fibbia. Un piccolo lampo, come un’effimera lucciola sul prato, ma tale da accendere nel suo cuore l’esplosione del terrore. Una scarpa. Sì, era la fibbia di una scarpa. Qualcuno era dietro al portone. Tutta la tensione accumulata, perso il freno della libido accecante, si riversò come una cascata facendo riemergere le sue paure. Era stato scoperto? O forse era solo un ladro che profittava della festa e maledizione proprio lì doveva venire? Frazioni di secondo come sanno fare i pensieri eccitati dall’adrenalina. Si fermò. Ancora udiva il canto delle sirene, ma vigliacco qual era, prevalse in lui l’istinto di sopravvivenza. Si fermò e poi lentamente cominciò ad arretrare.
Antonio Cimegotto si sentì spiazzato. Il piano prevedeva di accogliere all’interno il prete, avvolgerlo con la coperta che teneva in mano e cominciare la battuta. Dalla fessura poteva vedere in controluce la figura nera che si era fermata e ora arretrava. Era evidente che sospettava qualcosa e meditava la fuga. Ormai bisognava agire. Saltò fuori aprendo il portone e tentò di raggiungere il prete che aveva cominciato a correre. Zuane Civran e Piero Bertolussi lo seguirono, stupiti da questo inatteso sviluppo. In breve gli furono addosso, ma la disperazione dell’uomo accese una sorprendente energia, soprattutto nelle urla stridule come di un maiale condotto al macello.
“Aiuto! Aiutooo! Mi uccidono! Aiutatemiii!”
La coperta a malapena attutiva la voce e perfino i colpi che percuotevano invece di rallentare ingigantivano le urla. Le finestre cominciarono ad aprirsi. Qualcuno in controluce si affacciava e chiedeva cosa stesse succedendo.
La rabbia per il mancato successo della spedizione, la paura di essere scoperti, il fastidio per quelle urla che rivelavano ancor più l’anima nera della vittima, fecero il resto. Il bastone che Antonio aveva portato per rompergli almeno qualche osso, vibrò stavolta con tutta l’energia dei muscoli del giovane. Colpì la testa e la caduta secca sullo spigolo del gradino fece il resto. Poi fu solo silenzio. Tempo infinito d’attesa.
“Di qua, di qua, presto!!”
Piero fu il primo a riprendersi e a valutare concretamente la situazione. Bisognava scappare senza farsi riconoscere e avevano solo una stretta lunga calle come via di fuga. Lo capirono in fretta anche gli altri e non stettero a perdere tempo per accertarsi di come stesse il prete. Era svenuto e tanto bastava. Cominciarono a correre, contando sul fatto che il buio rendeva certo difficile riconoscere quelle veloci figure anche affacciandosi alla finestra. Ancora cento metri e avrebbero raggiunto il serpentone del pubblico in festa. La musica cresceva ad ogni passo e con essa la speranza di avercela fatta.
La luce delle molte fiaccole li accolse a pochi metri dalla fine della calle, mentre lontane alle spalle sentivano minacciose le ritmiche cadenze di chi li stava rincorrendo. Serviva un tuffo rapido e la dispersione in quel fiume di persone ignare.
“Oh, Oh, eccoli qua i caporioni della protesta!”
Messer Olindo Correr, padrone della fornace in cui lavoravano, li accolse con quella puntualità di coincidenza che a volte noi chiamiamo sfortuna.
“Non vorrete mica un aumento della paga anche alla festa? - cominciò a gigionare - il vino è già pagato... eh sì… è già pagato proprio da noi.. e voi avete solo il pensiero di bere… va bene, dai, brindiamo insieme e dimentichiamo le tensioni!”
Proseguì, pensando che davvero era un padrone generoso che sapeva dimenticare in fretta le offese di quei giovani operai che non sapevano riconoscere la benevolenza di chi, con enormi sacrifici, garantiva loro un lavoro sicuro in quei tempi difficili.
“Non oggi, non oggi!”
Fu l’unica risposta che seppe articolare Antonio, avanzando deciso tra la folla e dando così l’esempio agli altri che si dispersero a raggiera.
“E che modo di fare è questo? Si tratta così il principale che vuole brindare insieme?”
“Andate, andate…- aggiunse - che tanto vi conosco tutti.. e lo racconterò.. come mi avete trattato proprio il giorno delle festa!”
Le sue urla quasi si disperdevano nel fragore della festa e andavano però ad aggiungersi a quelle di chi accorreva dalla stretta calle gridando: “Chiamate la guardia, presto, hanno ucciso un prete!”
La grande stanza d’attesa sembrava costruita ad arte per suscitare paura e devozione. L’alto soffitto, le gigantesche tele raffiguranti gloriosi e nobili antenati che lo fissavano sdegnosi, contribuivano ad accentuare la sensazione di piccolezza che aveva provato fin dal primo momento, quando preceduto dal valletto aveva percorso in lungo corridoio. Lo confortava la consapevolezza del suo importante capitale. Non era uno qualunque Giovanni Castellano. Le sue finanze e ancora più i suoi segreti servigi gli avevano aperto una considerazione privilegiata alla corte di Francia. Ora il ministro Jean-Baptiste Colbert lo aveva convocato d’urgenza. Non sapeva di cosa si trattasse, ma certo l’impresa gli avrebbe aperto nuove strade.
Il Colbert era appena stato nominato Controllore delle Finanze dal re Luigi XIV di Borbone, detto il “Re Sole” o Luigi il grande, il 64° re di Francia. Regnò per 72 anni e 110 giorni, da quando aveva meno di 5 anni (14 maggio 1643) fino alla morte nel 1715. Fu il regno più lungo della storia, ben riassunto nel noto aforisma “Lo stato sono io”, col quale si affermava non solo l’accentramento del potere, ma anche una sincera dedizione alla causa nazionale. Fu dunque nell’interesse della Francia che ordinò al moschettiere D’Artagnan (sì, proprio quello che ispirò il romanzo) di arrestare, nel 1661, l’infedele ministro Nicolas Fouquet, perché aveva distratto illegalmente del denaro dalle casse dello stato, per costruire l’opulento Castello di Vaux-Le-Comte, il più bel castello con giardino alla francese dell’epoca, che si dice ispirò al Re l’ampliamento di Versailles. L’economista Colbert divenne quindi l’uomo di fiducia e la figura chiave del grande rilancio economico della Francia. Il “mercantilismo” o anche “colbertismo” come venne successivamente chiamato, prevedeva le industrie di stato: le manifatture reali. Queste dovevano produrre beni di alta qualità per lo più destinati all’esportazione, perché la ricchezza della Francia accresceva soprattutto facendo affluire una grande quantità di moneta straniera. Era necessario quindi contenere le importazioni di prodotti stranieri e puntare sulle esportazioni di prodotti francesi. Gli specchi, e in particolare quelli veneziani, sul mercato era il bene più costoso, per produrne uno di 4 metri quadrati occorrevano ben 20 mila ore di lavoro.
Il valletto ricomparve e annunciò che poteva entrare. Lo precedette, aprendo la porta e recitando il nome alla figura che lo attendeva seduta al tavolo in fondo alla stanza, vicino al caminetto.
“Voi avete potenti legami a Venezia” Esordì il ministro fissandolo negli occhi senza indulgere in preliminari. “Ho bisogno di qualche operaio specializzato….” Si alzò dalla sedia e aggirando il tavolo si avvicinò a Castellano “Quel La Motta che è arrivato… certo qualcosa sa fare… ma non basta. Io devo chiudere questa moda … Devo aprire un laboratorio.. grande.. devo bloccare questo vizio degli specchi veneziani… come se noi francesi non sapessimo farne.. è una corsa viziosa che costa al regno… troppi denari corrono verso l’estero e ingrassano altri mercanti” Si avvicinò di più e aggiunse “Trovatemi qualche specialista in grado di avviare una grande fabbrica francese e…. Sarete voi a ingrassare… oltre ogni vostra fantasia.”
La proposta aveva il suo fascino, ma l’impresa non era così semplice. La Serenissima difendeva con severissime pene chiunque osasse rivelare i segreti di quella che costituiva una delle migliori risorse economiche della repubblica. E dove non potesse arrivare la legge, c’era sempre la lunga mano dei servizi discreti, che agenti insospettabili diffusi in tutta Europa sapevano esercitare con elegante precisione. Certo, la sua dimora era ormai francese e, forse tra i primi, aveva intuito che il futuro era in quella corte, perché i segnali della decadenza veneziana erano chiari. D’altronde, si trattava pur sempre di mercato e lui avrebbe saputo, come già aveva fatto, ricambiare il favore, offrendo alla sua città d’origine altri contratti vantaggiosi. In più, si sentiva protetto. Neppure la Serenissima avrebbe osato colpirlo sapendolo vicino a Colbert. Il problema era reclutare gli operai. Per quanto poco istruiti e delusi dagli scarsi compensi che elargivano le fornaci muranesi, non erano così stupidi da non immaginare a quali importanti rischi sarebbero andati incontro, portando i segreti alla corte francese. In più, non mancava in quella semplice plebe un forte sentimento di appartenenza e di orgoglio cittadino. Bisognava dunque offrire un compenso molto alto per stimolare la fuga. Lo chiarì con semplici parole al ministro che continuava a fissarlo impaziente, con un’espressione che dichiarava: non accetto rifiuti.
“Serviranno molti denari Eccellenza…- iniziò con il tono di chi si è fatto ormai complice del piano, ma è costretto ad evidenziarne le criticità - i veneziani amano molto la loro città e se ne allontano malvolentieri… soprattutto se rischiano l’accusa di tradimento”
“Nessun limite! - Chiuse il dibattito Colbert col suo proverbiale pragmatismo - e nessun fallimento.. - aggiunse con un lieve accenno di minaccia - la questione è troppo importante… sono certo che saprete trovare la soluzione migliore. Potete andare.”
Non c’era nulla da replicare. Bisognava solo arrivare presto a Venezia e chiudere in qualche modo la questione. Nella carrozza che la sera stessa galoppava sulla lunga strada verso il confine, perché non era questione da trattare con una lettera che avrebbe lasciato prove mortali, Castellano rifletteva su quale offerta avrebbe dovuto congegnare. Poteva contare sulle amicizie del genero, Marco Bormiol, che a Murano aveva molti amici, ricordava bene che gli aveva parlato di un muranese, un tal flamengo chiamato Pietro dalla Croce che lavorava a Murano. Contava di profittare della festa di San Giovanni, il 24 giugno. In quei giorni di confusione sarebbe stato più facile avvicinare qualche operaio senza farsi troppo notare e anche la sua eventuale assenza non avrebbe dato nell’occhio. Succedeva spesso che alcuni avessero bisogno di qualche giorno per riprendersi dagli eccessi. Ma cosa si poteva offrire? Doveva essere non solo una cifra consistente, ma anche una potente prospettiva. Qualcosa che suggerisse un futuro migliore e diverso. Qualcosa che salvasse la vita.
“Presto... Presto.. Salite e copritevi con quei panni…” Non era facile urlare sottovoce, ma Marco Bormiol ci riuscì e il suono trattenuto della voce aveva un tono così perentorio che indusse tutti ad eseguire la manovra senza indugio. In un attimo ogni diffidenza, ogni incertezza, ogni malinconia furono spazzate via da quell’urlo silenzioso.
“Dobbiamo passare prima del cambio della guardia… non potevamo corrompere tutti - aggiunse quasi scusandosi Bormiol - ci aspetta una nave in città… Poi… appena saremo a Ferrara, tutto sarà più facile… abbiamo dei lasciapassare firmati dal re di Francia… ormai siete diplomatici francesi - rassicurò tutti, spostandosi tra le due gondole per verificare che tutti fossero a posto.
“Andiamo !” Ordinò ai gondolieri ben pagati che, intuito dall’invitante compenso non si trattasse di una gita ma di una fuga, non si fecero pregare. Prima finiva quella giostra e prima avrebbero potuto festeggiare l’inconsueta, generosa mancia senza rischi. Vogarono perciò potenti ma senza fare chiasso, tuffando i remi senza sbatterli sull’acqua, infilandosi a lume spento nell’inchiostro nero della laguna notturna. Tagliarono per una rotta originale, favorita dall’alta marea, guidati dalle flebili luci delle isole lontane, contando sull’intuito generato dalla lunga esperienza. Tutti tacevano a bordo e il leggero sciabordio delle imbarcazioni si sarebbe quasi potuto confondere col bizzarro saltello sull’acqua dei pesci curiosi della laguna.
Salvare la vita. Questo fu il primo motivo che spinse i giovani ad accettare l’invitante proposta di Pietro dalla Croce che li aveva avvicinati nel loro precario rifugio. Aveva saputo da emissari muranesi del delitto accaduto alla festa. I nomi erano ormai noti, scrupolosamente e prontamente denunciati dal vendicativo datore di lavoro che li aveva incrociati, subendo l’affronto del mancato saluto. Sì, sì, non potevano che essere stati loro. Teste calde sempre pronte a protestare anche sul lavoro. Ecco perché correvano agitati, lui l’aveva capito subito e aveva tentato anche di fermarli, si vantò con la Gendarmeria, prima di snocciolare con compiaciuta precisione i nomi e l’indirizzo di ciascuno.
In futuro, avrebbero potuto anche portare le mogli. Particolare non di poco conto in un contesto che prospettava una lunga, se non definitiva permanenza. Anche i soldi promessi erano molti. Tanti da far sognare un’agiatezza inimmaginabile, perfino l’ipotesi di poter aprire un’attività in proprio. E poi c’era la protezione del re di Francia. Nessuno avrebbe osato colpirli, neppure gli infidi agenti segreti, troppi i rischi di incidenti diplomatici. Così aveva recitato Bormiol, che non lesinò nessuna astuzia nel convincimento. E poi, che alternativa avevano? Spiegare che si era trattato di un incidente? Che in realtà volevano solo dare una lezione a quel prete sporcaccione? E chi mai avrebbe creduto a semplici operai? La Repubblica avrebbe mai potuto offendere la potente curia di Santo Stefano assolvendo quei pezzenti?
Le risposte erano implicite come le retoriche domande. Così quel disastro totale che disegnava una provabile condanna a morte, si trasformò nella fortunata occasione di un inaspettato successo. In fondo si trattava solo di continuare a fare il loro lavoro e le condizioni non potevano certo essere peggiori di quelle imposte da quello schiavista di Messer Olindo. Però, questo fu il patto stretto tra loro e annunciato con forte emozione a Bormiol, la lavorazione degli specchi, quel tipo di speciale rifinitura, sarebbe rimasta solo loro. Nessun altro operaio francese avrebbe potuto partecipare all’ultima fase, quella che era tramandata segreta di padre in figlio e tale sarebbe rimasta. Questa parve loro esser un’onorevole difesa dall’accusa di tradimento e insieme la loro assicurazione sulla vita. Bormiol, da abile diplomatico, accettò di buon grado, fingendo di apprezzare molto quella dignitosa tutela dei preziosi segreti, ben sapendo che in qualche modo sarebbe riuscito poi a carpirli.
Le gondole sbatterono contro lo scafo dal retro. La grande nave galleggiava nel buio davanti  al forte di Sant’Andrea. Aveva per un attimo interrotto le manovre di uscita dal porto già autorizzate e ben ricompensate. La scala di rete precipitò su di loro senza che vi fosse alcun richiamo. Li stavano aspettando e le vele sventate erano già pronte a catturare la prima brezza della notte, insieme alla favorevole marea in uscita. A bordo, ventiquattro uomini armati fino ai denti li accolsero, aggiungendo speranza al terrore che li accompagnava lungo la fuga, come narrò l’agente segreto francese Mons. Brugnol, che condusse sottocoperta  i fuggitivi, “più morti che vivi”.
La notizia della fuga arrivò rapida al Consiglio dei Dieci. Non era cosa che poteva risolvere il semplice ufficiale della Gendarmeria. Non si trattava solo di risolvere il caso di omicidio, di mezzo ci andavano relazioni diplomatiche e soprattutto importanti conseguenze economiche. Il primo obbligo fu quello della riservatezza, meno se ne parlava e meglio era. Poi avrebbero deciso i saggi prontamente convocati. Fu così. Anche se il dibattito si prolungò con alterni schieramenti, la linea che ne emerse fu comune, bisognava fermare quell’emorragia. Importante era limitare i danni.
“Ci affideremo alla provata esperienza del nostro delegato Sagredo. Molte volte ha dato prova della sua arguta attitudine a cogliere la breccia su cui penetrare senza dare nell’occhio” Esordì il consigliere Zecchin, forte della sua veneranda età.
“Dev’essere chiaro però - aggiunse il giovane Loredan - che dobbiamo impedire in qualunque modo che i segreti della lavorazione cadano nelle mani francesi…. Già le nostre fornaci soffrono rispetto ai tempi andati e non ci possiamo permettere…”
“Non possiamo eliminare sette persone … in Francia per giunta - osservò acutamente Grimani - dobbiamo usare blandizie e minacce… serviamoci anche delle famiglie. In fondo, per quanto ho saputo, la morte del prete è stata un incidente, e solo alcuni sono davvero implicati, gli altri sono amici spaventati e delusi. Offriamo denaro, molto denaro, offriamo impunità, offriamo un ritorno come al figliol prodigo. Vediamo chi ci sta…e poi, casomai… nel frattempo avremo sfoltito il gruppo.”
La linea concordata fu chiara e condivisa. Ora la chiameremmo del bastone e della carota, ma considerato il teatro dell’impresa, quella Francia che aveva organizzato la fuga con evidenti propositi e implicite protezioni, vedeva ben grossa la carota e subdolamente addolcito il bastone, tenuto prudentemente nel fodero.
Il 19 luglio 1665, Castellano comunicava a Colbert la riuscita della missione a Murano, esagerando anche sul numero dei muranesi “Enfin Dieu soit loué, ils sont ici au nombre de dix braves tetes, gens de bonne chère qui ne demandent qu’à travailler”åå
Les italiens, così, con eufemistico disprezzo, erano chiamati i vetrai muranesi (era già successo un secolo prima a Caterina de’ Medici), avevano in effetti ottenuto importanti compensi, una volta raggiunta la Francia e iniziato il loro lavoro. I risultati non tardarono a manifestarsi e nella iniziale collocazione della nuova fabbrica, nel sobborgo parigino di Saint-Antoine, i primi piccoli specchi realizzati piacquero molto alle autorità ed entusiasmarono lo stesso sovrano. Un successo che provocò anche l’invidia di Paolo Mazzolà, che si faceva chiamare Monsù La Motta, il primo vetraio veneziano emigrato, che da tempo operava a Parigi. Certo anche lui godeva della stima, ma mai era riuscito a raggiungere simile risultati, perché non conosceva gli ultimi ritocchi alla tecnica tradizionale.
Per capirci meglio ricordiamo brevemente la storia degli specchi veneziani.
Alla metà del secolo XV, Angelo Barovier inventa a Murano il “cristallo”, un vetro così limpido, trasparente e incolore da assomigliare al cristallo di rocca. Un secolo dopo, nel 1540, il veneziano Vincenzo Redor, considerato comunemente l’inventore degli specchi veneziani, brevettò un procedimento di spianatura e lucidatura delle lastre che consentiva di ottenere specchi con superfici perfettamente piane e regolari. Le lastre erano ottenute da grossi cilindri soffiati (Vessighe), scalottati e aperti a caldo mediante incisione. Il cilindro, poi, mantenuto caldo veniva fatto aprire per formare una lastra (Quaro) che si adagiava su uno strato di cenere. La lastra di cristallo lucidato era poi unita con sottili strati di stagno, tramite un bagno di mercurio, esercitando una particolare pressione. Il processo era complesso e costoso, rendendo lo specchio un prodotto di lusso. Già nel 1569 gli “spegeri” veneziani, riuniti in corporazioni, incrementarono la produzione con nuove tecniche per gli specchi “decorativi” con funzioni di arredo. A Murano, iniziò l’incisione con la punta di diamante, cui seguì la composizione di cornici, coperte con liste di specchio molate, con cannucce, foglie e fiori di vetro. Le lastre erano a volte decorate con colori a olio, mentre le parti lignee venivano laccate o dorate. Inventari dell’epoca confermano che, a cavallo tra cinquecento e seicento, un grande specchio veneziano costasse tre volte un dipinto di Raffaello, si vendevano terreni e proprietà per poterne acquistare uno. Questo spiega bene la determinazione di Colbert nel voler dare vita alla fabbrica francese.  (In epoca moderna la tecnica industriale dell’argentatura ha azzerato il valore produttivo).
“No, no, su questo non dobbiamo cedere!! - urlò stizzito Antonio Cimegotto detto della Rivetta - Nessuno deve conoscere il dettaglio della spinta dopo la spianatura…” Si girò in panoramica verso i compagni, perché si era reso conto d’aver urlato con un vigore così forte, da aver provocato un gelido silenzio immediato, nel gruppo che discuteva animatamente.
“Non capite? - cercò di blandire i volti stupiti e spaventati - E’ la nostra forza! Perché credete che ci paghino così bene? Perché ci hanno messo alle costole il La Motta, che fa tanto l’amicone? Perché continuano a convocarci quando siamo nell’ultima fase, dicendo di farci sostituire dai francesi?” Non aspettò le risposte. Tutte sapevano bene quali erano, solo temevano di doverlo ammettere, perché avrebbe distrutto le loro speranze.
“E poi… c’è il giuramento che avevamo fatto prima di partire… - girò intorno con lo sguardo fissando negli occhi ciascun compagno - se… se non tenete all’onore della promessa.. - aggiunse con scoperta malizia - ricordate che è l’unica garanzia di sopravvivenza.. finché è chiaro.. e anche Venezia lo sa, perché sa sempre tutto… finché è evidente a tutti che siamo noi, solo noi che creiamo gli specchi… abbiamo qualche speranza e anche le nostre famiglie. Ma.. - si fece molto più grave e scandito il tono della sua voce - se il segreto della lavorazione passa ai francesi, saremo traditori e per i traditori…. Non c’è speranza.. dall’una e dall’altra parte. Non conteremo più niente.. non serviremo più a niente e.. quello che non serve si butta via.”
“Non ce faremo mai! - fu la perentoria risposta di Domenico Barbini che suscitò l’immediato assenso dei fratelli Girolamo e Marco - non possiamo continuare a fingere. Finora abbiamo fatto specchi piccoli… da 25 cm.. belli, belli.. sono piaciuti molto, ma lo sai anche tu che non è quello a cui aspirano qui - si alzò in piedi indicando con le braccia il grande capannone che li accoglieva - qui vogliono fare le cose in grande… vogliono una fabbrica vera.. più grande e più potente di Murano… ci hanno presi apposta e non ci lasceranno andare finché non avranno ottenuto il loro scopo. Come fai a credere che non ci riusciranno? - chiese rivolgendosi direttamente ad Antonio - E come viviamo noi nell’attesa? Ti abbiamo aiutato quando hai voluto dare una lezione a quel prete perché ti siamo stati da sempre amici, ma lo sai anche tu che rischi corriamo e anche le nostre famiglie. Ricordati di Battaggia!”
Quel nome risuonò nella stanza come un rintocco della campana a morte che gelò il sangue.
(Il maestro vetraio Giovan Domenico Battaggia, irretito da favolose offerte, con un gruppo di operai muranesi, agli inizi del ‘600 si era trasferito a Pisa, al servizio di Ferdinando de’Medici. Poco dopo morì, a causa di quello che un medico prezzolato definì “aria di Pisa che nella staggion del caldo è pessima e dolorosa”. In realtà, un documento storico attesta che era stato avvelenato dal sicario Bastian de’ Daniel, incaricato dagli inquisitori di Stato di mandare un segnale inequivocabile ai transfughi, che tornarono a lavorare a Murano.)
Il 6 Ottobre 1665, l’ambasciatore Sagredo comunicava che i tre fratelli Barbini volevano rientrare e aveva fornito loro un salvacondotto di sei mesi, con l’odine di presentarsi agli Inquisitori “per far conoscere la loro innocenza e trattare quelle ragioni che, espediti in contumacia, non hanno potuto constare alla Giustizia de casi sin qui occorsigli”.
Il successivo 27 ottobre lo stesso ambasciatore, molto soddisfatto del suo operato in salvaguardia dell’arte veneziana, scriveva “vengo informato che la fabbrica de specchi non sia giammai per riuscire, né in grandezza, né in qualità, né in proportione di spesa, uguale a cotesta di Murano”. Ma si sbagliava.
Fu proprio in quel mese di ottobre che il re Luigi XIV firmò l’atto con cui veniva riconosciuta la Compagnia du Noyer che assumeva il titolo di “Manufacture  Royale de Glaces de Miroirs” per il suo grande stabilimento nel sobborgo di Saint-Antoine a Parigi. In quei giorni viene anche formalizzato il contratto con Antonio de la Rivetta 1200 L., Hieronimo Barbiny 800 L. (che aveva cambiato idea e si era fermato a Parigi) Jouan Crivano 800 L. e Domenico Morasse 450 L., vènetiens, pour une annèe de pension accordé par le Roi pour travailler à la manifacture des glasse de miroir.
Il povero ambasciatore il 30 Aprile 1666, mentre informava gli inquisitori che i quattro “si sono obbligati col Re, in scrittura, a servirlo et lavorare per anni 4 per conto della Corona” doveva anche ammettere che “il lavoriero di costoro viene bellissimo: il Re n’è invaghito. Fabbricano specchi in gran quantità; non si guarda alcun risparmio; di molte case han fatto un solo casamento, in cui 250 persone puliscono li spechi”.
Restava tuttavia il segreto della tecnica. Il 30 novembre Dunoyer, uno degli associati della fabbrica scriveva a Colbert, che certamente ora che erano arrivati i muranesi si potevano realizzare specchi belli come quelli veneziani, ma restava il problema che solo loro ci potevano riuscire, dato che gli operai francesi ancora non avevano capito come facessero. Denunciava dunque il pericolo di lasciare che una simile imponente impresa da 180000 L. dipendesse “non seulement du caprice de ces messieurs-là, mais encore de leur vie et mesme de leur sancté” .
La stessa idea ebbero gli Inquisitori veneziani, che videro fallire il tentativo di blandire con “doni e con assistenza di dinaro abbondante non solamente essi costì, ma qui ancora le loro famiglie” poiché, grazie all’opera di un certo “Guymondi”, le mogli avevano raggiunto i mariti a Parigi. L’ordine perentorio fu dunque quello di “togliere di vita Antonio dalla Rivetta”, considerato il leader del gruppo e dunque esempio convincente per tutti gli altri.
Pare ci provasse, senza però riuscirvi, quel Paolo Mazzola che si faceva chiamare mons la Motta, per niente contento dell’arrivo di tanti concorrenti e addirittura “portato alla disperazione”. Però l’azione dei servizi non finì. Nel gennaio del 1667 il nuovo ambasciatore Marco Antonio Giustinian informava gli inquisitori che “dopo una indispositione di molti e molti giorni (.) uno dei quattro verrieri che si nominava Furlan era morto” . Aggiungeva che Colbert aveva fatto “aprire il cadavere per assicurarsi s’era mancato di morte naturale”. Non vi erano certezze in tal senso, ma la morte del loro fidato compagno “ha sconcertato il lavoro et fatti ravedere gli altri del loro mancamento comesso d’havere lasciata la patria e trasferita altrove l’arte. Altre cagioni di disgusti (.) forman un concorso di motivi che più non gli rende grato questo soggiorno (.) gli ho cavato una promessa certa di ritornarsene costì”

La testa gli girava. Non era la prima volta che gli succedeva, quel vino frizzante e fresco lo aveva tradito anche in altre occasioni, ma ora aveva un effetto diverso, paralizzante. Antonio se l’era ripetuto più volte quella sera, non bisognava esagerare, proprio ora che avevano deciso di partire. Però l’occasione era speciale, la borsa dei compensi ricevuti tintinnava di Luigi brillanti, gli specchi più grandi erano riusciti davvero bene e Jacques compiva gli anni. Era stato dal primo momento il più cordiale degli operai francesi, sempre sorridente e disponibile e la sorella poi, quella magica, divina sorella che lavorava alla locanda, aveva insistito con tanto ardore.
“Devi venire… dovete venire… senza di voi.. senza di te… non sarà una festa”
Quell’italiano inventato, dolcemente mescolato alla erre parigina, aveva trasformato l’invito in una preghiera laica, recitata con suadente cantilena. Anche gli altri muranesi dapprima incerti, avevano poi convenuto che non c’era niente di male nel festeggiare. Ne avevano anche un segreto motivo, gli accordi con l’ambasciatore erano stati presi e avrebbero dovuto partire all’alba, finalmente garantiti nella loro incolumità. Quindi le remore erano cadute e la festa, resa ancor più allegra dalle graziose amiche della sorella di Jacques, li aveva visti onorati e protagonisti. Perfino i canti muranesi erano spuntati nel coro, che si confrontava con le canzoni che la giovane Mirelle aveva intonato in augurio al fratello. Tanti i cibi che ancora giungevano nelle grandi tavole della sala e tanto il vino che Jacques portava agli amici pregandoli di brindare alla sua salute. E i muranesi non si facevano certo pregare a lungo.
“Noooo… ma sei scemo… non capisci? Se fai così rovini tutto… bisogna aspettare… poi..”
La voce di Giovanni gli giunse netta dal tavolo vicino e Antonio tentò di girarsi per sentire meglio, ma ogni movimento riaccendeva il vortice visivo che riusciva a bloccare solo restando fermo.
“Si riprende quando è tiepido…. Ah, ah, ah… sì, sì.. lo so che voi lo fate a freddo… eh, eh, non ci riuscite, vero? Che bravi! Perché voi non siete di Murano…. Noi ce l’abbiamo nel sangue… noi lo facciamo senza pensarci… noi lo sappiamo da sempre.. perché il segreto della lucidatura….”
Cosa stava facendo Giovanni? Non capiva che non si doveva scendere nei dettagli, che qualcuno poteva registrare quei consigli? Antonio avrebbe voluto alzarsi e urlargli smetterla. Avrebbero dovuto andarsene subito, stavano perdendo il controllo della situazione. Ma erano riflessioni corrotte dal tormento della vertigine e dalla spinta dell’alcol che suggeriva di abbandonarsi al torpore che lo abbracciava ormai padrone.
“Tu a eté.. stato.. vraiment bravo a venir con tes amis “- Mirelle si avvicinò al suo volto, avvolgendolo con un onda di profumo che lo ipnotizzò, mentre lo sguardo ebbro indugiava sulla scollatura delle colline incantate.
“Merci mon chéri” Le labbra morbide sfiorarono le sue e si depositarono poi con leggerezza di farfalla sulla sua guancia. Una promessa che lo turbò, ma che non ebbe modo di confermare. Fece appena in tempo a girarsi per vedere che sul tavolo vicino gli altri muranesi si erano fatti largo tra i piatti e stavano mostrando ridendo il movimento… sì, sì, proprio quello…. Perché? Perché? Poi tutto cominciò a girare e diventò buio.

Il 4 aprile 1667, l’ambasciatore veneziano informava gli Inquisitori che Antonio Cimegotto, Giovanni Civran e Gerolamo Barbini erano “partiti o più tosto fugiti” prendendo “il cammino della Borgogna”. In una lettera inviata al “clarissimo sig.Antonio” il Giustinian informava che avrebbero avuto i 4000 scudi promessi e la possibilità di “mettere fornace e l’Arte s’obbligherà prendere tutti li vostri specchi”. Garantiva poi di provvedere al ritorno delle mogli e comunicava che “Il Motta lavora ed è molto contento che voi non siate più qui, promette gran cose ma io lo tengo per un buffone”.
Il 15 maggio l’ambasciatore scriveva che la partenza dei tre “ha fatto a Parigi gran strepito” e molti non credevano fosse vero. L’11 giugno gli Inquisitori comunicavano da Venezia che “i tre vetrai sono giunti; li havemo accolti con affetto, promessagli ogni assistenza”.
Dunque tutto è bene quel che finisce bene. I maestri sono tornati sani e salvi e il segreto è al sicuro. Tuttavia, già nel giugno del 1666, Colbert aveva ordinato che tutti gli specchi veneziani entrassero in Francia attraverso la dogana di Lione, per poter controllare meglio le importazioni, che avevano raggiunto l’anno prima le 216 sedici casse di “glaces de Venise”.
Il mercante francese Pierre Jousset, il primo giugno 1667, informava il suo fornitore di Venezia che i fabbricatori locali “hanno obbligato il ministro a far nove tariffe e questo accioché si potesse smaltire la sua robba invece  della nostra” Inoltre, aveva dovuto pagare un dazio di 30 franchi per ognuna delle 12 casse che aveva ricevuto e perciò ordinava di sospendere tutte le spedizioni. Nel suo livore, proseguiva sostenendo che ciò era accaduto perché “i maledetti muranesi hanno fatto cognoscere il segreto dell’acconcia di tutto benché non vogliando, tuttavia gli Francesi hanno più spirito di quello si crede (..) Francese mangia ben ma non beve troppo, gli vostri Muranesi bevono alla todesca  e nel bevere si son lasciati intendere tutto il suo segreto”.
Sarebbe forse ingiusto imputare tutta la responsabilità ai tre muranesi, che d’altronde furono anch’essi ingannati, non trovando poi soddisfazione nel loro lavoro con la fornace a Murano, che fallì e li vide costretti addirittura a chiedere a Colbert di ritornare a Parigi, ottenendone un deciso rifiuto. Altri vetrai veneziani tentarono la sorte. Nel 1670 arrivarono a Parigi per alcuni mesi Nicolò Ferro, maestro da specchi, e Francesco Bianca, maestro da cristalli, banditi da Venezia dal Magistrato dei Signori di Notte al Criminal. Vi fu anche per 6 mesi  Zuanne Nason, bandito dal Podestà di Murano. Siamo comunque certi che, nel 1674, in Francia era rimasto solo Paolo Motta con suo figlio. Tuttavia, nessuno dei due faceva lastre da specchio perché, scriveva l’ambasciatore il 15 agosto, i francesi avevano ormai imparato a farle in modo tale che “per la bianchezza del vetro, varietà di lavori e nettezza delle lastre” gli sembravano addirittura migliori delle veneziane.
La lavorazione era sempre la stessa, quella insegnata dai muranesi, con la tecnica a soffio. Ma la fornace era stata trasferita a Tourlaville, vicino a Chebourg, in Normandia per risparmiare sul costo della legna. Per la lavorazione degli specchi, le lastre, i “quari “ grezzi, venivano trasportati a Parigi, nel faubourg S.Antoine, dov’era cominciata l’avventura degli specchi francesi e dove continuò ad aver sede la “Manufacture Royale”.
Gli specchi parigini vennero quindi utilizzati per arredare il palazzo di Versailles. In tutti i pagamenti dal 1672 al 1700 è specificato che si trattava di “glasse façon de Venise”.
La Galleria degli specchi nel palazzo di Versailles, inaugurata nel 1682, per la prima volta è dunque totalmente arredata con specchi francesi. Lo scopo era proprio quello. Una specie di esposizione internazionale, che doveva rappresentare al mondo la ricchezza e l’abilità tecnico-produttiva raggiunta dal paese, in grado di riprodurre e in certo senso migliorare, quanto di più complesso e prezioso veniva costruito all’epoca. Un po’ come sta facendo la Cina ai nostri giorni. Le pareti della sala, lunga 73 metri e larga 10,5 metri, sono illuminate da 17 finestre e altrettante finte porte decorate con 357 specchi, a riquadri smussati ai lati, e incorniciati d’ottone cesellato e dorato. Decine di candelieri emanavano la luce di tremila candele, amplificata dalla moltitudine di specchi. Un poeta ebbe a scrivere: “Per il riflesso di tanti specchi/ il fuoco di tutti i diamanti che adornano la corte/ rende la notte oscura luminosa come il giorno”.
All’epoca del Re sole, questa galleria possedeva degli arredi di argento massiccio, come le giardiniere per gli aranci, i tavoli e gli sgabelli, nonché le più belle statue delle collezioni reali. Vi si accedeva liberamente, in un brulichio di gente, dal popolo ai più grandi signori. Un tempo veniva addirittura attraversata da mucche, asine e capre che erano condotte fino agli appartamenti delle figlie di Luigi XV°, allora bambine, affinché potessero bere il latte freschissimo ogni mattina.
Nella grande sala venivano organizzati importanti ricevimenti e nel tempo ebbe modo di divenire teatro di importanti avvenimenti storici. Durante la comune di Parigi nel 1870, Versailles è stata brevemente capitale della Francia, ospitando i membri dell’Assemblea Nazionale, che hanno dormito in lettini da campo, inframezzati ai caratteristici divanetti rossi proprio nella sfarzosa Galleria degli Specchi. Il 18 gennaio 1871, al termine della guerra franco –prussiana, i tedeschi vincitori avevano costretto i francesi a cedere l’Alsazia e la Lorena e in quella stessa sala avevano proclamato Guglielmo I° imperatore del nuovo Deutsches Reich . Umiliazione in parte vendicata il 28 giugno 1919, quando in quella stessa sala, venne firmato da 44 nazioni, il “trattato di Versailles” che pose fine alla I° guerra mondiale, e forse pose le basi per la seconda.
A noi piace pensare che, come per il famoso “batter d’ali di farfalla in Brasile” del matematico Edward Lorenz, tanta storia e tanto splendore si debbano, in fondo, alla bellezza di una giovane donna e a un bicchiere di troppo.
NB.
Gli specchi di Versailles continuavano a essere piccoli: ognuno dei 17 pannelli si compone in realtà di 21 specchi, nessuno dei quali supera i 90 cm. di altezza, il limite tecnico dell’epoca. Questo sarebbe cambiato pochi anni dopo, grazie ad un italiano naturalizzato francese, Bernardo Perotto, che inventò il nuovo sistema per “colatura”, che avrebbe permesso di fabbricare specchi alti più di due metri.
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