Dante Carraro 2022
LAGUNANDO 2022 > selezionati 2022
Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana dal 1982.
Accademico per la Poesia della Pontificia Accademia Tiberina delle Arti e delle Scienze dal 1992.
Assegnatario di 38premi nazionali in lingua italiana, 7 premi internazionali, 7 premi per il vernacolo veneziano.
Pubblicazioni: 82 antologie, 8 sillogi, 2 cartelle serigrafiche, 3 cataloghi d’arte pittorica. Premio speciale alla carriera ottenuto dalla Provincia Autonoma di Trento nel 2019.
Medaglia d’oro per la cultura ottenuta dal Comune di Quarto d’Altino nel 2010 e l’anfora bronzea ottenuta nel 2019.
Alcune liriche sono state tradotte in lingua giapponese, spagnola, inglese e tedesca.
Già presente edizione:
2021
2020
2019
ORTI DEI DOGI
RACCONTI
“CON IL VESTITO DELLA FESTA”
Non ho di te un ricordo continuo nel tempo ed anche il mio affetto ha conosciuto anni di silenzio. Ma quando riassumo in una immagine fisica la tua figura di nonno, ti vedo con l’abito della festa: scuro; c’era prima che io nascessi e ti ci hanno vestito per l’ultima volta.
Sono state così poche le occasioni di festa, che sembrava ancora nuovo, se non era per il taglio della giacca che lo rendeva pretenzioso e dava l’immediata sensazione di un abito da contadino.
I miei ricordi d’infanzia fuggono da una campagna non nostra, a Murelle Vecchia di Villanova, da una casa che si aggrappava alle sue pietre in un brivido di miseria, e mi riconducono a te, a mia insaputa.
La tua camicia bianca rischiarava la faccia cotta dal sole. E quando la festa aveva perso la sua iniziale maestà, quel bianco s’impregnava di sudore e S”embrava pesare sul tuo braccio teso - l’oéchio fisso per un’eternità - a lanciare il tuo sguardo.
La festa era allora un’occasione per riabilitarti a te stesso, davanti ai figli, mio padre compreso, ai nipoti e a tutte le cose che non ti piacevano: era un piatto di tagliatelle al’uovo con sugo di anatra , piene di sugo grasso.
Aspettavo l’ora del pranzo con un languore simile alla solitudine, senza giocare, perchè le scarpe pulite con la biacca, mi facevano male.
La festa, d’estate, era un’aia piena di gente, impazziva di cicale e di voci, si addormentava stanca di serenate, sulla mia spalla, insieme alla noia dei grilli.·
Quei giorni, era come giocare ad essere ricchi.
Il giorno della festa ti faceva dimenticare, nel vino bevuto con gli amici, il tuo lavoro “scortico”.
Se anche eravamo abituati alla crudezza di espressioni e di immagini, che la vita di campagna ci imponeva, come un pasto di cui fortificarci, non mi hai raccontato tutta la melma di sangue che imbrattava la tua giornata: tornavi con LA STANCHEZZA NELLE MANI e non avevi la forza di sollevarmi.
In una giornata di festa mi hai fatto venire in cantina e mentre spillavi un po’ di mosto, guardavo stordito i meravigliosi cristalli azzurri in un sacco.
E’ veleno, non toccare ~- Mi hai gridato.
E quella domenica si scolorì in un giorno di dubbi e di paure.
Si sciolse in un secchio di verderame.
Del mio primo tesoro non era rimasto neanche nn cristallo da guardare., prima di divenire polvere sulle viti.
La notte quando-tornavi tardi a casa, dopo ore di Consiglio Comunale (era il 1950, primo Consiglio Comunale dopo la Seconda Guerra Mondiale), mi facevo trovare addormenrato nel tuo letto perchè pensavo che non avresti avuto cuore di scacciarmi.
Mi era rimasto però un vago timore, quando entravo nella tua stanza, come se avessi potuto trovare mia nonna, che mi picchiava sovente, dormire con un rosario fra le mani.
Aveva quel letto, sponde di ferro, a due medaglioni, con ghirigori dipinti che lo rendevano festoso. Le lenzuola profumavano di spigo. La trama ruvida mi dava a volte un piacevole senso di frescura, ma spesso rendeva più cocenti le mie piccole ferite.
La notte era lunga con le pioggie di inverno. A volte, quando i sassi di paura bussavano alla finestra, mi svegliavo e il tuo respiro forte era l’unica voce che mi piaceva ascoltare: duro, aspro, aveva il sapore del· sigaro toscano. Dicevo “ho sete” ed aspettavo, con la prima angoscia della mia vita, che tu cercassi il lume. E sentivo il buio meno denso, quasi scavato dalle tue mani e le nocche che battevano contro la testata del letto. E alla luce di un fiammifero ti ritrovavo.
“Ho sete” ripetevo, quando il sil·enzio rimaneva buio e i sassi di paura continuavano a battere come grandine sui balconi. E poi piangevo piano, in fondo a cupi pensieri di abbandono. Allora ti svegliavi, stupito di me e non avevo il coraggio di dirti che piangevo di tristezza per la mia balbuzie. Poi mi sentivo consolato, stringendo il bicchierone di alluminio con il manico di ottone e l’acqua mi sembrava più dolce.
E’ difficile spiegarti, adesso che non ci sei più, tutta la mia attesa di te che tornavi, prima dai campi, poi da tanti altri posti che non mi interessava più di sapere.
Ed ogni volta che mi trovavi nel tuo letto dicevi “come sei cresciuto”
E mi stiravo cercando di toccare l’altra sponda del letto con i piedi.
Avevo sete e tu accendevi una lampada che si affacciava su di me, sporgendo da un filo rivestito di carta azzurra con piccole frange scacciamosche.
Ero geloso di te, dei tuoi amici e dei discorsi con gli altri.
Poi è cominciato il distacco,
Ero andato ad abitare a Spinea nella casa che avevi donato a mio padre. Poi dopi gli studi, vincitore di concorso nelle rerrovie dello Stato, trasferito in Valle d’Aosta per il servizio militare come sottoufficiale del Genio Ferrvieri, trascorsi quattro anni, poi fui trasferito a Mestre. Lì mi eri venuto a vedere. Da quel sette di febbraio del millenovecentosessantasette iniziò la mia carriera di Capo Stazione. Ti sapevo orgoglioso di me quando indossavo il capello rosso.
E’ stato il mio punto di partenza, il tuo punto di arrivo.
E mai come in quel giorno, il vestito della festa si è ammucchiato addosso alla tua stanchezza.
Per me, è stata la stazione di partenza. La mia vita di uomo l’ho passata con i treni.
Lì ho imparato la vita stessa, inevitabilmente anche a dimenticarti.
Per tanti anni l’amore per te riposava come qualcosa di certo, di indiscutibile, che non era più il caso di pensare, e si è addormentato in me mentre scoprivo altri affetti o discutevo problemi più lontani della luna.
Ho messo su famiglia.
Ma tu già non c’eri più.
Col passare del tempo sei diventato, più che altro “Il Nònno”, ed io ti ho lasciato ascendere da quella posizione quasi senza accorgemene.
Un giorno d’estate sono venuto in quella casa che mi ha visto bambino. La sera, era tardi, sono rimasto a dormire nella tua stanza. Così, nel letto di ferro, eravamo ancora noi due.
“Quanto sei grande” - hai detto timidamente e ti sentivo paragonarmi a un bambino che tanti anni prima si faceva trovare addormentato.
“Ero sveglio, nonno”.
“Mi facevi compagnia”. Hai risposto piano.
E allora ti ho raccontato quanto mi piaceva dormire sul tuo letto, il bicchiere di alluminio con il manico giallo e l’acqua che mi sembrava dolce.
“Ci mettevo lo zucchero”. Mi ha risposto, con meraviglia che non lo avessi capito.
E siamo rimasti a contemplare i nostri pensieri.
Ho sentito che si sfioravano:
forse erano attimi di solitudine, grumi di malinconia, che ci preparavano a dormire.
Mi hai detto: “svegliami se russo”.
Cercavi di respirare piano, come se ti vergognassi di essere invecchiato, come se non volessi disturbare un ospite che per necessità dormiva nel tuo letto.
Con queste parole hai buttato nelle mie braccia, fieno di intimità.
Ho sentito il tuo ultimo tentativo di apparirmi ancora con il vestito della festa per darmi uno spettacolo di dignitosa grandezza e l’illutilità di essere nonno e nipote, quando questo vincolo si accetta perchè così deve essere.
Ho vita noi distesi su un letto di ferro: due persone che si vogliono bene da sempre, non importa a quale titolo ed hanno paura di perdersi.
Ho pensato alla mia prima angoscia e alla tua, ultima, definitiva che raccoglie e s’identifica in tutte le altre dispersioni.
Vorrei chiederti quando ho cominciato a pensare che un giorno potevi morire e da quando non ho più bisogno di te. Ed anche questa volta ho fatto finta di dormire perchè il tuo sonno si abbandonasse al tuo respiro forte, aspro e doloroso. E mi sentivo con il vestito della festa;· vicino a te, e mi piaceva toccare le due sponde del letto.
Sì, ero cresciuto, ti volevo bene, nonno.
I sassi di paura cominciavano a cadere nella tua anima.
E volevo svegliarti:
“fa caldo nonno, hai sete?”.
ISOLE DELLA LAGUNA
POESIA
PRIMO PREMIO
- Isole della Laguna -
L’autore ha dimostrato capacità
ideativa e creativa; si è espresso in una forma poetica originale
sia nelle scelte lessicali, sia in quelle stilistiche, rendendo
efficace e interessante le sue pennellate poetiche.
IL TEMPO DEL FENICOTTERO
Come a trenta come a cinquanta anni
oggi, a settantasei
sono
a cercare fra le velme spente
chi
possa “amare” di un amore
oggi insolito vecchio e nuovo
come gli aster ancora lontani da questa
laguna invernale. Il ricordo
verde di un ottobre di sole
traluce sotto il folto dei giunchi irti di gelo
e trovo il fenicottero
fra la fame e la morte fra le velme nere
perse nell’acqua verdastra
con l’occhio fisso ai miei passi sfuggiti e
attesi.
*
Prima di leggere, dunque prima di scrivere,
l’appuntamento solenne di ogni mattina d’inverno:
allora esco sul sentiero spento
tra foglie morte e croste
sotto al cielo mutilo e scavato
e spando lo sguardo. Tutte le immagini
sembrano consumate
e la parola non so cosa è
quando da questo sentiero è gioia
vedere forme biancorosa soffici distendersi
allargarsi a coprire velme molli
aliene da ogni fiore.
E vengono a frotte attenti
ai percorsi da scavare all’acqua
da dirottare al cibo.
Arrivano di mattina presto talvolta
al pomeriggio tardo, e ti
rubano la sosta di un’ora
in Val Dogà rifatta dal sole.
*
Perciò guardo il fenicottero,
il fenicottero che ritorna, non parla,
mi attende, mi sfugge
e ritorna...
Perciò guardo i fenicotteri rastrellare
l’alto fondale e li amo ed ascolto
il timido,ancora, parlare dei passeri
che rinnovano i nidi in questo febbraio
fermo nei veli sottili del gelo nei rosa
pallidi del sole.
Oggi
il giorno mi ha rubato la sua frangiata
mobile splendente apertura di ali solenni.
Volano incontro all’Improvviso
dilatando questa mia attenzione fra le cose,
nel mondo che possa toccare, dove
porto sempre
le mie mani intrecciate...
Tolgo le lenti
per vedere lontano e guardo qui
dal terrapieno chiuso ad angolo
acuto, aperto
sull’onda chiara della Laguna sul cielo grande
il volto del tempo; così pieno di vita mai
come quando la morte preme, nel profondo
a sbocciare...
così nel silenzio questa mattina...
*
M’accontento dunque
e dietro al suono di un vento sottile
che sposta leggero i giunchi secci,
vado
tenendo stretta la mia vita segreta
nelle mani intrecciate. Un altro fenicottero
ad ali spiegate piomba rastrella sia alza come
una frangia di velluto nel cielo
ancora opaco... e torna.
*
Oggi è venuta azurra nell’azzurro
sofferto del cielo
una piccola barca da pesca: mi ha salutato
muta da lontano con un alitare fresco
e si è allontanata sotto i miei occhi in silenzio
leggera come un fenicotteroin un adagio
quasi eterno. I gabbiani bianchi volano con gridi acuti
planano con bassi gemiti umani nel cielo
bianco che ha perso il giorno
e opaco si chiude sulla laguna spenta.
Ecco! Bisogna fermarsi ad ascoltare
questo odore di maretta... Vengono
le onde picole blu crestate
di bianchi gridi acuti.
Ho trenta, ho settantasei anni e
sono sempre sulla riva della laguna in ascolto
del futuro lento di passi. Passano
ore e il cielo, la laguna di febbraio sono di celeste-bianco,
fermi, senza rumore
Il tempo, l’ala del fenicottero tra le velme, sul fondo
fra i variegati pensieri della mia
vecchiaia assorta...