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Laura Bianchi 2022
LAGUNANDO 2022 > selezionati 2022
Nata a Abbiate Grasso, Milano.
E’ una psichiatra.
-Non ho mai scritto nulla se non queste poesie e ho iniziato a scrivere “seriamente” solo durante la pandemia e ho scoperto che mi piace.-

ORTI DEI DOGI
RACCONTI
L’OASI FELICE





Quando Alessandra uscì di casa, stava piovendo.
Non la pioggerellina di passaggio che se anche non hai l’ombrello esci con la sicurezza che a breve sarà tutto finito. No, era proprio un acquazzone in stile “secchiate dal balcone”, che se anche hai l’ombrello, dovunque tu sia diretta, arriverai al traguardo fradicia come uno straccio appena usato per lavare il pavimento; e questo indipendentemente da qualsiasi cosa farai per evitare di bagnarti. E così fu. Alessandra arrivò al ristorante che sembrava una palla di pelo appena sputata dal suo gatto.
Si fermò davanti alla porta a vetri dell’ingresso e sospirò. Era sabato sera e, invece di starsene con le sue amiche in qualche locale a rimorchiare o a ridere fino all’apnea tra un cocktail e l’altro, doveva sorbirsi la mensile cena di famiglia. Per Alessandra quella cena era come il ciclo mestruale, atteso con ansia per paura delle conseguenze della sua mancanza, ma dolorosamente spiacevole quando presente.
La madre di Alessandra, Michela, ci teneva molto.
Questa ricorrenza era iniziata cinque anni prima, in seguito alla separazione dei suoi genitori e alle conseguenti sempre più diradate occasioni di trovarsi insieme in famiglia. Dopo 35 anni di matrimonio Michela aveva chiesto il divorzio. I suoi genitori non erano mai andati particolarmente d’accordo, anzi, in realtà bisticciavano spesso, ma mai per cose davvero importanti. Forse era questo il punto: non c’era mai stato qualcosa di abbastanza importante nel loro matrimonio per cui fosse valsa la pena di litigare davvero. Il padre di Alessandra non l’aveva neanche presa male. Da un giorno all’altro si era trovato semplicemente un altro appartamento dove stare. Una domenica, in occasione del ricorrente pranzo settimanale in famiglia, il padre non si era fatto trovare a casa all’arrivo delle figlie. Michela, quella domenica stessa, disse alle figlie: “Io e papà ci siamo separati, ne parlavamo da molto tempo e abbiamo deciso che questo era il momento giusto”; per poi mettersi a servire le polpette al sugo alle figlie, mostrando con orgoglio il servizio di piatti di porcellana, quello con le rose blu dipinte sulla fascia esterna, che la madre non aveva mai avuto l’occasione di sfoggiare perché a papà non piaceva. Forse il matrimonio era questo: una sequenza di piccoli sacrifici che si accumulano negli anni; una sfilata di oggetti dimenticati o messi da parte, che alla fine ti esplodono in faccia come mine antiuomo. Regali azzardati, abiti per occasioni importanti mancate, enormi zuppiere che potrebbero contenere il pasto destinato a un esercito, una moltitudine di spremiagrumi e inutilizzabili lenzuola ricamate direttamente dalla lista di nozze, fino ad arrivare a credenze stracolme di rimpianti che sgomitano per uscire alla luce del sole. Alessandra pensava a tutto questo mentre si attardava davanti alla porta a vetri del ristorante: l’ “Oasi felice”.
“Oasi felice”… Sant’Iddio!
Volse gli occhi al cielo, fece un sonoro sospiro e chiuse l’ombrello facendosi distrattamente cadere addosso l’acqua accumulata nei triangoli di tela allentata dall’usura. Era arrivata già fradicia e ora il vestito leggero lungo fino alle ginocchia le si era appiccicato al bacino e alle cosce in maniera oscena.
Improvvisamente ogni neurone del suo cervello si destò e, come allertato da un imminente pericolo, si mise a sbraitarle nella testa, intimandole di scappare, di svenire o di fingersi morta ma, sicuramente, per una volta solidali nelle loro intenzioni, di non entrare assolutamente, per nulla al mondo, in quel cazzo di ristorante.
Alessandra si guardò nel riflesso della porta a vetri e, contro ogni istinto di sopravvivenza, varcò la soglia.
Si trattava di un ristorante di cucina tradizionale milanese, ma di quelli pseudo chic, di recente apertura e con una clientela selezionata (cioè snob), che la madre si dilettava a sperimentare dopo averlo adocchiato in qualche trafiletto su riviste di gossip. Michela ne sceglieva ogni mese uno diverso, tanto a Milano c’era l’imbarazzo della scelta in fatto di ristoranti. Dopo il divorzio scegliere il ristorante più adatto ad ogni occasione era diventato uno dei suoi hobby, la faceva sentire una donna di mondo. All’ingresso Alessandra venne accolta da un giovane cameriere che le fece cenno di darle il soprabito aiutandola a toglierselo. L’indumento, imbevuto di acqua che si era evidentemente fatta beffe del materiale impermeabile di cui avrebbe dovuto essere fatto, fece il rumore che fa la pellicola trasparente quando la stacchi dal piatto sul quale hai conservato la carne avanzata del giorno prima. Alessandra lo tese al cameriere che non fece commenti e le indicò il tavolo corrispondente al cognome della prenotazione. Nell’atto di voltarsi per dirigersi verso il guardaroba, il cameriere venne bloccato da Alessandra che gli artigliò la camicia bianca, neanche fosse stata un rapace che si lancia sulla preda:
- Le dispiacerebbe portarmi un Margarita al tavolo, appena può?
Il cameriere fece un cenno di assenso e si voltò ma Alessandra lo strattonò di nuovo.
- Scusi! Se non è troppo disturbo, dopo una mezz’oretta, mi porterebbe anche uno Spritz? La ringrazio davvero molto. - Disse Alessandra con occhi imploranti.
Il cameriere, dopo un attimo di silenzio in cui sembrò studiare la donna, sorrise comprensivo.
- Certo, non è un problema. Si accomodi pure. Arrivo tra poco. -
Il giovane cameriere si diresse, finalmente libero di muoversi, verso il guardaroba e sparì tra i soprabiti e le giacche colorate.
Alessandra si avviò verso il tavolo che notò essere al completo.
Era un tavolo rettangolare da 6 posti. Di fronte svettavano sua madre Michela con il suo nuovo fidanzatino, un insegnante di Pilates di 10 anni più giovane, con un nome che non riusciva mai a ricordare e con un aspetto altrettanto poco memorabile. A capotavola, sulla destra, c’era Serena, la sorella maggiore di due anni, e all’altra estremità del tavolo, di fronte a Serena, c’era il solito ospite a sorpresa. Sua madre adorava invitare qualche tizio incontrato in una delle sue numerose occasioni mondane, con un’età compresa tra i 25 e i 55 anni e che poteva essere un possibile buon partito per la sua sola e disperata figlia single. Nel profilo dello sfortunato ospite di turno non mancavano mai i seguenti tratti: “uomo di successo”, “libero di stato” e “tronfio patologico”. Alessandra, dopo averle ripetuto più volte di evitare appuntamenti al buio, che si concludevano irrimediabilmente in maniera imbarazzante, aveva finito per rassegnarsi e considerare la presenza dell’ospite di turno come uno dei tanti elementi sgradevoli della serata. Alla fine si confondeva in maniera anonima tra il fastidioso rumore di fondo delle conversazioni familiari e il rassicurante effetto anestetizzante dell’alcol. A fianco del posto assegnato a lei, di fronte all’uomo Pilates, era seduto suo cognato, Tommaso, neurochirurgo di una certa fama e dotato di un ego gargantuesco e, secondo Alessandra, provvisto anche di qualche tratto autistico.
Alessandra si fiondò al suo posto, approfittando di un momento di distrazione dei commensali, presi dalle chiacchiere di rito delle presentazioni, per cercare di nascondere lo stato indecente della parte inferiore del vestito, ancora appiccicata addosso.
- Ah, eccoti, cara. Stavo giusto presentando Massimiliano agli altri. Lei è l’altra figlia, quella più piccola, Alessandra. - Disse la madre con un gesto della mano destra a indicarla. – Cara, lui è Massimiliano, è uno psicoterapeuta. L’ho conosciuto ad un seminario sulla Mindfulness qualche settimana fa. - Disse sorridendo la madre, rivolgendole un eclatante e poco discreto sguardo di intesa. Il livello di umiliazione provato dalla protagonista di Orgoglio e Pregiudizio, Elizabeth Bennet, per l’atteggiamento vanesio e superficiale della madre al ballo di turno, scese istantaneamente in fondo alla classifica degli stati più imbarazzanti descritti in letteratura, superato abbondantemente da quello in corso che, fortunatamente per i posteri, non verrà immortalato sulla carta stampata. Alessandra sorrise a denti stretti a Massimiliano che apparentemente non sembrò turbato dall’inadeguatezza di sua madre.
- Piacere di conoscerla. – Si presentò Alessandra, sfoderando il più gentile dei sorrisi, prelevato ad hoc dal suo repertorio di “sorrisi di circostanza”.
Massimiliano dimostrava più o meno 40-45 anni. Seduto al tavolo, sembrava di taglia media; aveva capelli neri folti e una barba altrettanto scura e curata. Indossava una camicia bianca coperta da un cardigan blu scuro, lavorato a maglia e abbottonato fino alla base del collo; portava degli occhiali con la montatura nera spessa. Se avesse avuto la pipa sarebbe stato il perfetto stereotipo dello psicoterapeuta: un po’ hipster, un po’ gay e molto narciso.
Finalmente arrivò il Margarita di Alessandra; comparve davanti a lei come un pacco di Amazon, accolto come un miracolo dopo essere stato considerato ormai disperso tra i tanti acquisti fatti all’ultimo momento sotto Natale.
- Non ci posso credere! Alessandra, non abbiamo neanche iniziato a mangiare e già inizi a bere alcolici. - Arrivò acuta, la voce di Serena, dalla zona destra del tavolo.
- Buona idea, però, Ale! Forse dovremmo iniziare a ordinare il vino. - Disse allegro l’uomo Pilates, facendo l’occhiolino ad Alessandra e, contemporaneamente, indicando il bicchiere vuoto davanti a lui al cameriere di passaggio. Per parecchi minuti gli rimase stampato in faccia il sorriso soddisfatto di chi crede di avere tratto in salvo qualcuno da una situazione imbarazzante.
Un vero eroe d’altri tempi! Ma come diavolo si chiamava?
Alessandra ingollò il cocktail tutto d’un fiato e si rivolse a Massimiliano, ignorando Serena e l’uomo Pilates.
- Dunque, Massimiliano…Come ti ha convinto mia madre a venire alla cena di stasera? Ti ha promesso interessanti casi di nevrosi familiare da studiare o semplicemente hai ceduto, rassegnato, alla sua azione stalkerizzante. - Disse Alessandra, leccandosi le labbra coperte dal sale che rivestiva il bordo del bicchiere.
- Oddio, Alessandra! Devi sempre rovinare la serata a tutti con le tue uscite da psicopatica alcolizzata? Urlò Serena, mentre strattonava con le mani il bordo del tavolo spostandosi bruscamente indietro con la sedia. - Sei patetica! – La madre fece svolazzare la mano verso Serena come per suggerirle di lasciar correre e sorrise stoica all’ospite. Doveva essere proprio di cattivo umore Serena per tirare fuori così presto l’artiglieria pesante, pensò Alessandra. Si sporse in avanti e rivolse la sua attenzione alla sorella, superando la sagoma di Tommaso, che studiava pensieroso il menù, assolutamente indifferente al mondo circostante. - Serena, ciao. Non ci siamo salutate. Come stai? Anche io non vedevo l’ora di rivederti. - Urlò Alessandra, come se fossero a chilometri di distanza, e le schioccò un sonoro bacio volante con le labbra. Riprese a guardare Massimiliano voltando di scatto la testa a sinistra, senza aspettare la risposta della sorella e passando a un tono di voce sussurrato, come se stesse condividendo un segreto. - Non sono psicopatica, me lo ha giurato la mia strizzacervelli qualche mese fa. Dunque, - continuò Alessandra, raddrizzandosi sulla sedia. - dicevamo? -
- Stavamo discutendo delle motivazioni che mi hanno convinto a venire a questa cena. - Disse lo psicologo sorridendo, e Alessandra giurò che: A) si trattava certamente di un sorriso pregno di arrogante e costruita compassione, e B) se fossero stati nel suo studio, Massimiliano si sarebbe portato alla bocca una cazzo di pipa con aria assorta. - Devo dire che mi ha incuriosito questa faccenda della cena che tua madre organizza ogni mese per tenere unita la famiglia. Oggigiorno è sempre più difficile trovare dei punti di incontro con i figli, soprattutto dopo che i genitori si sono separati e i figli in questione non sono più dei bambini. L’ho trovato tenero da parte di Michela. – Concluse Massimiliano. Coinvolta nel discorso e inorgoglita dal complimento, Michela si portò la mano al petto e rivolse uno sguardo di riverente gratitudine allo psicologo. Alessandra soppresse un rigurgito di acidità; non capiva se era stata la pioggia ad averla irritata e resa più intollerante del solito; le volte precedenti almeno era arrivata al dolce prima di perdere il controllo. - E così hai deciso di venire a verificare di persona se questo tenero (Alessandra sottolineò “tenero” con la voce) evento familiare si sarebbe concluso con un bagno di sangue o con un insperato lieto fine. - Continuò piccata. - Per evitare inutili attese ti spoilero subito il finale, Massimiliano. – Si sentì sbuffare sonoramente dal lato destro del tavolo ma Alessandra continuò ancora più motivata. - Finisce sempre nello stesso modo: la protagonista, Michela, eroina ottocentesca venuta a portare pace in una terra bagnata dal sangue di antichi dissapori familiari, esce di scena illuminata da un manto di materna comprensione e tragico vittimismo. Il suo cavaliere stramazza secco al suolo ancora prima della comparsa dei titoli di coda, sotto l’effetto di fiumi d’alcol che si è scolato per impedirsi di avere l’occasione di esprimere la sua inutile opinione. - Alessandra fece una piccola pausa per prendere fiato e riprese a parlare. - La coprotagonista, la santa e irreprensibile Serena, infligge una serie di ripetute e mortali stilettate verbali alla spregiudicata, immatura e colpevole sorellina per poi galoppare vittoriosa verso il tramonto. - Alessandra cambiò tono passando da quello pomposo di chi fa un annuncio pubblico a quello confidenziale di chi sussurra un segreto, mettendo la mano sinistra davanti alla bocca e avvicinandosi allo psicologo. - Avrai notato che non ho citato il coprotagonista maschile, Sir Tommaso Conte di Palo nel culo. - Continuò Alessandra facendo finta di bisbigliare e indicando il cognato con il pollice della mano destra. - Di solito è troppo preso a contare gli anelli della sua cotta di maglia, per almeno tre volte e senza interruzioni se no deve ricominciare da capo, per farci l’onore di rendere manifesto il suo prezioso pensiero a riguardo. Il suo nome, infatti, non compare nell’elenco dei protagonisti, ma è indicato alla fine, a caratteri cubitali, dopo la scritta: “e con la partecipazione straordinaria di…” -
- Basta! - Urlò Serena, alzandosi dalla sedia di scatto e battendo le mani sulla tavola facendo tremare le stoviglie e i bicchieri sulla sua metà del tavolo. - Questa volta hai davvero esagerato! Ma come ti permetti? La mamma si prende così tanta cura di preparare questa serata per stare tutti assieme in famiglia, almeno una volta al mese, e tu, ogni benedetta volta, la rovini con le tue stronzate da vittima! Serena guardò Alessandra con occhi furenti.
- Tutti assieme in famiglia, Serena? - Disse Alessandra, guardando la sorella con calma. - A me sembra che manchi papà e ci sia almeno un intruso di troppo. -
Arrivò lo Spritz.
Nel silenzio imbarazzante che seguì, il cameriere posizionò il cocktail davanti ad Alessandra, raccolse il tovagliolo che Serena aveva fatto cadere per terra alzandosi di scatto e lo posò con cura sul tavolo. Non fece in tempo a darsela a gambe che Tommaso lo chiamò con un cenno della mano e gli chiese se per caso avessero un menù per vegetariani. Il cameriere, senza battere ciglio, gli rispose che glielo avrebbe portato subito e si dileguò.
Possibile? Era già passata mezz’ora? Si chiese Alessandra. Ringraziò tra sé il rapido scorrere del tempo, o l’iniziativa comprensiva del cameriere, e iniziò a sorseggiare il secondo cocktail.
Seguì un silenzio assordante, come lo spazio siderale.
Lo psicologo restò immobile, apparentemente rilassato, assorto nei suoi pensieri. Probabilmente era abituato a scenate peggiori nel suo lavoro. Tommaso rimase in attesa del menù per vegetariani fissandosi le mani incrociate sul bordo del tavolo con un’espressione insondabile. Serena si rimise lentamente seduta risistemandosi il tovagliolo sulle ginocchia con sguardo imbronciato. Michela rivolse uno sguardo imbarazzato all’uomo Pilates, probabilmente pensando che l’aver tirato in ballo l’ex marito lo avrebbe in qualche modo messo a disagio ma si rese ben presto conto che il suo accompagnatore era troppo preso a rollarsi una sigaretta sotto il tavolo.
Arrivarono gli antipasti.
Alessandra toccò appena gli affettati e finì velocemente lo Spritz. Mentre galleggiava nello stato alterato di coscienza indotto dall’alcol, le parve di sentire un vociare di sottofondo. Evidentemente qualcuno era tanto coraggioso da provare ad abbozzare un qualche tipo di conversazione dopo la scenata di poco prima. Non doveva aver bevuto abbastanza perché la sua coscienza cominciò a riemergere tra il tintinnio del ghiaccio rimasto nel bicchiere, ormai tristemente vuoto, e l’anestesia ovattata dei suoi sensi. Come ogni volta che perdeva il controllo e finiva per dar voce alla sua rabbia, si impantanò nel più melmoso dei sensi di colpa. Lo psicologo, evidentemente avvezzo a notare ogni più piccola variazione nella vasta gamma delle emozioni umane conosciute, riprese la conversazione interrotta in malo modo.
- Vostro padre è a conoscenza di queste cene mensili? -
- Sì, - rispose Alessandra giocherellando con il ghiaccio e senza sollevare lo sguardo dal bicchiere. - penso di sì, non ne abbiamo mai parlato apertamente in realtà. -
- Non credo che gli interessi particolarmente, - intervenne acida Serena che evidentemente non aveva abbassato la guardia. - è troppo preso a scrivere le sue memorie; papà adesso ha velleità da artista! – Concluse sarcastica mentre tentava di infilzare con la forchetta dei cavolfiori sott’olio che avevano come unica colpa quella di trovarsi nel suo piatto in quello sfortunato momento. Fulminò la sorella con lo sguardo per poi riprendere a torturare con rabbia le verdure.
- Lavori in una clinica o hai uno studio per la libera professione? - Intervenne Tommaso, rivolgendosi a Massimiliano come se si fosse accorto solo ora della sua presenza a tavola.
Alessandra guardò Tommaso incredula e, acquisita un’improvvisa sterzata di determinazione, decise di proseguire il suo piano di sterminio delle proprie cellule cerebrali. Fece cenno al cameriere, che ormai orbitava intorno al loro tavolo pronto a intervenire a qualsiasi nuova minaccia di catastrofe, e gli indicò il bicchiere vuoto che andava urgentemente sostituito.
Ci fu un breve scambio di battute tra lo psicologo e il neurochirurgo riguardo ai loro impegni in ospedale e nel privato. L’unica che mostrò un qualche tipo di interesse a riguardo fu Michela. Alessandra pensò che forse sua madre aveva invitato lo psicologo più con l’intenzione di farla visitare come paziente che per far sfoggio di lei come papabile fidanzata. Nella testa di sua madre era evidente che l’attuale psicoterapeuta di Alessandra non stava facendo progressi con lei, come confermava l’andamento della serata; oppure la madre aveva pensato di metterli assieme prendendo due piccioni con una fava: fidanzato e psicologo personale. Bingo!
Gli antipasti furono consumati senza ulteriori drammi tra qualche neutro commento sul cibo e civettuoli tentativi da parte di Michela di far parlare di sé il fortunato ospite. Non gli cavò molto, ovviamente. Come farebbe ogni buon psicoterapeuta, Massimiliano rispose sempre in maniera circostanziata o rimandando al mittente ogni domanda, favorendo la vacua logorrea della madre.
Tommaso riuscì a ottenere il suo menù vegetariano che lesse avidamente neanche fosse stata una pubblicazione scientifica appena sfornata.
Alessandra era al suo secondo Spritz, e non aveva toccato cibo.
A metà dei primi, Alessandra si accorse che sua madre stava parlando di lei. Nella testa di Alessandra il discorso di avvicinò come un’ombra misteriosa che si staglia nella nebbia in un racconto dell’orrore, come quando il protagonista non sa ancora se la sagoma scura che lentamente prende forma all’orizzonte si rivelerà essere un amico, venuto tempestivamente in soccorso, o un nemico da temere.
- …e alla fine Alessandra ha scelto Giurisprudenza. E’ stata bravissima! Si è laureata con il massimo dei voti. E’ sempre stata brava a scuola la nostra Ale. - Concluse Michela, sfoggiando alla figlia un orgoglioso sorriso.
- Oh, allora sei un avvocato? - Chiese Massimiliano guardando Alessandra con ritrovata curiosità.
- No, non ho fatto l’esame per l’abilitazione professionale. Lavoro come impiegata nella segreteria dell’Università degli Studi di Milano. - Rispose laconica Alessandra.
- Certo, quando uno non sa apprezzare la fortuna di poter studiare finisce anche per gettare una laurea nel cestino della carta straccia. - Intervenne Serena bofonchiando per poi continuare a schiacciare il risotto con la forchetta sperando di domarne la temperatura incandescente. Alessandra era sul punto di provare compassione per ogni pietanza cha avesse la malaugurata sorte di finire davanti alla sorella.
- Porca vacca, Serena, non sei nata nell’ottocento! Se avessi smesso di fare la vittima, investendoti del ruolo di martire nel tentativo di far andar bene tutto quello che accadeva di incasinato nella nostra famiglia, a scapito del tuo futuro, forse ora non saresti così piena di rabbia e rancore! - Questo, per fortuna, Alessandra lo pensò solamente. Voleva evitare un altro psicodramma e arrivare psicologicamente integra al dessert. Invece scelse il sarcasmo, quello funzionava sempre ed era un po’ meno faticoso. Continuando a rivolgersi a Massimiliano, gli disse: - Sì, sono un’ingrata! Confesso: ho messo la leggerezza e il più limitato carico di responsabilità come obiettivi di vita, davanti alla carriera e al riconoscimento sociale. Sono da bruciare sul rogo! - Proseguì Alessandra, quasi sottovoce. Improvvisamente si sentì stanchissima e priva di energie. Quelli erano discorsi che lei e sua sorella avevano fatto infinite volte, più o meno ad ogni loro incontro, e ogni volta evolvevano in inesauribili discussioni e litigi. Nel frattempo Alessandra aveva abbassato lo sguardo sul piatto intonso degli gnocchi ai quattro formaggi, non per vergogna ma per il peso della testa che sentiva gravare sul suo collo, come un sasso non lanciato.
- Ma Alessandra sicuramente, prima o poi, passerà l’esame di stato e diventerà un avvocato e mostrerà a tutti di che pasta è fatta. - Continuò la madre facendole l’occhiolino e sollevando il bicchiere di vino come a brindare al brillante futuro della figlia. -
- Perché l’odio e l’amore finiscono sempre per confondersi tra loro, come colori disciolti su una tavolozza, così che non riesci a distinguere più dove inizia l’uno e termina l’altro? – Anche questo Alessandra lo pensò solamente. Si alzò dal suo posto e scusandosi con i commensali, nel modo più gentile possibile, comunicò che sarebbe uscita un attimo a fumare una sigaretta.
- Da quando tua figlia fuma? - Le parole dell’uomo Pilates arrivarono ad Alessandra ovattate. Il resto della conversazione si perse nel rumore di fondo del locale mentre Alessandra si allontanava verso l’uscita. Per evitare di trovarsi fuori a fumare con il compagno della madre (come diavolo si chiamava quell’idiota, ancora non riusciva a ricordarselo), visto che si era già rollato due sigarette dall’inizio della cena e prima o poi le avrebbe anche fumate, Alessandra cercò delle alternative. Si fermò davanti alla porta a vetri dell’ingresso del ristorante e, notando un’altra porta tra il bagno e la cucina, virò verso sinistra tentando la fortuna con quell’uscio misterioso nella speranza portasse al retro del locale.
Uscendo Alessandra fu investita da una ventata di aria fresca. Aveva smesso di piovere e la temperatura era gradevole. Per fortuna il locale era abbastanza caldo da aver asciugato completamente il vestito. Si guardò intorno per cercare un posticino appartato e lo trovò vicino al parcheggio dei fornitori. Vide un camion, non tanto grande, parcheggiato lì davanti. Doveva essere appena arrivato perché il motore era ancora caldo, ma non troppo, così da potercisi appoggiare. Alessandra provò subito un’inaspettata sensazione di sicurezza, lì al buio, tra l’odore dei gas di scarico che ancora permeava l’aria intorno al camion e quello, non ancora stantio, della spazzatura accumulata nei bidoni accatastati a fianco della porta. L’unica fonte di luce era quella dei lampioni del parcheggio ma il camion ne oscurava una parte e la lampadina, che Alessandra notò sopra la porta, era spenta, probabilmente fulminata e non ancora sostituita. Sentiva l’effetto dell’alcol che le allappava la bocca e le offuscava quel tanto la mente da essere ancora piacevole, senza farla sentire troppo triste o troppo su di giri; non ancora, almeno. Su una panchina, a fianco della porta, al lato opposto dell’immondizia, era seduto un ragazzo. Non lo aveva notato prima ma, con la vista che piano piano si adattava al buio, aveva iniziato a palesarsi una figura vestita di bianco. Era il giovane cameriere, il suo salvatore e solerte portatore di Ambrosia. Il ragazzo, assorto com’era nella lettura, non si era accorto di lei che gli era passata di fianco poco prima uscendo dal ristorante.
Alessandra pensò fosse una buona idea non disturbarlo, e comunque neanche lei aveva questa gran voglia di chiacchierare. Tirò qualche boccata di fumo dalla sigaretta cercando di non fare rumore per evitare di attirare l’attenzione del ragazzo. Dopo un paio di minuti il cameriere alzò lo sguardo dal libro e si accorse di lei.
- Oh, scusi, non l’avevo vista.
- Tranquillo, non volevo interrompere la tua lettura, non fare caso a me.
- Serata difficile, eh?! – Disse il ragazzo un po’ imbarazzato.
- Come tante, posso gestirla. - Disse Alessandra sorridendo.
- Può sedersi qua, se vuole. Il fumo della sigaretta non mi da fastidio. - Disse il ragazzo indicando il posto accanto a lui sulla panca.
- Dammi del tu, ti prego. Io mi chiamo Alessandra. - Disse, dirigendosi verso la panca e accomodandosi a fianco del cameriere.
- Piacere di conoscerti, Alessandra. Io sono Jacopo.
- Cosa stai leggendo, Jacopo? Sembri preso.
- “Memorie dal sottosuolo”, di Dostoevskij. Lo conosci?
- Dostoevskij, sì. Quel libro, però, non l’ho mai letto. Lettura leggera, eh? -
Il ragazzo sorrise imbarazzato e chiuse il libro lasciando un dito in mezzo alle pagine per tenere il segno.
- E’ così che utilizzi il tuo tempo libero, Jacopo? Leggendo testi russi invece di spippolare al cellulare… Mi sa che sto parlando con una creatura in via di estinzione! - Scherzò Alessandra facendo cadere per terra la sigaretta mezza consumata e dandole il colpo di grazia con la punta della scarpa. - Non ti disturbo oltre, il divertimento mi aspetta. - Disse Alessandra sospirando, e si alzò stancamente dalla panca. - Ehi, aspetta. - La fermò Jacopo. - Hai presente la barzelletta delle uova? Quella che cita Woody Allen nel film “Io e Annie”? L’hai visto? - Disse Jacopo un po’ impacciato.
- Sì, mi ricordo. - Rispose Alessandra pensierosa. - Quella dove un tizio va dallo psichiatra perché il fratello credeva di essere una gallina e quando lo psichiatra gli suggerisce di internarlo il tizio gli risponde: “e poi a me le uova chi me le fa?”. Già, me la ricordo perfettamente. – Alessandra sorrise rievocando il film alla memoria.
- Sì, Woody Allen forse cita la barzelletta pensando specificatamente ai rapporti sentimentali, ma alla fine credo che valga per tutti i rapporti umani in generale. Insomma, tutti dopotutto abbiamo bisogno delle uova, no? -
Alessandra guardò quel giovane ragazzo, raggomitolato su una lercia panchina vicino alla spazzatura del locale. Era alto e allampanato e lì seduto, con le gambe irrequiete e troppo lunghe, sembrava un Albatros che arranca impacciato sulla terra ferma. – Già, è proprio vero…– Alessandra si attardò ancora qualche secondo davanti alla porta. Alla fine gli sorrise, alzò la mano sinistra in segno di saluto e rientrò nel ristorante.
Una volta rientrata fu avvolta dal tepore del riscaldamento del locale, fece un respiro profondo e tornò al tavolo.
Per fortuna nessuno fece commenti sulla sua prolungata assenza. Solo qualche sguardo scambiato di sottecchi tra la madre di Alessandra e lo psicologo. I primi piatti erano stati portati via e fecero il loro ingresso la carne e le verdure grigliate.
La madre di Alessandra guardò la figlia con mal celata ansia materna. – Alessandra, non hai mangiato niente, lo sai? Mi devo preoccupare.? – No, mamma tutto bene. - Alessandra cercò di non usare un tono sarcastico e provò ad assaggiare la carne. Non sapeva bene il perché, ma vedere sua madre che la guardava con quello sguardo affranto mentre si portava la mano aperta al petto come se le si stesse per spezzare il cuore, la mandava in bestia. Non era sempre stato così. Ricordava, quando era una bambina, i grandi sorrisi che le regalava sua madre quando apriva le braccia mentre lei le correva incontro ridendo. Ricordava anche di suo padre che, per quanto burbero e introverso, era capace di momenti di ilarità e leggerezza. Suo padre, il sabato pomeriggio, portava spesso lei e sua sorella al parco a giocare, e poi facevano merenda con cioccolata calda e cannoli in pasticceria. Sembravano felici allora, tutti quanti assieme. Almeno lei ricordava fosse stato così. Alessandra si chiedeva cosa fosse successo. Le sembrava di essere una di quelle persone che si lamentano di essere tornate dalle vacanze e di aver trovato la casa devastata, o da qualche temporale a causa delle finestre lasciate aperte o dal passaggio dei ladri. Si immaginò di rientrare a casa dopo un lungo viaggio e di aver trovato il parquet del pavimento completamente rovinato dall’acqua, con le assi di legno gonfie e rialzate in maniera scomposta a causa dell’umidità che subdolamente si era infiltrata dovunque in sua assenza. Lei, invece di sistemare il pavimento, o almeno di provare a farlo, se ne era semplicemente andata. Nuova casa, nuovo parquet. Si chiedeva cosa sarebbe accaduto se invece fosse rimasta; se rimanendo avrebbe contribuito a far andare le cose nella giusta direzione, forse quella devastazione si sarebbe potuta evitare? Era talmente assorta dai suoi pensieri che Alessandra non si rese conto che Massimiliano stava cercando di attirare la sua attenzione. Per fortuna si accorse che nel frattempo le era scomparso dalla faccia lo sguardo di disgusto che aveva suscitato la posa di sua madre da attrice di film muto; La Greta Garbo di Piazza Cinque Giornate! – Tutto bene, Alessandra? – Chiese lo psicologo. - Sì, sì. Tutto bene. - Rispose Alessandra destandosi dal suo rimuginio mentale. Guardò lo psicologo; concluse che non gli era così antipatico dopotutto, semplicemente lui era fuori posto; non c’entrava niente; la sua presenza stonava come un capello scuro comparso dal nulla sulla ceramica smaltata di bianco del lavabo del bagno. Alessandra proseguì continuando a rivolgersi a Massimiliano.
- Ti stai divertendo o rimpiangi di aver accettato l’invito di mia madre? – Massimiliano sorrise garbato – No, affatto. Mi sembra una serata piacevole, le famiglie sono complicate e la vostra non è diversa dalle altre. – Che uomo saggio! – Alessandra stavolta non riuscì a nascondere il sarcasmo. Si versò del vino, strappando la bottiglia mezza vuota dalle mani dell’uomo Pilates. Prima o poi si sarebbe ricordata il suo nome, o forse no. Si alzò in piedi e picchiettò la forchetta contro il suo bicchiere, senza sollevarlo dal tavolo, come quando si vuole attirare l’attenzione degli ospiti con l’intenzione di fare un brindisi. Alessandra vide il terrore negli occhi della madre e il gelo calò sulla tavola. Le comparve nella testa l’immagine dei commensali completamente congelati, come statue, tipo quelle di ghiaccio scolpite da “Edward mani di forbice”. – Voglio ringraziare la mamma che ha organizzato questa fantastica cena. – Serena la stava guardando con espressione diffidente. Le sembrò di vederla sua sorella: con la testa immersa nello schedario della sua memoria, a ravanare nel cassetto con l’etichetta “insulti arguti per eventi familiari” (sottotitolo: “perfetti per infierire su quell’ingrata di Alessandra”) mentre cercava qualcosa di memorabile per l’occasione.
- Vi porterò via poco tempo, così potrete continuare la cena in santa pace e arrivare al dessert senza altri inconvenienti. – Continuò Alessandra con una calma sorprendente, almeno per lei. – Volevo solo comunicare che questa sarà l’ultima “cena di famiglia” a cui parteciperò. – Disse, mimando le virgolette con le dita di entrambe le mani – Sono sicura che avremo altre occasioni per scambiarci effusioni e godere della reciproca compagnia. Se ci tenete così tanto, potete comunque portare avanti questa simpatica ricorrenza, ma senza di me. –
Detto questo, Alessandra rivolse un rapido sorriso a Massimiliano, che ricambiò con un lieve cenno di saluto della testa; ringraziò di nuovo la madre che la guardava come se le avesse appena comunicato di avere il cancro; ignorò volutamente l’uomo Pilates, Serena e Tommaso e si diresse verso il guardaroba. Voltandosi di spalle, intravide lo sguardo sofferente della madre e quello attonito di Serena. Non fecero alcun tentativo di fermarla. Un lieve brusio si sollevò dal tavolo andando a confondersi, però, con quello degli altri commensali della sala mentre Alessandra si allontanava. La cena, come le volte precedenti, era gentilmente offerta dalla madre per cui non dovette passare alla cassa. Senza scomodare nessuno del personale, Alessandra si inoltrò tra i soprabiti e gli impermeabili ancora umidi per cercare la sua pellicola domopack. Non provò neanche a indossarla. Afferrò al volo il suo ombrello e, mentre varcava la soglia del ristorante, considerò che per essere moderatamente ubriaca tutto sommato manteneva una buona coordinazione motoria. Con sollievo notò che non aveva ripreso a piovere. Mentre si incamminava verso la fermata della metro più vicina, sentì urlare il suo nome alle spalle. Era Serena. La guardò avvicinarsi: sembrava un toro inferocito pronto a incornare qualsiasi cosa si trovasse sul proprio cammino. Alessandra per un attimo pensò di usare il soprabito, che era pure rosso, come fosse la muleta di un torero, ma poi cambiò idea; sarebbe stato troppo. – Non puoi farlo, Alessandra! – Urlò Serena mentre le si avvicinava. – E’ facile scappare! Mollare tutto e darsela a gambe. – Serena si fermò a distanza di un metro da lei, frenando bruscamente l’andatura. – Perché è così che fai sempre, sorellina! Non è forse vero? – Disse, puntandole contro il dito indice della mano destra. – Forse è così, Serena. Forse preferisco andarmene che farmi schernire e lapidare da un branco di ipocriti! – Alessandra si accorse di averlo detto alzando la voce. Stringeva il soprabito con una mano e con l’altra l’ombrello, come fossero arma e scudo pronti a essere branditi. – Senti chi parla di ipocriti! La signorina “io faccio quello che voglio e me ne frego degli altri”! Sono io, - disse enfatizzando la parola “io” con la voce - che rimango sempre a rimettere insieme i cocci. – Serena lo disse rivolgendo lo stesso indice verso sé stessa. - Sai cosa ti dico? Vai! Vattene! Fai quello che vuoi, ce la caviamo anche senza di te! – Serrò la bocca stringendo le labbra come a trattenere veleno, e poi riprese. - Sei come nostro padre. Siete due egoisti del cazzo! – Non lasciò il tempo alla sorella di ribattere. Serena si voltò bruscamente verso il ristorante; i pugni serrati lungo i fianchi; e con rapidi e nervosi passi raggiunse il locale. Alessandra rimase ferma dov’era, pensò che avrebbe potuto fermarla e costringerla ad ascoltare le sue ragioni, di nuovo. Ma non lo fece. Serena entrò nel ristorante chiudendo la porta a vetri dietro di sé senza voltarsi a guardarla. Alessandra rimase bloccata in quella posizione, con la tensione che scorreva per tutto il corpo come metallo liquido. Non capiva bene cosa provava: frustrazione? Tristezza? Rabbia? Un “all you can eat” di emozioni a cui attingere a volontà; l’imbarazzo della scelta, e tutto gratis!
Il dolore alle mani, ancora strette intorno alle sue armi, la destò riportandola alla realtà. Più che rilassarsi, si sciolse sul posto in una pozza di stanchezza.
Era presto, avrebbe potuto fare un salto al Mom, a quell’ora il locale sarebbe stato pieno e ci sarebbero state sicuramente le sue amiche. Chiacchiere, risate, alcol e sigarette. Che anestesia meravigliosa! Voltò le spalle all’”Oasi felice” e si incamminò verso la fermata della metro. Decise, invece, che sarebbe tornata a casa, si sarebbe fatta un bagno caldo e poi avrebbe guardato qualcosa in tv mangiando popcorn.
Stasera di uova ne aveva avute abbastanza.
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