Andrea Ceradini
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Terzo classificato
Orti dei Dogi
-Romanzi-
Orti dei Dogi
-Romanzi-
Vive nella provincia di Verona, dove è nato.
Sessantacinquenne, sposato, con tre figli, è medico veterinario.
Ha pubblicato una silloge di racconti nel 2009 (I racconti del Baldo – Damoli editore, Verona) e tre romanzi (Le rose dell’Altopiano 2017; Il fumo sull’acqua 2018; Fuga da Caporetto-Nostos padano 2019 Youcanprint) con lo stesso protagonista, il maggiore Martini.
Una quarta opera (Solstitium I Quaderni del Bardo Ed), ha vinto il primo premio al Concorso letterario Europa in versi e in prosa 2021.
Recentemente ha vinto anche il Premio letterario M. Dicorato Scenaedition con i racconti “Le lettere dell’Arciduchessa” e il Premio Vitruvio per la poesia. .
Orti dei Dogi
- Romanzi-
Prefazione
Nel mattino del 20 Aprile 1736 il Principe Eugenio di Savoia Carignano Soissons, che aveva allora 72 anni, presiedette una riunione del Consiglio delle Conferenze che presto interruppe stanco, dicendo: “Basta per oggi. Serbiamoci il resto a domani ... se sarò vivo!”. A mezzogiorno riunì alcuni invitati alla sua tavola, in serata giocò a piquet a palazzo Batthiany preoccupando gli amici per l’affanno che cercò di mascherare, parlò poco, era giù di voce, rifiutò il suo solito decotto.
Alle 22 rientrò nel suo palazzo e si coricò subito, ordinando al cameriere di non svegliarlo prima delle nove. La mattina del sabato 22 Aprile il cameriere scoprì che il principe era spirato nel sonno. Il medico che fu chiamato ad eseguire l’autopsia rilevò ingenti quantità di muco nei bronchi e diagnosticò una congestione polmonare.
Dal 23 al 25 aprile la salma fu esposta nella sala di rappresentanza del Belvedere, sua dimora cittadina, mentre il 26 il feretro e il sontuoso catafalco sfilarono per le strade della città tra ali di folla triste fino al Duomo di Santo Stefano dove venne sepolta nei sotterranei. Anche Torino il 9 giugno onorò il principe con solenni funerali allestiti nel Duomo. L’encomio fu affidato, tra gli altri, a Salvatore Baldovino che pronunciò una laudatio funebris, celebrandone le gesta militari e i mores, le virtù eroiche, morali e intellettuali, nel solco dell’ideale classicistico dell’ottimo principe cristiano, condottiero e gentiluomo letterato al contempo.
La storiografia del tempo, spesso retorica e agiografica, ci dipinge un’esemplare unione di genio militare e acuto intelletto: l’eroe di Zenta, Petervaradino e Belgrado riunisce all’arte militare le virtù cristiane come la moderazione e la prudenza, che fanno di lui un eroe completo al pari degli Antichi Capitani. Tuttavia la gloria e il valore di Eugenio, per rimanere memorabilis posteris, vanno ricercati nel concetto stesso di eroe, oltre le contingenze della storia, là dove avviene la trasformazione da personaggio reale a simbolo mitico.
Suum cuique Decus, ad ognuno il proprio decoro. Il Nobile Cavaliere era entrato nella Storia europea.
Eugenio, anche se tecnicamente non resse mai le finanze, fu il ministro degli esteri e della guerra per trentatre anni consecutivi divenendo, in un tempo dove la carica di primo ministro ancora non esisteva, il più influente uomo politico dell’Impero. Napoleone lo incluse tra i cinque migliori generali della storia e sicuramente fu, almeno fino ai tempi della Rivoluzione francese, l’uomo più famoso in Europa.
Sulle campagne militari di Eugenio - dodici battaglie e tre assedi da comandante in capo - conosciamo quasi tutto, come pure sulla sua attività di collezionista e mecenate; sull’uomo, al di fuori della sfera pubblica, si sa poco o niente, non ci ha lasciato nulla di scritto ad eccezione d’una fitta e burocratica corrispondenza ufficiale.
Il Principe, insomma, è un personaggio sfuggente e del resto i contemporanei concordano nel riferire che era cortesissimo, ma evasivo, parlava di sé il meno possibile e nessuno sapeva mai che cosa pensasse davvero. L’Eugenio privato, se non invisibile, appare tuttavia offuscato, circonfuso da una nebbia fitta che talvolta sembra stesa ad arte. Per tutta la sua vita difese a spada tratta tanto le fortune dell’Impero quanto la propria privacy.
Ciò che più mi ha colpito in lui è la vaghezza del suo privato, la sua “presunta” sventata gioventù, l’omosessualità, la misoginia, la frequentazione massonica, la leadership occulta di una vasta quanto misteriosa rete di lobbying politica.
Tra gli spazi di queste “presunzioni”, oltre la nebbia, mi si aprivano enormi possibilità romanzesche. Ecco perché questa non è una biografia, né un libro di storia, io ho solo dato corpo a queste possibilità, ho dipinto il mio Eugenio, e ognuno si immagini il suo.
L’ultimo Cavaliere
1736
Vienna
Il lunghissimo corteo era sfilato per tre ore lungo il Graben. Dietro il carro funebre tirato da otto cavalli neri avanzavano i ricoverati negli ospizi, poi i veterani di ben trentadue campagne, poi i rappresentanti degli ordini civili e religiosi, poi il popolo. Tutti con una candela in mano.
Tutte le campane di Vienna avevano suonato per tre giorni a mezzogiorno. I dragoni di Savoia avevano sparato salve di moschetto perché l’Imperatore aveva proibito quelle di cannone, riservate solo a se stesso.
Il corpo, vestito dell’uniforme di panno scarlatto con guarnizioni di velluto nero, era stato esposto tre giorni, poi era stato calato nella cripta della Kreutzkapelle in Santo Stefano. Si diceva che il cuore fosse stato traslato a Torino e tumulato nella Basilica di Superga.
Due mesi dopo si svolsero le esequie solenni.
L’Imperatore Carlo VI d’Asburgo, in un anonimo abito nero con cappello d’identico colore, sedeva in un angolo della cattedrale. Era lì in incognito in quanto il protocollo di Corte gli impediva di presenziare ufficialmente a qualsiasi funerale che non fosse di un membro della famiglia imperiale.
Mentre ascoltava distrattamente l’orazione funebre recitata dal nunzio apostolico a Vienna, Domenico Passionei, Arcivescovo di Efeso e amico personale del Principe, guardava l’enorme castrum doloris barocco, che gli era costato 40.000 fiorini, costruito appositamente da Johann Lucas von Hildebrandt e collocato al centro della navata.
Era monumentale e ingombrante, come ingombrante era stata la figura del Principe negli ultimi anni della sua vita. Carlo pensava a suo padre, a suo fratello, a quanto dovessero a quell’uomo e quanto gli dovesse la sua Casa e, con una nota di fastidio che non riusciva ad evitare, a quanto gli dovesse lui stesso.
«Dies irae, dies illa, dies tribulationis et angustiae, dies calamitatis et miseriae, dies tenebrarum et caliginis, dies nebulae et turbinis, dies tubae et clangoris super civitates munitas et super angulos excelsos» declamava ora il coro dei chierici. Sembra scritto proprio per Eugenio, pensò.
Il barone von Bartenstein, consigliere aulico della Cancelleria di Corte, era al suo fianco anche in questo frangente, come faceva sempre da un po’ di tempo.
«Adesso le cose procederanno con più ordine» si limitò a dire il sovrano. Pensò a quanto poco ordine si potesse fare in un guazzabuglio di almeno dodici popoli diversi come era il suo regno.
Il barone sorrise sussurrando:
«Esattamente, Maestà, la figura del Principe Eugenio era diventata un poco ... mi sia concesso dire: ingombrante».
Carlo si voltò a guardarlo:
«Sì, ma non dimenticate mai, barone, ciò che fece per noi a Belgrado».
1736
Palazzo del Belvedere Inferiore,Vienna
Il vecchio Gustav, valletto di stanza di sua Altezza Serenissima il Principe Eugenio di Savoia, aprì la finestra sull’immenso giardino che, anche se si stava già spogliando della sua umile veste invernale, non era ancora esploso nel tripudio della primavera.
Sua Altezza si tirò su a fatica, tossì a lungo, uscì lentamente dalle coperte e depose i piedi giù dal letto. Gustav si affrettò a infilargli le pantofole.
«Com’è il tempo oggi, Gustav?» chiese il Principe dimostrando assai poca curiosità.
«Sembra buono, Altezza. Probabilmente sarà una bella giornata, forse un po’ fredda. Vostra Grazia ha dormito bene?»
«No! Per niente. Non riesco a respirare con questo catarro!»
«Volete fare i suffumigi prima di colazione?»
«No, li farò dopo».
«Volete il vostro decotto? Chiamo il cameriere».
«Grazie».
Da molto tempo il risveglio era un momento difficile per sua Altezza. Da molto tempo i nuovi giorni non portavano novità, non dico felici, ma nemmeno gradevoli. Nella migliore delle ipotesi doveva trascinare una greve routine senza luci, senza conforto né diletto. I giorni pieni della vita erano irrimediabilmente andati, restava poco o niente, come la feccia nell’ultimo bicchier di vino.
Dopo che ebbe espletato le sue funzioni il suo cameriere personale lo lavò con una spugna imbevuta di acqua di rose e poi, insieme a Gustav, lo aiutarono a vestirsi.
«Lasciami il colletto slacciato, Gustav, sto meglio così».
Nel suo studio il Principe bevve solo del latte bollente con il miele, un’abitudine alla frugalità acquisita in trent’anni di bivacchi, poi si avviò, accompagnato dal suo primo valletto, all’ingresso del palazzo dove lo aspettava la sua carrozza con uno splendido tiro a sei di lipizzani candidi come la neve, che lo portò in città, al numero 17 della Am Hof dove vi era il palazzo dell’Hofkriegsrat, l’Imperiale e Regio Consiglio di Guerra, che da 33 anni ormai presiedeva.
Nella grande sala del Consiglio, le cui pareti a stucchi dorati erano ricoperte dei quadri raffiguranti i grandi condottieri dell’Impero, Wallenstein, Montecuccoli e lui stesso, erano presenti solo undici dei trenta consiglieri, di cui ben otto erano in quota protestante.
Sua Altezza Serenissima entrò con la consueta puntualità e constatò, senza per questo meravigliarsene, che i protestanti erano più inclini ai loro doveri di rappresentanza.
Si spese la mattinata in tediose discussioni sul reperimento di fondi per la ricostruzione di alcune caserme a Praga, dopodiché il Principe fece ritorno al Belvedere.
(continua)