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Anna Maria Costa
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > Orti dei Dogi - narrativa
Sono nata il 25-09-1955 a Casalmaggiore, cittadina sulle sponde lombarde del Po, dove risiedo.
Dalla mia vita privata, dai ricordi e dall’osservazione della natura partono quelle emozioni che hanno sempre tracciato la mia linea poetica.
Ho pubblicato “Lungo il percorso del ricordo”,”I segni del tempo”,“Tramonti sul Po”,“L’estate dei ciclamini”(Ed.Albatros),“Note”e “Tra i silenzi della notte” (Ed. Pagine),”Le voci di Via Margutta”4 (Ed.Dantebus) all’interno di un gruppo di Autori.

Già presente edizione:






Orti dei Dogi
-Narrativa-
È UNA RUOTA CHE GIRA



“A mio nonno che mi ha accompagnato nei miei primi 14 anni di vita
con gratitudine, ricordo e affetto”.


INTRODUZIONE
Dentro di noi qualcosa ci spinge ad andare avanti e a vivere la nostra vita, a mettere a frutto insegnamenti ed esperienze, a trasmettere a nostra volta, sentimenti e concretezze per offrire ai nostri figli e nipoti la possibilità di crescere: “è una ruota che gira” diceva sempre mio nonno guardandomi con un affettuoso sorriso. “Io racconto e insegno a te, tu insegnerai e trasmetterai tante cose ai tuoi figli!”. I suoi occhi vedevano in me la continuazione della sua vita e il passaggio di testimone per un’altra generazione. Ed è bello scrivere di questa nostra vita che con i suoi ingranaggi ci riporta lentamente il passato “rotolando verso il futuro”.
Ricordi, sentimenti e parole sono ciò che possediamo: a noi il piacere del ricordo.
Grande infatti è il fascino delle storie che ci portano l’eco di tempi lontani e riportano alla luce un passato spesso dimenticato, che sfiora di continuo il nostro presente.
Pezzi di vita che s’intrecciano, si mescolano, si confondono, s’incrociano.
Che assumono sembianze diverse da quelle quantificate, ma che alla base hanno un senso d’amore che domina su tutto.
Nel corso dell’esistenza ognuno trova il suo posto, incontrando ciò che è giusto e anche ciò che è sbagliato, cercando di prendere buone decisioni con una serie di passi tutti in sequenza, ognuno con la propria velocità e con i propri sentimenti, nel cammino della vita.  
A distanza di tanto tempo risulta difficile ricostruire le vite seppur di familiari vicini a noi come mio nonno e allora si ricorre a quelle testimonianze orali che restano particolarmente impresse nei racconti sentiti e risentiti più volte da bambini.
Questi che seguono sono episodi della vita di mio nonno bambino e poi la tragedia vissuta negli anni bui del primo conflitto mondiale.

IL NONNO “PEPU”
Nella notte della vigilia di Natale del 1899 nacque Giuseppe Paolo Arnaldo, Pino per tutti, affettuosamente ‘PEPU’ per la sua famiglia, perché allora nessuno chiamava una persona col suo nome di battesimo.
Ultimo di quattro figli di Luigi e Annamaria, povera gente che viveva in affitto in un quartiere periferico di Cremona, “al Bataiòn’ (Battaglione), zona chiesa di San Sigismondo storicamente sorta nella seconda metà del quindicesimo secolo (qui si celebrarono le nozze extraurbane tra Bianca Maria Visconti che portava in dote al suo sposo Francesco Sforza la città di Cremona), un complesso monastico di altissimo livello architettonico e dipinta da famosissimi pittori cremonesi, che strideva con il gruppo di povere case di cui si circondava.
Il quartiere Battaglione esiste ancora a Cremona ed è rimasto insieme ad altri quartieri periferici (i sei storici quartieri componenti il suburbio di Cremona , cioè Picenengo, S. Ambrogio, Boschetto, appartenenti alla “Provincia superiore”; S. Bernardo, S. Felice, Battaglione, appartenenti alla “Provincia inferiore”) un concentrato di istituzioni ecclesiastiche e ‘segni antropici’ che essendo al di fuori delle mura cittadine erano possedimenti di molte ricche famiglie cremonesi e dediti alla produzione agricola per soddisfare le esigenze alimentari della città.
Per Giuseppe, nonostante la povertà, quel quartiere (chioso) era bellissimo e pieno di piccoli orti (broli) che sembravano giardini fioriti tra sentieri in terra battuta (‘chi pareva en giardéen fiurì in meza ai sentéer pistàat’, in dialetto cremonese) e pure di vigne e di prati.
Tanto bello che il nonno l’ha sempre chiamato ‘la piccola Parigi’, forse proprio per quella naturale bellezza, per la semplicità e armonia di una realtà che lui raccontava sempre con piacere e amore.

IL NONNO DA BAMBINO
Giuseppe era un bambino sano, allegro ma anche ben determinato che credeva molto nelle sue capacità. Aveva grinta da vendere e un amico del cuore, quello che non mollava mai, ma da cui poi, per colpa del destino e pure per un gran senso di ricerca di libertà, si sarebbe separato per cambiare percorso.
Giuseppe primeggiava su tutti: gli piaceva fare ‘il capo’ ed era pure un po’ monello da strada.
Finita la terza elementare, a nove anni, i genitori gli avevano trovato un lavoro in città per fargli imparare il mestiere di fornaio.
Suo papà faceva il muratore e piastrellista, i fratelli lavoravano come muratori, ma a Giuseppe non piaceva questo genere di lavoro e non voleva seguire le loro orme. Piuttosto avrebbe fatto il fornaio.
Presso un forno collocato in città, Giuseppe si era dimostrato subito molto efficiente e molto portato a imparare metodo e trucchi della panificazione ricevendo una ricompensa settimanale che portava a casa per aiutare la famiglia.
Lui rimaneva al forno tutta la settimana e dormiva nel prestino (una cameretta sopra il forno) perché anche se la sua casa in periferia era a poca distanza, a quei tempi, chi imparava un mestiere da artigiano doveva rimanere in loco (e poi lui lavorava di notte e tornare a casa da solo, data la sua tenera età, era pericoloso). Un lavoro complicato per un bambino, ma che svolgeva come meglio poteva.
Nonostante le difficoltà iniziali, Giuseppe era felice di quella sua nuova vita e si sentiva ‘grande’ e determinato a superare tutti gli ostacoli che avrebbe trovato sul suo faticoso cammino di bambino che doveva crescere anzitempo.
Il suo era un lavoro che si svolgeva di notte, mentre tutti dormivano (e soprattutto i bambini) da mezzanotte fino alle prime luci dell’alba quando l’impasto lievitato era tutto da modellare a mano in vari pezzi per farne panini piccoli o grandi da mettere in forno.
Farine, lieviti, sale da amalgamare era un duro lavoro tutto a mano (non esistevano macchine impastatrici) che però faceva il suo padrone che aveva un’arte tutta sua nel mischiare, sollevare e rovesciare più volte quell’impasto pieno di personali segreti.
L’acqua per la pasta era importantissima per la qualità del pane e Giuseppe l’aveva capito subito. E se ne sarebbe ricordato per tutta la sua vita di fornaio.
La mattina presto, il profumo del pane si spandeva ovunque nelle vie della città ed era meraviglioso e pronto per essere venduto. Che soddisfazione! E lui poteva finalmente andarsene a dormire.

FUGA DA CREMONA
Dopo alcuni anni trascorsi presso quel forno in città, Giuseppe era stanco di buttare legna per mantenere il fuoco del forno, di portare pesanti sacchi di farina, di ripulire stanze e tavoli da lavoro e di ritagliare panini a ritmo frenetico. Lui voleva impastare il pane da solo e avrebbe voluto mischiare farine per provare a inventare cose nuove. Di nascosto aveva fatto dei biscotti buonissimi, ma il padrone non ne voleva sapere e non glielo permetteva assolutamente.
Nel tempo Giuseppe aveva acquistato una grande grinta tanto che a quattordici anni si sentiva pronto a sconvolgere la sua vita licenziandosi, nonostante la sua famiglia fosse contraria a ciò che sembrava un grande affronto verso il padrone e soprattutto non avrebbero più ricevuto quella paga così importante per la famiglia.
Ormai quella vita non gli piaceva più e nemmeno gli bastava.
Voleva fare qualcosa di meglio, sicuro di avere imparato un mestiere.
Certo non poteva avere un forno tutto per sé visto i costi e la giovane età.
E nemmeno andare presso un altro fornaio di Cremona: essendosi licenziato non avrebbe avuto buone referenze da mostrare a un altro padrone.
Così Giuseppe che voleva andare lontano, dove nessuno lo conoscesse, aveva saputo di avere alcuni cugini nel casalasco ed era partito col suo fagottino di stracci in sella alla sua vecchia bicicletta, felice e ribelle, all’avventura.
Era un ragazzo maturo dal carattere forte, un bel ragazzotto allegro e simpatico, amico di tutti che cominciava ad amare anche le ragazze (al forno era abituato a vedere e scherzare con ragazze e signore) e voleva scoprire il mondo, un mondo da raggiungere in bicicletta a quaranta chilometri da casa ma che sembrava lontanissimo.
Un sorriso colorava sempre le sue giornate e col suo modo schietto di parlare aveva trovato subito un lavoro presso il più conosciuto fornaio di Casalmaggiore, il sig. Moreschi che aveva il suo forno nella centralissima via Cavour.
Irrequieto per carattere, non gli piaceva ricevere ordini, ma aveva trovato un padrone buono che gli lasciava spazio nel forno avendo capito le sue qualità di lavoratore creativo anche se insofferente al mondo come poteva essere un ragazzo adolescente e solo.
I sentimenti dentro di lui erano tanti e profondi. Non sempre però si manifestavano pacificamente perché ‘il vento di cambiamenti’ che lo aveva investito portava tante novità, ma anche tante insicurezze e tensioni  che non poteva raccontare a nessuno della famiglia.
Non c’era la sua mamma a difenderlo sempre e comunque.
Qualsiasi cosa pensasse o gli passasse nella testa di fare, doveva deciderlo da solo.
Viveva alla giornata, a volte con il suo buon carattere che pensava sempre positivo, cercava di affrontare gli imprevisti buttando gran parte delle sue energie nel lavoro per mettersi da parte un gruzzoletto.
A volte insofferente perché gli si presentavano tante situazioni faticose e sembrava non ci fosse limite alle divergenze tra lui e la gente.
Si sentiva un guerriero e pensava di combattere contro tutti per un mondo visto solo attraverso i suoi occhi che erano assai diversi da quelli degli altri.
Per fortuna era circondato da persone che gli volevano bene e ogni tanto anche i fratelli da Cremona lo venivano a trovare per fargli sentire un po’ di calore familiare, per portargli notizie dei genitori e degli amici rimasti al Battaglione.

LA GRANDE GUERRA
Nel 1915 la guerra era arrivata anche in Italia e sullo sfondo di quella grande storia ‘minacciosa e vicina’ che coinvolgeva le collettività, continuava la storia personale del nonno.
Lui era sedicenne e faceva un mestiere molto utile anche in tempo di guerra: preparare il pane era indispensabile a tutti, popolazione e militari, ma suo papà e i fratelli erano stati chiamati alle armi.
La chiameranno “la grande guerra” e sarà una vera catastrofe della storia dell’uomo con migliaia di morti tra i militari nelle trincee.
Questa guerra però non risparmiò neppure la popolazione civile: donne, anziani, bambini avevano dovuto contribuire alla guerra con il loro duro lavoro, soprattutto in quelle zone cadute nelle mani dell’esercito austro-tedesco nemico. I giovani venivano deportati per lavorare in Germania ai lavori forzati nelle varie fabbriche e la popolazione sfruttata e ridotta alla fame. A migliaia si sacrificarono per la patria.
La mamma e la sorella di Giuseppe erano disperate pensando ai loro uomini al fronte, senza notizie da mesi e loro stesse prive di qualsiasi libertà. A Cremona cercavano di ribellarsi a tutte quelle angherie, ma lo stato d’animo era di estrema paura di fronte alla violenza che si poteva scatenare da parte dei tedeschi nei confronti di chiunque ostacolasse la loro avanzata.
Un’esperienza devastante e drammatica che sembrava non avesse più fine.
Giuseppe era ritornato a Cremona per poter proteggere con la sua presenza maschile mamma e sorella, ma se ne doveva stare ben nascosto per non essere ‘strappato’ alla sua famiglia e deportato in Germania.
Tanti ragazzi della sua età e anche più giovani erano stati presi con la forza e su carri bestiame mandati in Germania a lavorare in condizioni disumane. Per i tedeschi erano solo braccia forti da sfruttare nel modo più duro e disumano. Pochi avevano fatto ritorno a casa e quei pochi fuggiti raccontavano cose indescrivibili.
Di notte al buio e con enormi rischi (tra l’improvviso suono delle mitragliatrici o del passaggio di camionette di tedeschi) Giuseppe usciva per cercare di reperire qualcosa da mangiare, un po’ di farina o di riso o caffè d’orzo, ma spesso tornava a mani vuote, stanco, impaurito e senza speranze. I tedeschi razziavano tutto e la popolazione alla fame non riusciva più a resistere. Volevano proprio spezzare il fisico oltre che il morale.
Le cose andavano sempre peggio. Oltre alla morte di migliaia di soldati e al peggioramento continuo delle condizioni di vita un attacco a sorpresa nella notte tra il 26 e il 27 ottobre del 1917 da parte dell’esercito nemico austro-tedesco lungo il fiume Isonzo (era già la dodicesima battaglia qui su questo fiume dall’inizio della guerra) vedeva la ritirata e la fuga dell’esercito italiano (Regio Esercito) il cui generale Cadorna il 28 ottobre annunciava la disfatta di Caporetto (incolpando i soldati della II armata di essersi ’vilmente ritiratisi senza combattere’).
A quel punto tutto il Friuli era occupato e la vera colpa era di quel generale Cadorna che aveva sottovalutato la rapidità con cui avanzava l’esercito austro-tedesco.
Il Regio Esercito (a quell’epoca l’Italia era ancora un Regno e non una Repubblica) si era ritirato sul Piave, il comando delle truppe era passato al generale Armando Diaz, ma le gravi perdite subite avevano costretto a convocare ‘i ragazzi del ’99’.
“I RAGAZZI DEL’99”
Il nonno era un “ragazzo del ‘99”, cioè nato nel 1899 e il Regio Esercito aveva chiamato tutti coloro che avrebbero compiuto 18 anni nel 1917, per incrementare gli schieramenti militari che, come già detto, avevano ricevuto gravi perdite lungo la linea del Piave, del Monte Grappa e in generale del Triveneto.
Questi giovanissimi adolescenti, ultima leva di migliaia d’italiani chiamati al fronte (265mila) furono buttati in trincea e costretti a partecipare a importanti azioni militari.
Praticamente mandati a morire senza aver fatto in precedenza alcuna esperienza militare, il cosiddetto battesimo del fuoco era stato fatto nella ”ora suprema di dovere ed onore”.
Nell’ordine del giorno firmato dal generale Diaz che appunto aveva sostituito Cadorna, il 18 novembre 1917 si leggeva: “I giovani soldati della classe 1899 hanno avuto il battesimo del fuoco.
Il loro contegno è stato magnifico”. E aggiungeva, immortalandoli per sempre: “Li ho visti i ragazzi del ’99. Andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in esigua schiera. Cantavano ancora”.
Quei ragazzi con il sacrificio della loro vita e con tanta paura negli occhi contribuirono alla vittoria italiana del 4 novembre del 1918.
Anche quel ragazzo di nome Giuseppe nato nel quartiere Battaglione di Cremona era stato chiamato alle armi e tra la disperazione della sua famiglia era partito al fronte.
Per soli sei giorni, facendo gli anni la vigilia di Natale, si era ritrovato nel bel mezzo di una guerra, di un esercito, con una divisa, un fucile in mano senza nemmeno sapere come usare le munizioni,  dovendo ubbidire agli ordini di un comandante poco più vecchio di lui.
Senza parlare della trincea, quelle linee di fossati scavati nel terreno dove dovevano vivere i soldati in condizioni disumane, nel fango e nel sangue dei compagni feriti, al freddo e affamati in attesa di un assalto improvviso o di raffiche di mitragliatrice o di un ordine dall’alto dato con un fischietto che li obbligava all’assalto delle linee nemiche.
Ogni volta una carneficina, ma non si poteva disubbidire agli ordini, se no c’era il plotone di esecuzione che li aspettava. In ogni modo si moriva.
Il nonno nella sua vita non dimenticherà mai questi momenti e il ricordo di quelle drammatiche esperienze l’ha sempre seguito e condizionato nelle relazioni con le persone. I suoi occhi, quelle poche volte che ne parlava, si riempivano di lacrime e si leggeva un grande turbamento.
A fatica riprendeva il sorriso. Quanti dei suoi amici non c’erano più. Un’intera generazione era stata sterminata.
Giuseppe dopo il primo assalto era stato fatto subito prigioniero dai tedeschi (fortunatamente non ferito) e messo insieme a tanti altri soldati feriti e in pessime condizioni su carri bestiame di un treno, violando qualsiasi diritto umano, per chissà quale destinazione.
Un trattamento privo di qualsiasi sentimento e di qualsiasi senso di umanità aveva reso la cattura e tutte le successive azioni punitive di una drammaticità unica.
Ragazzi-soldato spaventati e disperati che non sapevano a cosa aggrapparsi e come sfuggire alla morte perché in quei carri senza cibo e senz’acqua avrebbero passato un sacco di tempo prima di arrivare a destinazione.
Le loro vite non avevano alcun valore, soprattutto quelle di coloro che già feriti gravemente non ricevevano nessuna cura e suscitavano solo rabbia e disprezzo da parte dei tedeschi.
Ad un certo punto, in piena campagna prima di raggiungere una stazione, il lungo treno pieno di prigionieri si era fermato e si erano sentite le urla di alcuni militari tedeschi che davano ordini coprendo addirittura i lamenti dei feriti. Uno ad uno i carri venivano aperti e pure il carro dove c’era il nonno. Con brutalità erano saliti alcuni soldati che cercando i prigionieri feriti più gravemente, li avevano uccisi a bruciapelo e scaraventati giù dal treno. Giuseppe, nel bel mezzo di quella confusione e di quelle grida, senza pensarci un attimo si era lasciato scivolare giù dal treno e si era buttato sotto il vagone in una frazione di secondo. Col cuore in gola poi era rimasto in attesa di conseguenze. Sapeva bene cosa avrebbero fatto ai fuggitivi, ma piuttosto di morire di stenti aveva preferito provare a scappare.
Alla fine il carro si era richiuso e nella concitazione nessuno si era accorto di lui, passando al carro successivo. Allora aveva alzato lo sguardo per controllare la situazione e vedendo un boschetto a pochi metri da lui, aveva tentato la sorte. Tutto bene! Il treno era ripartito e nessuno lo aveva cercato.

LA FUGA
Era scesa la notte e Giuseppe, che era rimasto tutto rannicchiato e nascosto tra gli alberi guardandosi continuamente intorno per paura dei soldati nemici, doveva muoversi con molta cautela.
Tanto freddo e solitudine, poi finalmente il buio e un po’ di coraggio per uscire dal nascondiglio e andare incontro al destino.
Chissà se c’era lì vicino un paese, una cascina, gente disponibile ad aiutarlo? Chissà se qualcuno avrebbe aperto il suo cuore rischiando di essere perseguitato dai tedeschi?
Si stava muovendo con molta prudenza in quella notte buia e in quella zona sconosciuta erano molto difficili gli spostamenti.
Nonostante la sua prontezza di riflessi era scivolato più volte nel fango ed era incappato anche in vari ostacoli, proprio come in trincea e con una grande sensazione di pericolo e di paura che lo attanagliavano.
Non aveva mai visto quei posti e nemmeno conosceva il dialetto di quelle parti, per cui la preoccupazione era anche quella di farsi capire se eventualmente avesse incontrato qualcuno.
Tutto il Veneto era teatro di guerra e la popolazione devastata aveva abbandonato paesi e campagne per la grave miseria in cui era piombata l’agricoltura non essendoci più le braccia degli uomini (tutti arruolati) necessarie per le coltivazioni e i raccolti.
Campi abbandonati e famiglie distrutte dalla fame.
Mentre proseguiva piano piano facendo molta attenzione al minimo rumore, Giuseppe si ritrovò contro un muretto e alla fine del muretto c’era un cancello semichiuso che attraversò e finì in un fienile.
Si sistemò sotto la paglia e sfinito, sentendosi protetto, si addormentò.
Lo sguardo si era spento su un futuro che non c’era e in cuor suo sapeva che il peggio non era ancora passato.
Quante violenze, dolore e miserie nella realtà quotidiana di una guerra si dovevano ancora affrontare, tra l’indifferenza, i vuoti e le ombre su cui non si sarebbe mai fatta luce, perché il desiderio più grande era solo quello di dimenticare.
Come aveva potuto l’uomo arrivare a tanto, qual era il senso di tanta inutile violenza, come privare i propri simili della libertà?
Come prendere simili decisioni, come uccidere altri uomini, come regredire moralmente in questo modo?!
Dignità negata e intollerabili condizioni di vita avrebbero dovuto far reagire la gente in modo violento, ma la paura continua della morte richiudeva gli animi in se stessi e in un soffocante riuscire nell’intento di sopravvivere quotidianamente senza speranza di un futuro.

RIFUGIO IN CASCINA
Giuseppe si era risvegliato di colpo quella mattina e in preda all’agitazione.
Davanti a lui c’erano alcuni bambini che lo guardavano in silenzio.
La guerra aveva complicato e ribaltato tutti i sentimenti e pure la vista di quei bambini piccoli lo aveva spaventato e messo sulle difensive.
Si era subito nascosto nella paglia, finché i piccoli se ne erano andati e lui stava cercando nella sua testa un modo per uscire da quella situazione.
Ma all’improvviso si era presentata anche una giovane contadina con un tozzo di pane e glielo offriva con sospetto ma con gentilezza.
L’intesa era stata immediata, si erano salutati e in un atto di grande generosità, lei gli aveva fatto capire che lo avrebbe aiutato a nascondersi dalla minaccia dei tedeschi. La guerra le aveva portato via il marito e provvedere da sola ai suoi tre figli non era cosa facile, quindi offriva a Giuseppe la possibilità di restare lì con lei per aiutarla in campagna.
Giuseppe aveva visto negli occhi di quella giovane mamma tenerezza e amicizia, anche se non poteva certo scordare tutti i suoi problemi e quella cruda realtà in cui era rimasto impigliato.
Lei lo aveva convinto a entrare in casa e, dato che il nonno aveva solo diciott’anni, un viso roseo e ancora senza barba, gli aveva fatto indossare abiti femminili e suggerito di spacciarsi per sua sorella che era venuta in cascina per aiutarla con campagna e figli.
Il nonno non sapeva ancora che da quelle parti, in Veneto, i disertori erano ben accolti dalla popolazione ed erano aiutati spesso da questa povera gente perché lavorassero nei campi sostituendosi agli uomini al fronte.
Anzi si era creata una rete intorno ai disertori per proteggerli dalle ricerche di carabinieri e tedeschi.
Situazione strana quella in cui si era trovato il nonno, ma in cuor suo era ritornata un po’ di speranza e l’estrema tensione dei giorni al fronte si era attenuata con quei pochi gesti amichevoli.
Ecco per lui l’occasione di aiutare qualcuno e ricambiare il grande favore di essere nascosto lasciando campo libero a un po’ di tranquillità.
Giuseppe aveva indossato abiti femminili, si era fatto crescere i capelli e cercava di parlare il meno possibile perché la sua inflessione cremonese era ben diversa dal dialetto veneto.
Aveva un bel carattere, allegro e fiducioso nonostante la brutta situazione e contagiava chi gli stava intorno infondendo speranza in una prossima rinascita. E nonostante la paura e il suono dei fucili, nonostante la guerra e l’orrore che sembrava non avesse più fine, nonostante il cuore a pezzi perché lontano dai suoi cari, nonostante si vivesse ogni giorno come fosse l’ultimo, non voleva arrendersi e sperando di farcela, provava a sopravvivere.

CONCLUSIONI
Dopo mesi di clandestina permanenza in cascina, lavorando e faticando come contadino, finalmente la guerra finì. Era il 4 novembre 1918 quando si firmò l’armistizio per porre fine ad una guerra considerata “un fenomeno senza precedenti” per la quantità di soldati coinvolti, per la potenza delle armi e la violenza nei confronti della popolazione civile. L’Italia, nonostante fosse tra le nazioni vincitrici, distrutta nel fisico e nel morale doveva pensare alla ricostruzione, a ristabilire ordine e stabilità, a cercare di dimenticare tanti orrori  per risollevare un popolo che oltre a non avere più nulla con la distruzione di tutte le sue risorse materiali, doveva contare migliaia di feriti e di morti.
Giuseppe, quasi incredulo per la fine della guerra e felice di essere ancora vivo dopo tanto orrore, si era subito congedato dalla famiglia che lo aveva ospitato. Lacrime agli occhi e tanti abbracci di donne e bambini che ormai gli volevano un gran bene, non gli avevano fatto dimenticare la sua casa e la sua famiglia della quale non aveva notizie ormai da molti mesi. Chissà se erano sopravvissuti?   
Prima dell’alba del giorno successivo all’armistizio, Giuseppe era partito a piedi, oltrepassando vari confini tra paesi e regioni, pericoli e tanti problemi lungo la strada. Dopo quindici giorni era riuscito  ad arrivare  a casa sua (semidistrutta dalle cannonate) e avere la consolazione di riabbracciare mamma, sorella e due fratelli che si erano salvati dalla guerra.

Giuseppe, il mio caro nonno, nonostante l’enorme peso sulle spalle dell’aver vissuto due guerre mondiali (purtroppo gli capitò anche la seconda guerra mondiale) era sempre ben disposto verso gli altri, pronto a sorridere e raccogliere ogni sua forza per aiutare tutti.
Non perdeva mai tempo perché , come diceva lui, il tempo era preziosissimo e bisognava impegnarlo bene.
La sua sofferenza si è trasformata per fortuna in “maestra di vita”, in un modo per essere sempre d’aiuto agli altri, in quella forza che serve quotidianamente per andare avanti, crearsi una famiglia con figli a cui tramandare tutto ciò che si è imparato.
E tra insegnamenti di semplicità, speranza, prontezza nelle difficoltà, fiducia nel prossimo, tanta voglia di vivere,  insieme a fermi pensieri e semplici gesti sono cresciuta anch’io… quel che rimane in me è un grande e indelebile ricordo di mio nonno e di tutto ciò che mi ha trasmesso come esperienza di vita.
Per onorarlo ho sempre creduto in quelle radici profonde che permettono di costruire sentimenti stabili e duraturi con i propri figli e nipoti, come il nonno ha fatto con i suoi figli e con me.
Gli ingranaggi del volersi bene girano di giorno in giorno insistendo sull’importanza della famiglia e su quanto ci può insegnare … “è una ruota che gira” e trasferisce ai nostri cuori e alle generazioni future cose buone ed energia positiva.

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