Barbara Amendola
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > Orti dei Dogi - narrativa
Sono nata a Roma, nel 1975, e dopo la laurea in biologia, la specializzazione in patologia clinica e svariati anni di lavoro nelle analisi cliniche, sono tornata alla mia prima passione.
La scrittura.
Invento storie da sempre, e le scrivo da quando ho imparato a tenere la penna in mano.
Trovo ispirazione nelle persone della mia vita e nelle realtà che mi colpiscono, nelle passeggiate e nei viaggi con la mia compagna e i nostri cani, o nelle pedalate tra le strade di Roma, la mia amata, complicatissima, città.
Ho scritto una commedia teatrale, e svariati racconti che a breve dovrei pubblicare online.
Sto cercando di finire il mio primo romanzo.
Orti dei Dogi
-Narrativa-
VIENI CON ME
La pioggia non ha ancora iniziato a cadere, ma l’asfalto è già umido. E il cielo borbotta. È gonfio. Sembra un cuscino di ovatta che preme sui tetti di Roma. In una via secondaria i tacchi di lei riecheggiano cadenzati. Non c’è nessun altro. I suoni del traffico sono lontani. Un autobus che frena, una moto che accelera. Lei cammina lungo una rete floscia, trafitta da erbacce storte. Pensa di essere sola ma poi si accorge che non lo è. Qualcuno respira a fatica. Lei lo vede. Si accovaccia ad aiutarlo. Lo sguardo è spento, atterrito. Serve forza, ma lei lo aiuta. E si ritrovano a condividere insieme un tratto di strada, e un tramezzino. Lui ogni tanto rallenta. È stanco, si ferma a bere ad una fontanella. Poi proseguono, l’uno di fianco all’altra. Mentre camminano il vento si ingrossa, qualche cartaccia finisce sotto le auto parcheggiate. Un fulmine trafigge le nuvole, e improvvisamente comincia a piovere. Subito dopo aumenta. Le gocce sono sempre più ingombranti. L’acqua rimbomba nelle caditoie, pesa sulle foglie degli alberi e scivola via lungo i marciapiedi, dentro i tombini. Sono zuppi entrambi, lui e lei. Improvvisamente il suono dello scroscio scompare dalla scena. E al suo posto esplode un clacson.
Un clacson. Insistente, spazientito. Probabilmente gli automobilisti dietro di lei si erano stancati di aspettare. Martina tornò di colpo al presente, e lasciò andare il ricordo di quel giorno annacquato. Si ritrovò nell’abitacolo dell’auto, da sola, a parlare con il mondo fuori.
“È verde. Lo so, lo so! Scusate”. Fece per ripartire, ma nella fretta schiacciò il freno al posto della frizione. Un disastro. Solo dopo qualche singhiozzo del motore, e un paio di accidenti di quelli imbottigliati al semaforo, riuscì a togliersi di mezzo. Guardò l’ora e accelerò. Il quartiere scorreva veloce, al di là del finestrino. I palazzi vicini e squadrati, che svettavano contro l’azzurro, e i loro terrazzi soffocati dalle antenne. Le tinte calde di alcune palazzine più basse, e più eleganti. I panni a cascata dai balconcini stretti, dove a contendersi lo spazio c’erano vasi di gerani e condizionatori.
Botteghe e negozietti dall’aria intima, che a guardare dentro si tornava agli anni 90. Martina vide anche il bar dove quel giorno aveva comprato il suo pranzo. Un tramezzino che poi aveva diviso con lui. Sospirò. Era ovvio che tornare lì, a distanza di un anno, le avrebbe risvegliato la memoria. Ma non era il momento di distrarsi, doveva concentrarsi sull’appuntamento.
Mise la freccia buttando un occhio per il parcheggio. “Nel quartiere Ostiense, all’ora di punta”. Tamburellò il volante con le dita. “Avrei impiegato meno a scalare l’Everest con un alpaca”. Le scappò da ridere. Una volta tanto le sarebbe piaciuto lanciarsi in qualche impresa folle, solo per il gusto di farlo. Martina scosse la testa e tornò alla realtà, alle strade intasate, allo stipendio fisso. Pochi minuti dopo stava facendo manovra tra due macchine, e non l’aveva trovato nemmeno troppo stretto il posteggio. Neanche il brivido di arrivare tardi, ma in fondo era meglio così. Ci mancava soltanto la ramanzina del capo a rendere la giornata ancora più noiosa. Le affiorò una smorfia di fastidio al pensiero di quel suo sorrisetto ambiguo, e di quel dopobarba dolciastro. Qualche secondo dopo una notifica le fece vibrare la tasca.
‘Oggi sarò il tuo incubo, sorry. Ma forse non ti dispiace’ -emoji del diavoletto- ‘Comunque aspetto news!! Stai sul pezzo, baby’. La faccina con gli occhiali da sole concludeva il messaggio. Eccolo, il boss. Convinto che scrivere in stile millenial servisse ad accorciare le distanze tra lui e le nuove generazioni. Illuso. Martina chiuse la portiera con il piede. Una cartellina in una mano e lo smartphone nell’altra. Sulla spalla la tracolla della borsa sistemata di fretta. Sbuffò e rispose telegrafica con un vocale, sperando di scoraggiare ulteriori comunicazioni. Poi proseguì. Nei profumi della prima decade di Aprile cominciava a svolazzare la primavera, con una spruzzata di aromi da cucina. Locali e ristoranti a quell’ora erano già a lavoro. Martina inspirò a lungo e guardò in alto. Una nuvolaglia innocua velava un sole che iniziava a scendere. Un palazzo ad angolo di sette piani, o forse di otto, aveva un murale gigantesco dipinto sulla facciata, e sembrava versarle addosso i colori accesi della street art. Tra l’edificio e il suo gemello si intravedeva il profilo del Gazometro. Un cilindro di ferro, un’altezza di 90 metri. Un simbolo di Roma e dell’archeologia industriale. Un’immagine impressa a fuoco nella mente di Martina che riprese a camminare, mentre i pensieri le tornavano indietro di un anno. Rivide quell’enorme sagoma di metallo affacciarsi sul piazzale, viscido di pioggia. Intorno pochi passanti di corsa, e lungo il viale le panchine in pietra vuote. La sua auto a pochi metri, al centro del parcheggio, con un paio di altre macchine a farle compagnia.
Lei immobile, sotto il temporale, a sollevarsi il bavero della giacca, ipnotizzata da un paesaggio lugubre, che la inquietava e l’attraeva. Il Ponte della Scienza era sprofondato nella nebbia. Non si vedeva la sponda opposta del Tevere, e sembrava un passaggio verso l’ignoto. Magnifico. Poi un tuono le aveva fatto chiudere gli occhi, e quando li aveva riaperti lui era lontano, sempre più piccolo nel bagliore di un lampo. Se n’era andato. Martina lo aveva visto imboccare una stradina buia, che scendeva verso la boscaglia del lungofiume. Ancora sentiva il cuore restringersi al pensiero di lui, solo, divorato dall’oscurità.
Improvvisamente il suono di un messaggio la distrasse dal ricordo. Il led dello smartphone lampeggiava di blu. Il mondo digitale la stava reclamando di nuovo.‘Ricordi il numero della casa…? 25 ... Cosa faresti senza il tuo boss?’. Risatine e altre faccine dal dubbio significato. Il capo le stava addosso. Niente di insolito, ma non sapeva quanto ancora lo avrebbe sopportato. Martina fece un respiro lungo, fissando il civico sul lato opposto della strada. 25, naturalmente. Prima di attraversare diede un’occhiata in giro, per avere una visione d’insieme. Deformazione professionale. Era una viuzza silenziosa, a riparo dai rumori del traffico. Un punto a favore per una casa che dall’esterno non faceva una grande impressione. L’unico portoncino logoro in una fila di quattro ingressi gemelli. Su entrambi i battenti il colore aveva ceduto al tempo, o all’incuria. O ad una combinazione delle due cose. L’azzurro della vernice era solo un ricordo e quel poco che resisteva era screpolato in più punti. Si apriva come una ferita slabbrata. Stessa sorte era toccata all’intonaco del muro. Era sbiadito, e le sue crepe si inseguivano lungo la parete, insieme alle macchie di umidità. Martina scese dal marciapiede. Perdere tempo a fissare l’entrata non avrebbe migliorato le sue condizioni. Si sistemò la pashmina bordeaux che si intonava alle scarpe, e suonò. Chissà che gli interni non fossero più curati. Ottimismo, ci voleva. Poco dopo, lo scatto elettrico della serratura la invitò ad entrare. Quando varcò la soglia sentì i muscoli del volto rilassarsi. Il giardino sprigionava contemporaneamente calma ed energia, in contrasto con i toni cadenti dell’esterno. Il prato era perfettamente rasato. Le piante appena sbocciate ravvivavano gli angoli con petali variopinti.
Un ulivo potato alla perfezione raggiungeva la ringhiera del balcone al primo piano, ombreggiando la facciata in stile liberty. Martina considerò l’esposizione. Era probabile che si affacciasse sul Tevere. Altro punto a favore per la casa. Qualsiasi acquirente avrebbe apprezzato la vista che da lì doveva essere uno spettacolo. E forse era dovuta anche a questo la presenza di un set fotografico montato sul terrazzo.
‘L’astro nascente della fotografia, dicono. In pratica è uno che fissa paesaggi mentre gli altri lavorano’. A Martina tornarono in mente le parole del capo. Quello era il suo concetto di ‘artista’. Invece lei era sempre stata affascinata dal talento di cogliere istanti. Si distrasse a guardare le lampade e gli ombrelli adagiati sui treppiedi, ragionando su luce e inquadrature. E non si accorse di un ostacolo che di lì a poco le sarebbe finito tra i piedi. Né che qualcuno avesse aperto il portoncino d’ingresso. Improvvisamente sentì le gambe incrociarsi, un suono metallico rotolarle nelle orecchie, e la gravità portarla verso il basso, con la sensazione che il vialetto in pietra lavica fosse sempre più vicino. Ma non lo toccò nemmeno. E fu peggio. Cadde tra le braccia di un estraneo. Del cliente a cui avrebbe dovuto dimostrare di essere una professionista impeccabile e con i piedi per terra. L’inizio non era stato dei migliori.
“Si è fatta male, signorina?”. Il tono della voce era solido, come il suo equilibrio. Francesco lo mantenne per tutti e due.
“Grazie a lei no, signor Meyer. Non so come scusarmi”. Martina cercò di ritrovare stabilità. E dignità. Maledisse i tacchi troppo alti. Fortunatamente la scelta era caduta sui pantaloni di lino e non sul vestito. Una gonna avrebbe ucciso la sua autostima ancora di più.
“Mi chiami Francesco, la prego”. Occhi magnetici. Sguardo cupo, ma anche vivace. Una scintilla nascosta nel fondo di un pozzo.
“Con piacere, Francesco. Mi chiami pure Martina”. Si strinsero la mano.
“E comunque sono io a dovermi scusare”. Francesco indicò con un cenno del capo l’oggetto incriminato. Una bacinella rovesciata sul gradino continuava a sgocciolare acqua sul mattonellato.
“Per colpa del mio disordine si è anche bagnata le scarpe”. Si sistemò i riccioli arruffati, che ricaddero subito sulla fronte. Disobbedienti, e scomposti.
“Non si preoccupi”. Martina fece scendere lo sguardo, lentamente. Non aveva avuto ancora il coraggio di valutare il danno. Fissò il cuoio che le sembrò rovinato per sempre, e sentì uno spillo pungerle lo stomaco. Ma cercò di dimenticare quanto si fosse svenata per averle. “Avevano giusto bisogno di una rinfrescata”. Le era parso un tipo alla mano, avrebbe apprezzato un po’ di leggerezza.
“Una fortuna allora, che io le abbia lasciato dell’acqua”. Francesco sghignazzò lisciandosi il pizzetto che, nonostante l’età, iniziava a spruzzarsi di bianco. “Immagino che se le offrissi anche un caffè sarei l’ospite perfetto”. Le fece segno di accomodarsi in casa.
“Un galateo da oscar”. Martina salì i tre scalini con la sensazione di camminare nell’acqua. Forse aveva sottovalutato il problema, ma dovette rassegnarsi. La sera del temporale era andata anche peggio. Chissà perché quel paragone. Di nuovo tornò indietro. Di nuovo pensò a lui. E rivide i fotogrammi in sequenza, come se fosse un film. Lei che lo seguiva per un tratto. Il sentiero scosceso. I rivoli di fango che trascinavano in discesa ciottoli e fogliame. I rami che grondavano, le grida dei gabbiani. Un canneto crollato davanti ai suoi occhi ad ostruirle il passaggio. Lei costretta a tornare indietro. E poi quell’ombra che aveva visto scivolare sul ponte. Qualcuno era arrivato con la bici e si era messo a contemplare il vuoto, dal parapetto. Un cappuccio gli copriva il viso e sembrava impietrito, sotto l’acqua, come se aspettasse qualcosa. O qualcuno. Lei invece il suo “qualcuno” aveva dovuto lasciarlo andare. Strane fatalità. Martina si voltò verso il Tevere che sentiva a due passi, e verso quel pomeriggio sbagliato. Scosse la testa, non c’era tempo per i flashback. Doveva concentrarsi sul presente. Ed entrò, investita da una luce rossastra. Filtrava dalle vetrate che sostituivano per intero la parete ovest dell’ingresso, dove il sole andava a dormire. Martina prese mentalmente i primi appunti. Osservò gli spazi e la loro distribuzione, accompagnata da un tintinnio di stoviglie. Non c’erano divisioni tra living e cucina, e da dove si trovava poteva vedere Francesco sistemare tazzine e zuccheriera sul bancone.
Un open space. Essenziale, sobrio, ma con qualche scintilla di stravaganza. Un telefono a gettoni appeso al muro sembrava dovesse squillare da un momento all’altro. Un pouf a forma di sacco, rosso fuoco, era accasciato lì vicino, nel caso ci si dovesse accomodare per una lunga conversazione, dagli anni 80. Martina era impressionata, curiosava in giro senza muoversi. Guardava soprattutto le fotografie, che condividevano le mensole con decine di libri. Molte, ma non troppe. In bianco e nero, ma non solo. Ritratti di persone, ma anche gatti di strada, o un cavallo sulle rive di un lago. Soggetti comuni ma potenti. Ognuno un mondo a sé, che sembrava poter raccontare una storia. E poi c’erano i paesaggi. Naturali ma soprattutto metropolitani, dove si erano cristallizzate le città. Un taxi di notte, l’insegna storta di una vecchia bottega. Ragazzi seduti a cantare sopra una scalinata, il traffico riflesso nei vetri di un grattacielo. Ma fu una foto a catturare più delle altre l’attenzione di Martina, che sbarrò lo sguardo, e si avvicinò. Al centro dell’inquadratura un ponte dal profilo moderno, rischiarato dalla luce fredda di lampioni semplici, lineari. Vuoto, con un fulmine che sembrava cadergli sopra, e una bicicletta poggiata sulla ringhiera in ferro. Sotto gli scorreva il Tevere. Il respiro di Martina si fermò per qualche attimo. Quel fotogramma era la copia di un suo ricordo. Sentì la propria voce rispondere di sì a Francesco, che le aveva domandato quanto zucchero gradisse. Decise lui che uno andava bene.
“Lusingato che le piaccia questo scatto”. Le porse il caffè guardandola. Il rombo di un aereo coprì le prime parole di Martina, ma Francesco avrebbe scommesso che fosse rapita dall’immagine. La fissava come se volesse saltarci dentro.
“L’ultima volta che sono stata in questo posto era appena scoppiato un temporale. E ho visto una persona, ferma sotto la pioggia”. Aggrottò la fronte. “accanto a questa bici”. Sentì un brivido attraversarle il collo. Le venne in mente l’uomo sul ponte. Alto, incappucciato. Francesco sfiorava forse il metro e novanta. Lo vide passarsi una mano tra i capelli scuri, disordinandoli ancora di più.
“Non posso crederci. Eravamo la mia bike ed io. Mai presa tanta acqua per una foto. Ma è assurdo che ci fossi anche tu”.
La coincidenza lo aveva incoraggiato ad abbandonare il ‘lei’, come se far parte di uno stesso strano disegno li avvicinasse. “Non ti ho proprio vista. C’era soltanto una macchina con i fari accesi che ha rischiato di rovinarmi la luce al momento del fulmine”. Un secondo sorso al caffè e lo finì.
“Eravamo la mia car ed io. Voglio dire, siamo state noi a disturbarti”. Martina lo sentì scoppiare in una risata cristallina. Probabilmente perché lo scatto era venuto magnifico nonostante tutto.
“Sei stata molto tempo ferma in macchina. Non stavi bene?”. Tornando verso il lavello Francesco staccò una fogliolina secca da una pianta. Aveva un sorriso premuroso.
“Ero triste”. Martina si stupì di quanto fosse stato naturale confidarglielo. Era un estraneo, ma in quel momento le sembrò di poter parlare. Nel frattempo era ripiombata nell’abitacolo dell’auto. Il frastuono della grandine sul tettuccio, le mani strette al volante. I minuti interi a chiedersi se avesse fatto bene a tornare indietro, se lui se la sarebbe cavata. “Qualcuno mi aveva lasciata lì per infilarsi in quella specie di bosco”. Indicò la striscia di verde incolto che spiccava nella foto, lungo l’argine. Francesco sgranò gli occhi.
“Un tizio che voleva passeggiare sul Tevere con quel tempo infernale lo avrei lasciato andare di sicuro”. Accese una piantana dalla luce calda. Il tramonto stava stendendo sulla stanza una penombra malinconica.
“Non era un tizio”. Martina portò dietro l’orecchio una ciocca ondulata, del colore del miele. Poi tutto d’un fiato: “era un cane”. Lo rivide come in un film. Lui che guaiva spaventato, lei che lo vedeva in una siepe infangata. Lui che la seguiva sotto la pioggia, lei che gli offriva il suo tramezzino per sfamarlo. Lui che si nascondeva.
“Un cane?”. Francesco si sedette sullo sgabello come se montasse a cavallo.
“Il più bello che io abbia mai visto”. Sentiva ancora il pelo folto del collo, soffice sotto le sue mani.
“Racconta”. I gomiti poggiati sul ripiano, il mento sui palmi e le sopracciglia inarcate.
“Non abbiamo l’happy ending, ti devo avvisare”. Oddio, sembrava il suo capo. Martina alzò gli occhi al cielo, e si sedette di fronte a Francesco, sul lato opposto della penisola con il piano in granito.
Lo vide serrare le mascelle. La sua aria attenta la esortò a proseguire: “Ero da queste parti per lavoro e avevo lasciato la macchina al Gazometro, vicino al ponte. Ma questo lo sai già”. Si sorrisero. “Mi stavo sbrigando a raggiungerla perché era tardi, e per strada c’era molto silenzio. Anche troppo. Però è stato meglio così, altrimenti non avrei sentito il suo affanno, e invece il suo respiro mi ha praticamente portato da lui”. Pausa. Fece scorrere la notifica a tendina di whatsapp. Ennesimo messaggio del capo. Martina continuò senza rispondere. “E l’ho visto. Era impigliato in una rete, e quando mi sono avvicinata ha iniziato ad agitarsi ancora di più. Ci ho messo una vita a calmarlo, ma alla fine ci sono riuscita e l’ho liberato”. Si guardò il dorso delle mani, d’istinto. Erano state piene di graffi per giorni, ma non erano stati quelli a farle male. Cercò un’immagine più allegra. “Dovevi vederlo dopo. Ha cominciato a saltarmi intorno anche se era esausto. E ha camminato vicino a me, anche quando ha cominciato a piovere forte. Io volevo portarlo alla macchina per asciugarlo”. Fissò il vetro. Sul lato opposto le fronde del glicine fiorito dondolavano in balia di un vento leggero, di primavera. Mentre quella sera tagliava il viso. Era gelido. A lei era sembrato addirittura crudele. “Ma non ho potuto”. Si lasciò andare ad un lungo sospiro. Nella stanza regnava un silenzio assoluto. Francesco si tormentava il labbro. “Perché? Cosa è successo?”. Il fischio di un treno attraversò le finestre semichiuse. Nella mente di Martina si materializzò una stazione della metro, le vie desolate intorno, i cartelloni strappati di vecchie pubblicità, e lui da solo, in cerca di cibo tra cestini e aiuole sporche. Chissà dove era finito. Se lo chiedeva da un anno.
“Camminavamo vicini, ed è esploso un tuono che ha spaccato il cielo. Un attimo dopo era corso via.
L’ho visto infilarsi nel sentiero che scendeva verso il Tevere”. Martina deglutì. Sentiva ancora il freddo addosso. “L’ho anche seguito, ma sarebbe stata una follia con quell’acquazzone”. Se lo era ripetuto un milione di volte.
“Quindi lui è sparito all’altezza del nostro ponte?”. Francesco ebbe un momento di esitazione ascoltandosi. La velocità con cui avevano già qualcosa da condividere era sorprendente. Che fosse addirittura un ponte lo divertiva.
Martina annuì.“Volatilizzato. Poi sono tornata alla macchina, ti ho quasi rovinato la foto, e siamo andati via. Il mio senso di colpa ed io, intendo”. Continuò a giocherellare con il manico della tazzina vuota. Francesco si alzò di scatto. “Sulla foto il caso è chiuso”. Gli affiorò un sorriso obliquo. Lo sguardo lontano e i pensieri che gli viaggiavano veloci, in più di una direzione.
“E lui?”. La domanda in realtà non era rivolta a Francesco, che invece afferrò le chiavi di casa e la fissò. “Vieni con me”. E aprì la porta.
Lo sfondo dietro ai palazzi ormai si era tinto di blu. Tra le vie echeggiava il passo svelto di chi tornava dal lavoro, e anche il rumore di qualche saracinesca che si abbassava. Martina e Francesco camminavano fianco a fianco, quasi senza parlare. Lui seguiva l’intuito, lei si fidava senza sapere perché. Quando svoltarono l’angolo l’altezza scintillante del Gazometro li fece quasi vacillare. Il piazzale ormai si era svuotato di macchine, e lo spazio era degli skaters. Sfruttando i dislivelli dei marciapiedi scivolavano avanti e indietro dal ponte. Quel ponte.
“Siamo dentro la tua foto”. Martina si guardava intorno, aggrappandosi al manico della borsa che teneva a tracolla, come se si aspettasse un altro temporale, un altro tuono, un altro addio.
“Ma abbiamo un dettaglio in più”. Francesco portò alla bocca il pollice e l’indice della mano sinistra, e poggiandoli sulle labbra emise un fischio intenso, spezzato in due suoni, come quelli dei pastori. Il vociare di alcuni ragazzi poggiati sui loro motorini si interruppe per qualche attimo. Un runner rallentò a prendere fiato. Si voltarono tutti verso Francesco, tranne Martina. Lei fissava un punto davanti a sé. Il battito che correva. La luna si era già molto sollevata sulla linea dell’orizzonte, e sembrava si dondolasse sul Tevere. Un chiarore argentato irradiava gli edifici dismessi, affacciati sugli argini. E luccicava sulle increspature dell’acqua.
Dal buio del viottolo che veniva in su dalla sponda sbucò una sagoma snella. Scrollò ripetutamente il manto, come se volesse togliersi di dosso il sonno. E si lanciò al galoppo. Le orecchie oscillavano al vento, la coda folta restava dritta. Martina sentì il cuore gonfiarsi come una spugna zuppa di emozioni, e sgranò lo sguardo. Poi si abbassò spalancando le braccia. Qualche istante dopo un groviglio di zampe, di pelo e di respiri concitati la stava spingendo indietro. Un’esplosione di vita.
“Come hai fatto a capire che era proprio lui?”. La voce di Martina era un misto di affanno, di gioia e di sorpresa. Sentì il cellulare vibrarle in tasca, ma lo ignorò.
“Vengo qui quasi tutte le sere, al tramonto. Lui arriva e si mette lì, dove mi hai detto di averlo perso di vista”. Francesco indicò un punto vago vicino al ponte. Un’erbetta appena nata si piegava sotto il peso dell’umidità.
“Ho provato anche a farmi seguire, ma non c’è stato verso. Lui aspetta sempre qualcuno”. Sorrise e si piegò sulle ginocchia. Lo carezzò arruffandogli il pelo rossiccio, più lungo intorno al collo. Il cane si sedette, con l’aria attenta, più interessato a loro che a qualche odore nuovo da rincorrere.
“Credi che venga qui per me?”. Martina lo grattò sotto alla gola e poi si alzò in piedi, controllando il messaggio. ‘Hai dimenticato di aggiornarmi? Mi stai ghostando?’. Fantasmino, risata. Ci voleva una soluzione drastica.
“Mettiamo alla prova questo ragazzaccio”. Francesco si allontanò di qualche passo e si mise in posizione di sfida, con le braccia ad anfora. Un ciclista si fermò per sistemarsi meglio il casco. Un’occhiata ai palazzi immersi nella sera, alle finestre accese. Poi ripartì. Martina lo vide perdersi nell’oscurità mentre i suoi pensieri riprendevano luce. Fine dei dubbi. Fissò il cagnolino, che subito le restituì lo sguardo. Sembrava calmo, come se sapesse. I suoi occhi le ricordavano la sabbia del deserto. Stesse tonalità, stesso calore. Martina scrisse velocemente al capo. ‘Allerta spoiler: da domani ferie arretrate’. Nessuna faccina, e inviò. Poi iniziò a camminare, spalle al ponte.
“Vieni, Bridge”. Aveva bisogno di un nome per iniziare la sua nuova vita. Lui la seguì come se lo avesse sempre fatto. Si ritrovarono fianco a fianco, di nuovo. Francesco non smetteva di fotografarli. Con lo smartphone e con un’esposizione orribile, ma non gli sarebbe capitato chissà quante altre volte di fermare in uno scatto la potenza del destino.