Brandon Breen
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > Orti dei Dogi - narrativa
Nato negli USA ma con il cuore veneto, Brandon Michael Cleverly Breen, laureato all’Università di Padova, è dottorando al terzo anno del corso di Studi filologico-letterari e storico-culturali presso l’Università di Cagliari.
Il suo progetto di ricerca si focalizza sulla letteratura contemporanea della diaspora etiope, con un focus particolare su: immigrazione, identità, colonialità e trauma storico. Da sempre appassionato della lettera e della scrittura, nel 2022 è stato tra i vincitori del concorso DiMMi di Storie Migranti con il racconto autobiografico “Cronache di un padovano insolito”, che uscirà in un’antologia curata da Terre di Mezzo editore nel settembre 2023.
Orti dei Dogi
-Narrativa-
La banshee di Dorsoduro
Prologo
La prima settimana morì la prima persona ma nessuno sapeva che sarebbe stata la prima di una serie.
La seconda settimana morì la seconda persona e nessuno batté ciglio.
La terza settimana morì la terza persona e allora apparvero voci, suggestioni, tutte le possibilità immaginabili. Che cosa stava succedendo?
La quarta settimana
Se non si è mai stati a Venezia, forse non si sa che è una città nebbiosa. Oppure lo si può immaginare essendo una città lagunare. A parte i giorni estivi assolati quando la città è piena di turisti che seguono ombrelli puntati in alto come se fossero la stella divina, la città è spesso coperta di una nebbia fitta. Nelle notti invernali al passante solitario sembra che ci sia immerso in un altro mondo, in un aldilà non necessariamente benevolente. Infatti, fu proprio nelle sere di novembre che cominciò a circolare la voce che nei canali ci fosse uno spirito maligno. Di donna.
Nella mitologia irlandese esiste la figura della banshee. Prende la forma di una donna addolorata e piangente, coperta da un velo, e si nasconde vicino ai fiumi o alle colline. Non si rivela mai agli uomini se non per motivi di vita o di morte. Gli strilli della banshee sono degli avvertimenti: presto qualcuno a cui tieni morirà. Il mito va più o meno così, ma è solo naturale che alcuni aspetti cambino quando le storie di un popolo attraversano mari e frontiere invisibili inventate dagli uomini per raggiungere un altro luogo, un altro popolo, un’altra cultura. Forse è per questo, la trasformazione naturale delle leggende popolari quando passano da bocca a bocca, che le voci che giravano a Venezia dicevano che la loro banshee uccideva gli esseri umani lei stessa. Non annunciava la morte di un caro ma la morte della persona stessa che la vedeva. Emergeva dalla nebbia sopra i canali per trascinare giù nell’acqua le sue vittime.
Evelyn sentì queste storie ad un pub irlandese, naturalmente, anche se aveva già una vaga idea di cosa fosse la creatura. Sul bancone c’era una copia del Messaggero di quel giorno, tutto piegato e ripiegato in mille modi diversi grazie alle tante mani che l’avevano toccato. La storia di copertina raccontava del terzo corpo annegato trovato in un canale del sestiere Dorsoduro in meno di un mese. Il bar era popolato di irlandesi e italiani emozionati e leggermente ubriachi, una brutta combinazione per chi apprezzava il silenzio e la calma. Ma a Evelyn piaceva un po’ di vivacità.
“Tosi, vi giuro che ho sentito gli strilli stanotte con le mie stesse orecchie.”
“Ma va! Ti sarai addormentato guardando un vecchio film di Hitchcock.”
“Ma no, datemi retta. Giuro sulla tomba di mia madre—”
“Ma tua madre è viva!”
“che gli horror non mi fanno così tanta paura. Giuro! Quegli strilli che ho sentito mi hanno congelato il cuore.”
“Sarà stata la povera ragazza che è caduta nel canale.”
“No, no. Impossibile. Non erano grida umane ma strilli da bestia. Da bestia ferita.”
“Forse era una banshee.”
Tutte le teste al pub si girarono per trovare il corpo dal quale proveniva quella frase. Quel corpo apparteneva a un ragazzo che Evelyn non aveva mai visto prima, il che era strano siccome era una cliente abituale del pub. Ma riconobbe l’accento veneziano, quindi il ragazzo era del posto. Ancora più strano perché sembrava che avesse la stessa età di lei, forse qualche anno in meno, ma non l’aveva mai visto in vita sua. Sicuramente si sarebbe ricordata di un ragazzone con lunghi capelli rossi e una faccia piena di efelidi. Non sembrava il tipico ragazzo veneziano.
Nemmeno Evelyn, con la sua pelle scura, agli occhi degli altri sembrava la tipica ragazza veneziana, anche se lo era – eccome. Di solito le bastavano due frasi dette di fretta in un dialetto stretto stretto con in mezzo una bestemmia per troncare qualsiasi dubbio nascente che non fosse veneziana doc. Proprio per questo motivo ogni tanto dopo lavoro si fermava a Mohaney’s, il pub irlandese in Campo Santa Margherita: i baristi là li aveva già addestrati. Caricavano i drink forse un po’ troppo, ma era così che piacevano a Evelyn e non la guardavano mai con uno sguardo sospetto se beveva tre shot di fila dopo una giornata lavorativa difficile. Erano irlandesi, dopotutto.
“Vuoi spiegarci cosa sia una banshee?” A parlare fu Marco, l’uomo che giurò di aver sentito gli strilli.
“È uno spirito che prende la forma di una donna. Si riconosce facilmente dagli strilli, sono proprio come dicevi tu. Inumani. Quando appare vuol dire che qualcuno sta per morire.”
“È un mito irlandese,” aggiunse Evelyn.
“Esatto,” rispose il rosso con un cenno del mento a Evelyn.
“Forse hai ragione ed è stata una banshee ad ammazzare questa ragazza,” disse Marco.
Il vociare diventò ancora più forte. Tutti i vecchi al pub cercavano ora di modellare il mito secondo quello che ognuno di punto in bianco si ricordò delle tre morti. Evelyn non fece più caso alle parole, si confondevano in un piacevole rumore di sottofondo che la aiutò a dimenticare lo stress residuo dal lavoro.
“Tommy,” fece un cenno della mano al barista, “fammene un altro.” Scosse il bicchiere vuoto che già troppi minuti fa conteneva uno spritz Select. “Bello carico. Grazie!”
“Te lo offro io” disse il rosso, avvicinandosi a Evelyn.
“Senti, toso,” alzò gli occhi al cielo, “come xé che te ciami?”
“Oisín.”
“Senti…come?”
“Oisín. Oh-scìn.”
“Senti, Oisín, il mio cuore appartiene al micio che mi aspetta a casa. Sarebbe un tentativo inutile da parte tua.”
“Mi piacciono le cose inutili.”
“A me no.”
“Dai, te lo offro, fammi compagnia che faccio un altro giro pure io.”
“Ti concederò due chiacchiere ma il mio spritz lo pago io. Non voglio che tu ti faccia idee strane.”
Oisín alzò le mani in segno di arresa. “D’accordo, d’accordo.”
“Come mai non ti ho mai visto da queste parti?”
“Perché sono cresciuto a Dublino. Madre irlandese, padre veneziano. Mi sono appena trasferito qui dopo la laurea. E te? Qual è la tua storia?”
“Non sono affari tuoi.”
Oisín non riuscì a trattenere il sorriso.
***
Haijee era una turista sudcoreana che si trovava a Venezia con le sue amiche quel fine settimana. Avevano deciso di fare un giro dell’Europa tutte insieme e avevano scelto di andare in autunno perché i biglietti erano più economici. Ma forse avevano sbagliato. Haijee non era abituata al freddo né alla nebbia e quella sera aveva persino dimenticato di mettersi le lenti e aveva lasciato gli occhiali in albergo. Non riusciva a vedere nulla, solo una nuvola di bianco. Questo le creava un fastidio enorme poiché cercava la via per tornare all’albergo ma non distingueva la destra dalla sinistra, l’alto dal basso.
Mormorò sottovoce alcuni insulti in coreano rivolti alle sue amiche. Almeno una poteva riaccompagnarla all’hotel per prendere gli occhiali. Invece appena arrivarono al bar si trovarono davanti un gruppo di americani di una bellezza incomprensibile con quel loro accento così dolce e divertente. Quando Haijee si accorse di non avere gli occhiali in borsa, disse alle amiche che sarebbe tornata in hotel velocemente per riprenderseli. Quasi quasi non si resero conto neanche che avesse parlato. Vai, vai, Haijee, ti aspetteremo qui, tanto la strada la sai.
Tanto la strada la so, ripeté Haijee a se stessa. L’avevano fatta soltanto due volte, una volta al sole quella mattina e la seconda volta dieci minuti fa. Però prima non c’era tutta questa nebbia. Come aveva fatto ad invadere tutte le calli in così poco tempo?
Ormai Haijee camminava da cinque minuti, doveva trovarsi già davanti all’albergo, invece non vedeva nulla. Solo palazzi bui con le tapparelle chiuse e le saracinesche abbassate. La città sembrava morta. Di sicuro aveva sbagliato e aveva svoltato a destra quando invece doveva svoltare a sinistra, o viceversa. Provò a guardarsi attorno, ma la sua vista era troppo sfuocata e la luce che emanavano i lampioni era praticamente inesistente, la nebbia la sopprimeva come un assassino che soffoca la vittima con un cuscino.
Adesso Haijee si stava spaventando da sola. Non era successo niente eppure le saliva nella gola un senso di inquietudine e d’urgenza. Doveva trovare la strada giusta o per tornare all’albero oppure per tornare al bar e stare con le amiche lo stesso, anche se doveva passare la notte da cieca.
Si girò sui tacchi e tornò da dove era venuta. O da dove pensava di essere venuta. Non c’era anima viva a cui poteva chiedere indicazioni e al momento ne era anche contenta. Non voleva trovarsi da sola in un paese straniero con uno sconosciuto in una sera buia e nebbiosa quando doveva strizzare gli occhi per vedere solo un millimetro davanti.
Ma, improvvisamente, un po’ di grazia. Arrivò una brezza che spazzò via la maggior parte della nebbia. Finalmente poteva distinguere le forme delle calli e si accorse che stava camminando troppo vicino al canale. Si spostò vero il centro della calle e quando rialzò la testa vide che le stava venendo incontro una persona. Si disse che se fosse stato un uomo avrebbe abbassata la testa e avrebbe fatto finta di niente, continuando avanti. Se invece fosse stata un’altra donna, le avrebbe chiesto indicazioni. Quando la distanza tra le due persone diminuì di venti metri, Haijee vide con sollievo che era una donna. E non era vestita da serata in tacchi e minigonna come Haijee che aveva anche freddo, ma era avvolto in una sciarpa. Furba, era una del posto. Haijee sperò che parlasse inglese.
Non era abbastanza vicina per vedere la faccia, ma Haijee decise di rompere il silenzio.
“Excuse me,” esordiò, “Hotel NH?”
La donna non le rispose. Forse non l’aveva sentita? Haijee ripeté la domanda, alzando la voce. Adesso era impossibile che la donna non l’avesse sentita, eppure non desse segno di aver intenzione di rispondere. Le separavano ormai dieci metri e Haijee non poteva scorgere i tratti del volto. Era perché Haijee già non aveva gli occhiali o perché la sciarpa enorme gettava un’ombra scura sopra la faccia?
La donna sembrò intenzionata a continuare il suo percorso che era direttamente in linea con il percorso che seguiva Haijee. Quest’ultima decise di spostarsi ancora di più a destra, più vicino al canale come prima, perché non aveva più voglia di avere niente a che fare con questa donna strana e maleducata che non aveva voluto nemmeno risponderle per dirle no, non ti so indirizzare, buona sera.
Qualcosa cambiò nell’aria e Haijee aveva già le mani sulle orecchie a coprirle prima ancora di udire gli strilli. Da iena che seguiva una preda ferita e morente. Da cane investito da un’automobile. Da mille neonati che piangevano in continuazione. Concentrata com’era a proteggere le orecchie da quel suono demoniaco, mise male il piede e l’appoggiò sul marmo che funzionava come la linea gialla nelle stazioni ferroviarie. Era l’avvertimento che eri troppo vicino al canale. Tirati indietro!
Haijee però non aveva la scelta di tirarsi indietro. Appena con il tacco alto toccò il marmo, scivolò, perse l’equilibrio e non seppe più nulla. Né dove si trovasse, né chi fosse, né cosa fosse quella figura velata che la guardava dall’alto, né perché non entrasse nei suoi polmoni l’ossigeno a cui era abituata bensì una sostanza più pesante. Né perché la gravità sembrasse funzionare al contrario e invece di tenerla sui due piedi, la trascinava giù, giù, giù.
La quinta settimana
Era passata una settimana dall’ultima volta che Evelyn era entrata in Mohaney’s. Oggi aveva deciso di andarci dopo lavoro, non perché era stata una giornata particolarmente stressante ma perché aveva visto i giornali all’edicola quella mattina e annunciavano la quarta morte. Stavolta era una ragazza sudcoreana, giovane. Poverina. Evelyn voleva sentire cosa ne pensassero i vecchi del bar. Dopo la storia della banshee chi sapeva cosa si sarebbero inventati oggi?
Quando entrò, notò subito due cose. Una, che i vecchi litigavano di già e due, che c’era di nuovo quel bel ragazzo rossiccio, Oisín. In effetti, a sua volta lui notò che Evelyn era entrata e si avvicinò al punto in cui lei aspettava davanti al bancone.
“Sai che nel deserto passa un cammello ogni trenta minuti?”
“E allora?”
“Due.”
“Che razza di imbecille…”
“Guarda, hai riso e quindi devi farti offrire lo spritz stavolta per forza.”
“Vabbuon, mi arrendo.”
“Due spritz Select,” chiese Oisín al barista.
“Bravo che ti sei ricordato,” si complimentò Evelyn.
“Non mi hai detto come ti chiami e quindi ti ho assegnato il nome ‘ragazza dello spritz Select’.”
“Sono Evelyn, piacere.”
“Che bel nome. E cosa fai, Evelyn?”
“Davvero non puoi fare di meglio?”
“Caspita, devo pur sapere qualcosina su di te per capire chi sei e cosa ti piace. Abbiamo già capito che i comici non fanno per te.”
“Sono le freddure che non fanno per me. Grazie, Tommy,” disse poi quando il barista lasciò gli spritz sul bancone. “Comunque lavoro a Ca’ Foscari nell’ufficio degli studenti internazionali.”
“Perfetto, pure io sono internazionale e mi puoi fare il tour della città.”
“Ma non sei veneziano?”
“Sì, ma non vengo a Venezia da alcuni anni. Sono sicuro che conosci qualche bacaro carino dove non sono mai stato.”
“Cin, cin,” disse Evelyn, alzando il bicchiere. Fecero entrambi un sorso e nella pausa nella loro conversazione, irruppero le voci dei vecchi.
“C’è scritto proprio qui!” urlò Marco, tenendo il giornale in alto e puntando il dito a una frase. “Sebbene non ci fosse nessun testimone della disgrazia, alcuni abitanti della zona confermano di aver sentito gli strilli della ragazza ma li hanno confusi per l’abbaiare di un cane. Vedete? Dicono strilli! Non urla, non grida. Strilli d’animale. È una banshee, ve lo dico.”
“Hai bevuto troppo, scemo,” disse un altro, Gianluca. “E ti lasci confondere dalle favole di ’sto toso rosso.” Puntò un dito a Oisín.
“Ehi!” Oisín appoggiò il bicchiere e alzò le mani in segno di protesta. “Siamo ad un pub irlandese e vi stavo semplicemente raccontando di una leggenda della mia gente. Poi,” abbassò la voce in tono cospiratorio e avvicinò la testa al tavolo dei vecchi in un gesto che Evelyn pensò fosse dannatamente attraente, “non è vero che in tutti i quattro casi dell’ultimo mese qualcuno ha sentito degli strilli? Pensate voi…”
“Tommy, non dare più niente da bere a questi due qui!” ordinò Gianluca.
“Finché sono clienti che pagano non ti do retta.”
“Siamo messi davvero male se Evelyn è la più sobria di tutti!”
“Ehi, ocio, Gianluca, o non ti porterò più gli avanzi del tiramisù fatto da mia madre.”
“Non dirmi che anche tu ci credi alla storia della banshee!”
Le voci si alzarono in una cacofonia incomprensibile e Evelyn non poteva più distinguere la sua da quelle di Oisín, Marco, Tommy, Gianluca e gli altri clienti. Lei preferiva il pub quando era così. Non doveva pensare. Poteva fingere di trovarsi in mezzo alla campagna irlandese con tutto questo parlare di banshee e poteva ammirare i begli occhi verdi di Oisín senza che lui dovesse provarci con le battute stupide.
Rimase lì fino a notte fonda, quando fuori dal pub c’era un buio totale, una luna praticamente assente e una nebbia che invase la città e si proclamò capo del nuovo regno di Venezia.
***
Evelyn ricordava la faccia di suo padre soltanto grazie alle foto che la mamma teneva in un album sullo scaffale in alto dell’unica libreria in casa. Lo sfogliavano insieme ogni anniversario della sua morte. Non ricordava come fosse l’espressione di suo padre quando la teneva in braccio, quando la svegliava di mattina, quando le preparava la colazione americana. Dovette ricostruire le memorie usando le foto. Rubò il suo sorriso dalla foto che la mamma gli aveva scattato con il Ponte dei Sospiri in sottofondo e lo incollò in una scena immaginata, con lei bambina tesa in un suo abbraccio. Scippò la sua espressione distratta dalla foto in cui guardava fuori dal vaporetto alla laguna per copiarla e incollarla in una memoria in cui lui si stancava di guardarla correre in campo con gli altri bambini del sestiere. Era l’unico modo che Evelyn aveva di tenere insieme quei pezzi di vita che loro due avevano passato insieme. Pezzi brevi, brevissimi. Tre anni sono pochi, troppo pochi.
E ogni anno quando lei e la mamma spolveravano quell’album e lo riaprivano, la mamma le raccontava di nuovo le stesse storie dell’anno precedente – delle quali Evelyn sapeva ormai ogni parola a memoria ma non poteva mai stancarsi di risentirle. Allora Evelyn prendeva i tratti del padre e li riconfigurava nelle sue memorie da bambina. Altrimenti non avrebbe avuto nulla a conferma che lei e suo padre erano stati effettivamente vivi contemporaneamente, due anime accese per tre anni. Prima che quella più vecchia si spegnesse.
Come aveva fatto il suo cervello a cancellare le memorie del padre quando ogni giorno portava il segno più evidente che fosse sua figlia sulla propria pelle?
A volte, però, senza volerlo, la faccia di suo padre tornava nei suoi sogni, nei suoi incubi.
Era impossibile. Anche queste memorie erano delle menzogne. Evelyn non c’era quando suo padre morì. Stava dormendo tranquillamente a casa con la mamma che si stava facendo un caffè in cucina quando accadde. Era impossibile perché Evelyn non vide suo padre in mezzo al canale, non vide mai la sua faccia straniata e piena di terrore, non vide le braccia volare in mille direzioni senza un’idea precisa di come tenere il corpo a galla. Lei non rimase ferma lì sul ponte e nelle vie a ridere dell’uomo buffo che non riusciva a nuotare. Lei non assunse un’espressione impassibile per continuare dritto senza badare all’uomo in pericolo. Lei non tirò fuori la macchinetta fotografica per scattare un’istantanea. Non vide gli occhi rossi e tremendi che implorarono aiuto mentre le labbra si aprivano per permettergli di prendere l’ultima boccata d’aria della sua vita. Non si trovò sulla gondola con il gondoliere che distinse in lontananza un uomo che lottava contro l’acqua lurida del canale. Non sentì le grida imploranti d’aiuto del gondoliere ai passanti, agli spettatori, di tuffarsi e salvarlo. Non arrivò troppo tardi sul punto in cui suo padre era svanito, non fu lei a buttarsi lo stesso sott’acqua nel vano tentativo di rimediare agli errori degli altri che aspettarono mentre un uomo annegava. Non vide l’espressione smarrita del cadavere che tirarono fuori dal canale e non l’avrebbe mai vista, nemmeno quando il corpo fu consegnato alla famiglia. Nemmeno al funerale. Sua madre gliel’aveva proibito. C’erano certe cose che una bambina di tre anni non doveva mai vedere.
E nonostante tutto, l’impossibile avveniva. Evelyn viveva quella scena negli incubi e vedeva il corpo privo di vita di suo padre, gli occhi sgranati, l’acqua che ancora usciva dalla bocca a causa dei polmoni pieni. Nell’incubo Evelyn voleva tuffarsi. Voleva salire sul corrimano del ponte e buttarsi in acqua. Lei sì che sapeva nuotare, al contrario di suo padre. Ma ogni volta che cercava di alzarsi, si ritrovava allacciata al passeggino. Aveva di nuovo tre anni, non sapeva nuotare, e non poteva fare nulla per salvare l’uomo che le desse il nome. Evelyn.
E allora si metteva a gridare, a urlare, a implorare. Salvatelo! Buttatevi! Fate qualcosa! Il gondoliere arriverà troppo tardi! Muovetevi! E ogni volta doveva guardare mentre la gente rimaneva indifferente, o peggio, divertita, e lasciava che un uomo nero morisse in pieno giorno in uno dei tanti canali di Venezia senza fare niente.
Si svegliava di soprassalto, sudata. Passava una settimana, un mese, un anno. Quando pensava finalmente di essersi liberata dell’incubo, allora tornava. Era questa la maledizione di Evelyn.
***
In parte, Marco parlava così animatamente della banshee al pub per rendere vivaci i discorsi. In parte, ci credeva. Soltanto un po’. Come quella sera. Aveva bevuto una Guinness di troppo e stava tornando alla barca che ormeggiava nel canale vicino a Campo San Barnaba. Dopo aver lasciato Mohaney’s, si trovò in un Campo Santa Margherita completamente vuoto, senza segno di vita. La foschia girava attorno alla sua testa e alle sue caviglie, sussurrava frasi incomprensibili nelle sue orecchie e gli faceva il solletico alla nuca. Deglutì e assaporò bile e inquietudine.
Hai bevuto troppo, si disse, vai alla barca e torna a casa. Non c’è niente che ti possa fare del male. È Venezia per carità! Dove non succede mai nulla.
Gli stava venendo la pelle d’oca e sperò che fosse per la freschezza dell’aria. Che avesse paura era impensabile. Conosceva le calli, i campi e i canali di Venezia come nessun altro. Aveva sessant’anni e passa e non aveva mai vissuto in un’altra città. Non sapeva nemmeno guidare la macchina. L’unica patente che aveva era per la barca. Poteva dunque trovare la via anche ad occhi chiusi, che era più o meno quello che stava facendo. La nebbia era talmente fitta che faceva fatica a camminare, lo rallentava come fosse un ostacolo fisico. Se qualcuno l’avesse visto in quel momento in cui attraversava il campo, si sarebbe fatto due risate alla vista di un vecchio ubriaco che zoppicava e tastava l’aria con le braccia tese in avanti, come un cieco. Lui però non aveva niente da ridere.
Perché non aveva chiesto a uno dei suoi amici di accompagnarlo fino alla barca? Beh, perché, in passato non ce n’era mai stato bisogno. Fu allora che Marco ammise a se stesso di avere paura. Era vero, succedeva ogni anno che qualcuno cadeva nel canale e moriva annegato. Ma in una città sull’acqua che vedeva più di cinquanta milioni di turisti annui, era un’eventualità inevitabile. Non c’erano mai stati così tanti morti in così poco tempo, però. E di solito c’erano sempre testimoni. Amici altrettanto ubriachi, autisti dei taxi, qualcuno, qualcosa. Non c’erano mai stati rapporti di strilli, sì strilli, che provenivano dall’aldilà dove le anime non si riposavano bensì tornavano per portare l’inferno sulla terra.
Aveva semplicemente bevuto troppo. Ecco qua la spiegazione. Non stava ragionando come una persona sana ma come una persona indebitata all’alcol. Soltanto una settimana fa non sapeva cosa fosse una banshee. Una cavolata alla fine. Una storia per i bimbi irlandesi. Infatti fu proprio quel tipo italo-irlandese a raccontargli la storia. Che personaggio strano. Era come se fosse apparso dal nulla, come se fosse piombato a Venezia così, per caso, per incitare paura nei poveri creduloni come Marco.
Io non ho paura, si disse, facendo un gran respiro. Andò avanti, attraversando il ponte che lo portò in Campo San Barnaba. A sinistra c’era la chiesa, ma non riusciva a scorgere il duomo, il cielo era completamente nero e la foschia regnava su tutto. Grazie alla poca illuminazione pubblica che si trovava quaggiù nel reame degli esseri umani, riusciva solo a vedere la parte bassa della facciata della chiesa. Sui due scalini che conducevano alle porte c’era una donna che pregava. Una donna, Marco ne era sicuro, perché aveva i capelli lunghi. Ma così tardi? Da sola? D’inverno poi?
Marco non si rese conto che aveva smesso di camminare e che stava fissando la donna che si alzò in quel momento dai gradini. Tirava un po’ di vento e adesso che la signora era in piedi, Marco capì che non erano capelli, era un lungo velo che svolazzava nella brezza. Un brivido gli corse giù per la schiena. Cos’aveva detto l’italo-irlandese? Che la banshee si copriva con una sciarpa, un mantello, qualcosa del genere?
I suoi piedi erano inchiodati a terra. La donna cominciò ad avvicinarsi a Marco con un passo inesorabilmente lento, ma deciso. Veniva da lui.
“Buonasera,” Marco provò a chiamare, ma gli tremava la voce. Si schiarì la gola e riprovò. “Buonasera. Sta bene, signora? Tutto a posto? È tardi.”
Non gli rispose. Era un sudore freddo quello che Marco aveva sulla fronte o era solo l’umidità?
Lo spazio che separava l’uno dall’altra era sempre meno. Marco guardò in basso e notò che la donna aveva delle scarpe strane ai piedi. No, aspetta, non erano scarpe. Erano proprio i suoi piedi! Che non erano piedi affatto ma grossi artigli, da bestia, da falcone. Non era un essere umano. Ormai la donna era talmente vicina che, nonostante la nebbia, Marco sarebbe riuscito a vederla in faccia, se non fosse stato per quella maledetta sciarpa che gettava un’ombra sulla fronte, sugli occhi, sulle guance. L’unico tratto che distinse fu la bocca che si aprì e Marco vide non i denti normali che si aspettava ma delle zanne affilate, storte, sporche.
In quel momento ritrovò finalmente la forza nelle gambe e scappò via, in una direzione qualsiasi, non importava, non si ricordava nemmeno più che cercava la barca. Aveva ritrovato una forza che non aveva da più di quarant’anni. Scappava e sentiva soltanto due cose. Il proprio respiro affannato da uomo che non faceva attività fisica da anni e gli strilli di quella creatura mostruosa che lo perseguitavano.
***
“Che cavolo ci fai qui?” Evelyn era alla scrivania che controllava la cartella di un nuovo studente e quando alzò la testa perché aveva sentito la porta scricchiolare, vide che era entrato Oisín con in una mano un vassoio da pasticceria coperta di carta.
“Niente, ero nei dintorni, mi sono fermato a Tonolo e ho pensato che sarebbe stato bello avere qualcuno con cui condividere i pasticcini. Quale vuoi?” Lo disse togliendo la carta dal vassoio, scoperchiando biscottini e bignè.
“Ma come sapevi dove lavoro?”
“Me l’hai detto tu che lavoravi all’ufficio di studenti internazionali e guarda caso era vicino a dove già mi trovavo io. Ma se non ne vuoi uno, li porto a casa.”
Oisín mise una mano tra i capelli rossi scompigliati, cercando di dargli un ordine in attesa della risposta di Evelyn. Dannazione, ma perché lo trovava così bello?
“Vabbuon, resta pure. Aspetta che finisco con questa cartella poi stacco. E dammi un bignè con il cioccolato sopra.”
Oisín masticò in silenzio un biscottino mentre Evelyn finiva di controllare gli ultimi dettagli del nuovo arrivato. Era un periodo strano in cui venire a Venezia, soprattutto per uno straniero. Tutti e quattro i morti dell’ultimo mese erano persone straniere, turiste. Forse queste notizie non avevano raggiunto i popoli lontani ed Evelyn ci pensava soltanto perché si trovava in mezzo a tutto. Chiuse la bocca ma i denti toccarono solo aria, aveva già fatto l’ultimo morso del bignè senza accorgersene. Bene, era ora di mettere via tutto e di andarsene.
“Ho finito,” disse a Oisín.
“Che ti va di fare?”
“Facciamo l’aperitivo a Mohaney’s? Ho bisogno di bere.”
“Agli ordini.”
Quando entrarono al pub c’era già in corso una discussione accesa. Marco il vecchio era lì che gesticolava fuori controllo e tutti gli altri lo fissavano con rapita attenzione. Lui si voltò quando la porta si aprì. Video Oisín e Evelyn e di punto in bianco troncò il suo discorso a metà. Gli occhi gli si accesero.
“Tu!” urlò Marco, puntando il dito contro Oisín. “Tutto questo è cominciato con te. Nessuno ti ha mai visto prima, arrivi qui e parli delle banshee proprio nel momento in cui abbiamo una banshee che infesta questo sestiere. Non so come, non so cosa fai, ma c’entri con questa storia. Io lo so!”
“Dai, Marco, datti una calmata. È solo un ragazzo.”
“Ehi, ehi, ma di cosa stai parlando?” provò a difendersi Oisín.
“Marco ha avuto un incontro con la ‘banshee’ ieri sera,” spiegò Tommy, il barista, facendo il segno delle virgolette con le dita.
“L’hai vista?” Evelyn era incredula.
“Con i miei stessi occhi! In Campo San Barnaba! Sono corso via prima che potesse ammazzarmi.”
“Ti ho detto,” disse Gianluca, “avrai visto un’anguana.”
“No, no, le anguane non sono a Venezia, ma nel Vicentino.”
“E le banshee sono in Irlanda.”
“Ma questa aveva artigli invece di piedi!”
“Saranno stati degli zoccoli o delle zampe. A volte le anguane hanno quelle al posto dei piedi.”
Oisín rise e si intromise nella discussione. “Neanche le banshee hanno artigli ai piedi. Dai, mi dispiace se vi ho spaventati, volevo solo raccontare una storia divertente.”
“Ci stiamo dimenticando una cosa importante, però,” disse Evelyn.
“Cioè?” rispose Marco.
“Che le banshee non esistono.”
“E allora come spieghi il mostro che ha provato ad attaccarmi ieri sera?”
“Non lo so, sarà stata una pazza, ma una banshee no.”
“È stata una banshee e tu!” Marco guardò Oisín con gli occhi pieni di odio. “Tu ne sai qualcosa. Io non resto qui finché ghe xé ’sto toso che me vuol uccidere!”
“Dai, Marco,” obiettò Tommy, “non fare così.” Ma le proteste caddero nel vuoto. Marco era già uscito, sbattendo la porta d’ingresso.
Il giorno dopo Marco non venne a Mohaney’s. Due giorni dopo Evelyn vide il suo cadavere nei tg che galleggiava nel canale.
***
Paul, il padre di Evelyn, venne a Venezia dagli Stati Uniti per studiare architettura. Conobbe Marilena al primo giorno di lezioni all’IUAV. Lei vide questo ragazzo che sembrava fuori luogo e chiaramente perso, quindi si avvicinò e gli chiese in inglese se avesse bisogno d’aiuto. Rimase senza parole quando lui le rispose in un italiano perfetto, anche se con un leggero accento americano. Lei l’accompagnò a lezione, sapeva dove si trovava l’aula e frequentavano lo stesso corso. Dopo, dalle loro conversazioni emerse che Paul aveva già studiato l’italiano a New York, dov’era cresciuto, perché sapeva fin da sempre che voleva venire a Venezia. L’architettura della città lo affascinava. Non esisteva altro luogo come Venezia in tutto il mondo.
Cominciarono a studiare insieme, a fare l’aperitivo dopo lezione. Marilena lo portava in giro per la città, gli mostrava i luoghi nascosti di cui solo una veneziana vera avrebbe saputo l’esistenza. Si baciarono per la prima volta il weekend successivo, sulla spiaggia del Lido di Venezia, dopo aver preso il vaporetto a conclusione dell’ultima lezione del giorno. Lei si perse nei suoi occhi e quando si avventuravano nel cuore della città e si tenevano per mano, manco se ne accorgeva degli sguardi accigliati dei passanti che li fissavano, mano bianca nella mano nera. Lui invece sì che si accorgeva, eccome, ma finché gli sguardi rimasero solo quelli, non aveva intenzione di rompere l’aria magica e amorosa della loro bolla privata.
Quando si sposarono cinque anni più tardi, dopo che si laurearono, Venezia era ormai diventata la città di Paul. Voleva costruire la sua vita lì, fare la famiglia lì. La bambina non arrivò subito, erano pur sempre dei ragazzi, dei neolaureati. Aspettarono di trovare un lavoro. Marilena fece il concorso per l’insegnamento e diventò insegnante di storia dell’arte alle superiori. Paul fece fatica a trovare un lavoro a tempo indeterminato e perciò fece domanda al dottorato, superando tutte le prove e arrivando primo in graduatoria. Andarono in banca, chiesero il mutuo e comprarono un quadrilocale al secondo piano senza ascensore. Li avrebbe costretti a fare un po’ di attività fisica ogni giorno.
Finalmente, nove mesi dopo, nacque Evelyn. Fu Paul a darle il nome, con la benedizione della moglie. Anche se era intenzionato a crescerla qui, non voleva che si dimenticasse delle sue origini. Era in parte americana, era questo quello che rappresentava il suo nome. Avrebbe anche imparato l’inglese insieme all’italiano, sarebbe stata completamente bilingue e avrebbe passato le estati a New York. Almeno questi erano i programmi. Ma tre anni sono pochi, troppo pochi, per imparare appieno una lingua e ricordarsela. Le poche parole d’inglese che Evelyn diceva svanirono del tutto alcuni mesi dopo la morte di suo padre.
Quando morì c’erano ben sette testimoni, oltre al gondoliere, che avevano assistito alla tragedia senza muovere un muscolo, se non per puntare il dito e ridere. Due erano veneziani, gli altri cinque erano turisti. Una coppia di coreani e un gruppetto di amici composto da un inglese, una brasiliana e uno scozzese. Nei giorni peggiori, Evelyn voleva che soffrissero.
La sesta settimana
Un uomo inglese per bene, nonché benestante, Benjamin aveva deciso di portare la famiglia in vacanza a Venezia con le tasche piene di monete e la macchinetta fotografica al collo. Nonostante fosse dicembre, di giorno c’era comunque un bel sole e lui era diventato giusto una sfumatura più rosa del solito anche se non si era scottato davvero.
Era passato soltanto un giorno e lui si era già rotto le scatole. Si sa che a Venezia si deve camminare. Quando possibile si prendono i taxi sull’acqua, ma per vedere i siti principali bisognava camminare. L’aveva detto mille volte, aveva avvertito sua moglie e le due figlie piccole: portate scarpe comode, passeremo ore a piedi. Già dopo la visita guidata a Piazza San Marco che comprendeva la basilica, il palazzo del doge e il campanile, tutte e tre avevano cominciato con le lamentele.
Papà, mi fanno male i piedi. Papà, sono stanca. Papà, voglio un gelato. Tesoro, perché ci vuoi far morire di esaurimento? Voglio sedermi. Voglio tornare all’albergo. Mi compri una maschera? Dove andiamo a cena stasera? Basta! Ne aveva avuto abbastanza. Le femmine sanno fare tre cose: lamentarsi, disidratare le tasche e la terza cosa non la poteva dire quando c’erano le bambine ad ascoltarlo.
Almeno erano riusciti a fare delle belle foto di famiglia in piazza. Benjamin le avrebbe mostrate ai suoi genitori come prova che lui era un uomo di successo. Aveva soldi e una bella famiglia. Allora perché finiva ogni giorno in uno stato di frustrazione pura? Aveva bisogno di un po’ d’aria ma soprattutto di una sigaretta. Aveva comprato un pacco da un distributore quando la moglie e le figlie erano distratte a lanciare mangime ai piccioni. Non sapevano che fumasse ed effettivamente non fumava mai, solamente quando si sentiva in questa maniera qui, il che era praticamente ogni sera. Lasciò le bambine e la moglie davanti alla tv che guardavano un film e disse loro che sarebbe rientrato presto, voleva chiedere un’informazione alla reception. Avevano annuito senza staccare gli occhi dallo schermo. Potevano almeno ringraziarlo per una giornata fantastica. Ingrate. Tutte e tre.
Fuori dall’albergo c’era una vista bellissima. Era situato alle Zattere con di fronte la Giudecca, dall’altro lato del Canal Grande. Si erano stupiti tutti e quattro quando quella mattina erano arrivati all’hotel. L’acqua azzurra, gruppetti di bricole, vaporetti, taxi e barche che passavano. Un’isoletta illuminata dall’altra parte. Questa era la città che Benjamin si era immaginato, stupenda, piena di vita, antica ma moderna allo stesso tempo. Purtroppo, stasera non riusciva a vedere nulla. La nebbia era gattonata di nascosto dalla laguna per entrare in città e soffocarla come la terra buttata su una bara che conteneva una persona ancora viva.
Benjamin imprecò. La nebbia veniva spezzata in alcune parti ogni trenta secondi dai fari dei vaporetti che passavano. Se avesse voluto godersi la nebbia e il freddo sarebbe rimasto in Inghilterra. Si accese la sigaretta e inspirò profondamente, assaporando per bene il tabacco sulla lingua e la nicotina che entrava nelle sue vene, nel suo cervello. Buttò fuori il fumo che era indistinguibile dalla foschia. Avevano ancora cinque giorni a Venezia. Se fosse stato bravo, se fosse riuscito a rilassarsi e ad accontentare tutte, se li sarebbe anche goduti. O così sperava.
La sigaretta non era ancora finita del tutto ma Benjamin se ne era stancato. Con il pollice e l’indice l’allontanò dalle sue labbra, la guardò e con uno colpetto la gettò nel canale. Almeno era questa l’intenzione. Il mozzicone ancora accesso restò per terra a un metro dal bordo della calle. L’avrebbe lasciato lì ma non voleva che l’albergo gli attribuisse una multa. Fece cinque passi, piegò il ginocchio e con un calcio lanciò il mozzicone nell’acqua, sul serio stavolta. Si girò e stava per tornare dentro l’hotel quando scorse un’ombra nella nebbia che si avvicinava a lui. Sembrò una donna ma non poté esserne sicuro, la figura era tutta coperta da una specie di mantello lungo e aveva una sciarpa attorno al volto. Forse era una donna musulmana.
Sembrava intenta a venire verso di lui e Benjamin, senza sapere il motivo preciso, si sentì nervoso. C’era un silenzio totale. Avvertì il bisogno urgente di romperlo, di dire qualcosa.
“Cold night, eh?”
Lei non gli rispose ma continuò nella sua direzione. Che problema aveva? Benjamin voleva guardarla negli occhi per capirne le sue intenzioni, per comprendere con quale diritto lo trattava così. Come mai incuteva in lui tutto questo timore? E dov’erano i suoi occhi?
L’ultima cosa che Benjamin sentì furono gli strilli.
Lassù nella stanza d’albergo, le due figlie e la moglie non distolsero gli occhi dalla tv nemmeno per un attimo.
L’ultima settimana
Evelyn non andò più a Mohaney’s dopo la morte di Marco. Era troppo strano incontrarsi lì, con i clienti abituali, adesso che conoscevano una delle vittime. I tg cominciarono a parlare della possibilità di un serial killer anche se la polizia diceva che non ci fosse nessuna prova e che probabilmente tutti i morti erano o ubriachi o incauti o tutte e due le cose insieme. Ma tra i veneziani, tra i vecchi al bar, tra i bambini delle elementari, tra gli universitari pendolari, si parlava sempre di più della banshee. Ormai sapevano tutti che era una banshee ma i notiziari non volevano dare ascolto alle chiacchiere e ai pettegolezzi di un popolo superstizioso e ignorante.
L’unica volta che Evelyn e Oisín andarono a Mohaney’s prima di prendere la decisione silenziosa di smettere di frequentare il posto, c’era una aria triste. Tutta la tensione e l’animazione delle sere passate era svanita. Nessuno accusò Oisín di niente, nessuno provò a spiegare che era inutile chiacchierare di banshee che non esistevano. Parlarono soltanto della morte.
“Povero Marco.”
“Già.”
“Che fine terribile.”
“Già.”
“Morire annegato, sapendo che non hai l’aria.”
“Ma vogliamo smettere?”
“È la quinta vittima della banshee da quando tutto questo è cominciato un mese e mezzo fa.”
“La quinta? Ne sei sicuro?”
“Fatemi pensare. Per prima c’è stata quella signora veneziana, come si chiamava?”
“Eleonora.”
“Esatto.”
“Mia figlia la conosceva.”
“Il caso era strano perché quando mai è capitato che una donna del luogo finisse nel canale?”
“Poi c’è stato quel ragazzo scozzese che era qui in vacanza da solo.”
“E siamo a due.”
“Poi è morto quello studente coreano di Ca’ Foscari e la settimana dopo hanno trovato morta un’altra coreana.”
“Sì, mi ricordo di quello studente, all’ufficio sono venuti i carabinieri, hanno portato via la sua cartella. Per fortuna non era uno dei casi che seguivo, sarei stata fuori di me.”
“E adesso povero Marco.”
“E quindi sì, sono cinque. Finora. Forse è vero che c’è un serial killer.”
“Ma va la. Marco era convinto che fosse una banshee e poi il giorno dopo è morto. Non penso che sia una coincidenza. Lui sapeva qualcosa e lo spirito è venuto ad ammazzarlo.”
“Siete pazzi.”
“Forse. Ma non uscirò mai più di notte da solo, potete contarci!”
Anche se smisero di trovarsi a Mohaney’s, Evelyn e Oisín continuarono a frequentarsi. Morì un altro turista annegato nel canale e non dovettero parlare di banshee e altre stupidaggini. I due ragazzi si trovavano insieme e parlavano di altro. Si raccontarono le proprie storie a frammenti fra una sera e l’altra. Evelyn si stupì a spiegargli cose di lei che solo le sue migliori amiche sapevano. Era facile lasciarsi andare con quegli occhi verdi, quei capelli rossi e quel gran bel sorrisone quando faceva le battute che erano così stupide da essere divertenti.
“Come fa la spesa un’arancia?”
“Non lo so, come?”
“Manda Rino.”
E quindi Evelyn gli parlò di come si erano conosciuti i suoi genitori. Gli parlò dei suoi studi in mediazione culturale. Gli parlò del suo gatto, che aveva chiamato Uomo Ragno. Mr. Ragno in breve. Aspettò ancora un po’ prima di rivelargli quello che successe a suo padre. Voleva che fosse lui a varcare per primo quella barriera invisibile, ammettendo qualcosa di sé e della propria famiglia.
Sorseggiavano lattine di Peroni sugli scalini di Santa Maria della Salute un sabato pomeriggio, con il sole alto che si rifletteva nell’acqua e la tinteggiava di giallo. Le gondole non in uso erano ferme, attaccate ai pali con una corda, tre di fila, una dopo l’altra. Non si muovevano più di tanto, il vento era fermo, c’erano poche onde. Oisín ruppe il silenzio che si era creato.
“Mio padre faceva il gondoliere, sai?”
“Come mai ha smesso?”
“Non so esattamente, è successo prima che io nascessi. Quando glielo chiedevo mi diceva sempre che anche se la paga era alta, era un lavoro duro e odiava avere a che fare con i turisti.”
“Dai, ha senso. Quelli che si possono permettere i giri in gondola di solito sono anche quelli che pretendono di più, con tutti i schei che hanno.”
“Infatti. Ha lasciato il lavoro e ha deciso che aveva bisogno di un grande cambiamento. È stato così che è arrivato a Dublino, dove ha conosciuto mia madre.”
“Come si sono conosciuti?”
“Lui ha cominciato a lavorare in un ristorante come lavapiatti, lei era una delle cameriere. Un giorno si stavano parlando, più a gesti che altro. Da quello che mi dicono all’epoca mio padre parlava l’inglese piuttosto male. Ecco, allora si parlavano e lui diceva che il cibo del ristorante faceva schifo, lei l’ha sfidato a provare a cucinare meglio. Lui l’ha invitata a casa sua per una cena. Adesso sono i proprietari di un ristornate italiano in centro a Dublino.”
“Dai, hai rubato questa storia da un film americano, io lo so.”
“Giuro,” disse Oisín, mettendo la mano destra sopra al cuore, “che è tutto vero. A meno che i miei non abbiano inventato tutto. Ma in quel caso sarebbe colpa loro e non mia!”
Fu quasi naturale poi. Le parole uscirono dalla bocca di Evelyn senza che lei dovesse pensarci due volte, scorsero via come catturate nella corrente di un fiume.
“Mi dispiace,” disse Oisín. E poi, “mi rendo conto che è banale, ma mi dispiace davvero.”
“Dai, non importa, è successo quando ero bambina. Ormai è acqua passata.”
“Mi sa che mio padre abbia ragione riguardo ai turisti a Venezia allora.”
“Penso proprio di sì.” Evelyn fece una pausa, premette insieme le labbra come se stesse per dire qualcosa, ci ripensò e infine si decise. “Confesso che quando ci penso però mi sale ancora una rabbia che non ti dico.”
“E cosa pensi?”
“Che vorrei ammazzarli tutti. Tutti quelli che non hanno fatto nulla mentre moriva.”
“Sarebbe giusto, secondo me.”
“Dicevo solo per dire, ovviamente non farei mai del male a qualcun altro.”
“Allora lo faccio io al tuo posto.”
“Che scemo.” Evelyn gli lanciò contro la lattina di birra ormai vuota, ridendo e mostrando i denti bianchi. Tornò d’improvviso seria. “Penso solo a come sarebbe diversa la mia vita ora se mio padre ci fosse.”
“Per esempio?”
“Beh, parlerei l’inglese da madrelingua e non da seconda lingua con tutti gli accenti sbagliati. E non avrei questi incubi.”
“Incubi?”
“Lascia stare. Non è niente.”
“Vabbè, per l’inglese ti posso aiutare io. Non dimenticare che sono cresciuto in Irlanda.”
“Davvero?” Evelyn si finse scioccata. “Non l’avrei mai detto. Non hai un aspetto da irlandese.”
“E cosa sembro invece?”
“Hm, direi marocchino.”
“Addirittura?”
Risero entrambi e poi guardarono il Canal Grande, con il sestiere San Marco dall’altra parte e l’eponima piazza in lontananza.
“Per l’altra questione, se mai volessi, che ne so, andare dalla polizia e cercare di rintracciare quei testimoni odiosi, ti aiuterei.”
“È successo ventitré anni fa…”
“Okay, ma se c’è qualsiasi cosa che io possa fare per te, non esitare a chiedermelo.”
“No, no, tranquillo. Non voglio che tu faccia niente.”
“Sei sicura?”
“Sicurissima. Sono affari miei. Adesso basta con questi discorsi seri e passami un’altra birra.”
Oisín frugò nel suo zaino e tirò fuori un’altra lattina marroncina. Allungò la mano a Evelyn e pensò che gli stesse mentendo. Se lui fosse stato nei suoi panni…
I suoi pensieri si sgretolarono, distratti dal rumore del clic e della pressione che lasciava la lattina, dalle bollicine che salivano al tappo aperto, dal liquido giallastro che invase la gola di Evelyn. Oisín buttò giù le ultime gocce della propria birra prima di aprirsene un’altra.
***
Quella sera suonarono gli allarmi in tutta la città. Dicembre, alla fine, era ancora la stagione dell’acqua alta. Come se non bastassero i centoquaranta centimetri di acqua che presto avrebbero invaso i piani terra in tutta Venezia, cominciò a piovere. A Paloma non importava nulla di tutto ciò. Non aveva gli stivali né gli anfibi e non aveva nemmeno i protettori impermeabili per le scarpe che vendevano alle edicole. Lei non lo sapeva nemmeno, era di Rio de Janeiro, era la sua prima volta a Venezia e non immaginava che si potessero comprare stivaletti di plastica alle edicole per riuscire a guadare nella marea senza bagnare le scarpe con l’acqua impotabile dei canali. Non sapeva nemmeno cosa volessero dire gli allarmi, quale segnale dessero. Camminava infatti scalza, con i tacchi in una mano, la borsetta nell’altra, e un sorrisone compiaciuto sulla faccia.
Paloma era ubriaca marcia e non era mai stata così contenta. Aprì le braccia e le alzò all’aria, sentendo la freschezza delle gocce di pioggia che cadevano. Tirò fuori la lingua per catturarle. Sentì l’acqua attorno ai piedi e se fosse stata sobria e insieme al suo fidanzato, avrebbe provato schifo. Invece ora l’acqua le dava una sensazione liberatoria, quasi euforica. Ce l’aveva fatta! Ce l’aveva fatta a lasciare quella testa di merda di Joao, il suo fidanz…ex-fidanzato. Doveva essere una vacanza di coppia, una vacanza per cercare di riparare i buchi che erano apparsi da tempo in una relazione nella quale Paloma si sentiva soffocata. Arrivati a Venezia non cambiò nulla, Paloma era ancora più triste e irritata di prima, Joao più geloso che mai. Lei bevve innumerevoli ombre di vino a cena e prima ancora che arrivasse il cibo l’aveva lasciato. Finalmente. Che lui si divertisse da solo per il resto della vacanza. Lei non era più impegnata.
Paloma rise e vide che usciva il suo respiro e prendeva forma, una nuvoletta che poi si perdeva nella nebbia. Paloma portava un abito scollato che le arrivava soltanto fino alle ginocchia. Forse senza tutto l’alcool nel corpo avrebbe avuto freddo, ma così com’era, pensò che la nebbia fosse benvenuta. La coccolava, la teneva calda, le bloccava la vista e Paloma dovette procedere ad occhi chiusi. Li chiuse per davvero. La vista l’aveva imbrogliata troppe volte. La bellezza era secondaria al carattere ma sceglieva gli uomini sempre in base al primo aspetto e le cose finivano sempre male. Ma stavolta no. Stavolta fu lei a scegliere. Stavolta fu lei ad andarsene. Niente poteva più rovinare quella sera.
Aprì gli occhi. Non vide nulla, solo bianco. Guardava giù e vedeva solo fino agli stinchi, i piedi erano immersi nell’acqua che stava reclamando il proprio diritto alla città. Si accorse di non sapere più dove andava. L’albergo da che parte era? Paloma pensò che probabilmente le convenisse aprire la borsetta e controllare la mappa che teneva ripiegata dentro. Però la mappa si sarebbe rovinata in due secondi con tutta la pioggia. Tanto non importava, poteva chiedere a quella donna che si stava avvicinando. Paloma non riusciva a scorgerne i dettagli a parte i capelli lunghi, l’unica cosa distinguibile da questa distanza nella foschia. Non si sentiva nervosa, anzi aveva voglia di chiacchiere e di fare amicizia. Se la cavava bene con l’italiano, sua nonna era calabrese. Infatti, non aspettò nemmeno che la donna si avvicinasse di più.
“Ciao!” Paloma chiamò. “Posso chiederti dove cavolo mi trovo?”
La signora non le rispose. Forse il rumore del ticchettio della pioggia contro le case e l’acqua era troppo intenso. Ora Paloma riusciva a vedere che non erano capelli alla testa, ma una sciarpa lunga. Probabilmente la donna se l’era avvolta attorno alla testa quando aveva iniziato a diluviare. Sì, ora stava proprio diluviando.
“Mi puoi dare delle indicazioni? Devo arrivare all’hotel”
La domanda si fermò lì. Paloma fece cadere i tacchi e la borsetta che si misero a galleggiare pigramente attorno alle caviglie e copri le orecchie con le mani. Che diavolo erano quegli strilli? Non riusciva a sentire nulla! Dallo stupore, fece un passo indietro. Tutto le sembrò uguale, la sensazione era la stessa, il piede affondava nell’acqua come prima, ma non trovava più terra ferma. Calle e canale erano diventati un’unica cosa. Paloma andò sotto.
Ma era una nuotatrice esperta, era cresciuta a Rio, tra le onde alte e frigide dell’Atlantico. Poteva nuotare anche da ubriaca, nessun problema. La testa irruppe dall’acqua e lei aspirò l’aria umida. Non aveva finito di inspirare che l’acqua le entrò nella gola. Com’era possibile? Erano due mani quelle che avevano spinto la sua testa di nuovo sott’acqua? Erano davvero due braccia che la tenevano ferma mentre con tutta la forza Paloma cercava di schivarle, di liberarsi dalla loro presa? Ingoiava acqua, il sapore acido del liquido inquinato le ballava sulla lingua, le incendiava i polmoni. Guardò su e l’ultima cosa che vide prima di chiudere gli occhi per sempre fu una figura di donna con capelli lunghi che dondolavano sopra l’acqua. Ma erano capelli o una specie di velo? Paloma non se lo ricordava più.
***
La banshee si tolse la sciarpa per rivelare la faccia che si nascondeva sotto. Non una faccia di donna, ma di uomo. Piena di efelidi anche nei giorni freschi e bui dell’inverno veneziano, con lunghi capelli rossi. La banshee sorrise. Aveva compiuto il suo compito. Riuscì dove suo padre aveva fallito. Il gondoliere non fu in grado di salvare un uomo che non doveva perire, ma il figlio aveva rimediato a quell’errore con i suoi sette sacrifici. La banshee aveva vendicato la morte inutile di un uomo e aveva salvato una giovane ragazza da se stessa, dall’incubo della sua vita. Si sentì soddisfatta.
Epilogo
Quella stessa notte, Evelyn si girava e si rigirava nel letto, agitata alla visione subconscia di suo padre che annegava. Evelyn non sarebbe mai fuggita, quell’immagine sarebbe rimasta con lei per il resto dei suoi giorni.
FINE