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Carlo Maria Biadene
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > Isole della laguna - poesia
Carlo Maria Biadene è nato il 20/07/1947 e ha vissuto sempre a Venezia.
Diplomato al Liceo Artistico di Venezia, partecipa ad alcune collettive di pittura a Venezia e Cittadella e viene segnalato al premio di poesia Città di Montebelluna nel 1968. Ha insegnato Educazione Artistica nella Scuola Media Inferiore dal 1970 al 2007.
Ha lavorato inoltre come grafico editoriale autonomo per Skirà, Electa, Nova Charta, Supernova ed altri.
Ha tradotto il libro Beppo,una storia veneziana di George Gordon Byron (Supernova 2023) e pubblicato il romanzo Locar, Dagli ardori giovanili alla maturità sempre per i tipi di Supernova anch’esso nel 2023.

Isole della laguna
-poesia-
UNA SALMA SALMASTRA





Una salma salmastra
è la mia
di un morto che respira
e il mare è in lui.
Bruciano gli occhi
riarsi dal sale.
Grovigli d’alghe
sferzano la mia nudità.
Lo scoglio corroso
insidia ginocchia e talloni.
Il peso dei miei pensieri
mi sprofonda nel mare
sempre più giù
e annego felice.

SMARRIMENTO



Mentre la marea lenta saliva
camminavo sulla spiaggia piano piano
e tutt’intorno non c’era anima viva
neppure il librarsi di un gabbiano:
e la mia mente anche lei svaniva
FUSIONE


La palla rimbalza
ritmicamente,
fanciullo sorride
allegramente.
E l’onda del mare
commenta serena,
distesa, fluente.
Io guardo lontano
natura che parla
senza dir niente.
Mi assale l’idea
di fondermi insieme
col mondo vivente.

ESECUZIONE


Quando la risacca
gorgoglia un requiem
e agonizzano le luci
arrovesciate nella laguna
incensata di nebbia,
da gola di gabbiano
un filo parabolico
si innerva nella nuca
dove cadrà gelido
il disco della luna.

IL MARE



Gorgoglia, schiuma, rugge,
leviga, ondula, espande,
s’arresta, vaga, fugge,
rischiara, abbuia, tende.
Isole della laguna
-Narrativa-
LA PASSEGGIATA




Mario Calebotti, riemerso a fatica dalla palude della notte, si era avviato alla finestra con passo incerto e traballante e aveva come sempre spalancato le persiane: fu investito da un sole accecante. Con la palla di fuoco che non voleva saperne di abbandonare la sua cornea si avviò quasi a tastoni alle operazioni rituali della mattina: svuotamento cavallino della vescica, igiene personale, in verità non troppo accurata, colazione classica con caffè, pane, burro e marmellata, fatta però un po’ frettolosamente perché la splendida giornata gli aveva messo addosso la smania di uscire.
La moglie Loredana era morta da quasi un anno e lui ancora non se ne dava una ragione, si sentiva azzoppato e la sua anima era una sacca do-ve nostalgia e rimorso spadroneggiavano. I primi pensieri della mattina erano per lei e a volte si agitava come un cristo in croce: “Lori, mia Lori, perché mi hai abbandonato?”. Era convinto che sarebbe morto prima lui e questo era il suo rimorso principale, almeno così lui credeva, ma chissà quanti altri giacevano sepolti nel cassetto dell’oblio. Ma poi con una scrollata del capo spelacchiato si rimetteva in corsa come se vivere non fosse un fatto naturale, ma un dovere morale. Dopo aver passato in rassegna le poche stanze del modesto appartamento condominiale trattenendo a stento un sorrisetto di compiacimento per quel suo possesso tenuto con ordine maniacale, chiuse la porta d’ingresso dietro di sé per la consueta passeggiata. Glielo diceva sempre Loredana che gli faceva bene alla salute.
Fuori una leggera brezza di mare gli scompigliò i pochi capelli e un afrore di alghe marce lo investì, con quell’odore insieme piacevole e nauseabondo. Il mare blu respirava rumorosamente e le onde si inseguivano rotolando fino a riva. Un cordone di nuvole candide attraversava il cielo azzurro poco sopra l’orizzonte come in un quadro quattrocentesco. Alla sua destra un alto canneto stormiva al vento facendo oscillare le sue cime e i gabbiani giocavano con le correnti d’aria bianchi nel cielo azzurro.
Il suo passo all’inizio era deciso, anche troppo deciso, sempre in virtù di quell’imperativo che lo sovrastava, e dovette in seguito, al sopraggiungere di un certo affanno, fargli la tara optando per uno più tranquillo e cogitabondo. Avvertiva però il fastidio che il passo non fosse naturale e non andasse come dire da solo senza il continuo controllo della mente. Alternò allora un passo sbarazzino, ciondolante, saltellante e così via. “Ma quale sarebbe poi il mio passo? Possibile che non me lo ricordi più?” pensava indispettito perché quest’imbroglio non li consentiva di scatenare quei pensieri che abitualmente accompagnavano le sue passeggiate. Alla fine esasperato si mise ad ancheggiare ridicolmente emulando i marciatori professionisti, a prodursi in un improbabili pasodoble e tutta una gamma di buffonerie di cui era capace.
Ma quando vide sopraggiungere una persona in senso contrario si bloccò e il suo passò prese una forzata disinvoltura che avrebbe dovuto coprire l’imbarazzo. Si trattava di una signora con tre cani di diversa pezzatura al guinzaglio. Ciascuno tirava verso una direzione diversa e la poveraccia pareva davvero rischiare lo squartamento. Così presa in quel guazzabuglio non poteva certo aver notato le bizzarrie del nostro Mario che si sentì subito sollevato. Anzi la signora era concentrata nel tentativo di venire a capo di quella sua disputa con il suo cerbero a tre teste e continuava a ridere artificiosamente per dissimulare la difficoltà.  Fece un cenno di saluto e proseguì, mentre la signora non cessava di ridere senza alcun motivo, una risatina acuta e stridula piuttosto fastidiosa che il nostro lasciò volentieri alle sue spalle.
Quell’incontro comunque lo distrasse e gli fece recuperare il suo passo, quello cioè prodotto dalle gambe piuttosto che dalla testa e questa finalmente recuperò la libertà di abbandonarsi alle riflessioni.
Come succede alle persone di una certa età, e lui non faceva eccezione, i ricordi del passato furono i primi ad affacciarsi alla mente. Ma anche questa volta il tentativo di rincorrere ricordi piacevoli fu presto stroncato dal pensiero dell’assenza della moglie. A quel punto si passò una mano sulla fronte e rivolse lo sguardo al mare investendolo di un ruolo consolatorio che la grande massa d’acqua non si sognava in nessun modo di svolgere. E quasi lo avesse inteso ritornò ai suoi cupi pensieri vedovili. Aggrapparsi ai ricordi belli della loro esistenza in comune rendeva ancora più cocente la ferita della sua mancanza che gli pareva ingiustificata e iniqua, quasi un delitto di lesa maestà. Questa volta si rivolse al cielo, non più per consolazione, ma come per implorare clemenza.
Improvvisamente in modo surrettizio si insinuò in lui un pensiero subliminale, magari per reagire a quel lutto prolungato, a quella costernazione dalla quale pareva incapace di uscire.  Pensò a Loredana in modo affatto nuovo ritenendo che con la vecchiaia si fosse non solo imbruttita, che è tristemente naturale, ma anche inacidita nel carattere divenuto più intollerante e litigioso e, ancor peggio, gli sfiorò la mente che addirittura poteva essersi “liberato di un peso”. Ricacciò subito con spavento  e vergogna questa versione che giudicò esecrabile. Ma quel sottopensiero aveva ormai fatto capolino nella sua coscienza e in qualche modo aveva rotto la compattezza granitica della sua disperazione. Dovette quindi prendere visione che una parte di lui era in disaccordo col melodramma che ormai da un anno aveva inscenato. Avvertì una fitta nella regione pericardica e una sudorazione eccessiva per quel tepore di primo autunno. Un colpo di vento più forte lo scosse e il canneto fremette distraendolo dalle sua tempesta interiore.
Sopravvenne quindi un podista o sedicente tale con un completino attillato e colorato vivacemente da jogging. Gli parve ridicolo soprattutto perché si trattava di un suo coetaneo che trascinava stancamente i passi ciabattando in quella che era una parvenza di corsa e la sua faccia non riusciva a mascherare una espressione stravolta. Passò senza neanche un cenno di saluto, troppo per uno che pareva sul punto di stramazzare al suolo da un momento all’altro. “Ma chi glielo fa fare?” pensò e sorrise accorgendosi che non lo faceva da tempo. Qualcosa stava cambiando nel suo umore.
In spiaggia c’era ancora chi non intendeva perdersi le ultime giornate di sole prima di rintanarsi per il lungo inverno. Soprattutto donne che esibivano le chiappe secondo i dettami della moda. Pensò: “Una volta c’erano le donne con i culi, ora ci sono i culi con le donne! Un invasione di culi da film di fantascienza” e si compiacque della battutina non senza lanciare sguardi vogliosi all’indirizzo dell’oggetto delle sue ironie. La sua attenzione fu richiamata dal guizzare di un pesce che aveva abboccato all’amo di un pescatore sulla diga. “Probabilmente un’orata” congetturò.
Sentì il suo passo più leggero. Ora si era spalancato il vaso di Pandora e gli episodi della sua vita con Loredana esondavano torrenziali; soprattutto i più sgradevoli. Si era dimenticato forse di quella routine, di quei silenzi tesi, di quei bisticci pretestuosi? E che dire del suo desiderio di andarsene sempre disatteso per non farle del male – si giustificava – ma in realtà solo per viltà. Ti accorgi ad un certo punto che stai con un estranea e che ti annoi mortalmente, ma rimani lì a far la guardia al matrimonio, spalle indietro e petto in fuori. “Che assurdità! Certo che le volevo bene! Che discorsi! come potrebbe essere altrimenti dopo quasi mezzo secolo passato insieme” rifletté “ però, si sopporta, si sopporta fino ad annichilirsi...”. Ricordi sgradevoli affiorarono alla sua mente a frotte, forse in eccesso per compensar quell’anno di censura. Che dire delle umiliazioni pubbliche che Loredana gli riservava continuamente, del piacere che provava a provocare il suo imbarazzo in presenza di terzi, cosa che lo mandava su tutte le furie. Oppure il lungo periodo di malattia durante il quale lui era ridotto a farle da infermiere e le pretese della moglie diventavano sempre più imperiose e arbitrarie “Io sono qui che soffro e tu, come niente fosse, te ne stai lì con le mani in mano!” diceva colpevolizzandolo. “Forse il lutto è questo qui - si disse -  la celebrazione acritica del defunto, come si vede anche nelle ridicole formulette scolpite nelle lapidi!”. Le aveva lette spesso quando andava a manifestare la sua devozione davanti alla lapide della moglie nel corso dell’anno passato col suo tristo mazzetto di crisantemi, ma sempre meno la tomba gli evocava sentimenti forti e le ultime volte era sopravvenuta anche una certa indifferenza.
Intravide in lontananza una sagoma che gli parve nota, ma stentò a riconoscere. Avvicinandosi riconobbe quell’incedere dinoccolato, ma con una certa irritazione dovette ammettere che non si ricordava il nome. Il tizio gli venne in soccorso: “Allora, Mario, sei risorto?”. “Veramente il morto non ero io, ma mia moglie” replicò un po’ pedissequamente. “Intendevo dire che non ti facevi vedere più in giro, come un tempo” “...mah!...” interloquì imbarazzato. “Beh, posso immaginare che non sia stato un bel periodo, ma magari due chiacchiere con un amico possono aiutare a sentirsi un po’ meglio... Sai com’è, due puttanate in compagnia fanno sempre allegria!” “Beh... sto cercando di reagire!” ma dirottò il discorso subito su un terreno più neutro “Almeno oggi è una bella giornata!” “Vuoi che andiamo a bere un buon cabernet franc da Mauro?” Mario accolse con piacere il soccorso dell’amico, ma non si sentiva ancora pronto per una riabilitazione sociale completa e preferì declinare l’invito con gentilezza affettata. “Beh, sarà per la prossima volta!” concluse Sandro e si avviò per la sua strada. Anche Mario proseguì per la sua, ma questo incontro imprevisto lo mise in difficoltà, quasi fosse tornato bambino, esagerando l’importanza di ogni insignificante particolare. Improvvisamente avvertì l’artiglio della colpa per aver raffigurato la moglie così brutalmente ed entrò in uno stato di confusa agitazione. Sentiva che stava perdendo le difese che faticosamente si era costruito nel corso della sua vita. Quel castello si stava sgretolando.
Come accadeva spesso, soprattutto in quell’ultimo anno, lo assalì il desiderio di bere per reagire e raggiunse la prima osteria sul cammino dove incontrò di nuovo Sandro che lo guardò sorpreso: “Ma non avevi detto che...” “Lasciami stare...” e ordinò un bianco di Custoza, lo tracannò con avidità, pagò e se ne andò senza neanche salutare, come un automa. Continuò così di osteria in osteria schivando amici e conoscenti e raggiungendo presto uno stato di ebetudine che però non lenì lo stato di agitazione, anzi lo accentuò. Si rifugiò con passo malcerto in una pineta dove non c’era anima viva e gli pareva che lo stormire delle fronde fosse la voce degli alberi a lui diretta, ma non ne afferrava il senso. Ormai in stato confusionale scorse in lontananza una figura appesa ad un albero, ma nella penombra non riusciva a capire se era soltanto un intrico di rami o qualcos’altro, magari un impiccato. Fece dietrofront e si diresse verso la spiaggia col cuore in gola. Giunto sulla riva si sedette su uno scoglio di fronte al mare che ruggiva. Le onde si infrangevano sugli scogli e lo bagnarono, ma lui rimaneva lì indifferente con la testa tra le mani a cercare di mettere in ordine le idee. Impresa disperata; più voleva ordinarle e più loro disobbedivano ammucchiandosi in modo confuso e beffardo.
Dopo un tempo difficile da misurare, si alzò a fatica e barcollando si in-camminò senza più vedere il mondo intorno a sé, come in un tunnel. Le  persone che incrociava lo guardavano sprezzanti, ma lui non le vedeva neppure così concentrato a stare in piedi. Le ginocchia erano molli e la testa un vespaio.
In uno stagno alla sua sinistra la solita garzetta che incocciava spesso misurava a larghi ed eleganti passi il fondo dell’acqua. Costituiva per Mario una pietra miliare delle sue passeggiate e aveva preso l’abitudine di sostare ad osservare con ammirazione quell’incedere sinuoso e aspettava speranzoso di vederla in volo, allora era veramente estasiato.”Una stampa giapponese” diceva sempre  tra sé e sé. Ma nelle condizioni in cui si trovava non provò la consueta gioia nel vedere il trampoliere che continuava indifferente la sua ricerca di animaletti marini nel fondo dello stagno, anzi interpretò quell’indifferenza come uno sgarbo nei suoi confronti.
Dopo quella parentesi riprese  la strada verso casa zigzagando finché ad un certo punto inciampò e cadde a terra per fortuna senza grossi danni tranne una piccola lacerazione al ginocchio che sanguinava un po’ macchiando i pantaloni. Tiratosi su faticosamente continuò la strada zoppicando e guardando in lontananza il grande condominio dove viveva che pareva irraggiungibile. Ogni volta che alzava la testa era sempre lì, nello stesso punto, terribilmente distante come se lui fosse fermo e non stesse camminando.
Alla fine però ne raggiunse l’ingresso dove incocciò un inquilino che notando il suo aspetto alterato gli offrì il suo aiuto, ma lui scivolò via scontroso e guadagnò la porta di casa che riuscì ad aprire dopo aver litigato a lungo con la chiave che non voleva saperne di entrare nella toppa. Una volta in casa si lasciò andare a corpo morto sul letto. Si addormentò immediatamente, ma il sonno fu agitato e convulso.
Incubi febbrili si susseguivano mescolando in una girandola infernale episodi e persone della sua vita in modo greve e minaccioso. Loredana in testa con risate crasse e volgari attirava amici e conoscenti in una giostra perversa di sordide ammucchiate. Appariva a volte giovane e seducente o altrimenti vecchia e indecente con la sua guepiere nera che le strizzava le carni debordanti. Gli amici ridevano fragorosamente mentre lei ancheggiava ballando con movenze laide una sorta di samba e scuoteva le abnormi chiappe alla maniera brasiliana. Lui cercò di ribellarsi, ma gli amici lo immobilizzarono e uno gli piantò un ginocchio nel collo quasi soffocandolo. Poi fu la volta di Sandro che, apertasi la patta dei pantaloni, gli pisciò in testa ridacchiando e la piscia non smetteva più di scrosciare dal suo uccello gigantesco e lo innaffiava come fosse una pompa. La piscia ormai aveva riempito la stanza (era una stanza?) e il livello saliva rapidamente fino a raggiungere la sua testa che giaceva a terra. Arrivò anche la signora con i tre cani che iniziarono dapprima a leccarlo con le loro linguacce sbavanti mentre lei li incitava con la sua voce stridula. In fine apparve l’inquilino incontrato all’ingresso che continuava a chiedergli ossessivamente in modo ossequioso se poteva aiutarlo con una voce cantilenante e melliflua: “Ha bisogno di qualcosa?...ha bisogno di qualcosa?...”. L’incubo proseguì ancora con immagini confuse, sfuocate, ma sempre minacciose nei suoi confronti fino ad una svolta improvvisa e insperata. Ecco venirgli in soccorso la garzetta e lo scenario cambiò radicalmente. Era con lei nello stagno e si scambiavano parole tenere da innamorati, si guardavano negli occhi dolcemente e si sentì improvvisamente felice con la sua garzetta che ricambiava i suoi sentimenti amorosi oltre la sua immaginazione ed era anzi lei la più intraprendente finché avvicinò alla sua bocca il becco da cui sgusciò fuori una linguina rosea che si insinuò tra le sue labbra lasciandogli un piacevole gusto di salmastro. Si risvegliò mentre l’aurora rischiarava il cielo, con quel gusto persistente in bocca, in uno stato di benessere che da tempo non provava.












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