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CARLOTTA ENZO
LAGUNANDO 2023 > Selezionati 2023 Liopiccoli
I LIOPICCOLI
SCUOLA SECONDARIA
-NARRATIVA-
CAROLINA NARDI

Nata nel 2008, frequenta il Liceo delle Scienze Umane Benedetti Tommaseo di Venezia, classe prima.



UNA REALTÀ PERDUTA
La storia si divide in due capitoli: Nanni- Il Gigante


CAP. 1  NANNI:

Non si potrebbe mai spiegare come fosse successo, nemmeno se tentassi di descriverlo con mille parole, sarebbe impossibile da capire.
Era diventato tutto nero sulla Terra, non si vedeva più neanche il verde delle foglie, il cielo era diventato irriconoscibile. Più nuvole grigie che bianche.
Era diventata così tanto inabitabile, che anche le piante, anche sotto terra e coltivate con amore, non riuscivano più a crescere.
Si era iniziato a parlare di trasferirsi in un altro pianeta, un pianeta bellissimo per l’umanità, ma che di naturale aveva poco. Si doveva chiamare Atlantide.
Era stato posizionato in mezzo alle galassie solo per soddisfare l’umanità e tutti i bisogni umani.
La data del trasferimento per Atlantide, era stata programmata dallo Stato, quel giorno avrebbe fatto arrivare sulla Terra nove Navicelle che, si dice, potevano contenere un miliardo di persone.
Si potrebbe anche immaginare come fosse quel giorno per una bambina di soli sei anni che mentre cercava di salire su una Navicella tenendo la mano di sua mamma, non capiva cosa stesse succedendo.
Le persone continuavano a spingersi, gridare e dare manate a quelli davanti, ed un uomo, con ira, spinse la bambina indietro e lei, non resistette al peso delle altre persone sul suo braccio allora mollò la mano di sua madre. Fu un attimo, ma bastò per far scomparire la mamma dalla sua vista. Sepolta com’era dalle persone che quasi certamente non avevano tempo per una bambina così piccola che se non  guardavi giù nemmeno la vedevi, si rischiava pure di calpestarla.
La piccola bambina si rannicchiò in un angolo della strada, quasi si mise a piangere, “sono sicura, che anche i miei mi stanno cercando. Magari non sono ancora saliti” pensava per consolarsi, ma questi pensieri non le bastarono, si sentiva le lacrime bruciarle gli occhi, era un pensiero insopportabile quello stare da sola, ma i suoi genitori l’avrebbero cercata, a questo lei voleva crederci.
Partirono le prime due Navicelle “i miei sono ancora qui, non c’è da preoccuparsi”, partirono quattro Navicelle, iniziò a singhiozzare, si raccolse i piedi alle ginocchia  ed iniziò a dondolare lentamente “i miei sono ancora qui, io ci credo!”, partirono le ultime tre, e nessuno s’accorse di lei, era sola e continuava a pensare “ora scenderanno per venirmi a prendere” ma dopo un po’ di tempo, passato a guardare quel cielo dove ancora, se si faceva attenzione, si poteva vedere l’ultima Navicella diventare un puntino piccolissimo in un cielo buio e pauroso. Non sarebbero mai ritornati.
Si rannicchiò a piangere nel suo angolino della strada, era sola, scoprì che nessuno, su quella Navicella, sarebbe mai sceso per prendere una bambina di sei anni che si era persa.
La bambina, aveva grandi  occhi in giù, sembravano quasi a mandorla, dovevate vederli, in quegli occhi c’era tutto: amicizia, amore e tutto quello che dovrebbe esserci nella vita di un bambino della sua età. Ora, la bellezza dei suoi occhi si era persa nel tempo, era stata soffocata dalle enormi lacrime che le scendevano, una dopo l’altra, sulle sue grandi guance paffute, arrossite per i continui singhiozzi, sembravano frutti sotto i suoi capelli d’un marrone scuro. Se la si vedeva in lontananza, le sue guance ed i suoi capelli, non facevano pensare ad una bambina singhiozzante, ma ad una pianta piangente.
Davanti a lei, ma abbastanza distante perché non se ne accorgesse, era spuntata dai buchi di plastica (ormai la terra non esisteva più), una piccola figura  inginocchiata che stava guardando qualcosa, la bambina sbatté gli occhi più volte, per assicurarsi di vedere bene. Quando gli occhi furono asciutti guardò in avanti, la piccola figura sembrava proprio assumesse una forma che lei aveva già visto -è un bambino!- si alzò e rincorse la piccola figura.
Magari non era l’unica ad essere stata dimenticata:
-EHI TU!- disse dietro le spalle del bambino, ma il bambino la ignorò:
-Che fai?-
Chiese allora la bambina insistendo: -guardo- rispose allora la piccola e sconosciuta figura. Aveva la voce tipica di un bambino, ma a tratti, innaturale e spaventosa.  
Allora la bambina, incuriosita, si avvicinò per vedere la faccia del bambino, ma quando si mise davanti a lui, la sua realtà si distorse.
Perché?
Direste voi, la faccia del bambino era per metà simile a quella di un bambino e l’altra era completamente robotica che si potevano pure contare gli ingranaggi che la formavano se si faceva attenzione:-HAAAAA-gridava la bambina, l’urlo era così forte, che anche la piccola sagoma fece un piccolo scatto per lo spavento: -TU HAI LA FACCIA, ED IL CORPO!- fece la piccola sagoma anche lui continuando a toccarsi la testa, ma notò di aver spaventato la bambina, che si era rannicchiata in un angolino, questa volta appoggiata con la schiena al muro.
La piccola sagoma si avvicinò, non lo avevano programmato per spaventare i bambini, se lo ricordava bene, e spaventare poi non gli piaceva “non è colpa mia se sono spaventoso” stava pensando fra tutti i suoi circuiti nella testa:-come ti chiami?- le chiese, per poterla chiamare con un nome:-Nanni- rispose lei ritornata a singhiozzare e con voce tremolante: -cosa sei?- la bambina prese il coraggio di chiedere: -un robot, io non ho un nome vero - Nanni lo guardò:-perché?- lui ricambiò lo sguardo: -tutti mi hanno sempre chiamato in un modo diverso, Thomas, Bob pure Ginger alcuni. Tutti i bambini mi hanno sempre chiamato in un modo diverso: -che brutto- disse  la bambina fatta più sicura.
Guardò il robot dai mille nomi e dalla faccia a metà, chiese:- che lavoro facevi prima che tutti se ne andassero?- -facevo il migliore amico robot, per i bambini che si sentivano soli. Poi mi sono rotto la faccia, e tutti erano indaffarati a partire in un altro mondo, che si sono dimenticati d’aggiustarmi- il robot si mise a fianco alla bambina, e si guardò i piedi, anche lui aveva qualcosa che lo faceva soffrire. Chiese:- tu come sei arrivata qui? Dovresti essere con gli altri- -Mi hanno dimenticata- il robot si guardava i palmi :- se vuoi mi puoi chiamare IlTuoMiglioreAmico05 è il nome che mi hanno dato i miei creatori. C’era anche sulla scatola dove mi hanno imballato, è brutto, ma è l’unico che mi ricordo- la bambina gli guardava le ginocchia – È veramente brutto- rispose, tirandosi le gambe in dentro: -Ti va Jake05?- Il robot si guardò di nuovo i palmi, ora le dita tremavano:- meglio, mi va-.

Si era detto, tra gli umani, anche che i robot avevano preso una loro vita, un loro pensiero e modo di vedere la realtà. Ma Nanni non avrebbe mai pensato che fossero anche in grado di parlare e rispondere, come e quando volevano, ma in quel momento si dovette convincere del contrario. Con Jake05 aveva trovato un amico sicuro che era perfettamente in grado di parlare liberamente, pure assumendo toni diversi di voce o cambiarla del tutto per cercare d’imitare dei personaggi che aveva conosciuto: un bambino o i genitori di un bambino.  
Ora la bambina sapeva, di non essere stata l’unica ad essere stata dimenticata.

Cap.2 IL GIGANTE:

:-È tutto pronto signore-
-LA TESTA! Controllate se la testa è fissata bene-
-certo signore. Fissata perfettamente, signore-.
Lo scienziato Copper stava provando la sua ultima nuova invenzione: un ALTISSIMO robot da combattimento, che avrebbe dovuto soddisfare tutti i desideri del suo padrone: -avete controllato se il sistema Di areazione funziona?- chiedeva ai suoi colleghi, mentre collegava l’alto robot a dei tubi, che, secondo i suoi calcoli, avrebbero dovuto dargli delle scosse d’energia così tanto forti, da non solo  generare la vita, ma anche un innaturale forza: -alla perfezione signore, fa aria pulita-.
Il robot da combattimento che Copper si era immaginato andava oltre l’immaginabile anche per un uomo d’Atlantide.
Il suo robot, era dotato NON SOLO di un innaturale forza ma anche di un sistema di soccorso, di altissimo livello, per il suo padrone.
La sua macchina, con una marchingegno  speciale dentro il suo petto, poteva produrre aria. Proprio quello che tutti chiamavano (esclusivamente per quell’esperimento) sistema di areazione.
Dove, sempre dentro il petto del robot, e sempre per lo stesso sistema c’era una piccola poltrona, dove mettere il padrone se si fosse sentito male ed avesse bisogno d’aria:
-parti con la prima-
Ordinò Copper ad un ragazzo in un angolo che doveva di mandare le scosse elettriche nei tubi.
Il ragazzo alzò la leva sulla prima (quella più leggera). Non successe niente.
Copper sospirò, aveva paura che il suo esperimento fosse un fallimento totale e che poi avrebbe fatto brutta figura con tutti i colleghi che stavano guardando l’ esperimento del secolo  (come veniva chiamato): -vai con la seconda!-
Allora, il ragazzo spostò la leva sulla seconda. Il robot da combattimento iniziò a tremare, ma non bastava, non era ancora vivo.
Allora Copper chiuse gli occhi, come sperasse sull’ultimo scatto:
-VAI CON LA TERZA!-
Il ragazzo, spaventato dal tono di voce dello scienziato, andò DRITTO sulla terza (l’ultima scossa).
Il gigante tremò ancora più forte, si credeva che volesse esplodere, ma Copper sapeva quello che stava facendo, non era il primo robot che creava e faceva vivere. “Tutti i corpi tremano sempre quando ci sono le scosse, e questo è solo il momento della verità” pensava.
Scoppia o vive?
Si chiedevano tutti, poi il robot iniziò ad aprire gli occhi, occhi illuminati d’una accesa luce gialla, la bocca del robot si aprì lentamente e fece un suono molto simile ad un grido anche se più duro e metallico:
-VIVE!-
Urlò lo scienziato, appena realizzato d’aver finalmente dato vita a qualcosa che tutti prima potevano solo immaginare. Un altissimo robot, fatto per distruggere, ma anche per salvare, era proprio quello che tutti nelle arene volevano vedere:
-spegni l’elettricità, non serve più-
Ordinò lo scienziato.
Il ragazzo abbassò la leva, ed il gigante si rannicchiò, come fosse ancora spento.
Tutti si misero a controllare i computer:
-è morto-
Disse una voce tra quelle che guardavano i computer in lontananza:
-NO! Non può essere morto-
Lo scienziato corse verso i suoi colleghi:
-Questa è solamente una reazione, vedrete che poi vivrà-
I colleghi, forse, pensarono che lui fosse pazzo perché per loro, che fosse morto, né erano sicuri. Lo dicevano i computer.
Ma Copper non si voleva arrendere, tutti robot hanno un loro tempo per prendere vita, che cambia sempre a seconda della loro altezza, il più piccolo ci metteva, quasi sempre un ora, mentre il più grande poteva metterci giorni o anche mesi.
Ma questo gigantesco robot ci mise solamente due giorni ed una notte. Allo scoccare delle dodici in punto, mosse la sua grandissima mano di ferro, per la prima volta, alzò la testa e fece quasi per sporgere in avanti, ma si accorse che c’era il vetro tutt’intorno a lui, era un vetro fortissimo, studiato a prova di gigante.
Il robot si guardò intorno, e vide tante cose che lui, ovviamente, ancora non conosceva.
Al centro della sala c’erano solo macchine e computer sopra a delle scrivanie, sembravano quasi fare un circolo intorno al vetro a forma di tubo, che in quel momento era la sua gabbia.
Tutto intorno era nero, l’unico ad essere illuminato era lui, il robot, che anche dopo avere esaminato la stanza con attenzione, non riusciva a capire quale fosse il vero motivo della sua esistenza. “Perché sono qui?” Si continuava a chiedere.
Ma dentro alla stanza e davanti alla cella di vetro, protetto dall’ombra, che rendeva al robot impossibile vederlo, si trovava Copper, ancora impietrito, come la prima volta che il robot sembrava aver preso vita. Si stava chiedendo quale fosse la ricompensa per avere creato una cosa così grande e utile per i divertimenti dell’uomo. Neanche lui, riusciva a capire quale fosse il vero motivo o cosa lo avesse spinto a creare un “Giocattolo” Per Uomini Adulti  quando sarebbe stato più vantaggioso fare un robot utile per la guerra, e non per il combattimento.
Il vero motivo, che un uomo non ammetterà  mai con estrema sincerità, era che anche a lui piaceva la violenza. Allora rimaneva lì, a vedere quella grande cella.
Corse verso i computer: -Battiti? Regolari. Calore? Perfetto. Forza?- sogghigno: -Ovviamente enorme-. Poi si chiese che se avesse voluto veramente creare la macchina perfetta, doveva anche controllare l’udito.
Batté due volte sul vetro, scandì bene le parole -ESPERIMENTO 264 (era uno di tanti esperimenti non funzionanti, quindi avevano deciso di numerarli tutti) MI SENTI?- il robot alzò la testa e guardò l’uomo. Ci crediate o no ma all’altezza del robot Copper sembrava poco più di una formica.
Copper alzò le spalle con il suo normale viso disinteressato (non è che l’udito gli sia mai interessato, era dell’idea che la “bellezza dei robot” stesse solamente nella loro forza sovrannaturale) con sopracciglio leggermente teso: - Udito? Il bestione riesce a sentirmi - segnò tutto nel taccuino delle cose non importanti, ma da ricordare”.
Così iniziò la vita di 264 ad Atlantide, si, proprio a quella Atlantide di cui tutti parlavano prima di partire su delle navicelle. Il pianeta creato dagli umani,  tra le costellazioni e le galassie.
Non aveva avuto mai il tempo di vederla tutta, ma facendo la strada dalla stanza  all’arena aveva perfettamente capito, per i tanti poster, che tutta l’umanità puntava solamente sull’uso di robot. Anche per fare le cose più semplici, come “ricordare di chiamare mamma perché è il suo compleanno” e altre cose simili.
Dietro le spalle di Esperimento 264 c’erano quattro robot, che dovevano portarlo, per ordine di Copper, dal suo nuovo padrone, che, da quello che il robot aveva capito, si doveva chiamare Rchard Coppembell, ma aveva intuito anche che NESSUNO dei robot che questo ragazzo aveva avuto lo amava particolarmente.
264, sentendo parlare i robot alle sue spalle che dicevano frasi come: - tra tutti quelli ha scelto proprio il più grande questo è il suo solito- credendo, sempre parlassero di Riccardo Coppembell, aveva anche compreso che era un ragazzaccio abituato a fare ESATTAMENTE quello che voleva fare. Proprio tutti lo odiavano.

264 questo non lo sapeva, ma lo stesso giorno della sua nascita sarebbe probabilmente morto in un combattimento tra robot. Riuscii a capirlo solamente una volta entrato nell’Arena.
Quando si trovava sotto, dove stavano i robot per prepararsi ai combattimenti, con la coda dell’occhio,  aveva sbirciato da una finestra al suo fianco, era riuscito a vederne uno gigantesco, quasi più grande di lui, sollevare la testa d’un altro robot, così gli sembrava.
Qualcosa, poi, nei circuiti dei robot che lo circondavano là sotto non andava. Alcuni, combattevano con altri, quindi da lui vennero giudicati come dei poco di buono@@. Altri ancora, gli saltavo tutt’intorno, a guardare 264 con la sua lunghezza, e sogghignando qualche volta dicendo frasi come:
- lui verrà spiaccicato come una formica-
 oppure:
 -peccato perché è davvero molto bello-
 o anche:
- ha le viti così belle che non merita di star qui.
“Perché proprio a me? Lo dicono pure loro che sono rotti e brutti che non merito di star qua, e di sicuro loro di questo posto ne sanno più di me” Pensava 264, mentre aspettava il suo padrone. Che non arrivava mai:
“Coppembell è sempre in ritardo. Mi pare di avere sentito anche questo”.
Dopo un po’ di tempo, gli si avvicinò un piccolo robot, uno tra quelli che lo avevano portato in quel posto , ora era arrivato per portarlo direttamente al campo. Direttamente al campo, e non aveva nemmeno  conosciuto il suo padrone.

Il campo, poi, era pure peggio di una topaia! C’era sabbia a coprire il pavimento e lo spazio per il combattere era addirittura troppo poco per dei robot d’una grandezza straordinaria, come quelli che c’erano. Poi, in alto, protetti e in un posto decisamente migliore, c’erano le persone.

264 non capiva perché fosse lì , quale fosse il suo motivo. Non aveva neanche avuto il tempo di capire chi era, figuriamoci sapere che cosa doveva fare in quel momento.

Abbassava lo sguardo e riusciva a vedere, quel piccolo ragazzo “Copperbell” pensava. Doveva essere proprio lui. Chi altro se no? Erano solo loro due, lui e il ragazzo, per la prima volta.
Poi, un ENORME cancello si aprì con uno stridulo assordante, come volesse richiamare qualcosa di terribile e tenebroso che stava per arrivare. Ma ancora nessuno lo sapeva.
Poi?
Scese del tutto, e tutto si fermò, le risate, le esclamazione e gli inciti, tutti si stavano preparano alla entrata dell’avversario. D’altronde, per sfidare un robot alto come 264 doveva veramente essere grande da toccare i tetti!
Ma da quell’entrata entrò un piccolo robot, apparentemente innocuo e di lui nulla si poteva dire, era un robot ideato per ingannare.
Era buffo, questo sì poteva vedere, basso pure, ed aveva le gambe così corte da sembrare che nemmeno le avesse ed il corpo così lungo che lo faceva sembrare un lunghissimo cono. In poche parole, non sembrava nemmeno un robot da combattimento ma più un robot fatto per divertire.
Poi il buffo robot (esageratamente rosa) guardò dritto e di scatto 264 che non lo prendeva sul serio e quasi gli veniva da ridere. Il Robot rosa disse, imitando una melodia di voci sconosciute:
-Vuoi giocare con noi?-
“Noi?” Si chiese 264, ondeggiando un po’ in dietro per vedere se ce ne fosse un altro che non aveva visto. Bastò poco che Coppembell gli diede un calcio sul suo grande piede, e anche se 264 non era in grado di sentire dolore, attirò la sua attenzione, vedendo il robot che lo guardava, Coppembell disse, quasi urlando:
-Vuoi lavorare LATTAME di robot?!-.
264 si buttò. Sì, era convito che per sconfiggere quel suo avversario bastasse solamente spiaccicarlo con il suo piede metallico.
Ma quando si avvicinò, proprio quel robot buffo ed innocuo tirò fuori dal suo corpo così tante armi che 264 (che era robusto e forte) ebbe una PAURA DA FAR GIRARE LE VITI! Il robot rosa fece un ghigno terrificante,  sibilando e mangiandosi i denti, disse, così tanto sotto voce che solo 264 (ormai col piede scopra la sua testa) riuscii a sentirlo:
-Per sempre?!-
264, si bloccò di scatto, un po’ per paura e un po’ per timore.
Allora il robottino approfittò per distruggerlo una volta per tutte. Fece una mossa coì veloce che nessuno ( e si intende per davvero) avrebbe potuto vederlo. E staccò, una delle enormi braccia di 264, che si guardava intorno disorientato, cercando di capire quali fossero le mosse del suo avversario .
Allora il braccio dell’esperimento 264 cadde con un tonfo enorme subito seguito dalle critiche umane.
E anche se i robot non sono in grado di sentire un qualsiasi dolore, questa cosa non è che fosse piaciuta così tanto a 264. Avere perso un arto tra i più importanti per un robot e ricevere le minacce degli uomini? Questa sì che era veramente una cosa brutta. Almeno per lui.
Allora, guardando quell’affare rosa ignorarlo e ascoltare chi lo acclamava, si voltò verso Coppembell, poi si rivoltò per controllare il robottino, “probabilmente pensa di aver vinto” pensò per darsi una risposta. Ma non poteva pensare a lui in quel momento “non è ora della vendetta” aveva qualcosa di ingiusto da sistemare prima. Si avvicinò a Coppembell, distrutto dalla sconfitta, ed iniziò a colpirlo con due dita, che con la sua enorme forza bastavano per far cadere il ragazzo.
-ALTTT- disse una voce in lontananza, quasi venisse dal cielo:
-ma dico, SEI PER CASO IMPAZZITO?!-264 si guardò, ma non vide nessuno che lo volesse chiamare:
-EHI TU! GUARDA QUI IN BASSO!-
Poi, la stessa voce bofonchiò, mentre ancora lui lo cercava:
-Ma guarda te questi giovani robot! Ehh…Hai tempi miei…l’avrebbero distrutto sicuramente-
Poi 264 lo sentì emettere un suono metallico di rabbia:
-IO SO DI ESSERE PICCOLO, MA NON MI SEMBRA COSÌ TANTO-
L’enorme robot da combattimento, si voltò in basso. Il robot che gli stava appollaiato sopra i suoi piedi, assomigliava ad un verme direi…aveva due antenne che puntavano in su, dritto agli occhi di 264, quasi volesse scrutargli i pensieri. Eppure l’aspetto lo faceva sembrare carino, ma nulla è mai come sembra essere. Poi il piccolo robot disse scandendo bene le parole, cercando d’alzarsi, nel tentativo di sembrare più potente di quello che in realtà era:
-LO SAI che quello che HAI fatto VA CONTRO l’ultima legge del regolamento di Atlantide. QUELLA PIÙ IMPORTANTE_ UN ROBOT NON DEVE MAI TRADIRE LA FIDUCIA DEL SUO PADRONE_-

264 venne arrestato per TRADIMENTO, pena L’ABBANDONO DI ATLANTIDE.
Allora venne buttato giù dalla città.
Oltrepassò le mille galassie poi cadde sul pianeta Terra, ma  l’impatto col terreno fu così tanto forte che si ruppe anche la radio che i robot usano sempre per parlare. Vedeva a mala pena, era riuscito a capire solo che si doveva trovare disteso perché in alto vedeva quello che gli ricordava il cielo.
Era caduto in un posto strano, era buio , grigio e silenzioso, continuava , in vano, a girarsi in torno  con la testa, per cercare di capire dove si trovasse.

A vederlo quel buco sembrava una caverna, anche se il terreno era ricoperto di mille e mille pezzi duri  e colorati, e la stessa caverna sembrava l’insieme di quei tanti pezzi, esattamente quelli che, per colpa della forte caduta, lo avevano seppellito e che ora lo tenevano incollato.
Solamente dopo essere sicuro di aver visto tutto di quella caverna, decise d’alzarsi, scalciando, battendo e scrollando aveva cercato di togliersi tutto quello strano materiale da tutto il suo corpo , e, una volta tolto, si mise a camminare con un passo così tanto lento che sono abbastanza sicura che delle tartarughe sarebbero andate più veloci.

Era rotto, non avevano nemmeno pensato di riparagli il braccio per fare una caduta da Atlantide con stile.
Non fraintendetemi, non era triste, gli mancava solo il suo braccio, tutto qui.
Era felice perché ora era libero.
Solo, che se avesse avuto tutte e due le braccia sarebbe stato molto meglio.

Ma, tornando al punto.
Quel posto era veramente molto brutto! Sporco, grigio, buio.  Come pavimento c’erano carcasse forse di MILIARDI di Robot, tutte ammassate in tante pile, come fossero state buttate da punti ben precisi che poi cadendo uno dopo l’altro, durante gli anni, avevano formato delle piramidi di robot rotti e pezzi fumanti.
Andava avanti, senza pensare, aveva capito tutto ormai.

Che cosa pensare se non sai cosa pensare?
Faceva qualche passo, poi si guardava intorno, come volesse essere sicuro di trovarsi sempre nello stesso mondo. Prima o poi, si sarebbe scaricato e dopo essersi scaricato sarebbe morto. Non aveva idea di quanto potesse durare la vita di un robot, poteva durare anni, mesi, o per alcuni, come 264, giorni.
Poi cadde, e si guardò in torno facendo finta che non fosse mai caduto, si rialzò e guardò in basso, c’era un piccolo buco, molto simile ad un tubo in mezzo ai pezzi che messi insieme facevano una sorta di collina. “Molto buffo” aggiunse.
Per curiosità infilò il suo enorme dito nell’entrata del buco, lo spinse più che poteva. Dopo averlo infilato tutto, rimase deluso perché sperava di scoprire almeno che cosa fosse. Allora sollevò il dito, per riportarlo indietro, ma senza volerlo buttò giù tutta la pila, rivelando qualcosa di assai più misterioso.
Era una stanzetta, molto piccola e accogliente, con minuscoli (per lui) oggetti e decorata con enormi foglie, che messe in fila, una dietro l’altra, facevano molta allegria. Ma non ebbe tempo d’esaminare tutto per bene, si accorse  di non essere l’unico in quella stanza.  Sentiva un respiro, un piccolo e flebile rumore ma anche molto dolce come il respiro di chi sta facendo un bellissimo sogno. Si sedette per terra, e guardava quella piccola stanza pensando  cosa fosse,  voleva sapere da dove proveniva quel rumore.  Si chiedeva anche se almeno in questo posto avesse avuto la possibilità di sapere, prima di fare o essere costretto a fare.
Poi, tutto si fece di silenzio “Ha forse smesso di sognare?” Si chiedeva. Forse era vero, forse veramente aveva smesso di sognare, ma chi è che stava sognando? “Sognare? Che cosa vuol dire?” Ci fu un piccolo rumore, su uno di quei mobili in miniatura, qualcuno stava picchiano sul legno.
Poi si mosse qualcosa, era un movimento troppo agitato per capire che cosa fosse, ma vedendolo con la coda dell’occhio si poteva anche giurare che fosse lunga e colorata ma dall’apparenza soffice e calda; una coperta. Si formò lentamente una piccola figura, nera e scura per il colore dei suoi capelli d’un marrone quasi pece, l’unica cosa che lui, da quell’altezza riuscisse a vedere.
Poi, la piccola figura, alzò la testa come volesse vedere in faccia lo sconosciuto e lanciarli una scommessa, e lui pensò “che begli occhi, marroni, come i suoi capelli”
-Sei GRANDE!-
disse la piccola bambina tonante, poi, sempre lei, chiese, accorgendosi di aver preso l’attenzione del grande robot:
-chi sei tu?-
264 voleva rispondere, ma sapeva di essersi rotto e di non poter più parlare,
“come fare?”
Sporse piano il suo corpo in avanti, voleva infilarsi esattamente sopra la  piccola testolina marrone, spingendo il dito per toccarle il petto ( ma non troppo forte) per farle capire quale fosse la sua domanda:
-Sei rotto? Non riesci a parlare?-
gli occhi di 264 s’illuminarono. Si stava commuovendo?
Scosse il capo, facendo segno “non posso parlare” :
-Non vuoi o non puoi?- la bambina stava prendendo il ritmo.
264 ripeté lo stesso segno, cercando di spiegarlo meglio “non posso…” .
La bambina, a questo probabilmente era abituata, riuscii a capire benissimo quello che voleva dirle, e sapeva (un po’ perché lo aveva intuito) che al robot non faceva piacere parlarne, e ruppe il ghiaccio cercando di trovare qualcos’altro di cui parlare. Si mise tutta dritta come una recluta in prova generale, dicendo:
-Comunque io sono Nanni- cercò di spingere il dito di 264 su e in giù, poi si mise a gridare (una cosa che 264 non capirà mai):-PIACERE!- “cosa ha detto?”:
-ma tu proprio non puoi parlare? Nemmeno pochino?-
“no” con un segno, stavolta della testa:
- niente? Non posso chiamarti con un nome- silenzio:- Non so se ti piaccia…diciamo che è il primo che mi è venuto in mente…visto quanto sei alto…Behh…Gigante?-
“non ho mai avuto un nome. Anche i robot possono avercelo?” Gigante prese il dito alla bambina e le toccò allegramente la testa, sempre piano. Batté almeno tre volte, la bimba si mise a ridere felice di aver trovato un nome che gli piacesse. Una risata lunga e piena, tipico suo.

I giorni passavano in fretta, così in fretta che sarebbe stato impossibile contarli senza un calendario. Gigante e Nanni non si lasciavano mai, neanche di notte, stavano uno dietro l’altro (Nanni nel suo lettino e Gigante dietro). Gigante non dormiva mai, ma approfittava di quei momenti per ripetersi che avrebbe fatto tutto per proteggere quella bambina, e quando si chiedeva perché avrebbe dovuto far tutto per lei si rispondeva “perché anche lei è stata lasciata” e tutto bastava.
Non si potrebbe neanche dire che gli importasse se Nanni fosse la sua unica amica, lei gli bastava. Così funzionava la sua vita, passare le sue giornate a proteggere, per poi amare.
Qualche volta, invece, si chiedeva se ci fosse stato un modo per risalire su Atlantide “ma che importa? io sto bene qui e là non ci ritorno”. Stando con Nanni aveva scoperto che lei e Gigante non erano gli unici ad essere sulla Terra, ma anche un altro robot, molto piccolo che Nanni aveva chiamato Jaike05, era sempre troppo impegnato a raccogliere i pezzi di robot:-con i pezzi aiuta i robot rotti- gli aveva detto Nanni:-gli attacca, con vite e martello, tutte le parti rotte, prendendole da robot morti-.

Un giorno, tra Nanni e Gigante, lei gli aveva chiesto: -vuoi che glielo faccia fare anche a te?- Gigante non fece neanche tempo a rispondere che Nanni chiamò subito Jaike, “se ci tiene…” pensò.
Il ragazzino, fatto apposta per comportarsi come un bambino, arrivò trainando un carretto rosso che già in sé faceva una pila di pezzi. Jake guardò Gigante dall’alto al basso: - E’ GIGANTESCO!-  quello che diceva lo pensava veramente, lasciò cadere la maniglia del carretto!:
-mi ci vorranno mille pezzi per aggiustarlo. Ci metterò tantissimo- sbuffò, non era cosa che gli piaceva perdere tanto tempo per aggiustare, preferiva giocare e fare altre cose…Ma andava fatto per Nanni e Gigante (che di certo non poteva rimanere per sempre senza un braccio. Prima o poi sarebbe andato in corto circuito).
Allora, si mise a lavorare. Staccò i pezzi rotti, o mal funzionanti, per agganciare quelli nuovi. Pezzo per pezzo, né attaccò uno dietro l’altro, poi quelli più difficili gli attaccava sopra, così gli costruì un nuovo braccio, non funzionante, ma copriva il buco del braccio perso e faceva sì che le scintille prodotte dai cavi strappati della spalla non s’incrociassero “così sto un po’ meglio” si diceva, sempre come se fosse qualcosa di straordinario ma instabile.
Quando Jaike ebbe finito sospirò: -FINALMENTE- strofinò le sue mani robotiche sulla sua pelle finta, come volesse imitare un qualche lavoratore dopo aver finito un lungo progetto. Chissà sa dove l’aveva visto quel gesto.
Però si vedeva chiaramente che il robot, oltre che essere disfatto anche senza la minima stanchezza (solo per il tempo passato in quella ricostruzione), anche soddisfatto d’aver finito.
Se ci penso, quel braccio non era minimamente simile all’altro. Il braccio che Jaike gli aveva creato era poco più piccolo ma molto più grosso, mentre quello alla sua sinistra era lungo, circolare e allungabile. Ed i primi tentativi di ricostruzione furono un completo fallimento, pezzi che cadevano e viti messe male che si svitavano per davvero, tanto che Gigante aveva pure iniziato a dubitare, e lui questo non l’aveva mai fatto in tutta la sua vita. Probabile che non sapeva nemmeno cosa volesse dire.

Così trascorrevano le giornate, giorni felici si potrebbe dire e pensare, tutto andava come avrebbe dovuto andare: lui, Nanni e Jake insieme. Chi lo avrebbe mai pensato che un robot grosso potesse diventare amico di una bimba così piccola e di un altrettanto robot? Sicuro non quelli d’Atlantide.

Alla fine che successe?

Una giornata, come tante. L’aria finì.
Che cosa è successo poi? Direste. La bambina di addormentò. Si addormentò in un sonno profondo e lungo. Era morta?
No, ma aveva rischiato di diventarlo, almeno se Gigante non l’avesse messa nel suo petto e attivato il sistema di aerazione.
Non si può sconfiggere la morte, ed è inutile provarci, quando arriva, bisogna solo dormire. Ma la morte è altrettanto strana quanto spaventosa. Per il morto può essere un sollievo. E può essere scampata da altrettante cose molto più importanti di un ciclo vitale.
La morte avviene a tutti, ma avere degli amici veri o persone che ti vogliono bene, con la sicurezza del loro amore per te. Ecco, quello è veramente un lusso per pochi. Gigante e Nanni, erano diventati amici sicuri, e un vero amico non fa mai morire l’altro.

Gigante sapeva, che prima o poi il suo sistema di aerazione si sarebbe scaricato, o rotto, e non poteva tenere per sempre Nanni nel suo petto, ragion per cui, cercò di trovare un modo per sostituire l’aria.

Aveva cercato di far crescere le piante, spostando ammassi di robot. Nanni gli aveva spiegato che le piante prima servivano anche per produrre aria. Ma non successe niente, o non abbastanza per vivere.

Scoprì però una cosa strabiliante, tra i tanti rottami, in mezzo alle colline, si erano rintanati piccoli animaletti, avevano costruito un loro posto perfetto, e, a quanto pare, uscivano solo per prendere il cibo, proprio per questo nessuno sapeva di loro. Gli animaletti sembrava stessero così tanto bene nelle loro piccole tane, che a Gigante quasi spiaceva distruggergliele. Era veramente qualcosa di straordinario!
“Che cosa potrei fare? Io non posso sapere come creare aria” pensava, seduto a terra, le mani appoggiate contro di essa, eppure non riusciva proprio a capire come risolvere quel problema. “Cosa pensava Copper quando mi ha creato? Mi ha fatto alto e forte ma mi ha fatto anche con un’altra cosa” Fece un sussulto, tintinnando, alzando la testa “il sistema di aerazione…Come l’ ha fatto? Se solo fossi in grado di capire come sono fatte le cosa solamente guardandole!”.
@@@@@@Improvvisamente si ricordò (solo alla fine di una valanga di pensieri venuti prima) che quando ad Atlantide lo stavano conducendo all’arena, quando continuava ancora a guardarsi intorno, una volta appena uscito da quell’enorme gabbia di vetro che gli aveva dato vita, gli era parso di vedere, una piccola (che piccola era solo per lui) mappa, “la mappa del sistema di aerazione”. Allora, una volta riassunto e ricordato nella sua mente, tutti i passaggi di quel piccolo viaggio dal Laboratorio di Copper all’arena, sperando che quella mappa fosse veramente qualcosa di così importante, come il sistema di aerazione , tentò di ricostruirla, con una capacità che solo i robot d’alta generazione d’Atlantide hanno, ovvero, modificare i propri ricordi. Provò ad allargare, nella sua mente, l’immagine di quel foglio, poi la rimpicciolì di nuovo, per vedere se intorno a quell’immagine ci fosse qualcos’altro di utile, ma niente. Poi si accorse che l’immagine non si vedeva bene, proprio perché Gigante in quel momento stava guardando la strada, e non l’aveva notata perciò era lontana, allora provo a schiarirla, per renderla più leggibile. Una volta schiarita, lui si ricordò anche che nessuno gli aveva insegnato a leggere la lingua umana, quindi provò a tradurre le lettere in un linguaggio, formato da dati e informazioni, che solo i robot, in maniera innata (solo loro sono capaci di attribuire alle cose i fatti, dato che è la prima cosa che vedono) e solo in quel momento comprese i tanti passaggi per costruire quel curioso macchinario nel suo petto da sistemare…
Nessuno però aveva mai pensato a dare al sistema di aerazione un’intelligenza tutta sua, era stato solo fatto per essere attaccato ad un robot vivo.
L’utilità’ quindi, poteva darla solo lui. Questo, voleva dire, che per quel macchinario, per funzionare, sarebbe servito un robot vivo, ma Gigante non aveva mica bisogno di due sistemi aeratori. Poi voleva dare aria a tutta la terra, non ad una parte.
Quasi sempre, dopo aver ricordato, passava il tempo a cercare di ricrearlo, a ricostruire quel sistema che per ora, solo lui aveva.
Trovava divertente il fatto che avrebbe cercato di dar aria alla Terra, quando prima nemmeno sapesse quale fosse il suo scopo. Forse era quello, magari qualcuno lo stava aspettando, e lui semplicemente faceva quel che doveva fare. “Dare una nuova vita alla Terra…Veramente è una cosa strana:- ma la bambina non deve morire ed io non sono abbastanza alto per portarla ad Atlantide.  Magari là ci sono i suoi genitori che la cercano - Sospirava, mentre continuava a tentare.
Unisci e stacca. Era questa la sua vita? Unisci, prova e se non funziona stacca? Si potrebbe anche pensare di sì, o almeno lui pensava che fosse così. Senza saperlo però aveva attirato in superficie tutti quelli animaletti, che vivevano chi sa dove nelle colline e che ora, curiosi di vedere Gigante lavorare, avevano deciso di risalire.
Anche loro pensavano che la Terra non potesse essere persa del tutto, vivere sotto cumuli di ferro  per tanti anni aveva cambiato la loro esistenza, il loro modi di respirare e di vivere era diventato molto diverso dagli altri. Avevano, forse, imparato ad adattarsi? Questo non lo sapevano, come non sapevano come fosse una Terra sana, quelli delle generazioni passate né avevano portato il ricordo sulle spalle, per poi passarlo ai figli, ed i figli lo passarono ai loro di figli, tutto fino ad arrivare ad oggi che degli antenati né avevano solo quel piccolo ricordo. Anche loro, iniziarono ad aiutare, ma avendo al posto delle mani le zampe, non potevano prendere e attaccare, ma solo spingere. Si misero a spingere tutte le collinette, fino al centro della Terra, finché tutti (come avevano programmato) non si ritrovarono in un unico punto, dove formarono un enorme cumulo, molto simile ad una piramide arcana e grottesca.
Poi, dato che la Terra senza colore non è poi così bella, provarono anche a coltivare tutto quello che ne poteva uscire. E quel pianeta buio e pauroso, in poco tempo ma con l’aiuto di tutti gli animaletti, divenne molto simile ad un enorme giardino sempre verde, pieno di fiori profumati, ed invitanti piante.
Crescevano gli alberi, che poi facevano i loro frutti e tutto era ritornato nella normalità dimenticata.

I tempi passavano velocemente per Gigante, che lavorava sempre, giorno e notte.
Aveva sperimentato come poteva essere stata la vita molto prima d’Atlantide, e probabilmente, molto prima dell’uomo. Aveva visto, per la prima volta, le montagne e aveva provato (anche con la sua enorme altezza) la sensazione di essere, in confronto a loro, non altro che un piccolo robot. Aveva scoperto anche quale fosse il significato di “verde”. L’aveva visto anche ad Atlantide in qualche vaso o giardino artificiale, e gli era piaciuto.
Ora, che sapeva come chiamare quell’acceso colore gli piaceva molto di più, Aveva qualcosa a cui attribuire il vero senso della felicità. “Felicità? Che cosa vuol dire?” Si era chiesto pensando “Forse…è quando sono arrivato sulla Terra? O è quando stavo con Nanni? Mi sentivo un pochino strano in quel momento effettivamente….Forse è una malattia che prende solo i robot? Si può morire per felicità? Oppure mi sto solo immaginando, ed i robot non la possono provare?”
Tutto era pronto, mancava solo lui e quel macchinario lo stava aspettando “Ho provato la Terra, ed ho scoperto che è bellissima. Che brutto andarsene proprio ora che è incontaminata…Non durerà a lungo questa sua pace. Ora felice, ma chissà un giorno che cosa succederà?”
Pensieri lo tormentavano, come la pioggia picchiettante, ma sapeva bene quello che doveva fare, era semplice, connettersi a quella macchina, e non sarebbe mai morto per davvero ma solo rinato con un’altra forma grossa statica e ferma.
Posò delicatamente Nanni sul terriccio.
Si chiuse tutto in sé stesso, richiamando le braccia e le gambe al petto molto rassomigliante ad un cofanetto chiuso, come volesse nascondere un segreto da non dire a nessuno, che lo tenesse stretto dentro di sé e che fosse così tanto avido che volesse stringere tutti i suoi arti a tenerlo con se. Si guardò in torno per l’ultima volta. “tutto normale, mi sembra…”

Come richiamata da antichi ricordi: l’odore dell’erba fresca, il luccicare incessante di un nuovo sole, (che non vedeva da tanto tempo) Nanni riaprì gli occhi, provò ad annusare l’aria, ancora insicura. Vide il verde, un nuovo colore. Si alzò. Si guardò in torno.  Tutto era fermo, come in un paradiso dove tutto è perfetto. Si voltò, e guardò per l’ultima volta, quegli occhi che aveva conosciuto e aveva già visto: - ma è Gigante! -
Lui stava lì, immobile come diventato di roccia davanti ai suoi occhi bruni, come sempre accadeva. Una bambina che non sapeva, “a me non spiegano mai niente…”. Gli occhi di Gigante, ora erano come uno schermo senza colore, quegli occhi giallo acceso erano scomparsi già da tempo. Come per far capire alla bambina quello che da dormiente non vedeva, come per farle capire che cosa fosse successo: -ONE…TWO…THREE…- un silenzio interminabile: DISCONNECT.
FINE

07/05/2067

Gentile Signora Park.
Le inviamo questa lettera, per dirle che sua madre è stata accettata nella casa di cura di Winked.
Ma, come lei già sa perché L’ha visto lei stessa l’altro giorno quando è venuta cortesemente a trovarci. Qui a Winked siamo molto attenti alla psicologia dei nostri clienti per, ovviamente, poterle dare un ulteriore mano.
Saremo curiosi di sapere bene quale fosse il caso di sua madre. L’altro giorno ha spiegato, che quando era giovane, credeva di aver avuto una bizzarra amicizia con dei robot. In particolare con uno di nome Gigante.
Chiaramente lei comprende che questo è assurdo, tutti si trovavano ad Atlantide ed i robot, ovviamente, non possono prendere vita.
Ci faccia sapere al più presto.
Cortesi saluti

CASA DI CURA WINKED

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