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Cristina Maria Lora
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > leggere lagune - poesia
Primo classificato
Orti dei Dogi
-Racconti-
Di origini Venete, è nata nel 1969 a Valdagno (Vicenza), dove vive e lavora presso il proprio comune di residenza; un lavoro che la appassiona per lo stretto contatto umano.
Laureata in economia aziendale a Ca’ Foscari, ama leggere, ascoltare musica, correre all’alba nei boschi che popolano i colli e i monti abbracciati alla sua città.
Leggere Lagune
SE AVESSI





Se avessi mani
le donerei a te che mi hai asfissiato in una camera a gas,
perché con le mie mani
avresti fermato la morte.
Se avessi occhi
li presterei a te che mi hai visto cifra,
perché nei miei occhi
ti saresti riconosciuto uomo.
Se avessi labbra
le appoggerei sul fischio di un treno
perché dalle mie labbra
sarebbe partito il sapore della paura.

Se fossi sulla terra
sarei fanciullo tra i giochi di strada,
nelle risate dei miei sogni sarei fragore.

Sono il fumo
che hai spedito sopra alla tua testa
tra le foglie ad ammutolire il vento,
aria di cui si nutre il tuo respiro.

PER SEMPRE




Stringo il vuoto. L’aria
ancora evapora di te. Il tuo sorriso
mescola il borbottare dell’acqua
sul solletico del fuoco. Il sale scioglie
il sapore della tua pelle
sulle mie labbra. Assaggio solitudine
nel piatto che mi fa compagnia. Tutto è azzimo. Il vino è schivo.
La sedia naufraga
riempie il centro della stanza. Tu
qui ad oggi non appartieni. Più.
Bussa alla porta una finestra. Si spalancano
i muri. Improvviso il cielo entra a spegnere
lo stoppino di una candela. Prende
la tua forma l’ultima folata di luce. Sento
il tuo alito tra il freddo che riempie le mie mani.
Lo elemosino al mio accattare ricordi. Ti serbo in me. Ancora
una volta accarezzi la terra. Eterni.
MADRE DELLA GUERRA


Salgono lacrime alla sorgente
del dolore
Patibolo, spiro.
boato di fumo
cieco udire
tra i tasselli della battaglia.
Dramma perpetuo.

Ti imbraccia una donna
Pace
la guerra colpisce.
Doglie di un grembo
Vita
dichiarano alla morte.
Madre
tra le macerie del conflitto.
Ti ammira il mondo nel figlio che svetta sulla paura.


NELL’OBLIO DELL’UMANITÀ



Vano
è il tramonto della notte
nell’uomo sordo alla vita.
Piange
la luna nello scarno del cielo
la morte delle stelle.
Spento è il buio.
Si piega la terra
al volto dell’odio.
Frammenti di pietà raccoglie.
Barcollano le lacrime di un padre
strazio di respiri arresi.
Un pianto di madre disperde
gli strappi delle nuvole.
Nel cielo si rifugia un figlio.
Riposa
dove trova pace la paura.
Ritorna
il Cristo sulla croce.
SORELLA FERITA



Denso è il bisogno di abbracciarti,
come il desiderio di sorreggerti,
sorella ferita.
Stordito il tuo odore giace
tra i muschi asfissiati
da risa stolte.
Schegge di pianto
colmano il tuo dolore
come pioggia ghiacciata tra le rupi del lutto.
Assaporo il tuo respiro
mentre allatti la vita
laddove il fuoco mieteva morte
di alberi
di foglie
di rovi
di bestie feconde nel ventre materno.
Un gomitolo di fiamme ha liso il tuo manto.
Sei cupa,
rigoglio divelto.
Le nude pietre stridono ferite
di carbone lucente sui fianchi.
Di ramo in ramo distruzione striscia.

Un eco di paura
serpeggia di gola in gola.
Le nuvole confidano al vento
i fantasmi del fumo.
Bramisce il bosco.
Le gemme invocano il cielo
che caliginoso su esse si china
vitreo di lacrime.

Nel cordoglio dei miei passi
placida ti cullo Terra di Montagna.
Cade neve sul silenzio delle tue ustioni.
Orti dei Dogi
-Narrativa-
VITE SFIORATE


Sono nata tra queste montagne,
le loro radici sono salde in me.
Mi hanno dato la vita e in esse, soltanto tra esse,
potei ritrovarla quando decisi di perderla.



Stringo tra le mani i miei cinquant’anni e la tazza calda appoggiata sul tavolo in abete, assieme ai pensieri e allo sbuffare del fuoco che vigoroso si inerpica su per la canna fumaria tra ciuffi di fiamme.
I turisti della domenica hanno già imboccato la strada del ritorno, inanellata da auto compunte e lussuose; le loro espressioni sono paghe di una giornata trascorsa sulle piste da sci e sulle sdraio, tra i bombardini e i profumi chimici delle protezioni solari spalmate sulla pelle.
A farmi compagnia c’è il silenzio e il pelo arruffato di Bella, il Bernese del mio amico Toni che, assieme al suo cane, gestisce il rifugio dove occupo un angolo sfilato dai tavoli del bar. Con la stessa precisione con cui, in gioventù, preparava l’imbragatura per la scalata, l’uomo è intento a riassettare la cucina dalla quale mi raggiunge lo sbatacchiare delle stoviglie usate durante il giorno per servire bevande e pasti agli avventori. Osservo il sole scendere dietro gli alberi carichi di aghi e di neve; lo accompagna qualche lacrima che si porta dagli occhi alle labbra, disegnando dune tra le mie guance. Abbandono la mia schiena alle pietre a vista sui muri tipici di un ambiente montano e mi sento circondata dallo stesso tepore e dalla confidenza che arredano la mia casa ai margini del centro di Asiago; tiro sù con il naso e con i polsini del pile ripulisco il mio viso da un’incontrollata malinconia che non lascia indifferente lo sguardo di Toni.
“Che hai?” mi chiede con aria asciutta, ma partecipe.
Gli sorrido un po’, si lascia andare sulla seggiola di fronte a me, riempiendo lo spazio che ci separa con del vin brulè, un cesto di pane, del cacio di malga e del salame.
Cedo i miei occhi ai suoi, il mio sguardo si impiglia nelle ciocche di capelli selvaggi che si confondono tra le rughe del suo viso, incise da stagioni valicate all’aria aperta e testimoni della sua età come anelli sul tronco di un albero.
“Mangia!” comanda paterno.
Lo guardo, afferro dal tagliere uno dei dischi pepati, a macchie bianche e rosa, che uniscono il mio appetito al suo.
“Ha l’aglio?” chiedo, annusando.
“No, senti l’aglio?” mi domanda sorpreso.
“No, volevo esserne certa. Non mi piace l’aglio” rispondo senza polemica.
Ne strappo un pezzetto, e poi un altro ancora e a piccoli bocconi, come anni addietro usavo fare, lo mando giù.
“Torni lassù, domani?”
“Sì” annuisco, smorzando la voce dentro una sobria emozione.
“Che ha quel posto di tanto speciale?”
“Al rientro, passo a salutarti. ‘Notte, Toni” mi congedo, senza rispondere.
“Ciao, buona notte”.
Seguito dallo scodinzolio di Bella, egli prende dei ceppi per tenere vivo il fuoco nel camino; a passo spedito, raggiungo la mia casa, dalla quale non smetto di cercare il lume acceso nella baita incastonata sul costone sopra il paese, come un faro sporgente sul mare, mentre i miei sogni prendono forma tra attimi dormienti che accompagnano la mia trepidazione sul cammino dell’indomani.

La neve è scesa copiosa tra le ore del buio, senza segno di cedimento, pronta a rivelare alla valle, nella tregua dell’alba, il fianco morbido della montagna. Di buon’ora, il cielo è braccato da una luce caliginosa che lascia presagire l’arrivo di una nuova ondata di fiocchi intenzionati a condurre il dì a sera e il mio animo a un profondo desiderio di intimità con i luoghi che circondano l’Altopiano. Il mio risveglio è calato nel sonno profondo della contrada ancora addormentata sotto la coltre bianca, avvolta da un’atmosfera afona e da nubi gonfie di umidità, tra le quali si fa largo il giorno.
Il richiamo di ciò che sento accadere là, fuori dalla mia finestra, è sempre più forte.
Colmo è il bisogno di tornare sulla cima, sul Sasso. Il nudo dei boschi, gli alberi, il giallo e il ruggine delle foglie caduche, i contrasti del cielo, tutti i cristalli di neve mi appartengono.
È dicembre, quella parte di dicembre posseduta dall’autunno, è il giorno dell’Immacolata Concezione.
Il gorgoglio della moka e il profumo del latte sul fuoco invitano il mio stomaco a una gradita colazione, mentre il mio cuore scalpita per uscire di casa.
Afferro lo zaino e soppeso una tensione nota, sorretta da un miscuglio di dolore e speranza che segnarono un difficile cammino che mai smetterà di appartenere alla mia vita. Appoggio il mio compagno di viaggio su una sedia e lo apro con la religiosa passione che mi ha trasmesso mio padre:
“Abbine cura ed esso ne avrà di te.”
Ripongo al suo interno quanto richiesto dalla stagione e dal percorso.
In uno scomparto appallottolo una spessa maglia di ricambio, dei guanti e un berretto, una giacca impermeabile; nell’altro metto del cibo. Mi tremano i pensieri ogni volta che raccolgo tra le mani i miei quattordici anni, quando rifuggivo quelle stesse calorie che ora sento amiche e fonte di energia, e che a lungo reputai nemiche di una magrezza che ostentavo, ignara del destino che essa mi avrebbe riservato. L’odore intenso del formaggio della malga di Toni, racchiuso tra due fette di pane, si lascia deporre nello scomparto a esso dedicato, assieme a qualche mela e a del tè caldo, ricco di limone e di miele nostrano. Una tavoletta di cioccolato e un pezzo di torta fanno da companatico alla salita a cui mi sto preparando.
Ispessisco il mio corpo con un numero adeguato di indumenti; infilo le ghette sopra agli scarponi che la sera prima avevo cosparsi di grasso e riposti accanto alle braci che respiravano tra la cenere del camino; senza nulla aggiungere, così come faceva mio nonno e, come lui, mio padre.
Ho voglia di nostalgia.
Una lepre attraversa a fatica il mio giardino, la neve si rivela farinosa e soffice; il suolo preannuncia un continuo sprofondare di passi, ma ho deciso di godere uno a uno quegli affondi tra quanto di più candido il cielo sa donare alla terra.
Avverto il bisogno di tale intimità.
Richiudo alle spalle la porta di casa e mi avvio, con gli occhi madidi della medesima felicità di quando contavo i miei anni su una mano e nell’altra stringevo papà.
La sento ancora quella stretta, salda e buona, avvolta alla mia, anche oggi che bambina più non sono: ne serbo la forza, che mi conduceva dalla valle alla cima, e l’amore, che si faceva grucce per la mia abulia quando, adolescente, mi astenevo dal nutrirmi e dal vivere.
Lascio dietro di me il centro di Asiago e le ultime case della Val Giardini, dove amo, di tanto in tanto, salire dalla cittadina in cui abito per rannicchiarmi con me stessa, nella mia casa in contrada Costa, e imbocco il primo sentiero che, tra boschi caduchi e sempreverdi, si inerpica su per il fianco del Monte Zebio.
A ogni passo, calco le presenze dei taglialegna e dei mandriani che, nella bella stagione, incontro tra queste terre, intenti a prendersi cura dei boschi, dei pascoli e delle bestie dai quali traggono ossigeno e sostegno per le loro famiglie e per gli abitanti del paese; rivivo lo sguardo di uomini che, come me, tra questi silenzi ritornano ad appartenere alla vita e in essi trovano ispirazione e parole per raccontarla a chi a essa è sordo o cieco o lontano o ignaro della sua presenza; assaporo il ricordo dei numerosi incontri con colui che, a questi boschi, ai loro uomini e a ogni forma di esistenza che a essi appartiene, ha dedicato i più delicati pensieri e la poesia del suo cuore, Mario Rigoni Stern.
A ogni passo, calco le impronte che hanno marcato i miei anni; impronte a volte leggere e a volte pesanti, scandite da profonde cadute nei crepacci più impervi della mia mente e da risalite tra l’aria matura e serena che dilaga nel respiro di un pianoro o su uno spuntone che annovera il mondo a 360°.
Divoro il mio cammino, affamata di emozioni, spronando il ritmo dei miei scarponi con l’impazienza di giungere al mio Sasso. La neve, già alta, aumenta imperiosa e io procedo a fatica, sprofondando a ogni avanzare; incedono le mie gambe, scalzando il tempo in una danza lungo i boschi che papà mi ha insegnato a osservare; accarezzando qua e là qualche albero amico, annusando il profumo che la loro corteccia umida emana; tentennando con le dita tra i rami per far cadere sulle mie guance, spennellate dal freddo, piccoli e delicati fiocchi sospesi; rendendo grazie alla vita che tra la natura dimora e che, materna, mai ha desistito dall’amare la mia.
L’ambiente che mi circonda sta assecondando il suo letargo e io il risveglio di un ricordo.
Continuo a salire fino a quando il sentiero chiede tregua alla pendenza; i miei passi  rallentano in un andirivieni di dolore che tratteggia quei luoghi martoriati, qualche anno addietro, dalla violenza della Tempesta Vaia. Un brivido tormenta la mia schiena e il passato la mia mente; mi prende per mano la sofferenza della vegetazione circostante e mi conduce lungo un vissuto parallelo che segnò la mia adolescenza e la mia felicità.
Seguo il manto nevoso mentre accomoda la sua forma sopra gli alberi coricati sul suolo, proteggendoli sotto un bianco compatto, lacerato qua e là da schegge, rami dinoccolati e desolazione. Penetrante è il mio sconforto per quei guardiani di terre e genti che ora giaccioni sradicati, sconfitti come soldati da un nemico che li ha colpiti a tradimento in un furioso giorno d’autunno. Retrocedo nelle stagioni e mi soffermo sulle volte in cui, seduta ai loro piedi, ne ho amato il fresco e l’ombra estivi, inebriata dal profumo della resina che scorreva lungo la corteccia, sgorgando dai tronchi, appiccicandosi alle mie mani mentre ne stringevo le radici, apparentemente, tanto salde al terreno quanto ignare della loro fragilità.
Annuso la neve che si mescola al vento di maestrale e concedo al silenzio di indicarmi la via, sorretta dalla tempra dello sgomento che mi circonda.
La punta di un abete mi strattona la giacca, destando la mia attenzione; mi avvicino, sfioro i suoi rami e ne accarezzo le schegge frastagliate; affondo i miei polpastrelli tra le sue ferite, mentre danno lustro al vigore che scorreva lungo il suo fusto e invocano la mano sapiente di un boscaiolo, affinché renda memoria alla storia di quei luoghi tra le genti: nelle assi di un letto, dove una madre culla il sonno del suo bambino; nella cassa di un violino, dentro la quale risuona la dolcezza di quel legno; nel calore che un camino promana dall’ardere dei ceppi; nel profumo del pino cembro che inebria la maestria di mani prodighe a renderlo opera d’arte.
Un secondo brivido mi assale; stentoreo bussa in me il ricordo di quando mi ritrovai a terra, nel tonfo dei miei quattordici anni, travolta da una bufera di fronte alla quale mi pensavo invincibile e della quale, invece, persi ogni controllo. Abbasso le palpebre, qualche lacrima si confonde con la neve sciolta dall’emozione che avvampa le mie guance. Abbraccio il mio corpo per contrastare il freddo che comincia a farsi sentire e per dar conforto a quel passato che sta venendo a galla, nitido come una frustata sulla schiena.
Rivivo nei tronchi abbattuti dal Vaia l’epilogo di una magrezza messa in ginocchio da un ricercato digiuno al quale, giorno dopo giorno, la mia mente aveva addomesticato il mio fisico fanciullo e remissivo. Mi reputavo inattaccabile e salda nelle mie convinzioni, come le radici degli alberi e come esse mi scoprii impotente al sopraggiungere di un vento più forte di me. Ero una ragazzina tanto determinata quanto fragile e spaventata, messa in ginocchio da una donna che ne stava soppiantando le forme. Come lo ero nello studio e nella condotta, fui ligia nel ridurre il cibo, fino a diminuirlo e, dunque, ad azzerarlo, pur di cancellare quelle esili curve, spartite tra seno e fianchi, che mi stavano rendendo adulta e che non riuscivo ad accettare. Succube di un’incontrastabile dicotomia, la mia mente era contesa tra la parte di me che reputava nella perdita di peso l’unica via per raggiungere bellezza e felicità e la parte, più debole e manipolabile, che subiva il castigo della fame, del vomito indotto, dei lassativi e dei diuretici, del cibo trafugato alla mia alimentazione, delle menzogne raccontate a mia madre e a mio padre e a me stessa. Imperterrita, non mi fermavo nella mia crociata, stringendo, in una mano, una salda convinzione e, nell’altra, una mortificante apatia che mi trainavano lungo una rotta che non riuscivo più a contraddire.
E poi giunse, inaspettata come il Vaia, la resa dei conti.
Avevo perso ogni contezza dei minuti in cui ero rimasta supina sul pavimento, priva di sensi, nel momento in cui aprii gli occhi e nei seguenti. Era come se il corpo non mi appartenesse più, i miei muscoli erano assenti, così come i pensieri, mentre la gioia di quanto la vita era stata per me, fino a pochi mesi prima, beffarda mi stava girando attorno: nei ricordi appesi alle pareti tra le foto che mi vedevano esultante sui pattini, nelle coppe che alzavo vittoriosa su un cubo contrassegnato dal numero tre, piuttosto che dall’uno o dal due; nel refuso di una corda rotta tra il silenzio che la mia chitarra spartiva con l’atrofia delle mie dita.
Con gli occhi aggrappati alle lacrime, osservavo quel passato che si stava scollando dai muri della stanza, restituendomi il nudo futuro che dimorava dentro alla mia anoressia.
Ero incapace di spiegare, a me stessa prima che agli altri, il perché di quella violenza con cui mi stavo accanendo contro il mio corpo; ero parte di un dramma che mi rendeva consapevole di quanto esso fosse assurdo e sbagliato e devastante, eppure, tanto irresistibile. Più occasioni avevano declinato le sorti del mio destino e nonostante ciò continuavo ad alimentare il mio digiuno con una rinuncia in più.
Ma non quel pomeriggio.
Mi resi conto di essere sola; non riuscivo a rialzarmi, faticavo a respirare, a riflettere, ad afferrare la spranga del letto che vedevo poco più in là della mia testa; le parole erano lontane dalla mia voce, incapaci di chiedere aiuto, quell’aiuto che fino a quella paura, tanto dirompente, non mi ero abbassata a domandare o accettare.
Desideravo che tutto finisse in fretta, ma il tempo non scorreva mai, anche la polvere era statica. Non avevo più lacrime, la mia disperazione era troppo grande per essere urlata.
In lontananza il campanile assestò sei colpi nell’aria; una speranza movimentò i miei pensieri nello stantio della stanza: i miei genitori stavano per rientrare dal lavoro.
Le campane si zittirono, il mondo ritornò muto e, attorno a me, riprese a correre il silenzio, quando, finalmente, la porta si aprì.
Le preghiere e la dolcezza di mia madre mi raggiunsero sorrette dalla forza di mio padre che mi sollevò tra le braccia e mi adagiò sul letto, accanto alla loro compassione. Mamma mi porse del tè caldo e alcune carezze, papà spalancò la finestra per far entrare l’aria e la primavera che mormorò alle mie guance e al mio orgoglio. Il mio sguardo, lento, si aggrappò ai monti issati sul cielo terso di fine marzo, al limitare del paese, mentre il mio corpo stremato rimaneva stretto alla sua immobilità; uno scatto di rabbia si arrabattò tra i miei occhi; rabbia per l’infelicità nella quale avevo nebulizzato la ragazzina che tentava di vivere in me, dentro una manciata di chili in una vita rarefatta.
Il volto di mio padre incrociò il mio, spartito tra una dilagante astenia e il rumore della vita che mi raggiungeva dalle montagne; fu nei miei occhi posati sulle cime ancora imbiancate che egli comprese ciò che davvero mi mancava.

La prepotenza dell’inverno mi scuote tra la neve che continua a mulinare attorno a me, assieme al maestrale e ai ricordi di quel momento. Sento le mani e il cuore gelare; il bisogno di raggiungere il mio Sasso è tanto pressante quanto il bisogno che, in quel pomeriggio adolescente, avvertivo di saziare il mio corpo con il cibo e la mia mente con il riscatto da uno stereotipo di bellezza che mi aveva spinta sull’orlo della morte.
Mi congedo dall’abete pregno di patimento e di nostalgia e riprendo il mio cammino. Rincorro i boschi e gli alberi e la neve e il desiderio di rispolverare la mia rinascita; il passo accelera, muta in corsa; il fiato diventa affanno e il freddo sugli occhi lacrime. Le cadute, sulla neve rigogliosa, si susseguono con la stessa determinazione che mi spinge a rialzarmi; il mio abbraccio con la terra è insistente e grato, mentre il peso, che per anni mi ero portata dentro, si sta alleggerendo sempre più.
Il sentiero è reso uniforme dal candore che accomuna bosco e sottobosco, ma non temo quel suolo all’apparenza anonimo, conosco la via e il mio cammino.
Continuo a percorrere la mulattiera che unisce la Val Giardini allo Zebio e raggiungo la Croce di Sant’Antonio; mi inoltro tra gli alberi carichi di neve, qualche fiocco mi imbianca il capo e le spalle; incrocio la traversa che sale da contrada Bosco, imbocco la direzione per il Forte Interrotto e il Mosciagh, al bivio giro a destra e mi porto verso i Cimiteri della Grande Guerra 1 e 2.
Le tracce di un cane marcano il suolo con un festoso calpestio tra le orme del padrone; leggere, alcune impronte di capriolo si perdono tra la vegetazione, dove avvampa il silenzio che la neve imperiosa mesce nell’aria; la salita spiana e poi digrada al cospetto del bianco pianoro puntellato di croci e lapidi, vegliate dagli alti fusti risparmiati dalla Tempesta.
La desolazione si dipana in un dedalo di vite spezzate da una guerra alla quale esse non hanno potuto opporsi; l’aria è pregna di cupezza.
Scorgo tra la neve il mio Sasso e il  dolore dei soldati inciso accanto al mio.
Alcuni rami divelti spezzano il manto intonso che lo ricopre, mi avvicino e, usandoli come spazzola, lo ripulisco dalla neve ancora farinosa che ne riveste la pietra. D’istinto lo accarezzo, come si accarezza un padre, una madre o qualcosa di importante, di tanto caro alla propria vita. Mi siedo e adagio lo zaino accanto a me: è lui il mio compagno di viaggio in questo giorno di dicembre, come in altri che hanno frugato tra i miei sentimenti. Non avverto la fame, né la sete e neppure il freddo che picchia sulle guance nude a far breccia tra il berretto e la sciarpa che porto avvolta attorno al collo; avverto soltanto un pressante bisogno di condurre il mio cammino a dar pace a quel ricordo.
In un profondo respiro, porto dentro di me il silenzio che, benevolo, invade i miei polmoni e ascolto il tremolio delle mie labbra confuse nel tepore dell’alito che mi riscalda le mani, maturando un velo di umidità sopra i guanti in lana, e la compassione dei miei occhi che si appoggiano sull’umanità incisa nelle tombe e sulla giovinezza di quei corpi che esse conservano alla memoria. La mia mente draga frenetica nel dramma che accomuna i caduti della guerra e del Vaia al mio vissuto, mentre nel sibilo del vento mi appare, come in una visione, la voce di mio padre che in quella piana di morte, dentro uno scorcio di primavera, aveva scongiurato la mia vita:
“Tu puoi scegliere, loro no.”
Ritorno alla mia stanza, ai miei quattordici anni, alla bella stagione che mi circondava e che si scontrava con la mia anoressia, scuotendomi nel rigoglio di un’esistenza che, fuori dalla mia finestra, stava prendendo forma.
Avverto le braccia dei miei genitori che nei giorni, nelle settimane, nei mesi seguenti e in ogni istante mi hanno sollevata dal pavimento e poi dal letto per riportarmi tra gli odori di un mondo che, ne erano certi, avrebbero disgregato la mia apatia. Denso fu l’amore che li spinse a ricucire i pezzi in cui avevo frantumato il mio sorriso, la mia energia, il mio slancio, la felicità; a condurmi quassù dove, essi sapevano, avrei udito il richiamo della vita.
Rammento le spalle tenaci di mia madre nel portare il peso dello zaino colmo di cibo e di speranza, lo stesso zaino che sta ora al mio fianco; rammento il cammino della sua  schiena minuta, eppur tanto forte, muoversi accanto a quella di mio padre, intento a sorreggere la precarietà dei miei trenta chili mentre percorreva, con la stessa fede con cui si compie un pellegrinaggio, il sentiero sul quale, fino a ora, ho affondato passi ed emozioni, tra la neve, per raggiungere il mio Sasso, il nostro Sasso.
Tremano le mie dita mature mentre aprono le cinghie dello zaino e sfilano il termos del tè, ripetendo i gesti che mamma aveva compiuto, in quella primavera acerba d’altura sette lustri addietro, quando raggiungemmo questa piana e, solo allora, le gambe di papà cedettero alla stanchezza e alla commozione. Egli prese fiato sedendosi sul Sasso e mi accolse sulle ginocchia, come quando ero bambina, con lo stesso amore, con la stessa forza, ma con maggior determinazione, finché mia madre riempiva le tazze, confidando che la mia mente non facesse caso, almeno per una volta, al miele zuccherino che si confondeva con l’aspro del limone.
“Ti va un po’ di tè?” mi chiese papà, scorgendo tra gli occhi di mamma una dignitosa apprensione.
La povertà del mio corpo picchiava nella mia mente, combattuta tra lo specchio e la bilancia; tra uno stereotipo distorto di bellezza e un’anelata serenità; tra la vita che stavo lasciando andare e l’amore per una montagna che intratteneva il mio sorriso, fiduciosa di poterlo confondere tra i bottoni d’oro che spezzano il verde dell’estate per poi restituirlo, nel giallo di una foglia, al marrone dell’autunno e custodirlo come germoglio sotto il manto dell’inverno e renderlo gemma nel risveglio della primavera.
Titubante, strinsi il mio coraggio e la mano di papà, avvicinai alle labbra la tazza e, racchiuso in un sorso, ritrovai in quel tè il sapore intenso di ricordi felici.
Dentro un digiuno di emozioni, avvertii quanto mi mancava la mia montagna, la sua gente buona e laboriosa che accompagnava al pascolo le mucche e ripuliva i boschi senza curarsi dei calli annidati tra le mani mentre impugnavano il manico di una scure. Mi apparteneva questa montagna e io appartenevo a lei, ma, segregata nella mia malattia, avevo perduto ogni forza insita nelle guance variopinte che essa dona a chi la ama: non riuscivo a viverla, a sentire il profumo degli alberi, né l’odore delle stagioni; ero sorda al suo richiamo, sepolta in me stessa come i corpi dei soldati sotto le croci, come gli alberi divelti sotto la neve.
Mi mancava la mia montagna e mamma e papà lo sapevano, come sapevano che essa era l’ultimo appiglio per risvegliare in me quella voglia di vivere che avevo smesso di cercare. Essi sapevano che amavo lo sfrigolio della neve sulla pelle e il profumo dei mughi reso vapore dal sole di agosto; conoscevano l’emozione che si addensava nel mio respiro rincorrendo il madido del bosco novembrino e il vento della cima e il silenzio paziente che anelava la mia compagnia, quassù, sul Sasso.
Sorseggiando il tè e con il mio capo stretto al suo petto, papà iniziò a rivangare la storia di questi luoghi, la tragedia della guerra, il dolore sotteso alla morte e la meraviglia insita nella vita e io lo ascoltavo e mi sentivo svenire, per la debolezza, per l’emozione, per la paura di un destino catatonico, tanto vicino a me.
Papà spostò la sua voce tra la leggerezza dei ricordi che celebravano le nostre escursioni, gli appostamenti nei tardi pomeriggi per catturare i tramonti, le alzatacce ai bordi della notte per cogliere di sorpresa il levarsi del sole sulla terra e la gioia che spennellava i nostri occhi per il miracolo che quegli spettacoli ripetevano, certi dell’alternarsi di buio e luce.
Poi, il suo sguardo attraversò il mio e si fermò sulle lapidi e sulle croci; mi sollevò e, sorreggendomi, ci avvicinammo a esse e leggemmo le incisioni: i nomi incalzavano sconosciuti, accomunati dalla giovinezza delle loro età e da un respiro che, su queste montagne, si era spento per difendere la Patria.
Papà prese dallo zaino un foglio di quaderno, lo aprì e, nascondendo tra le righe alcune lacrime, con il fiato rotto disse:
“Ricordi? L’hai scritta tu, ami scrivere, è da tanto che non lo fai; l’hai composta l’ultima estate in cui siamo venuti quassù e l’hai dedicata a questi uomini, per i quali hai sempre provato compassione e dolore: “è un inno alla vita che non c’è più”, mi dicevi. Tu puoi ancora sceglierla, loro no.”
Il mio cuore accelerava nel rimbombo di quelle parole che stridevano sulla mia disperazione come una lama sull’acciaio “...è un inno alla vita…”, mentre inseguivo la voce di papà che dava forma ai miei versi:

NEL SILENZIO SOFFIA LA TUA VITA
Riposa uomo tra il silenzio di questi fili d’erba che narrano di te
ignoto soldato
Non ha colori la tua bandiera
Non hanno idiomi i tuoi verbi
Sei membra vinte da una baionetta che parla di un comando
Volano il falco e l’aquila silenti e fedeli ambasciatori del tuo ricordo
Dei tuoi occhi
custoditi tra il bianco e il nero di una fotografia
Delle tue risate amiche
nei brindisi festosi sotto le pergole nelle notti d’estate
Delle tue mani
delicate carezze sui capelli bianchi di chi ti ha reso figlio
Delle tue parole d’amore
per chi di te porta la fede appesa al cuore
Della tua buonanotte
tra coccole e baci ninnati da bambole di pezza nel dondolio di una candela
Del grido della tua rabbia
per una voce zittita nel tuo ultimo respiro
Gocce di neve lente e cristalline parlano del gelo che sigilla il tuo sangue
Fiori selvatici dipingono il sorriso del tuo canto tra gli abeti
Petalo di soffione adorni dei tuoi figli il primo giorno di scuola
Grida forte il vento verso valle portando nell’aria il tuo sospiro
Una lacrima si alza in volo dolcemente sorretta dal becco di una colomba
Uno squillo di tromba onora il dolore della ruggine che tinge il tuo sacrificio

Riposa soldato quassù
dove il silenzio si fa pesante sulla terra sotto il tonfo del tuo corpo
Riposa uomo quassù
dove il silenzio si fa leggero tra l’aria che emana il profumo della tua anima

La lettura di papà terminò, il bosco tacque, il vento si impigliò tra gli alberi e il mio pianto si palesò ingombrante quanto il dramma annodato al mio cuore. In mezzo a quei singhiozzi avvertii che la mia vita stava per andarsene, che mi stava tradendo, o che io stavo tradendo lei. La vita! Quella stessa vita che i soldati avrebbero voluto tenere stretta tra le mani e percorrerla fino all’ultima ruga.
Io la potevo ancora scegliere, loro no!
Mi accasciai a terra, tra una tomba e l’altra, sentendomi parte di quell’urlo strozzato in gola che aveva ceduto i soldati alla morte.
Passarono i minuti, il silenzio era sempre più denso e l’aria sempre più frizzante; il cielo stava volgendo all’imbrunire. Mi aggrappai a mamma e a papà, afferrai il foglio, ancora aperto tra le mani di mio padre e lo donai al nome della croce che si sollevava accanto a me e, con una determinata preghiera, mi rivolsi i miei genitori:
“Aiutatemi, aiutatemi a non morire. Voglio tornare quassù, rivedere la neve, sentire che mi sfiora la pelle e mi entra nelle scarpe, che mi bagna i capelli e mi fa gocciolare il naso e lacrimare gli occhi; voglio annusare la resina nel caldo dell’estate, assaporare il profumo dei fiori selvatici e sentire il cielo annunciato dal falco e dall’aquila, incontrando Giuseppe, mentre porta al pascolo la mandria, e Pietro, mentre taglia la legna; voglio sedermi accanto a loro per farmi raccontare della stagione, per stringere tra le mie mani il ruvido dei loro calli e saziarmi di sorrisi ebbri per un’amicizia sincera.”
Ricordo l’intensità racchiusa nel nostro abbraccio tra i singhiozzi di papà e il buono dei baci che mamma elargiva, salmastri, sulle nostre guance.
L’ascesa di quel mattino di aprile segnò, per me, il primo giorno di una lunga primavera, ricca di sole e di temporali. Fu una scalata tanto sofferta quanto anelata, con le unghie aggrappate a ogni sentore di vita e la mente graffiata dall’ago di una bilancia che, di tanto in tanto, tentava di trascinare il mio peso verso il basso. Fu un susseguirsi di scivolate all’indietro e di passi portati avanti con le mani strette a una corda fissata a una parete verticale, spinta da una montagna che mi desiderava sempre più prossima alla cima e che mi stava ricordando, attraverso le stagioni, gli alberi, i silenzi, i ‘Giuseppe’ e i ‘Pietro’ che incrociavo lungo il cammino, di vivere. Ero perseguitata, di tanto in tanto, dall’ombra della mia anoressia che, aggrappata alla montagna, tentavo di rendere piccola come quella che il mio corpo tracciava sulla roccia sotto il sole di mezzogiorno.
Ritornammo giorno dopo giorno quassù, cercando, dapprima, la via con occhi pallidi e la forza tra briciole di calorie ingoiate controvoglia; poi, con le guance scarlatte e il sapore di un buon pezzo di formaggio tra i denti, per annusare, nella semplicità dell’aria, una ritrovata serenità.
La forgia delle mie gambe riprese a sgranare passi tra i pascoli d’altura e i sentieri più ripidi, e le mie mani a respirare il vigore che la pietra umida e salina rilascia sui palmi nudi e sui polpastrelli durante la presa tra gli anfratti più aggressivi.
Incisi le mie orme, accanto a quelle di mio padre, sul bianco candido sparpagliato tra il Portule e Cima 12, tra  l’Ortigara e il Caldiera, il Monte Fior e il Castelgomberto, in un abbraccio che racchiudeva, dentro di sè, l’interno Altopiano di Asiago.
Ritornai ad annusare la resina sulle mani tra il refrigerio delle fronde nella calura d’agosto.
Ovunque giungesse, il carico di entusiasmo portato a spalla nei nostri zaini cercava altri sassi sui quali ascoltare la neve, risvegliare l’alba, sorridere alle stelle alpine, scorgere il rosso delle caruncole di un gallo forcello; sui quali vegliare il tepore della primavera farsi caldo nell’estate e il tramontare dell’autunno cedere al sonno dell’inverno.
Nella forza di un cammino, a volte tortuoso, ritornai a sentire che le mie radici stringevano la terra.

Il pomeriggio di questa Immacolata Concezione è ormai alto tra i lividi del cielo; trattengo ancora i ricordi, seduta con il mento appoggiato alle ginocchia avvolte dalle braccia e dal freddo incalzante, quando un sordo scalpiccio rumoreggia tra la neve: l’alito di Bella raggiunge la mia schiena intirizzita.
“Sei ancora quassù, anima mia?”
“Toni!” sussurro, sorpresa e coperta di bianco.
“Vuoi farmi morire di spavento? Lo sai che ore sono? Tra un po’, ti faranno compagnia soltanto la notte e il gelo! - non avevo mai sentito, prima d’ora, tanta apprensione nei miei confronti da parte di quell’uomo dalla parvenza burbera - Ho recuperato più di qualche corpo congelato quando ero nel Soccorso Alpino e non voglio veder portare via da un elicottero il tuo” scuote il capo e il tormento per un dolore che non passa mai.
Un brivido mi morde il cuore e il fischio del vento stride nel silenzio di due vite amiche che apparterranno per sempre alla montagna: il sorriso di Cristina Castagna, El Grio, inghiottito dal Broad Peak; il viso ridente di Paolo Dani restituito ai suoi affetti in un giorno di luglio, dopo che la Marmolada se lo era portato via.
Vite spezzate, ancora una volta, sfiorano la mia che, negli anni, sono ritornata a tenere stretta.
L’uomo e il suo cane avvertono il fremito che attraversa i miei pensieri, si acquattano accanto a me; nessuno di noi aggiunge una parola, né un gesto all’umanità che affolla l’aria e il momento.  Le tante storie che ogni montagna custodisce non hanno bisogno di voce per essere ascoltate.
In un devoto commiato e con le torce accese, raggiungiamo la valle.
Dentro il rifugio, nel vigore del camino, i ceppi non hanno mai smesso di ardere.




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