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Diego Monero
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > Isole della Laguna - narrativa
Nato alla fine del Talidomide, prima della celebrità di Oswald e dello sbarco sulla Luna; rammento bene i servizi dal Vietnam di Marcello Alessandri, la sua sahariana in bianco e nero, l'ultimo elicottero fuggire da Saigon proprio come sarebbe accaduto anni dopo a Kabul.
Analista informatico, amante del mare, comandante, seguace di Fernand Braudel, devoto di Predrag Matvejević e del mare più bello del mondo, della scrittura, dell'immagine e della scoperta.
Convinto che le storie vadano raccontate dal basso, perché dall'alto è troppo comodo, troppo semplice come approssimare un cavallo ad una sfera per facilità di calcolo.
Isole della Laguna
-Narrativa-
Basso continuo         

    

Contabilità oscena

«Leggi, leggi pure. Sfoglia queste pagine, questo diario del delirio, non ti fare scrupolo di chiedere, comincia dai numeri che altro non sono se non le cifre di una contabilità oscena. Oppure ancora meglio: ascoltami, perché io c’ero sin da prima e dal principio. Dunque inizierò da qui, da un anno fa, da quando tutto è ricominciato.»
«Come nasce è noto: il morbo scaturisce dalla terra e si spande col contatto, con l’alito, la vicinanza e la promiscuità. Più arduo è dire come si diffonda e già allora si iniziò parlare di agenti stranieri, di ebrei o di qualche zingaro dalmata: voci più attendibili riferirono dell’arrivo, ai primi di giugno, del marchese De Stirgis, ambasciatore del duca di Mantova; anche lui trasferito in quarantena nel Lazzaretto Vecchio, niente di personale anche considerando le tensioni politiche in corso, normale pratica a Venezia: chi arriva deve fare anticamera. Meno di un mese dopo fu trasferito “per suo comodo” a San Clemente, un’anticamera più consona al  rango. Alla fine la quarantena dimostrò le sue ragioni: il 9 De Stirgis morì accompagnato da un cameriere e quattro serventi.»
«Come vedi tutto è andato come le altre volte, nulla cambia e tutto si ripete, la stessa identica situazione di sessant’anni fa. Ovvio, io non c’ero, ma ne ho letto molto quando studiavo medicina; recentemente ho avuto modo di parlarne anche con il collega Morafini. In tutto e per tutto abbiamo riscontrato la medesima dinamica: ancora una volta il caldo, una nave che arriva, una delle tante che entrano in laguna, poi il primo caso e dopo due settimane il morbo inizia a dilagare; e ogni volta è stata una calamità che ha colpito prima la popolazione e poi l’economia, togliendo braccia e menti ai commerci, cuori agli affetti. Nel 1624 eravamo oltre 140.000: vedremo questa volta, alla fine, in quanti rimarremo.»
«E insomma ti dicevo: con De Stirgis a San Clemente, il magistrato alla Sanità diede incarico ad un falegname di sant’Agnese, un tal Gianmaria Tirinello, di costruire sull’isola alcune strutture per i guardiani sanitari; con la moglie che lavorava a servizio, lui si portava appresso il figlio, un bimbo di sei anni che passava il giorno a giocare sulla riva. Per farla breve, a metà di luglio morì il falegname e sua moglie. Già il 12, rientrato a casa la sera, aveva riferito di aver trovato la moglie a letto, senza per questo dare molto peso alla sua debilitazione, come tutti del resto. Sperai invano che il falegname non fosse stata la falla che avrebbe fatto affondare ancora una volta la città. Non era certo il caso di lanciare allarmi ingiustificati ma come medici abbiamo l’obbligo umano e scientifico di prestare la massima attenzione, perché la contrada del falegname è ancora oggi una delle più popolose e se il male avesse preso piede lì, ci sarebbero state ben poche speranze per gli altri sestieri. Ma il magistrato alla Sanità si limitò a parlare di alcune morti e non volle pensare ad altro, figuriamoci al peggio, al contagio.»
«Alla fine di luglio il morbo chiuse il conto portandosi via ciò che rimaneva della famiglia Tirinello, il piccolo e suo fratello di dieci anni. Anche una famiglia di loro parenti ebbe lutti, ma per il magistrato tutto andava bene, sosteneva ancora la tesi dei normali decessi; eppure io lo vedevo che nulla andava bene. Visto che quella falla rese vana la quarantena, sarebbe stata quella l’ultima opportunità di prendere tutte le iniziative per evitare il peggio. Ma a palazzo si mossero come sessant’anni fa, preferendo quietare le voci, finanche con la forza, così da non disturbare l’operosa vita in città.»
«Invece la peste non si perse in chiacchiere. Inutile dire che tutto è sotto controllo, incolpando qualche disgraziato, gettandolo in pasto all’ansia di sicurezza della popolazione. Lì a san Marco dicono sempre che tutto va bene, ed è vero finché non va male, ma allora non ci sarà più molto da fare. Già a fine agosto ero sicuro che non sarebbe stato più possibile contenere il morbo, nessuno poteva sapere i contatti della famiglia Tirinello o dei loro parenti. Non potevamo fare altro che rimettere tutto nelle mani della Provvidenza, affinché illuminasse quelle altri menti cieche.»
«Io stesso dovevo forzarmi a chiamare la realtà con il suo vero nome: peste, perché solo chiamandola con il suo nome, avrei avuto ben chiaro il problema; e forse una soluzione. Insomma, a conti fatti, tra l’ambasciatore, i camerieri, la famiglia del falegname e i loro parenti, morirono circa in quindici, ufficialmente senza una causa precisa. Nel tempo mi sono convinto dai fatti che il morbo passi di persona in persona attraverso un alito che, se non proprio direttamente, arriva ad impregnare anche gli oggetti e i vestiti.»
«A metà di agosto le voci del popolo iniziarono a cercare un colpevole, uno qualsiasi, della paura che dilagava; una certa Pasquetta denunciò una famiglia ebrea che le aveva portato alcune lenzuola da lavare. L’accusa si basava sul fatto che quelle persone furono viste lavarsi le mani con aceto prima e dopo aver maneggiato quella biancheria. Qualcuno sospettò anche che le avessero prese con dolo a San Clemente, proprio dalla camera dell’ambasciatore. Il magistrato comunque, non volle ancora parlare di epidemia, sostenendo invece l’idea di un complotto contro la repubblica.»
«Qualche altro invece diede la colpa di tutto ai lanzichenecchi scesi dalla Germania a inizio dell’anno. Dove passarono regalarono devastazione e morbo; a Milano come nelle campagne, a sentire chi l’ha visto, fu drammatico: nonostante i ferrei cordoni sanitari, le strade chiuse, gli approvvigionamenti interrotti, la malattia si diffuse ovunque, senza risparmiare nessuno né per censo né per posizione. Prima ancora c’è stata la carestia, quasi a preparare il buio; le campagne furono abbandonate in cerca di salvezza, cibo e fortuna nelle città. La peste ebbe a disposizione, concentrati in un solo luogo, tutti quelli che prima erano sparsi dalle montagne alla pianura. A maggio le notizie furono incoraggianti ma non si tenne conto del caldo in arrivo e così il male, attraverso gli umori umidi, passò da Milano fino in Romagna, ad eccezione di Forlì, salva per intercessione della Madonna del Fuoco, o così dicono. Evidentemente a palazzo speravano di avere anche per noi una salvifica Madonna. Agosto diede quindi il via ai viaggi dei traghetti tra la città e il lazzaretto, decine di persone vennero trasferite per verificare il loro grado di salute, molti erano già allo stato avanzato della malattia, altri solo all’inizio del calvario, alcuni non apparivano colpiti ma vennero comunque internati in via precauzionale.»
«Le cose non vanno mai a posto da sole, senza intervento i problemi tendono a risolversi, è vero, comunque mai per le vie a noi più comode. Qui non si era ancora deciso un piano; nessuno volle assumersi la responsabilità di una qualsiasi azione: il magistrato tentennava ancora tra il dubbio e il rifiuto, sebbene l’evidenza fosse drammatica. Nella lenta e democratica tradizione della città, richiese un consulto tra i colleghi medici Emilio Parisano, Giuseppe de Aromatarj, Giambattista Fuoli e Morafini, quello che mi ha dato udienza il mese scorso, il medico ottantenne diretto testimone dell’ultima peste. A suo proposito devo rammentare di restituirgli la copia dell’Aureus De Peste Libellus di Epifanio Ferdinando, sul quale ho potuto istruirmi circa i modi e i tempi del contagio. Proprio in quelle pagine ho trovato conferma ad alcune prassi comuni e diletto nell’apprendere singolari astrusità: addirittura qualcuno ritiene utile, alle prime avvisaglie di morbo, qualche salva di cannone -Pestes bombardarum sonitu expulsae, così raccomandano- e poi mortaretti e campane di notte. Altri consigliano rimedi come lo sterco di gallina o di colombo. Dal canto suo il Ferdinando consiglia falò di legna odorosa, evitare il ristagnare dell’acqua, favorire l’espurgo delle fogne e la pulizia delle strade, provvedere al seppellimento in fosse profonde dei cadaveri e delle carogne degli animali, l’isolamento dei malati e dei sospetti, di far murare le case degli appestati, il rogo della loro biancheria e di guardarsi dalle vespe che possono essere veicolo della malattia. A parte le vespe, erano tutte pratiche a noi ben note e applicate nel dettaglio. Dimenticavo la raccomandazione più ovvia di tutte: chi può fuggire, fugga.»
«Comunque, dopo innumerevoli conciliaboli, tutti quei lumi uscirono senza un nulla di fatto: a parte Fuoli, gli altri tendevano a minimizzare le morti, tutte causate, secondo loro, dalla normale debilitazione estiva. Non tennero minimamente conto dell’ambasciatore che passava il suo tempo, almeno fino a giugno, godendosela grandemente, non proprio come avrebbe fatto un debilitato. Intanto, oltre le chiacchiere amene, la città iniziava a spopolarsi: quasi 20.000 veneziani capirono cosa stava accadendo e preferirono trasferirsi nelle campagne o dove potevano. Speravo solo che con loro non stesse migrando anche il contagio. E mentre quelli fuggivano, agosto andava a chiudersi con altre morti, cosicché il lazzaretto divenne ufficialmente zona interdetta, sebbene nessuno osasse avvicinarsi già dalla fine di luglio. I corpi venivano rapidamente cosparsi di calce viva e seppelliti nella fossa comune.»
«Mentre i fatti erano ormai inequivocabili, chiari ed evidenti, quei tre stavano ancora a discutere amabilmente della debilitazione degli umori, preferendo evitare un semplice sopralluogo al lazzaretto. Si chiama peste e nessuno voleva pronunciare e nemmeno sentire questo nome, tanto che il magistrato da un lato mi concesse un certificato di sanità per circolare più o meno liberamente, dall’altro mi proibì di spargere simili dicerie. Dicerie... Se la fronte è bollente, c’è mal di testa, debolezza, il paziente non dorme, ha nausea, vomita ogni cibo, non sopporta la luce e arriva a delirare, non è una diceria; se montano i bubboni e dopo scoppiano lasciando la via agli umori infetti queste non sono dicerie. Ma nessuno volle ricredersi, anche di fronte all’evidenza delle pustole, dei gonfiori diffusi, di tutte quelle morti. Nel pieno dei suoi poteri il Senato indisse un ennesimo conciliabolo tra 28 esimi medici, il Fuoli, il priore del Lazzaretto e il chirurgo del magistrato, tutti assieme ai Frari. Ingenuamente speravo ne uscissero con una decisione concreta.»
«Nell’inedia del governo, il caldo e l’umido rafforzati dallo scirocco, provocarono altre morti. Tutti furono seppelliti rapidamente, le loro poche cose bruciate assieme ai pagliericci che avevano qui in isola. Era di nuovo la realtà che si imponeva sovrana: il morbo traeva forza dallo scirocco e dalla scarsa risolutezza dell’autorità cittadina. I luminari dei Frari, dopo tanto dibattere, decretarono che non esisteva né contagio né morbo. Si concessero di aiutare il chirurgo del magistrato attraverso un arzigogolato ed esoso sistema di estrazioni a sorte così che due di loro, diversi ogni giorno, lo avrebbero aiutato nel gravoso compito di non dire come realmente stavano le cose. E noi, mentre loro estraevano a sorte i loro lauti incarichi, noi continuavamo a fare la spola con Venezia per cercare di assistere i malati e limitare il contagio.»
«Nelle chiese i parroci da un po’ avevano capito cosa stesse accadendo e organizzarono le prime suppliche: dicevano dai pulpiti che “i molti peccati nostri sono arrivati con la loro puzza alle nari di Dio Benedetto, onde sua divina Maestà con la sua somma giustizia vuole castigarci”, così dicevano, per loro la colpa era solo dei peccati. Ma l’unico peccato che io riuscivo a vedere era l’incapacità di azione. Senza fantasticare di peccati e peccatori ritenevo al meglio affidarsi a quanto avevamo già studiato e che ci fu tramandato dai grandi medici dell’antichità, i nostri maestri Ippocrate e Galeno che indiscutibilmente ed esaurientemente dimostrarono come all’origine di tutto ci sia una discrasia dei quattro umori. Saprai bene che quando tra sangue, flemma, bile gialla e bile nera vi è una prevalenza di melaina cholé, questa, unita a un’eccedenza del sangue e dell’umore caldo-umido, sarà per forza di cose fonte di putrefazione degli organi interni. È dall’aria e dal cibo che arrivano questi squilibri, dall’aria carica di miasmi e dai cibi putrefatti che giungono ad infettare sin dentro lo stomaco e l’intestino; e non va dimenticato l’influsso del vento, specie quello caldo meridionale, unito al clima afoso e umido. Se poi si considera anche l’aria delle acque stagnanti e degli acquitrini possiamo avere un quadro completo di come, e ancora una volta, proprio nella nostra città e in estate si sia potuto sviluppare un simile disastro.»
«Per tornare a noi, tra luglio e agosto morirono quarantotto persone, il sospetto dilagava inarrestabile tra la gente: i primi a farne le spese furono tutti i non veneziani, mendicanti, ebrei del ghetto, stranieri; tutti furono accusati, più o meno velatamente, di aver contribuito in varie forme e modi a propagare il contagio a danno della repubblica. Negli uffici del magistrato nessuno ammetteva ancora la realtà dell’epidemia: ma cosa aspettavano? Che la città fosse resa deserta e la popolazione falcidiata? Il governo preferì dare retta a quella banda di ciarlatani ai Frari, non ascoltò nemmeno quello che Fuoli aveva da dire. Seppi da un amico che alcuni di quei medici addirittura sparsero calunnie contro di lui per screditarlo, arrivando fino alle minacce. E dietro di loro, solida e arrogante, l’inerzia burocratica della magistratura.»
«A metà settembre ancora nessuna azione ufficiale era stata intrapresa, anzi! ci raccomandarono di limitare il contagio nelle rive dell’isola senza parlare di peste in città, pena l’interdizione. Il Collegio addirittura ammonì Fuoli vietandogli anche di proferire tanto liberamente concetti pregiudiziali ai negozi, al commercio pubblico e privato e alla libertà della patria. Perché in fondo avevano paura di questo: che il commercio e l’immagine di Venezia fosse danneggiata per i prossimi anni. I 28 luminari depositarono dal notaio Benedetto Leoni una dichiarazione giurata nella quale sottoscrissero che non c’era nemmeno il sospetto di peste, in vero senza dare un nome all’evidenza mortifera.»
«La voce del popolo -al contrario- nei fatti aveva già chiamato le cose con il loro nome. Chi poteva scappare, fuggiva lasciando la sua casa sprangata, cercando e sperando in un rifugio in terraferma, portando con sé quel minimo trasportabile. In città iniziarono a scarseggiare i viveri e gli approvvigionamenti, anche a voler pagare il doppio non si trovavano mercanti disposti a rifornire la città e comunque nessun barcaiolo era disposto a trasportarle. Iniziavano a mancare le braccia buone: operai e contadini in campagna, becchini qui in città. Quello che accadeva era lo specchio dell’incapacità e dell’inerzia del governo, mancava il coraggio della decisione, il vigore in ogni azione che doveva essere intrapresa, sia essa diplomatica, militare o civile, come in questo caso drammatico. Gli accordi politici e familiari già da anni avevano preso il sopravvento sulle scelte migliori e così come ancora oggi vengono nominati ammiragli anziani e timorosi, così gli incarichi di amministrazione venivano distribuiti col criterio della convenienza.»
«Qui seguivamo puntualmente tutte le consuete prescrizioni mediche dei maestri e le chiose di chi li ha studiati a fondo, tanto che rilessi i passi del Paradigma del soffio pestifero di Gentile da Foligno, per trovare cura e conforto degli ammalati. Per questo continuo ancora oggi a visitare i pazienti respirando spezie e guardando loro solo la schiena. Avevamo anche predisposto la continua pulizia dell’isola da carogne e cadaveri. I fondachi stranieri ufficialmente erano ancora aperti ma nessuno ne usciva o entrava; stavano aspettando l’inevitabile dichiarazione del magistrato per sbarrare gli ingressi senza offendere la suscettibilità veneziana. Quelli al turco in Canal Grande, da tempo erano già sbarrati e loro evitavano qualsiasi contatto, anche per non essere incolpati della diffusione, se ne stavano rintanati dietro le loro colonne, al tempo delle loro preghiere, guardando cosa accadeva fuori.»
«In isola si continuava a morire di peste ma ufficialmente, per la città qui si moriva e basta, senza imbarazzanti dettagli ufficiali. Intanto i 28 sapienti, di fronte all’evidenza del male, fuggirono a gambe levate e con varie scuse, ripresero armi e bagagli tornando alle loro cattedre sicure, lasciando la città all’ineluttabilità del suo destino. E forse servì proprio questo per destare il governo dal suo inerte torpore, convincendolo a prendere le prime, timide iniziative. Subito, forse anche per vendetta o forse solo per rifarsi un’immagine agli occhi del popolo, li condannò all’esilio perpetuo; poi decretò che tutti, sia malati che sospetti, fossero trasferiti qui al Lazzaretto Vecchio, le loro case sbarrate e tutti gli averi, mobili, biancherie e vestiti, tutto bruciato. In verità devo dirti che io stesso, con questi occhi, vidi ben pochi roghi; probabilmente qualcuno credeva di guadagnarci nella notte.»
«Il magistrato alla Sanità organizzò un deposito protetto per le masserizie di quelle poche famiglie ancora non contagiate, così non avrebbero rischiato di perdere tutto se la casa si fosse rivelata infetta. La città era ridotta ad una scenografia splendida e tetra, senza attori, le calli trafficate fino a pochi mesi prima, lasciavano crescere l’erba, con magazzini e fondachi chiusi. La notte nelle calli buie era tutto un brulicare di topi che correvano indisturbati sul margine, infilandosi rapidi nelle crepe o nei portoni socchiusi e abbandonati. La voce popolare li riteneva causa del contagio; ancora oggi io non ne sono del tutto convinto, ma vorrei verificarlo, a Dio piacendo.»
«Alla fine di settembre i lazzaretti nuovo e vecchio stavano scoppiando e avevo netta e chiara l’impressione che il peggio non fosse ancora arrivato. Le barche degli ammalati facevano la coda qui all’attracco dell’isola per scaricare la loro merce putrida; in città la piaga rendeva evidente il lato bestiale degli uomini. Gli infami traffici si facevano alla luce del sole, iniziarono i saccheggi e la compravendita clandestina di mobilia e altri averi provenienti dalle case abbandonate. Nonostante le esecuzioni sommarie degli sciacalli -il muro di San Salvador è già crivellato di proiettili- la notte si susseguivano traslochi sospetti, si sentivano urla strozzate e tonfi attorno allo sciabordio dell’acqua nei rii. Questo, oltre ad essere umanamente ripugnante, ero certo che contribuì ad accelerare, semmai ce ne fosse stato bisogno, la diffusione del contagio.»
«Fu organizzato anche un servizio notturno nei sestieri per raccogliere i cadaveri così da radunarli alla mota di Sant’Antonio, dietro Sant’Elena, in attesa del trasferimento al Lido per la sepoltura. A questo compito gravoso furono cooptati tutti quei detenuti ancora in forze; ma i farabutti, proprio per la loro esperienza, non avevano remora nel rubare quanto volevano e potevano, nonostante -o meglio, a volte- coll’aiuto dei militi a guardia. Quello dei loro sonagli era rimasto l’unico, spettrale suono nelle calli veneziane, sempre accompagnato dai gemiti di chi era abbandonato a se stesso. Il canale a Sant’Elena era ormai intasato di chiatte cariche di corpi e non si riusciva più a manovrare, tanto che i morti rimanevano lì, giacevano all’aperto per giorni prima di essere mossi. Il morbo ebbe così libera la via dell’aria dopo essere uscito dalla terra.»
«Come se non fossero bastate le troppe e inutili voci che circolavano, furono richiesti consulti medici anche all’estero e Venezia si riempì di dottori tedeschi, francesi e spagnoli che, alla non misera somma di ottanta ducati al mese, si sentivano autorizzati a tutto, anche al crimine, andando di casa in casa, di malato in malato, rubando quanto possibile, arrivando anche all’omicidio. Assieme a loro, nei nostri serenissimi territori, si riversò uno sciame di sciacalli e approfittatori; i primi in cerca di case vuote e morti da depredare, gli altri che offrivano antidoti e medicamenti miracolosi. Sostenevano che le macerazioni di vino e spezie fossero in grado di ripulire la pelle dei malati e gli oggetti di casa; questi preparati, nelle loro mille varianti, andavano a ruba sull’onda della disperazione, sempre che si riuscisse a trovarli e ad avere a disposizione il denaro sufficiente. Male di certo non facevano, in fondo erano solo profumi, unguenti, incenso e fumi di mirra, tanto raffinati quanto superflui, ma certo non avrebbero mai potuto risolvere quanto promettevano. Ognuno di loro riteneva di avere la medicina infallibile, diffamando chi, come tutti noi qui in isola, cercava di fare qualcosa di concreto.»
«Dal canto mio, preferivo la valida, tradizionale esperienza medica dell’Università di Padova e continuavo a consigliare pasti leggeri, con carni magre, verdure, pane ben cotto, niente fritti o dolci; ho constatato quanto sia meglio dormire in una camera profumata, con lenzuola pulite e le finestre chiuse ad eccezione di quelle a settentrione. A volte può essere favorevole un salasso prima di intervenire col chirurgo per spurgare le piaghe. È comunque bene che il sangue estratto venga bruciato nel forno delle cucine.»
«Se non fosse per i morti che lasciavano liberi i posti, la situazione sarebbe stata senza via d’uscita; il flusso dei malati era ormai inarrestabile, i burchielli carichi accostavano anche la notte, scaricando veloci e mollando l’ormeggio il prima possibile. Ci si mise anche il maltempo d’autunno rendendo impossibile trasferire le chiatte al Lido. Il Senato annaspava, e non era una novità, alla ricerca di una soluzione per smaltire quei cadaveri che rendevano mefitica anche l’aria di Sant’Elena. Chiesero lumi ad ogni medico e furono proposte soluzioni tanto incredibili quanto, guarda caso, dispendiose. L’unico ad aver proposto qualcosa di sensato fu proprio Fuoli che suggerì di cospargere tutto con calce viva, svuotare il canale e interrarlo, barche comprese. Fu inoltre decretato che ogni contrada provvedesse direttamente a trasferire i propri morti al Lido, senza altre fermate. Solo a settembre furono 1.168, in barba alla prosopopea degli universitari fuggitivi.»
«Praticamente tutti i malati in isola presentavano evidente la malattia, e negli altri attendevamo che si manifestasse chiaramente. Li tenevamo separati utilizzando l’edificio a borea per i malati e quello a ponente per i sospetti. Nella mia esperienza ho avuto modo di notare come la piaga preferisca le donne, meglio se giovani e dai tratti delicati. A sentire la voce di Alvise, il barcaiolo di San Tomà, sembra che nonostante questo, i pizzegamorti ebbero idee immonde: una sera ne furono mutilati e fucilati quattro che stavano prendendosi divertimento.»
«A quel punto era ormai evidente che l’unico che potesse fare qualcosa era l’Altissimo tanto che il Consiglio decretò il voto solenne per la fine della peste: la realizzazione di una chiesa, la più imponente immaginabile, dedicata a Maria Vergine della Salute. Il doge pronunciò la formula solenne e vincolante in San Marco, di fronte a tutta la popolazione poggiò il cappello ducale ai piedi del crocefisso dichiarando l’intenzione per ottenere la fine dell’epidemia. Era solo un gesto, ma vedere quel cono calato a terra, diede inequivocabile la misura dell’impotenza. Per lo scioglimento del voto furono incaricati dal Senato i cavalieri e procuratori di San Marco, Simone Contarini e Gerolamo Soranzo, assieme a Marco Molin. La scelta del luogo ricadde su un terreno presso la punta della Dogana, alla chiesa e ospizio della Trinità dei cavalieri teutonici, dietro i magazzini del Sale. Se solo, a tempo debito, avessero dato più retta all’evidenza e al buon senso e meno alle opinioni, avremmo risparmiato lutti, denaro e voti.»
«Ai primi di novembre il flusso dei malati era inarrestabile, a ottobre ne arrivarono oltre 3.500 e ne morirono 2.120, ma sapevamo bene non che sarebbe bastato ancora, troppo diffusa era la promiscuità, il saccheggio e il furto di tutto, anche di vesti lerce e biancheria unta. L’epidemia cambiò il modo di vivere, il freddo dell’incipiente morte fece abbandonare ogni remora morale a vantaggio del godimento del presente impermanente. Dei medici e ciarlatani stranieri, sia resa grazia alla giustizia divina, ne morirono ottantasette proprio per mano del morbo divenuto sempre più forte e aggressivo. Erano ormai quindici giorni che dormivo direttamente al Lazzaretto, andai in città solo per il voto in San Marco, e non sapevo più cosa fare: se non proprio curare, almeno cercavo di limitare ciò che appariva inarrestabile. Il lavoro era continuo e avevo pochissimo tempo anche per aggiornare le mie note. Solo nella giornata precedente al voto solenne morirono oltre seicento veneziani, senza contare tutti i mendicanti forestieri, trasferiti nei lazzaretti a prescindere dal loro effettivo stato di salute. Questa decisione trasformò le isole in veri campi di concentramento dai quali difficilmente si usciva vivi. La vita era divenuta impossibile tra la paura e la scarsità di cibo. Il governo garantiva l’assistenza e il vitto gratuito a tutti i meno abbienti: in cambio impose il controllo delle case ritenute insalubri, sporche e comunque povere. Era compito dei medici segnalare ogni nuovo caso, anche solo sospetto; le case venivano immediatamente sigillate con tutti gli abitanti all’interno; solo i pochi in possesso di un certificato di sanità potevano interrompere l’isolamento e comunque erano tenuti al trattamento dell’aceto prima e dopo aver toccato oggetti appartenenti agli infetti. Tutti i medici a contatto con i malati furono obbligati ad indossare la toga incerata, la maschera con gli occhiali e un lungo becco riempito con le spezie e ogni medicamento riconosciuto necessario ad evitar loro il contagio. Tutti gli altri cercavano di difendersi come potevano.»
«Sorsero anche problemi contingenti: ad esempio chi aveva qualcosa da lasciare era già nella difficoltà di trovare un ufficiale per redigere le ultime volontà, nessuno voleva correre rischi inutili. Mi fu riferito di ammalati alla finestra che gridavano il loro testamento al notaio in calle. Dal canto loro i preti presero a raccogliere la confessione dei moribondi senza avvicinarsi, mandando fuori dalla stanza i parenti, cosicché il malato potesse parlare ad alta voce. Queste due condizioni lasciarono ampio spazio a numerose menzogne e truffe ai danni di parenti ed eredi legittimi. Se sia stata verità, questo non so dirtelo. Di sicuro era irrilevante.»
«Il mese dei morti mantenne fede al suo nome, seppellendo 14.465 cadaveri. La vita in città, già difficile, era divenuta impossibile tra la paura e la scarsità di cibo, la fretta di seppellire i cadaveri che non lasciava spazio alla pietà e sempre più spesso era divenuta occasione di sopruso e rapina. Certo non era il caso delle famiglie patrizie che riuscivano a farsi curare in casa propria; ne sentii addirittura qualcuno lamentarsi per l’assenza di feste e serate nei casini. Qui in isola invece, esaurimmo le scorte di aceto. In laguna erano state bruciate quattro navi cariche di merci appena arrivate da levante e sospette di contagio. Ciascun sestiere era stato organizzato attraverso un commissario alla sanità e tutti i medici, chirurghi e speziali rimasti, quelli ancora capaci di stare in piedi, lavoravano nei lazzaretti. L’unico andirivieni tra la città e il Lido era quello dei burchielli della sanità, cumuli di morti galleggianti, lividi, emaciati con il corpo devastato dalle piaghe. I rematori, scelti preferibilmente tra coloro che avevano superato la malattia, erano esausti e tutti portavano sulla pelle i segni dei bubboni, ma almeno la potevano raccontare. Notai, e tienilo a mente, che nessuno di loro fu più contagiato.»
«Ormai non si faceva più caso a fornire i conforti, i funerali erano celebrati solo con una spruzzata di acqua santa e una di calce viva, con buona pace delle pratiche ortodosse del Concilio Tridentino. Capitò anche che nella fretta finirono nelle fosse comuni i vivi: due donne le tirai fuori io stesso qui in isola, erano ammalate ma confidavo nella loro fibra; speravo, altro non potevo fare. Da qualche settimana la peste aveva trovato un nuovo potente alleato nella superstizione. Circolavano voci su unzioni malefiche, fantasmi ed esseri demoniaci che avrebbero sparso i semi del contagio. Una mattina trovammo nella fossa il corpo di una donna con un mattone tra i denti; chiesi spiegazioni in giro e solo dopo molta insistenza, a mezza bocca, mi è fu detto che la sera qualcuno aveva visto il sangue uscire dal suo naso e avevano pensato ad un diabolico naczere. Quello ci cui non avevamo proprio bisogno era un nuovo morbo e soprattutto nuove paure. In più, come se la peste e la superstizione non fossero bastate, non potemmo più contare su rifornimenti puntuali, avevamo esaurito le riserve, persino i pagliericci che bruciavamo alla morte degli ammalati.»
«Non ce la faccio più a leggere in questa penombra; ma non aprire gli scuri, piuttosto dammi qualche istante di riposo. Mi fanno male le gambe e le braccia; tieni! non riesco nemmeno a tenere in mano questo diario; e stai tranquillo, usa quello straccio umido di aceto, gli odori li sento ancora; vedo che hai esitato qualche istante prima di allungare il braccio. Comunque non temere, tu ci sei già passato, hai le cicatrici che lo testimoniano, sono sicuro che non ci ripasserai più. Ti confesso che ancora non ho capito perché, ma chi è stato colpito dal morbo, superata la crisi, le febbri e le infezioni, in poco più di due domeniche, colui che sopravvive a questo diabolico effluvio è salvo: vedo che non sei convinto e hai paura, e fai bene. L’importante è aver disposto il rogo degli indumenti e dei pagliericci dei morti di oggi. E non domattina, come fu la scorsa settimana: è importante bruciare tutto al più presto. Lì sulla riva è troppo semplice rubarli, domattina troveremmo molto meno di quanto si sia accumulato e il morbo avrà trovato nuove ed altre vie per diffondersi. Comunque va bene lo stesso, a questo punto non credo che faccia molta differenza. Ora fammi davvero chiudere gli occhi un attimo.»
«Quindi? Ah, già... eravamo giunti al 1631. A Dio piacendo il nuovo anno sembrò portarci un gradito regalo. Mentre dicembre seppellì... ah, ecco: 7.641 persone -con loro arrivammo a 25.442- rispetto a novembre il contagio pareva aver perso energia o forse gli stava venendo meno la materia prima. Venezia era la somma dei tanti fantasmi di sé stessa e le notizie che giungevano dalla terraferma, dove ordine e timore di Dio erano ormai solo un ricordo, sembravano mostrare un’orribile situazione, ancor peggiore. Nelle campagne di Conegliano reputarono finito il contagio, dunque proclamarono una processione di ringraziamento a San Sebastiano. Evidentemente nessuno riusciva a capire che il contagio è sempre uno e continuo e non molti e seguenti. Ma le notizie erano vaghe e frammentarie, giungevano voci di infezioni causate dall’ingordigia, di sommarie esecuzioni di chi violava la quarantena o la ristrettezza. Noi facciamo del nostro meglio per la nostra cura e protezione: intingiamo il pane nel vino, usiamo fiori di garofano per la disinfezione, facciamo uso quotidiano ma distante di elettuari disintossicanti e confortativi. La teriaca la produco io stesso anche se qui è difficile reperire carne di vipera, quando invece di angelica, centaura minore e genziana qualcosa si trova; mirra, incenso e oppio me li fa avere un amico di Dorsoduro. Mi è impossibile invece trovare del vino di Spagna, per questo mi accontento di quello che trovo.»
«Gennaio mangiò solo duemila anime, il morbo sembrava davvero più debole, a dimostrazione dell’esatta teoria antica dell’aria umida e calorosa. Se fosse continuato così, entro la fine della primavera avremmo potuto esserne fuori. Il governo cercava, disperato e solenne, di mantenere un abito consueto nelle celebrazioni, l’8 di gennaio il doge e la signoria tutta si recarono in san Pietro di Castello per la venerazione del proto-patriarca san Lorenzo Giustiniani.»
«Anche febbraio fu clemente. Grazie al freddo dell’inverno la peste, poco alla volta, sembrava scemare ma aveva ancora la forza di trascinare con sé morte e disgrazia: di cadaveri, quel mese, ne contammo duemila; non riesco a dire “solo” perché sono stati altri in aggiunta ai 27.000 che già erano finiti sotto calce e terra. L’economia era devastata: oltre alla manodopera -la prima ad andarsene- fu stroncata anche l’imprenditoria e il commercio; pochi spedivano a Venezia e nessuno voleva ricevere nulla di quei pochi beni che ancora giacevano nei fondachi. Tutto era fermo, anche l’aria. C’erano campi nei quali era impossibile respirare per il fetore dei cadaveri gettati dalle finestre. Per i rii passavano barche di pizzegamorti che urlavano “chi gà morti in casa li buta zoso in barca”. Quelli che non trovavano un passaggio, erano abbandonati in calle nella speranza che qualche anima pia li potesse trasportare prima possibile al Lido, ma anche lì la situazione era divenuta drammatica: le campagne scelte per le fosse comuni erano esauste, esaurite e ci si spostava sempre più a sud, verso Malamocco e le Terre Perse; scavare le buche era reso difficoltoso dall’affioramento dell’acqua salmastra, tanto che ormai ci si accontentava di un velo di terra e anche oggi puoi riconoscere le fosse piene dal colore livido di calce.»
«Quindi ti dicevo che a febbraio l’epidemia sembrava essere agli sgoccioli e invece marzo aveva preteso altri morti; il 25 era la data stabilita per la posa della prima pietra della chiesa votiva alla Dogana. Avevano preparato tutto, anche la lapide e alcune monete coniate per l’occasione, invece il doge Contarini stava già male e tutto fu rinviato al primo di aprile: in quella data il patriarca Giovanni Tiepolo e il consigliere decano Giustiniani, visto che Contarini non ce la faceva, avevano posto la prima pietra, chiudendo sotto la lapide le 11 medaglie. Il doge era finito e morì il giorno dopo. Il 10 fu eletto il successore nella persona di Francesco Erizzi. Aprile chiuse i suoi conti con altri duemila morti, eravamo a 33.821. In terraferma si diceva che ne fossero morti mezzo milione, che Dio abbia pietà di noi se veramente il nostro peccato ci fece meritare questo castigo. La mia stanchezza era acuita dal senso di impotenza, per uno che usciva butterato ma vivo, ne vedevo morire quattro, non avevamo più viveri, i medicamenti e il materiale per l’ospedale scarseggiava. In città, nel bene o nel male, si riusciva a controllare il flusso del morbo, ma in terraferma la fuga dalla malattia di coloro che si reputavano sani, la stava diffondendo fino alle montagne.
Tra maggio e giugno se ne andarono quasi altri settemila; a forza di numeri ormai mi sembrava di essere più che un medico, il contabile di un commercio funesto inevitabilmente in perdita. Avevamo sperato nell’esaurimento della piaga e invece, certamente per il caldo umido di inizio estate, la furia riprese. Nessuno cercava più di fermarla, il contagio senza freni percorreva ogni calle più e più volte, tornando dove era passato, come a terminare un lavoro lasciato in sospeso; invece tutti noi tentavamo di stargli dietro arrancando nelle cure, tenendo al meglio il conto di morti, trasporti e frettolose sepolture.»
«Il sei di settembre diedero inizio ai lavori della chiesa votiva. Il progetto prevedeva la posa di non so quante migliaia di pali per la fondazione, sempre che sulle montagne fossero rimaste braccia per tagliare gli alberi, che in barbarìa ci fosse ancora la forza di lavorarli e alla dogana qualcuno con l’energia per piantarli. Questa peste diabolica, tra luglio e agosto, si prese altri 4.365 veneziani. Forse avevano davvero ragione le voci che davano la colpa agli emissari segreti del Turco, o quelle che pensavano i topi responsabili di tutto. Da medico tutt’oggi mi domando perché poi i topi e non allora le pulci e i pidocchi, a questo punto qualsiasi ipotesi può essere vera.»
«E siamo giunti ad oggi. Due settimane fa ho notato su di me gli esordi della malattia: non riesco a mangiare se non qualcosa, ma poco, di caldo e liquido, mi fa male la testa, gli arti dolgono, da allora la sera mi scaldo sempre di più. Eppure ho seguito puntigliosamente tutte le consuete prescrizioni mediche. È evidente che nemmeno il becco speziato riesce a fermare l’alito fetido; nemmeno il mantello cerato e la bacchetta con la quale visitiamo i malati. O forse il morbo ha ripreso a scaturire più vigoroso dalla terra, risalendo lungo gli arti inferiori per scendere infine nei polmoni, proprio non saprei cosa dire. Ho anche sentito parlare degli studi di un gesuita tedesco, se rammento bene fa di nome Attanasio Chirche, che attribuisce la causa dei morbi a certi organismi tanto piccoli da non poter essere visti nemmeno con una lente. Personalmente, come medico, non riesco a capire come qualcosa di tanto piccolo da essere invisibile, possa causare tanto danno, ammesso che una cosa simile esista davvero.»
«Comunque ho deciso: se ne esco vivo lascio Venezia e me ne torno a Padova. Sebbene il magistrato alla sanità abbia imparato a conoscermi, ormai sono stanco. Stanco di tutti i traccheggiamenti politici che hanno aiutato il contagio, delle convenzioni e gli accordi di convenienza che hanno sperperato migliaia di ducati a tutto vantaggio della morte e di qualche incompetente borioso. Sono stanco di questo atteggiamento fintamente prudente e realmente inconcludente. Ci siamo rassicurati nella nostra gloria repubblicana senza capire che alla fine sono solo due gruppi di potere che si fronteggiano in un equilibrio concordato, scambiandosi vicendevolmente cortesie, favori e incarichi. In tutto questo stanno portando il nostro stato nel baratro, ma sempre nel pieno e rigoroso rispetto delle regole repubblicane. Non riesco più a sopportare questa ipocrisia istituzionale, credo proprio che tornerò nella mia casa, accettando quell’incarico di giureconsulto. Comunque ti chiedo e faccio una raccomandazione: se al contrario non dovessi superare la crisi, assicurati che tutti i miei appunti siano bruciati assieme ai vestiti.»
«Per me questa sarà una settimana decisiva: ormai anche la minima lama di luce mi ferisce, poi il buio mi rinfranca dal bruciore e dal dolore alle tempie. Le mie dita possono scorrere sui gonfiori sotto le braccia e nell’inguine, con ogni probabilità dovrò farli inciderli a breve da qualche collega, il Malipero forse, di lui mi fido. O alla fine proverò a farlo io stesso. Comunque la finestra a settentrione è aperta, le lenzuola sono pulite, l’aria è rinfrescata e profumata e i miei medicamenti sono accanto al letto, posso timidamente avere fiducia.»
«Tu sei un bravo medico, ancora giovane ma bravo, scrupoloso, rispettoso della tradizione e assieme attento alle nuove ricerche. Qualche giorno fa mi hai detto di aver avuto tra le mani il primo volume di una nuova opera pubblicata a Londra un paio d’anni or sono, una sorta di compendio medico farmaceutico. Dai un’occhiata anche al testo di Epifanio il Vecchio che ha ripreso, tra l’altro, l’esperienza pitagorica cercando nuova medicina nella musica. A detta di colleghi degni della massima fede, pare abbia conseguito risultati eccellenti contro il morso del ragno tarantola. A suo tempo io stesso ebbi modo di consultare a Padova il Sertum Papale de Venenis, in cui le note musicali, opportunamente accordate con la causa, la malattia e con il malato, sembrano provvedere da toccasana. Inoltre il mio collega Salomone, medico in ghetto, mi ha parlato più volte di un antico volume arabo dal titolo impronunciabile nel quale si tratta della musica come medicina, ma questo mi sembra improbabile vista l’approssimazione di chi me lo ha riferito. Queste nuove ricerche, le nuove teorie, forse tutto ciò potrà portare sollievo, con l’aiuto di Dio, all’attuale e alle future impotenze. Ormai manca poco al Redentore, per ricordare la fine dell’ultima epidemia, spero che almeno Lui continui a proteggerci .»








1)   Venerdì 21 novembre 1631 il governo veneziano fa partire i dispacci verso le capitali europee dichiarando la fine del contagio. Il dottor Non, superata la malattia, si è trasferito a Padova terminando la sua carriera presso l’Università degli Studi. Il suo aiutante ha avuto un incarico al lazzaretto per interesse del magistrato alla sanità. Nel complesso la peste del 1630-31 causò la morte di quasi un terzo della popolazione: 46.489 morti nella sola città di Venezia, 35.686 a Murano, Malamocco e Chioggia, oltre 600.000 nella terraferma veneziana per un totale di 682.175 morti. Il costo complessivo per la repubblica fu di 30.000 ducati, escludendo quelli derivanti dalle passività commerciali, dal crollo della produzione e dalla perdita delle conoscenze artigiane. La Basilica di Santa Maria della Salute fu consacrata 56 anni più tardi, il 9 novembre 1687.
Braccia da remo

«Vent’anni dio cane. Vent’anni alla galera, chiuso in una sentina a lisciare un cazzo di ziròn con i calli delle mani, anzi prima con la pelle, poi con le vesciche e solo alla fine con i calli, che non sapevi mai se era meglio il dolore del legno sulla pelle fresca o le piaghe dei calli spaccati dal sale. Vent’anni a mangiare gallette, sarde e cipolle, bere acqua stantia allungata con aceto per le feste, a mangiare quel cibo rancido solo dopo il tramonto perché così non potevamo vedere lo schifo e i vermi. Vent’anni solo spingere e tirare con gli anelli che tagliano le caviglie, la frusta che batte il ritmo sulla tua schiena senza calli, il gelo umido che entra e sale per le ossa. Quattro ore al remo e quattro ore alla panca, anche col vento migliore, sempre incatenati al banco nel buio della galea.»
«Vent’anni a dormire nell’umido, tra topi e scorregge, nell’aria acida del sudore e della fatica di tutti i rifiuti di Venezia; ubriaconi, ladri, biscazzieri, ruffiani; la merda della merda scavata dal fondo di un rio; mi viene da ridere se penso che alcuni di loro erano arrivati al remo grazie a me, gente che il mare non l’aveva mai visto e anche ora non riusciva a vederlo nemmeno volendo. Quante volte ho sperato che uno feluca turca o uno sciabecco dalmata ci affondasse così da finire prima e rapidamente, così: un colpo, il fasciame che schianta a murata, la luce che entra in sentina e poi l’acqua salata nel naso, in bocca e nei polmoni. Fine della vita, se vita la puoi chiamare, stretti e sottosale come sarde. Ma fine veloce e senza tante altre sofferenze.»
«E invece una vita a muovere una nave merdosa su e giù per l’Adriatico senza sapere mai da dove a dove, attento ad ogni voce, ogni rumore che proviene dalla coperta, pronto a cogliere il minimo segno di una destinazione nuova o di ciò che stava per accadere. Attento a quel riquadro accecante che ritagliava il mare o un pezzo di molo. Poi, poco alla volta, sempre meno interessato a quello che capitava sopra e sempre più legato al legno del remo. Spingi e tira, spingi e tira, agli ordini e ai capricci di un musico e del suo tamburo.»
«Vent’anni sono lunghi quando sai che saranno tutti uguali, giorno dopo giorno, tutti uguali al precedente e ognuno identico al successivo, senza un passato né un futuro, fissi in un continuo presente di umido e dolore, di puzzo e fatica. Solo qualche volta ci facevano sbarcare, incatenati a coppie sul molo ma per poco, appena il tempo di imbarcare cambusa e acqua fresca, che poi a noi fresca non arrivava mai, certo potevamo bere a volontà visto che non facevamo altro che sudare, ma solo quella nel barile di sentina.»
«Appena arrivato ero in testa al remo, braccia fresche al posto più duro, dopo due anni mi spostarono al centro e alla fine ero accanto al fasciame. Non ti so dire se era meglio all’inizio, faticoso ma spazioso sul passavanti, dove si poteva respirare, o alla fine, costretto tra il fasciame calafatato, puzzolente di pece e quel trentino che quando parlava non si capiva un cazzo. Sta’ zitto per dio, spingi e tira, spingi e tira; e basta.»
«E a me è andata bene, se per bene intendi il finire questa presa per il culo nel fondo di una galea. Quell’altro, Gaetano, fu impiccato in mezzo alle colonne di fronte al bacino, tra il Leone che aveva servito e san Todaro sul drago. Mi hanno detto che c’era un mucchio di gente all’esecuzione e che quel coglione ha pianto salendo sul patibolo finendo poi per pisciarsi addosso quando il boia gli ha messo la collana di canapa, poi lo strappo, culo al bacino e cazzo dritto verso quella gente. Degli altri non so dirti nulla: alcuni finiti al remo come me, altri in prigione a vita ma dove siano ora, che fine abbiano fatto, non so dirti proprio nulla. E poi, alla fine della fiera, non me ne frega assolutamente nulla. Eravamo assieme è vero, il capitano, quella grandissima testa di cazzo di Fanton e noi, coglioni, a dire sissignore, divertiti, a ridere quando costringevano qualche ragazzetto a camminare raso muro, a sporcarsi la giacca di panno nuova con l’intonaco dei palazzi attorno alla piazza. Ma erano cose da nulla, cose da sbirri, poco potere, meno cervello e tanto rancore: una puttana che non voleva pagare pegno, la cresta sul dazio, qualche bicchiere di vino a ufo. Cose da poco insomma, cose da sbirri. Fino a quel pomeriggio di merda.»
«Io lo sapevo che non poteva andare sempre bene, che una volta o l’altra saremmo inciampati su una cazzata, il rampollo di una famiglia bene, magari non nobile, quelli vivono e dormono a casa loro, magari sul figlio di una famiglia campagnola con qualche proprietà e un amico prete. Quella gente che ha messo da parte soldo su soldo per avere un dottore in mancanza di un titolo nobiliare. Gente pezzente che spera di ripulirsi la terra da sotto le unghie con un figlio medico o avvocato, ma che resta sempre pezzente. Gente che prima evita il tuo sguardo per paura e poi continua ad evitarlo per superbia, come se saper leggere e scrivere e forse mettere due cifre in colonna gli possa aver fatto salire un gradino nella scala della loro vita, sempre e comunque sporca di fango e sterco. C’è un ordine nelle cose, in tutte le cose, e non lo puoi fregare con qualche pila di libri. L’ordine è alla base e sopra di tutto e io lavoravo per l’ordine, io, il capitano, Fanton e quegli altri mona. Fino a quella cazzo di osteria del demonio.»
«Stai guardando la mia mano… La mano, già la mano... quella è andata prima che arrivasse quel montanaro trentino. Prima di lui c’era un dalmata, uno che non ti guardava mai dritto negli occhi, sempre di tre quarti, una mano in vista e l’altra pronta a fotterti. Ma non mi ha fottuto la sua mano, solo un mio momento di mona. Eravamo in navigazione tra non so dove e non so dove, scirocco leggero e poco remo; il rumore in coperta è montato poco alla volta, dovevano aver avvistato qualcosa. Poi hanno cominciato con il ritmo di battaglia. I musici li chiamavano, quei froci musicanti con uno strumento che la sera suonavano il liuto alla mensa del sopracomito, mentre in navigazione davano il ritmo di voga. E quell’aguzzino che ci frustava a caso urlando come un fenochio co’a mandola per farci chiapàr tuti i remi.»
«Tu hai mai visto una galea? La nostra imbarcava in tutto 400 uomini, più di 140 piedi, stretta e veloce, adatta a navigazioni di costa, uscita dall’Arsenale per controllare il mare tra la laguna e l’Istria. Quella volta è stata una manovra rapida perché abbiamo cominciato a spingere dietro a quel tamburo, spingi e tira, spingi e tira fino al limite, poi la virata a mancina che finì in uno schianto di prua e un’imbardata violenta e io sono scivolato sulla panca fino alla murata, la mano è rimasta tra il remo e il boccaporto. Vero sai! è rimasta lì davvero ‘ché le dita sono saltate via da me allo scafo rimanendo appiccicate nel salso misto al sangue. Lì per lì non ho nemmeno fiatato, non mi sembravano neanche le mie. La manovra era finita rapida come era iniziata, tutti gli altri a tegnìr sospesi i remi, affornellati dritti che ci potevi tirare una riga.»
«Dietro i quattro peli grigi della sua barba il dalmata ghignava e in me iniziata a montare il dolore. A bordo ci sono abituati a certi incidenti, poco dopo arrivò il cerusico con sale e torcia: un pizzico di sale e una passata di torcia, uno e l’altra, uno e l’altra fino a quando il sangue non ha smesso di uscire; e io di urlare. Ma a quei delinquenti dalmati è andata peggio, affondare ad aprile nell’adriatico non ti da molte possibilità: in qualche respiro il freddo ti impedisce di muoverti, non riesci a fare nulla se non a rimanere lucido mentre affondi. E affoghi lucido, pensa che culo.»
«Poi l’ho capito perché rideva quel bastardo, perché era stato lui che mi aveva fatto scivolare, la colpa era di quel bastardo schiavone. L’ho capito quasi un mese dopo, un mese a pensare e ripensare per capire cosa era successo e come era stato, ma l’ho capito e gliel’ho dovuto spiegare con un chiodo nel fianco, un palmo sotto il braccio, dritto nel polmone. Era quello che si meritava, e godevo a vedere come si agitava senza riuscire a urlare, emettendo solo un gemito soffiato, l’aria che usciva dalla ferita invece che dalla bocca, il sangue che faceva le bolle, mi guardava incredulo come a domandarmi perché: te lo dico io perché stronzo, perché Antonio Da Feltre lo fotti una volta ma non avrai il tempo per la seconda, hai capito perché?»
«Poi venne quel montanaro, che del mondo non aveva mai visto il mare, solo il suo buco di paese e la città a valle, ma solo una volta all’anno per la fiera. Io invece le montagne le ho sempre viste da casa mia, d’estate quando si alzava la foschia erano lontane che facevi appena a tempo a intravederle che già si perdevano nel tremolio della calura. In inverno no, in inverno c’erano mattine fredde come l’acciaio con un sole che prometteva e non manteneva, ma loro erano lì che sembrava potessi toccarle, vedevi le cime e i canaloni, la neve fino a mezza costa, qualche volta ho creduto di vedere anche i paesi più grandi. Mentre lui il mare non sapeva nemmeno dove fosse.»
«Aveva pensato, il genio, di mettere via qualche soldo imbarcandosi come buonavoglia. Altro coglione della lista, pensava che fosse semplice: ti metti al remo per qualche anno, mangi sicuro ogni giorno, se ti va bene in battaglia ti danno pure un premio e alla fine torni al tuo maso pulcioso, ricco e felice dalla tua morosa Magdalene. Coglione che era. Quando apriva bocca non si capiva un cazzo, sembrava avesse una patata sotto il palato e usava una lingua strana che se ne capiva la metà.»
«Era un omone barbuto, alto, con due braccia enormi, dopo sei mesi iniziò a perdere peso e sangue, pensa che gocciava dalle unghie, aveva sempre una crosta rossastra sui peli della barba e si lamentava sempre, per ogni dolore, per ogni movimento, si incazzava per tutto e alla fine uno intelligente lo fece sbarcare.»
«Dalle parole dell’aguzzino seppi che aveva preso lo scorbuto e quelle quattro breccole guadagnate se le sarà godute un medico in terraferma. Bada bene che se vuoi che racconti ancora storie dovrai sciogliermi la gola. Intanto chiedo licenza, devo andare a pisciare.»
«Comunque a te non frega un cazzo di sapere con chi remavo. Tu vuoi sapere di quell’osteria a Padova. Dillo pure senza giraci attorno tanto ormai, dopo più di vent’anni, quei due studentelli rompicoglioni hanno nutrito ben bene i vermi, Fanton me lo ricordo solo io e quegli altri dieci che chissà dove cazzo stanno a marcire. Va bene te lo racconto tanto ormai il ricordo è una scatola vuota.»
«Però facciamo così: un giorno tu andrai in piazza dei Signori, accanto a San Clemente, a leggere con i tuoi occhi la storia di ciò che io ti sto per raccontare dalla fine.»
«Per il grave et atroce delitto commesso da diversi sbirri li 15 febbr. 1722 contro alcuni scolari nell’interno di questa abitazione, furono dall’eccelso di X a 24 settembre 1723 tutti gli sbirri rei al numero di 12, a misura delle loro rilevate colpe, condannati rispettivamente al patibolo della forca, alla galera et all’oscuro carcere et a vita con strettissime condizioni. il che resti a perpetua memoria della pubblica giustizia e della pubblica costante protezione verso la prediletta insigne Università dello studio di Padova.»
«Che si fottano tutti i dieci e il leone.»
«Era domenica sera, il quindici de febraro del 1722, ventiquattro anni fa, noi avevamo smontato dal turno alla porta del mulino. Volevamo farci un bicchiere in piazza prima di mangiare e tornare a dormire, il capitano era rimasto al corpo di guardia perché quella gente non si mischia mai. Scendevamo lungo i portici di San Clemente e dalla porta usciva il solito casino di un’osteria, gente che ride, grida, smania e quel puzzo caldo di vino vecchio e cantina ammuffita. Quando entrammo alcuni si girarono e le voci si spensero poco alla volta; quelli più vicini all’entrata si alzarono vaghi uscendo mentre quel gruppo di ragazzotti continuava a scherzare ignorandoci. L’idea geniale venne in mente a Fanton, son sicuro volesse solo divertirsi alle loro spalle quando gli si avvicinò calcando sui tacchi, e si fermò in piedi dietro di loro, erano una quindicina forse, lui con le mani sui fianchi e lo sguardo inquisitore ne prese per la spalla uno, il primo che capitava, cercando di farlo girare, riuscendo invece solo a farlo cadere schiena a terra.»
«Non si era fatto male, niente, nemmeno un graffio tanto che si era rialzato subito pronto ad attaccare ma si fermò vedendo la divisa. Chi reagì invece fu un altro, non lo conoscevo ma seppi dopo, durante il processo, che si chiamava Giacomo Non, esimio pro-sindaco giureconsulto dell’Ateneo di Padova. Io l’ateneo di Padova lo conoscevo, sapevo cosa fosse perché a Padova è semplice: o sei all’Università o sei un commerciante o sei solo una delle tante merde campagnole che grattano la giornata; ma cosa fosse un pro-sindaco giureconsulto non ne avevo proprio idea mentre avrei dovuto averla perché era lui il pezzo grosso, la cazzata sulla quale stavamo inciampando. E ci inciampammo tutti e dodici, finendo con la faccia nella merda dove io son rimasto per vent’anni e dove sono ancora oggi.»
«Insomma, quel Non si alzò cercando di iniziare a parlare, Fanton lo rimise a sedere con una sberla e poi... Tant’è, ormai è andata. Quello cominciò a gridare da dietro il tavolo e con lui iniziarono anche gli altri. Fanton, che era sempre stato un gran cazzone, pronto alla provocazione e incapace d’altro, ebbe un’altra idea geniale: metter mano all’elsa della spada. Uno degli sbarbati alla sua destra lo anticipò cercando di bloccargli il braccio e fu allora che alle mie spalle esplose il primo colpo che continuò a rimbombare tra le mura anche dopo che quel ragazzo saltò indietro con la palla che entrava dalla scapola sinistra, passò da parte a parte, colpendo ancora il braccio di uno che stava dall’altra parte del tavolo piantandolo spalle al muro. Alla mia sinistra, con la coda dell’occhio, vedevo la canna e il fumo che salendo nascondeva un trave del soffitto. Quello della scapola si afflosciò su Fanton imbrattando di sangue lui e il tavolo. Tu sei d’arme? Hai mai visto cosa fa una palla d’archibugio che colpisce un cristiano? Una palla da un pollice porta via tutto quello che trova davanti, si ferma solo su un muro.»
«In scontri del genere va sempre così: c’è la prima scaramuccia, poi qualche secondo di silenzio perplesso e sospeso, poi il casino. Era quello che temevo e stavo aspettando, perché questi casini sai sempre come cominciano e non sai mai come diavolo finiscano. Avevamo una divisa addosso, vero, ma quante volte qualche collega è rimasto a terra con una lama piantata nello stomaco? D’accordo, Fanton fu un coglione, ma lo sapevamo tutti che era un coglione. Che bisogno c’era di fare il grosso con quei ragazzetti? Ma lui era fatto così, voleva sempre alzare la voce, poi si girava verso di noi si faceva una risata e li mandava in culo. E invece quelli no, invece di abbozzare e continuare a bere tranquilli ripresero a urlare, primo fra tutti proprio Non che si rialzò come una molla contro Gaetano. Ma era destino che non si dovesse muovere da dietro quel tavolo perché il secondo colpo partì che ancora non avevano finito di fischiarmi le orecchie. E il fumo si aggiunse al fumo.»
«Quel Non era ancora seduto al suo posto, dritto, le spalle contro la parete e gli occhi fissi, una rosa di carne era al centro del suo petto si allargava di rosso. Era andata, cazzata fatta, noi avevamo inciampato e cominciavamo a rotolarci nella merda.
Dopo non ci ho capito più un cazzo: quelli sono scattati verso di noi e noi verso di loro in un cumulo di botte e pugni fino a che è arrivato il capitano con un’altra squadra.»
«Furono loro a portarci via fino al corpo di guardia, con l’ordine di rimanere lì in attesa. Non sapevamo esattamente cosa sarebbe successo ma in fondo eravamo sbirri e doveva pur significare qualcosa.»
«Anche due giorni avanti c’era stata una zuffa. Uno mezzo ubriaco stava pisciando nel Brenta, arriva uno per pisciare anche lui e il primo gli affonda un coltello nel fianco, chissà per quale cazzo di motivo. Insomma, quando siamo arrivati uno stava per terra in mezzo al suo sangue ma vivo, l’altro era nell’osteria sotto la Specola a litigare e quando abbiamo provato ad arrestarlo un tavolo di ubriaconi schifosi si è rivoltato contro di noi. Pure lì c’è scappata la palla ma non ha preso nessuno, il botto ha tranquillizzato gli animi e sono finiti tutti dentro. Semplice casino, sbirri, galera è così che deve andare, c’è un ordine per tutto e tutto deve seguire quell’ordine. Che se a ogni testa di cazzo gli salta in mente di cambiarlo a suo piacere non si combinerà mai nulla. L’ordine è tutto e noi lavoravamo per questo.»
«Comunque, qualche ora dopo seppi che il capitano l’ordine nell’osteria l’aveva riportato, identificando i presenti, facendo portare via i due cadaveri e ordinando la chiusura del locale per trasgressione alle prescrizioni sull’ordine pubblico. Quello sì che sapeva come comportarsi, è vero che non voleva mangiare con noi ma il suo lavoro lo sapeva fare davvero.»
«Era di Thiene il capitano, come Fanton veniva anche lui dalla campagna vicentina ma su due strade diverse. Fanton si era arruolato perché non aveva altro di bene da fare. Il capitano lo aveva fatto perché suo padre era militare e suo zio prete. Hai mai fatto caso che se c’è qualcosa di meglio da fare ci deve essere sempre un prete di mezzo? Io ero come Fanton, entrambi giravamo larghi dalle acquasantiere, non avevamo nessun chierico in famiglia e siamo finiti a fare gli sbirri a Padova, che se ci pensi è sempre meglio di pulire merda nella stalla o stare in campagna cotti dal sole o zuppi di pioggia. Quello potevamo sperare e meglio di così non andò. Lui invece poteva sperare altro e con quel prete l’ha ottenuto: capitano della guardia a ponte del molino in Padova. Che se non sai dov’è, a sentirlo chiamare così, sembra che sei diventato generale de sto cazzo e invece passi le tue giornate a controllare chi entra e chi esce, chi paga e chi no, a sentire l’ora per chiudere o aprire il portone. Ma anche nella merda c’è chi sta sopra e respira un po’ d’aria e chi sta sotto trattenendo il fiato. Io e Fanton trattenevamo il fiato.»
«Nei giorni a seguire tutto era più o meno tranquillo, noi del drappello eravamo stati esentati dalla ronda nelle piazze, l’osteria era sempre chiusa e la cosa sembrava finita lì. E invece esce fuori la famiglia di Non a pestare i piedi chiedendo giustizia. Ma che cazzo di giustizia chiedi se eravamo noi la giustizia. Noi e basta, a culo il pro-sindaco giureconsulto dell’Ateneo di Padova, illustrissimo, esimio, eccellentissimo rompicoglioni laureato della madonna. Ma la famiglia di Non non era proprio una famiglia di campagnoli e aveva dalla sua l’Università e assieme tutta quella massa di studenti nullafacenti e spaccamaroni e sopra tutti il governo di Venezia che a certe cose ci faceva caso. Nei mesi successivi quelli dell’Università continuarono a tirare su un casino lanciando sassi, urlando per le strade, rovesciandoci addosso avanzi di latrina. E insomma, una cosa che succede, che capita, che poteva chiudersi lì tra noi tranquilla, come tante altre volte, ha cominciato a fare rumore. Un rumore sordo e sempre più pressante che è arrivato alle orecchie del Rettore padovano, da lì ha iniziato a camminare verso Venezia; dalle sue mani ad una penna, dalla penna ad una missiva e poi su su fino al Consiglio dei Dieci. E arrivati lì sono veramente cazzi.»
«Ma io dico, santa madonna, ma perché certa gente non si fa i cazzi suoi invece di tirare in ballo Venezia: quelli, se devono muoversi dalla laguna a Padova, in mezzo a acquitrini e zanzare, si fanno girare il culo, e li capisco benissimo, perché quelle eccellentissime signorie stanno tanto bene comode, in grazia di dio, a mangiare e bere, scegliendo con cura le tette da baciare e i culi da tastare. E invece se proprio li chiami, addirittura con una lettera ufficiale, e gli dici che un cazzo di pro-sindaco giureconsulto dell’Ateneo e uno studente sono stati assassinati, proprio così aveva scritto il Rettore che vada in culo, assassinati! da un drappello di guardie, insomma c’è da capirli se si incazzano quando devono muoversi per arrivare qui.»
«Tanto più che la voce passò di bocca in bocca fino all’orecchio del doge e a quell’epoca era Alvise III Mocenigo, tu non te lo puoi ricordare o forse si perché è morto più o meno quattordici anni fa, quello era stato capitano generale da mar, aveva combattuto contro i Turchi e aveva ancora voglia di menare le mani. Era appena stato eletto centododicesimo doge della Repubblica di Venezia e gli rodeva ancora molto per la sconfitta subita per mano di Haisan Pascia tanti anni prima.»
«Insomma tra dogi, consigli e rettori se la son presa a tal punto da incaricare addirittura Angelo Foscarini. Ora non so di dove sei tu ma io sono di queste parti e con certa gente ci avevo già avuto a che fare e lo sapevo che se avevano scomodato un avogador non era mica una cosa bella per noi e per nessuno, quella è gente che non sente chiacchiere e scava, chiede, domanda, inquisisce, non si accontenta mica della parola di uno con qualche gallone addosso. Ha mezzi e modi convincenti per tirare fuori la verità che vogliono sentirsi dire. Vuole sapere come sono andate le cose davvero e chiede, cerca testimoni, ascolta voci e le voci sai da dove arrivano ma non sai mai da dove vengono e in questo giro, c’è sempre chi rimane in mezzo col culo scoperto.»
«Ma il capitano, quello si che aveva una testa che ragionava, mica era rimasto lì a pettenar bambole. Si era mosso rapido per mettere tutto a posto come deve fare un capitano. Intanto aveva ritrovato due damigiane di vino di Valdobbiadene senza i regolari sigilli del dazio, così l’osteria era rimasta chiusa e l’oste inquisito per reato di fisco, cosa già grave di per sé. Poi aveva fatto infilare una lama spagnola nel giustacuore dello studente morto. Così le cose stavano già meglio: un locale criminale frequentato da criminali doveva deporre molto male agli occhi di un avogador. Quelli che erano usciti al nostro ingresso non contavano, restava dunque l’oste, liquidato con le due damigiane, il gruppo di studenti uno dei quali armato, criminali di compagnia, e gli avventori testimoni.»
«Noi non lo sapevamo ma anche gli altri si erano mossi. Ormai era da poco estate quando si scoprì che la famiglia Non, quelli di soldi ne avevano, aveva compilato un elenco degli studenti presenti e completo dei nomi di quei pochi avventori che non se ne andarono subito. Questa parte fu difficile, lo fu per il capitano che quanto a informazioni sapeva sempre come muoversi, figuriamoci per loro che non potevano, come noi, avere tante bocche da cui ascoltare.»
«Per fare l’avogador de comun non basta essere nobile, non basta essere figlio di puttana, devi essere uno che capisce quando è il momento di essere nobile e quando figlio di puttana, un bravo avogador deve essere tutte e due le cose. Quello era proprio tra i migliori: appena la famiglia Non gli fece avere la lista dei testimoni, lui la confrontò con la sua e mise tutti gli iscritti sotto la sua protezione e la responsabilità del capitano. Capito che stronzo? Se succedeva qualcosa a uno, saltava il collo del capitano e quello era capitano sì ma mica coglione, tanto più che lui non c’entrava niente e stava cercando di parare il culo a noi. Così fummo costretti a girare al largo da quella gente e non potemmo fare nulla per convincerli che era stato tutto un equivoco, una cazzata che potevamo risolvere tranquillamente tra noi. Intanto il capitano si sfilò via dalla rogna che a noi si era attaccata addosso.»
«Le cose si erano messe proprio male per noi. Con tutte le testimonianze raccolte dall’avogador, senza nemmeno il bisogno di una denuncia anonima, tutti e dodici fummo trasferiti a Venezia e non certo alla locanda del Leon a toccar busi, ma direttamente alle prigioni di Rialto, quelle nuove perché, nel bene o nel male, eravamo sempre sbirri e un occhio di riguardo ce l’avevano, nei Pozzi sarebbe stato infamante, mentre non eravamo abbastanza nobili per i Piombi. Mancava l’incontro con i giudici e a quel punto sarebbe venuto il bello perché allora avrebbero deciso come proseguire gli interrogatori. A Palazzo Ducale c’è una sala che chiamano, guarda caso, camera del Tormento, un nome che non lascia spazio a dubbi. Si trova al secondo piano, direttamente collegata con i Piombi, come dire casa e bottega. Quello che succede lì dentro è rimesso all’indiscutibile e insindacabile decisione dei giudici: se non hanno prove certe non sono favorevoli alla tortura, ma se le hanno e manca una confessione è lì che finisci e lì confessi tutto anche che tua madre era la madonna intronata.»
«Anche al ponte del mulino c’era qualcosa di simile. Non proprio una stanza degli interrogatori, piuttosto un sottoscala dal quale non uscivano rumori. Era uno schifo con le pareti lorde di moccio e sangue rappreso, il pavimento sporco di merda. Perché quei cialtroni si cagavano proprio sotto, per davvero, non è un modo di dire, quelli si cagavano letteralmente addosso. Alcuni facevano i duri tenendo botta, ma pochi andavano oltre le tre ore. La maggior parte la finiva lì quando vedevano i bastoncini avvicinarsi alle narici. Altri non arrivavano nemmeno a quel punto, e ci dicevano spontaneamente quello che noi sapevamo già ma volevamo sentire dalle loro bocche. Certo, dovevamo un po’ incoraggiarli ma per questo bastava Giobatta, quello friulano. È proprio vero: gente di confine o ladri o assassini. Quello era proprio assassino, molte volte gli davo una mano anche io ma mi faceva più paura lui del criminale legato. Facci caso: se guardi negli occhi il tuo avversario puoi vedere la paura, e allora hai vinto, oppure la rabbia, e allora devi aspettare un suo errore per vincere. Ma se non vedi niente, lui ha già vinto, è proprio lui quello che ti fotterà e Giobatta li fotteva tutti, nessuno escluso perché non gli fregava un cazzo di niente e nessuno.»
«E poi noi non sapevamo ancora che da Venezia era arrivato qualcuno già prima di Foscarini. Forse tra marzo e maggio dovevano essere giunti in città i due inquisitori dei Dieci per capire come erano andate le cose e avevano raccolto quanto necessario per avviare l’inchiesta e preparare un rapporto preliminare. Secondo quegli altri parolai potevamo passare direttamente al Collegio Speciale, secondo loro era chiaro e lampante che avevamo commesso chissà quale crimine contro la repubblica, vada in culo lei con san marco. Così misero assieme un Capo dei Dieci, il Consiglier ducal, l’Avogador de Comun già era pronto e infine l’inquisitor dei Dieci. Ormai si era messa in moto troppa gente e non poteva che finire male e comunque sarebbe finito tutto entro massimo due mesi, non oltre. Io vengo da Feltre ma non sono un coglione campagnolo, almeno non come Fanton; quando capii che le cose stavano andando per il peggio, davanti ai giudici gliela dissi tutta, almeno non passavo per il tormento.»
«Foscarini le testimonianze le aveva tutte, fresche e di prima mano e quindi lo dissi subito che Fanton Gaetano di NN era il cazzone che aveva provocato la rissa, che Masella Anzolo di Bentivoglio aveva tirato il primo colpo e Garin Tiziano di Antonio il secondo, che -si è vero- io Da Feltre Antonio di Matteo ero il più anziano del drappello, ma che noi stavamo solo cercando di riportare l’ordine e che erano stati quelli a venirci addosso, che noi facevamo solo il nostro dovere e il nostro dovere era riportare l’ordine.»
«Loro scrissero tutto, parola per parola, mi fecero firmare il foglio che chiamavano confessione: ma di che cazzo di confessione parlate! Io vi dico come sono andate le cose e voi me la chiamate confessione? Confessione è quando uno ha fatto peccato, quando ha qualcosa di pesante sulla coscienza, quando il prete dopo ti da la penitenza e l’assoluzione, quando hai fatto qualcosa di male insomma. Noi non avevamo fatto nulla, capirai che cambiano due studenti in più o in meno a Padova.»
«C’è una frase che ti auguro non debba mai sentire. Una sola, soprattutto se a dirla è l’avogador de comun di fronte al Consiglio. Perché se quell’imbacuccato rosso chiede: “Se dopo quanto fu letto vi pare che -e qui c’è il tuo nome completo- siasi a condannare.” allora sono cazzi tuoi, amari che nemmeno Giuda, di lì non ne esci certo con un buffetto e una ramanzina. Con quella domanda chiede la tua condanna al Consiglio dei Dieci; e se sei arrivato a quella domanda, con tutte le prove che hanno permesso l’istruzione del processo, con tutta la gente che si è mossa, con l’avvocato che ti hanno messo a disposizione, tutta la carta sprecata per i bandi affissi, allora la risposta può essere solo un “sì”. Poi rimane la questione di quale condanna, ma è dettaglio: che sia cappio, remo o carcere oscuro, sempre nella merda nera finisci. Il 24 settembre, un venerdì nuvoloso, il Consiglio dei Dieci emise la sentenza: tutti e dodici colpevoli e condannati: Fanton alla forca, io, Masella e Garin al remo a vita e tutti gli altri al carcere oscuro ristretto. Sigillo, bando, calcio in culo e fine storia.»
«Se sei uno di campagna, abituato alla pianura, all’aratro tra te e il bue, a bere da una fiasca d’acqua, devi essere per forza uno di poche parole; già se vieni dalle colline o dalle montagne sarai più propenso a parlare perché nelle tue orecchie c’è il vento che corre tra gli alberi e l’eco della tua voce nei canaloni. A Venezia il mare cala e monta ogni sei ore, l’onda è continua, sia a venire che ad andare, pensa che capita pure che arrivi in piazza fino alla basilica e oltre, davvero! Io non l’ho mai visto ma me l’hanno raccontato; e quello sciabordio ti abitua alla chiacchiera, al vociare, al parlare di tutto e di tutti spettegolando delle novità che vengono dai marinai, delle puttane che stanno al ponte delle tette e di qualche bella tosa da fare pregna. A Venezia chiacchierano tanto, è vero, ma non sulle sentenze. Una volta emessa è quella e nemmeno con il redentore che scende a parlare al doge se ne esce, nemmeno co ‘a madonna implorante la risolvi. Il giorno dopo Fanton salì al patibolo. Uscì in ceppi dai Piombi, camminando tra due guardie, la laguna a sinistra e il colonnato a destra fino alle due colonne. La gente si era radunata per assistere allo spettacolo gratuito e chiacchierava, sputava, rideva e qualcuno lo insultava pure a quel povero cristo. In mezzo avevano innalzato la forca e quel cagasotto piangeva. Ma che cazzo piangi stronzo, almeno fagli veder come muore uno con le palle. Ma tu le palle non le avevi mai avute. In drappello ti crescevano a sproposito ma da solo no, da solo potevi solo piangere. E io allora? Io quanto cazzo dovrei piangere? Tu uno strappo e morta lì, a me invece lo strappo è durato per vent’anni e continua ancora e ancora continuerà finché l’altissimo deciderà che basta e che posso chiudere la porta.»
«Il lunedì ci divisero e io venni trasferito in Arsenale con gli altri due e sei criminali comuni, tutti condannati alla galera. Da lì immediatamente alla fusta ormeggiata in bacino. Io non ne sapevo nulla di galee, io venivo da Feltre e lì il mare è lontano; imparai subito quello che c’era da sapere: silenzio, spingi e tira, mangia quello che c’è e soprattutto non rompere i coglioni. Addestramento rapido ed efficace. Il resto più o meno te l’ho già raccontato.»
«Questo è quanto, niente di più, niente di meno. Sei soddisfatto? Ti è piaciuta la storia? Ti aspettavi qualcos’altro? Non c’è niente altro. Due studenti per terra, la giustizia veneziana che trionfa e nel mezzo noi poveri coglioni che tanto è quella la fine che facciamo sempre. Tra mazza e incudine rimaniamo sempre e solo noi che facciamo il nostro dovere. Undici anni di guardia mi sono fatto, poi vent’anni al remo, sbarcato perché graziato, in verità perché non ero più buono, peso e basta, bocca inutile da sfamare e dissetare. Ora secondo il tuo dio, che cazzo devo fare? A cinquantasei anni, gli ultimi venti spesi a muovere acqua, senza un soldo, la schiena spezzata, senza due dita nella mano, cosa vuoi che faccia io adesso? Una vita bruciata per un cazzo di nulla. Non sto a dire se sia giusto o sbagliato ma che madonna! Tutto questo per l’incontro tra Fanton e due coglioni. Non me lo meritavo e a volte penso che quel cristo lassù abbia proprio preso una cantonata o forse ha solo dimenticato come vanno le faccende qui. Eppure anche lui c’è passato e a cosa è servito se non se ne ricorda nemmeno? Niente di niente. E anche questa bevuta non serve a niente. Alla fine del tuo bicchiere ti alzerai, dirai qualcosa di convenienza e mi saluterai lasciandomi qui proprio dove mi hai trovato, dove ero ieri e ieri l’altro e una settimana fa e dove sarò domani e dopodomani e ancora. Sarò sempre qui che continuerò a disegnare con il vino perso sul tavolo, perché remo o bicchiere, a questo punto per me è lo stesso.»



Tre giorni

«Eccellenza, non voglio far perdere altro tempo alla Sua riverita persona, almeno non più di quanto ne abbia già speso finora acconsentendo a ricevermi. Le penose vicissitudini della mia famiglia, a Lei certamente ben note, mi hanno reso nel triste bisogno di muovere la Sua attenzione. Sto cercando qualcuno, una persona, e certamente Lei, nella Sua grazia e volontà, potrà aiutarmi: il suo nome è Moisè sacerdote, ebreo tenitor di un banco, anche noto in Ghetto, Cannaregio e Castello con il nome di Mustacchi.»
Non era stato facile arrivare fin lì, ricevuto in una delle stanze più riservate di una delle famiglie patrizie più antiche della città ma la mia godeva ancora di alcuni appoggi. Il nome Grimani non ne aveva bisogno, rimandava a dogi e senatori, senza voler dimenticare il ruolo cruciale che svolse dietro le quinte, anche al di fuori di incarichi ufficiali. Ma non avevo avuto molte altre scelte, questa era l’ultima carta che potevo giocare, io che avevo imparato ad girare al largo da qualsiasi tavolo da gioco, per salvare il poco che rimaneva di tutto ciò che mio padre aveva letteralmente liquefatto, giorno dopo giorno, negli ultimi vent’anni.
La figura barbuta di quel nobiluomo lagunare era seduta immobile dietro il grande tavolo spoglio, illuminata solo dalla finestra alla mia destra. Questo taglio di luce dava al viso una profondità accentuata dall’attenzione con cui mi guardava. Il volto serio, attento e grave, mi rammentava uno dei tanti ritratti presenti in ogni palazzo veneziano, quegli antenati dall’espressione seria e al contempo furba che esce dal buio, svelato da una luce impietosa che proviene da oltre la cornice.
«Signore, per il nome che portate e nel rispetto della dolorosa vostra perdita, è mia sollecitudine porre attenzione alla vostra richiesta. Nel merito conosciamo molto bene la persona da lei citata, non solo per suo costume e religione, bensì per le suppliche giunte alla Quarantia Criminal in merito all’illecito suo agire come sanser da pegni. Per tutto questo, sappia già con chi ha avuto a che fare vostro padre e con chi lei andrà ad aver affare. Di detto Moisè sacerdote, conosciuto anche col soprannome di Mustacchi, non solo in Ghetto, Cannaregio e Castello, bensì nell’intera Venezia fino a Malamocco, abbiamo un corposo fascicolo.»
«Volendo sorvolare sull’attenzione che la Repubblica ha già da tempo posto sul suo affare, a partire dal primo di aprile dello scorso anno ci sono giunte suppliche ripetute riguardo all’agire suo. Prima fra tutte quella di tal Zini Margherita in merito ad un pegno rivenduto prima del riscatto; poi del tal Porta Carlo per un reclamo sullo stato del pegno; ancora Zanardini Paolino Valerio prima e subito dopo il figlio Gabriele sempre per un pegno rivenduto prima del riscatto. Ometto ogni altra supplica inoltrata, per concludere informandola che la Criminal Quarantia decise proprio lo scorso anno di istruire un più ampio processo riguardo gli illeciti in frodi ed estorsioni perpetrati al danno di cristiani non solo dal suddetto Moisé, bensì anche da altri suoi degni compari d’affari e religione nei nomi di Conegliano Giacobbe di Aron, Bonagrazia Tonin, Corregio Giuseppe di Salvador e Usigli Marco di Abramo detto Maghetto. In merito al Moisè l’inchiesta si è conclusa con un processo a suo carico e seguente condanna per la quale ha già chiesto grazia. Ora, a far onore al rispetto per le leggi e gli usi giuridici della Dominante, sono in obbligo a chiederle conto del perché siate a ricercare quest’uomo.»
Non era ciò che era solo per nomea, i fatti sembravano dargli lo spessore che meritava e mi convincevo di essermi rivolto alla persona giusta. O forse ero solo costretto come naufrago che veda nel primo tavolaccio la migliore imbarcazione.
«Se me ne darà agio, potrò spiegarle tutto dal principio. Siete dunque a conoscenza delle vicissitudini provocate negli anni recenti dal mio defunto genitore, che Dio abbia in gloria l’anima sua. Dopo il salutare rigore proposto e mantenuto da mio nonno Bartolomeo, cinque anni appresso la sua morte la condotta di mio padre offrì campo ai rilievi di qualcuno che in sé non aveva titolo né spessore per rilevare. Eppure iniziarono a girare voci sempre più insistenti sulle discutibili frequentazioni paterne. La cosa non ebbe risonanza in famiglia se non prima di altri sei o sette anni, quando la sua vita palese fu irrimediabilmente resa come usa al gioco e alle dubbie compagnie. Mia madre Eleonora ebbe a soffrirne tanto che infine, appena prima che il nostro attuale doge Manin entrasse in Palazzo Ducale, dopo altri sette anni di diverbi sempre più disperati, decise di trasferirsi in convento per proteggere il suo onore dalle male lingue e dall’onta che la stava lambendo, lasciando al destino e alla provvidenza anche noi figli e tutto il resto.»
«In casa rimanemmo io e mia sorella Maria e quando iniziarono le visite dei creditori, dapprima cordiali infine rudi e volgari, avemmo segno e misura della situazione perché fino ad allora nessuno di quelli, dico nessuno, ebbe cuore di rivolgersi a nostro padre nella maniera degli ultimi. Cercammo anche noi di contenere quella deriva, per quanto possibile e per come potevamo, ma ben poco potemmo. Infine il lutto di qualche mese fa: ancora sono celebrate le messe di suffragio a Santa Maria Nova che noi dobbiamo già affrontare chi reclama il denaro prestato, sebbene nelle casse sia rimasto ben poco.»
«Per quanto riguarda il merito ed il ruolo di Moisè sacerdote, in uno dei cassetti di mio padre, tra le tante, ho trovato queste quattro ricevute di pegno per un totale di 326 zecchini che non è, nemmeno lontanamente, il valore degli oggetti dichiarati e trattenuti. Per questo sono alla ricerca di quest’uomo, per riscattare quanto in suo possesso rivalendomi dell’iniqua transazione, come previsto a nostra tutela, e tentare di risanare la situazione.»
Avevo poggiato sul tavolo le quattro ricevute scritte su carta infima, senza filigrana, macchiate di vino e unto e di chissà che altro ancora. Ciascuna riportava in una scrittura scomposta, tale da non rispettare i minimi criteri imposti dalla calligrafia, una formula quasi di rito nella quale si citava la somma richiesta, l’interesse mensile, sempre al cinque percento, e la descrizione minuziosa del pegno offerto. Il loro aspetto trasandato passava immediatamente in second’ordine quando appariva la firma di mio padre in calce. La prima risaliva al maggio 1787 e riportava 21 zecchini, la seconda del due settembre 1790 per 43 zecchini, la terza del tre aprile 1792 per 52 zecchini e infine quella del quattro dicembre 1794 per 210. Un crescendo inarrestabile di capitale ed interessi fino a poco prima della morte.
Nella silenziosa attesa dello studio si poteva quasi dire di non essere nel centro di Venezia. Nessun rumore proveniva dalle calli e dai rii attorno. Un odore di legno vecchio misto a polvere pervadeva la camera e contribuiva non poco alla nobiltà dell’ambiente. Grimani si mosse e l’unico rumore fu il cigolare del legno della sedia.
«Triste storia la vostra, signore, che muove a compassione per l’umana debolezza mostrata da vostro padre e rende a voi l’onore per lo strenuo tentativo di risollevare le sorti della casa e la sua memoria. Oltre agli incartamenti che vi ho già citato, al momento altro non posso dirvi, se non che avete la mia parola per un impegno. Cercherò di sapere dove è recluso l’ebreo furfante e se sarà possibile interrogarlo in merito. Per contro devo anche ricondurre le vostre speranze ad una realtà più verosimile: ogni proprietà del Moisè è stata a suo tempo requisita per saldare i debiti da lui contratti e qualsiasi altro avere dovesse essere scoperto sarebbe ricondotto alla medesima finalità. Comunque, rimanete in attesa di un mio riscontro che spero essere entro pochi giorni. Sono certo non sia necessario sottolineare il carattere riservato dell’informativa e della mia esposizione nell’interessamento. Comunque, abbiate fede.»
E con quella fede la frase era chiusa: in maniera nemmeno tanto implicita aveva richiesto un corrispettivo e al contempo posto tacitamente termine all’incontro. Se è vero che il commercio è stato da sempre la linfa veneziana, da qualche decennio era l’unica cosa rimasta. Si poteva commerciare tutto: un salvacondotto, una sentenza, il voto al Maggior Consiglio, tutto. L’evidenza, e non solo con Grimani, mi stava dimostrando che la linfa scorreva ancora, ma i muscoli si erano avvizziti già da tempo, togliendo al nostro corpo quell’energia collettiva che ci aveva glorificato da levante a ponente.
Salutai ossequioso il Grimani e uscii dallo studio senza aver risolto la domanda iniziale: “Dov’era finito quell’avanzo reietto di Moisè sacerdote?” Sapevo qualcosa in più: che era riservatamente inquisito da qualche anno, che aveva a collo molte suppliche di cittadini, che dopo il processo della Quarantia Criminal stava scontando una pena per cui aveva chiesto grazia di riduzione. Ma dove e ancora per quanto non ero riuscito a saperlo. Dovevo attendere, questione di tempo. Proprio quello che avevo di meno.
In Ghetto
Chiusa che fu alle mie spalle la porta dello studio privato, mi ritrovai nella sala grande, fatta apposta per sollecitare il rispetto come l’intero palazzo, a partire dall’ingresso, bianco e defilato appena a mancina dopo il ponte di Santa Maria Formosa, sull’angolo del rio, lì dove nasce ruga Giuffa dritta tra due file strette di edifici. Esso apriva lo sguardo ad una corte luminosa e dalla parte opposta la riva d’acqua lasciava intravedere il canale con le barche silenziose, disturbato solo dal richiamo dei vogatori. La scala per il piano nobile, ampia e voltata con stucchi deliziosi, conduceva al corridoio ampio e luminoso aperto sulla corte colonnata. Le travi dipinte del soffitto facevano da contrappunto ad una delle collezioni d’arte più invidiate di tutta Europa. Statue originali o in copia riecheggiavano una classicità divina ed eroica, quasi un desiderio di ritornare, o meglio di far rinascere, una perduta età dell’oro. Tra le tante una copia del gruppo del Laocoonte, rinvenuto tra le macerie capitoline; una testa di Minerva, un guerriero ferito a morte e quadri, tanti: molti memoria della storia familiare, volti di antenati, scene che costruirono l’epopea Grimani e altri che facevano di quelle stanze il crogiolo della migliore e più significativa estetica cristiana degli ultimi duecentocinquanta anni.
Potevo andare alla ricerca di quei nomi riferiti da Grimani: Magherita Zini, Carlo Porta, i due Zanardini ma alla fine mi sono convinto che non avrebbe avuto molto senso, cosa potevo ottenere nel migliore dei casi? Un luogo? Un indirizzo? A poco sarebbe servito, quando in realtà avevo bisogno solo di trovare Mustacchi in tempi brevi.
Un attimo prima di uscire, con un cenno appena alla mia destra, un mezzo profilo nell’ombra attirò la mia attenzione: non disse nulla mentre mi porgeva un involto di velluto lungo più di un palmo; rientrò nel buio chiudendo la porta di servizio. Dovevo capirlo subito, il nobiluomo certe cose le lasciava alla servitù, giammai se ne sarebbe fatto carico personale. Un dono del Grimani dunque, ma di che tipo? Dal peso e dalla dimensione un’idea me l’ero fatta ma per una conferma avrei dovuto aprirlo e quello non era proprio il luogo appropriato; a Venezia non si è mai soli, completamente soli intendo. C’è sempre qualcuno affacciato in calle che saprà, e questo non potevo permettermelo, per questo lo riposi sotto la giacca.
Uscito dal portone, mi ritrovai quindi e nuovamente in ruga Giuffa, come dire dall’estasi al purgatorio. Quella calle prendeva il nome dai negozi armeni che un tempo la impegnavano e ora erano quasi tutti chiusi, il posto dei loro uffici era stato preso da mendicanti e zingari tutti questuanti i sempre più scarsi denari che giravano per la città. Non me la sentivo di rientrare a casa, volevo provare a muovermi io stesso per cercare soluzioni, volsi quindi i passi verso Cannaregio e di lì in Ghetto. Marcello –il domestico di fiducia di mio padre- mi aveva suggerito il nome di un tal Conegliano, titolare del banco Rosso in campo del Ghetto Novo, forse lo stesso citato da Grimani, che avrebbe potuto fornirmi indicazioni utili e discrete.
Oltre il ponte di Ruga Giuffa invece, il campo di Santa Maria Formosa tra marmi e laterizi era un tripudio di luce e sole come solo lì accade nelle giornate limpide. Tagliai a destra verso campo Santa Marina per il borgoloco. Dietro la chiesa dei Santi Apostoli, e prima di raggiungere quella dei Gesuiti, voltai a mancina per la Misericordia e seguii la fondamenta fin dietro i tre Ghetti. Ci sono stati tempi in cui andare in ghetto voleva dire affari, soldi, interessi, commercio, tempi in cui buona parte delle novità transitava attraverso i mercanti ebrei perché lì arrivavano i flussi da levante ma non erano più quei tempi e mi avvolsi nella discrezione del tabarro.
Poi, e il merito iniziale fu di papa Paolo IV più di due secoli fa, con alterni interventi dei successori, la popolazione ebraica fu costretta per decreto a vivere in zone circoscritte, potendo uscire solo di giorno, limitando i diritti civili –non erano nemmeno considerati cittadini a tutti gli effetti- e le attività professionali e commerciali. Questo generò effetti devastanti ribaltandosi su tutta l’economia, costringendo all’emigrazione i capitali e le competenze di mercanti e artigiani, senza contare gli abilissimi medici ebrei, formatisi anche sui testi arabi, ai quali era stato proibito di curare i cristiani. Paradossalmente i mercanti musulmani godevano di tutele maggiori e potevano scaricare le loro merci direttamente dal Canal Grande anche nei momenti di maggiore tensione se non di guerra dichiarata.
Passo dopo passo, nel tardo pomeriggio illuminato da una luce dorata dietro i tetti altissimi, arrivai alla porta del Ghetto mentre mi tornavano alla mente alcuni dettagli omessi nella storia che avevo raccontato al Grimani.
Giacomo Non
Figlio di un Non ucciso a Padova nel 1722, la famiglia di mio nonno, due anni dopo l’omicidio, mandò a Venezia il figlio dodicenne presso un parente così da sperare di farlo entrare negli uffici governativi della Repubblica Serenissima. Poi il matrimonio, l’unico figlio, mio padre Giacomo, nel quale ripose flebili e vane speranze e infine la morte nel 1770 a soli cinquantotto anni. Nove anni prima i miei si era sposati con solennità ai Santi Apostoli, poi mio padre, simile all’ineluttabile lavorio della clessidra, andò avanti appellandosi al prestigio ed evocando il passato potere della nostra famiglia; eppure consumando, di pari passo, prima oculatamente e poi e con scellerata determinazione, ogni nostra risorsa economica e morale fino ai suoi ultimi giorni.
Ad onor del vero l’ultima cosa che posso dire è che non si sia goduto la vita, avendo speso tra feste, battute di caccia in laguna, cene, abiti, regali e cortigiane tutto ciò che rimaneva di un patrimonio accumulato in centottant’anni, lira dopo lira. A conti fatti si era goduto tutti i piaceri della vita sua oltre quelli potenziali di nostra madre, miei e di mia sorella. Di mia sorella c’è poco da dire se non che è sposata e madre, mentre della prima non parlo ché ad appena quarantasei anni, sei prima d’oggi, si era ritirata presso le suore agostiniane del convento di Sant’Anna, per evitare quel marito fedifrago e la vergogna che stava calando su tutti noi. La vedevamo una domenica al mese e nelle più importanti festività religiose, quando una messa era d’obbligo e guarda caso proprio nel suo convento. Lei era sempre più distante e nostro padre non c’era quasi mai, trattenuto di volta in volta da un affare, leggi cantante francese, un impegno, ovvero cortigiana veneziana, oppure quando dichiarava apertamente il suo fastidio. Le volte che preferivo.
Al banco rosso
Se in città si viveva nello splendore della Serenissima, respirando già inconsapevoli i primi miasmi della decadenza, in Ghetto gli effluvi erano ben altri e vari, passando dai rifiuti in rio agli odori delle botteghe fino ai profumi che provenivano da qualche cucina. Costretti ad una convivenza forzosa, ridotta in un’area ristretta, in edifici altissimi ampliati solo in altezza la popolazione israelita sopravviveva a se stessa in virtù della sua cultura e di una convinzione radicata in secoli di storia.
Giunsi al banco Rosso1Tra i molti banchi di pegno del ghetto di Venezia, nel campo del Gheto Novo c’erano i tre principali, chiamati verde, rosso e negro dal colore delle loro ricevute. nel campo del Ghetto Novo, le ricevute che avevo trovato non erano di quel colore ma era un buon punto di partenza. Con buona pace dei consigli di Grimani non potevo aspettare: da lì iniziavo la mia personale ricerca entrando sotto l’architrave in marmo con l’insegna dipinta. Il locale non era luminoso, sotto il soffitto in legno un bancone era posto di traverso nel fondo, dietro di esso il prestatore era intento ad una trattativa con una donna circa alcune lenzuola che parevano di buona fattura anche se non ricamate. L’occhio e il tocco esperto dell’uomo stavano valutando la merce e l’intera questione era trattata sottovoce, tanto che a pochi passi non potevo distinguere nulla se non i bisbigli. La parete di fondo era rivestita da una scaffalatura piena di cartelle di documenti a destra e varie scatole a sinistra. Nel centro una tenda copriva una porta. Il pavimento in terracotta era pulito e allo stesso tempo consumato dalle migliaia di passi veneziani. Alla mia sinistra una seggiola per le attese. Dopo qualche istante di silenzio la donna esitante fece segno di sì con la testa, l’uomo compilò un foglio con inchiostro rosso, lo siglò e ripose il pegno in una scatola alle sue spalle, porgendo la ricevuta e la somma convenuta. La donna non ringraziò e si girò uscendo frettolosamente, senza incrociare il mio sguardo. Lasciò dietro di sé un odore leggero e morbido di sapone. Mi feci avanti quando l’uomo ebbe a scrutarmi interrogativo.
«Buonasera. È lei il signor Conegliano? Sono stato indirizzato qui da Marcello Bonavoglia, circa la mia necessità di scambiare alcune parole con voi riguardo una persona.» Pensava ad un cliente, si trovava invece una domanda senza pegno e si fece diffidente.
«Buonasera signore, ditemi pure in cosa posso esservi utile, sempre ch’io possa.»
Non mi ero presentato, fornendo solo la referenza di una terza persona e questo lo rendeva cauto e certamente più riservato.
«Il mio nome è Giovanni di casa Non, avrei necessità di parlare con un tale Moisé sacerdote, forse lo conoscete con il nome di Mustacchi, per avere ragguagli su un affare in sospeso tra lui e mio padre. Marcello mi ha assicurato che voi siete la persona più adatta a cui chiedere e il vostro aiuto potrebbe rendere molto più agevole la soluzione.»
«Mustacchi dite... è qualche tempo che non lo vedo, nemmeno alla funzione di shabbat. Purtroppo non saprei come aiutarvi ma -signore- se lo ritenete opportuno, lasciatemi un messaggio nel caso io lo veda qui in ghetto.»
Iniziava il minuetto. Non mi aspettavo certo una risposta immediata, ma nemmeno un muro così alto. Nondimeno, di questi tempi ogni novità è sospetta e ogni domanda induce vaghezza, rendendo restìo anche il più fiducioso degli uomini. Non mi restava che ballare ascoltando la sua musica.
«Vi ringrazio per la vostra attenzione, ma la questione è cosa delicata e preferirei trattarla direttamente con lui, meglio se a quattr’occhi. Siate comunque certo della mia gratitudine per l’incombenza che vi chiedo.»
«Vi sono grato per la cortesia, signore, ma da molto tempo, e di questi tempi ancor più, la vita è divenuta ardua e spinosa e con maggior evidenza qui in ghetto per ogni figlio di Israele. Siamo costretti a commerciare in stracci, al massimo prestiamo a pegno. Le indicazioni del romano pontefice, che hanno lavorato per secoli cercando ogni mezzo per metterci nell’angolo, sono riuscite a obbligarci a svolgere solo alcuni, infimi lavori. In verità possiamo essere anche medici ma non per i cristiani, e alcuni di noi sono bravi, avendo studiato su altri testi dopo quelli greci, latini e dell’eccellentissima Scuola Salernitana. Presso alcuni ci siamo fatti, e non saprei come, fama di maghi, stregoni, usi al diabolico, ma solo perché spesso appare nero ciò che non si conosce e le nostre letture numeriche della scrittura incutono timore. Ma a parte questo, considerato che venite qui per nome di Marcello Buonavoglia, altro non saprei dirvi, mentre vorrei rassicurarvi di avere certezza che vedendo il Mustacchi sarà mia premura comunicargli la vostra bisogna.»
Attimo di sospensione, fine della musica e fine anche del ballo. Uscito nel crepuscolo del giorno e delle notizie, mi ritrovai nuovamente in campo senza aver saputo nulla e avendo ottenuto la solita risposta “aspettare”. Per ostilità o riservatezza, il nome di Moisè sacerdote chiudeva invece di aprire. Se con un nome a garanzia avevo ottenuto questo nulla, era inutile andare a chiedere altrove e in conclusione, più di quanto sapevo non seppi.
L’eredità
Tutto questo avveniva per l’eredità di mio padre. Riguardo il suo modo di intendere la vita mi sono limitato a ricordare le cortigiane, per non scendere in altri vocaboli triviali, mentre lui non si pose mai questi problemi eleggendo a convitate delle sue riunioni alcune tra le donne più raffinate di Venezia alternandole con molte delle peggiori -e sia, ormai l’ho detto- puttane di calle. Riuscì ad avere la buona grazia di trapassare quattro mesi or sono, accompagnato dalla fanfara del mal francese, con buona pace sua, nostra e dell’istituto serenissimo del meretricio, ma tutto questo lo dico sottovoce perché in realtà dovrei parlare da buon figlio affranto.
Chi invece non rimase sottovoce furono i creditori che si riversarono in casa nostra il giorno dopo il funerale. E come dar loro torto? Il mio reverendissimo padre aveva lasciato ben poche sostanze e la sua morte aveva dato il via, come una colombina, alla corsa per il rientro del credito. Venezia è una città stretta e tortuosa in cui l’idea di linearità e riservatezza è tanto esaltata dalla legge e dalla convenzione comune, quanto remota nella realtà dei fatti. Per riservatezza si cammina tra calli e campi nell’anonimo costume della bauta e del trasgressivo tabarro, al contempo nulla e nessuno, sia uomo o ceto sociale, sfugge al piacere del comune chiacchiericcio.
Scivolata via da chissà quale pertugio di casa -in realtà un’idea me l’ero fatta- la notizia del peggioramento delle condizioni di salute di mio padre si era diffusa inevitabile ed inarrestabile come olio versato. Primo sintomo il diradarsi degli appuntamenti galanti, quelle poche che ancora aprivano la loro porta d’acqua erano quelle meno informate; le altre declinavano cortesemente con messaggi tanto carichi di affetto quanto di distanza: proprio quella che volevano porre tra lo strumento della loro professione e la sua malattia.
Altro sintomo fu il parallelo aumentare della frequenza delle visite e dei messaggi di coloro i quali avevano supportato, più o meno largamente e a tassi variamente vantaggiosi, la paterna crapula. La sera stessa, un paio d’ore dopo la morte, entrai nello studio per capire cosa fosse rimasto: trovai poche lettere di credito, molte di debito e pressoché nulla, rispetto all’originale ammontare, in denaro. Misi in salvo quel poco perché aspettavo l’arrivo di mia madre che, sebbene devota e in preghiera, non avrebbe disdegnato gli agi di una rendita anche minima.
In altre parole l’eredità paterna era racchiusa in una disperata inconsistenza delle finanze di famiglia, il che era già noto a molti se non a tutti, anche a noi figli ma, come spesso capita, un conto è sapere, altro conto è doverne prendere atto.
Moisé sacerdote, detto Mustacchi
A dar fede alle ricevute trovate, il rapporto col Mustacchi ebbe a iniziare probabilmente nel maggio del 1787; dico probabilmente perché non trovai altri impegni precedenti la prima, ma nulla vieta che fosse già consolidato per altre vie. In quella stagione il freddo tornò più forte dalle montagne portando con sé il gelo sulla laguna: era uno spettacolo unico ammirare la città prigioniera del ghiaccio, i canali fermi senza quel fluire continuo delle maree; le scoasse ferme nella superficie gelida e verdastra sul bordo delle fondamenta; le barche paralizzate non potevano muoversi e quella mattina la città si svegliò con l’aspetto improvvisamente mutato, al punto che qualcuno arrivò, tanto per cambiare, ad organizzare feste sul ghiaccio.
Quando la primavera riprese il sopravvento sciogliendo l’acqua dei rii, mio padre aveva ormai preso l’abbrivio. Fu in una di quelle sere tiepide che annunciano l’estate, quelle che consolano dal freddo patito, che lui uscì per uno dei suoi irrimandabili impegni mondani. Nostra madre era esasperata e ormai aveva rinunciato alle scenate sulla scala, preferendo piuttosto ritirarsi nelle sue stanze, in un’ immobile fuga assieme al breviario. Io avevo ventitre anni e mia sorella si sarebbe sposata di lì a poco, appena in tempo, prima che svanisse anche l’ultimo briciolo di dote.
Seppi più avanti che oltre ad apprezzare il vino, meglio se bianco e freddo, ma senza disdegnare il rosso ad ogni temperatura, il mio reverendo padre aveva preso l’abitudine di fumare certe palline resinose che recuperava attraverso Marcello, il nostro domestico di fiducia, da un mercante musulmano al Fontego dei Turchi. Lui cercava di tenerlo segreto ma era difficile eludere la mia curiosità adolescenziale, soprattutto quando qualche sera lo vidi uscire dallo studio con passi incerti sul pavimento di legno, avvolto in un profumo che mi ricordava le spezie scaricate nei fondi sul canale. Di quelle palline riuscii a rubarne una dal suo rifugio, ma non a capire come usarla e finii per perderla in fondo a chissà quale tasca.
La paterna evanescenza perdurava ed egli provvedeva ad alimentarla anche durante le sue partite a madrasso, scarabocio o ai trionfi, il che probabilmente, diede agio ai suoi amici di reindirizzare a loro favore gli imprevedibili capricci della fortuna.
Quella sera di maggio mio padre –lo seppi dalla viva voce di Marcello che cercava di contenere il dispendio e il contegno del padrone- doveva aver già perso molto e mancando in fede e denari contanti, lo incaricò di recuperare rapidamente qualcosa da puntare perché aveva sentito -proprio così disse- le dita della fortuna sulle sue ed era certo di non poter perdere ancora. Io mi convinsi che le dita potevano anche esserci state, ma non dovevano essere della fortuna, piuttosto di qualche sua profumata compagnia.
Dunque Marcello uscì dal ridotto dirigendosi tra le calli verso il ghetto che era già chiuso, ma siamo pur sempre a Venezia e per chi sa dove bussare, nessuna porta è serrata. L’incontro con il Moisè avvenne nel campo del Gheto Novo, accanto al banco rosso. Bastò la conoscenza, un cenno d’accordo, la parola e ventuno zecchini passarono di mano finendo sul tavolo da gioco.
Sicuramente mio padre evitò di notare i moniti delle carte
(Su ciascuno degli assi delle carte trevigiane era riportato un motto)
Ignorò l’asso di bastoni -Se ti perdi tuo danno- provocato da quello di spade-Non ti fidar di me se il cuor ti manca-, chiuse la mano con l’asso di coppe -Per un punto Martin perse la capa- quando quello a denari -Non val sapere a chi ha fortuna contra- la sancì infine rovinosamente persa; e la posta terminò la sua spericolata corsa nelle tasche di chi, non Lanzo, la zecchinetta1 sapeva giocarla bene.  
Io avevo ventitré anni e le idee irrimediabilmente chiare sulle visite di certa gente che non entrava mai dal portone, ma arrivava dall’ingresso sul ramo. Quando vidi di sfuggita per la prima volta quel Moisè -ancora non conoscevo il suo nome- capii immediatamente cosa era venuto a fare. Lo rividi altre tre volte senza avere peraltro idea dell’entità del pegno e della somma. Me lo ricordo ancora e devo dire che non aveva il tratto tramandato dell’ebreo: dritto, di altezza normale, capelli brizzolati e raccolti alla nuca, un viso anonimo dal quale lo sguardo spuntava come il muso di una volpe dalla tana, senza il naso arcigno, vestito con poca eleganza ma certamente non straccione. Cercava di muoversi tenendo sempre la sinistra a parete e una volta ci trovammo faccia a faccia in cima alla scala piccola: mi guardò prima con sospetto e poi si sciolse in un saluto avendomi forse classificato come innocuo. Potrei riconoscerlo anche adesso, anche dopo tutti questi anni, se solo sapessi dove cercarlo.
Giovanni Non
E di me debbo dire qualcosa? Perché a rendere compiuto il quadro qualcosa è necessaria. Il mio nome è Giovanni di Giacomo Non, sono nato nell’autunno del 1764 e appena senziente compresi l’aria che tirava, non solo in casa ma anche a Venezia e soprattutto quella che stava rinfrescando l’Europa. Conto sulla vostra discrezione poiché è bene che certe note rimangano riservate, che restino tra noi, perché di questi tempi potrei essere tacciato tanto di eresia quanto di complotto alla sicurezza della Repubblica e in entrambi i casi non sarebbe piacevole sorte.
Nella figura paterna ho avuto, per negazione, il modello di ciò che non dovevo diventare: arrogante, spocchioso, vano e sostanzialmente buono solo a dilapidare. Mai una volta riesco a ricordarlo intento in affari produttivi, almeno secondo il comune intendere la produzione. Il suo massimo intento era soprattutto il gioco, tanto e d’ogni genere: dell’oca, banco, madrasso, trionfi e quella zecchinetta che ho già riferito; in ogni caso, quale che fosse il gioco, era comunque buono se permetteva la scommessa.
Poi, o forse al pari, le donne, ma non avendo il prestigio del nome o del potere, avendo a contare esclusivamente sul denaro e considerata anche l’età, lascio alla vostra immaginazione con quali donne abbia avuto affare. Sia chiaro che non è mia intenzione esprimere giudizi su di loro, anzi! in fondo sono sempre state le uniche ad avere le idee oneste e ben chiare in merito alla sostanza della transazione, ovvero in merito a cosa offrire in cambio di quanto. L’illusione era di mio padre che faceva vanto delle sue conquiste, avendo solo conquistato il ridicolo nel pettegolezzo.
Io posso dire con certezza che il santo libro dice la verità quando rammenta che le colpe dei padri ricadranno sui figli; arrivo anzi a dire che più che cadere, scivolano. Quando era nostro precettore don Amedeo, questo passo mi era oscuro, certo non lo mettevo in dubbio, ma non riuscivo a capire perché e come la colpa di qualcuno avesse modo di scivolare sulla sua progenie. Dal canto suo Don Amedeo non fu mai capace di spiegarlo meglio, successivamente gli eventi continuarono a non spiegarlo rendendone però chiara l’evidenza nei fatti.
Allora, poco alla volta, mi formarmi quel modello per assenza: partendo da un’idea, di volta in volta ad essa toglievo quello che di male riscontravo in mio padre, così come lo scultore toglie dalla creta ciò che ritiene utile solo a coprire la visione della sua opera. Io un’opera vera e propria non l’avevo in testa, speravo solo che uscisse fuori da sola una volta rimosso tutto l’inutile. E allora via il gioco, via la vita mondana, via l’eleganza frivola, via la consapevole e tronfia ignoranza, via la gretta intolleranza del pregiudizio, via una religiosità formale. In vero quest’ultima asportazione non fu a causa di mio padre, che di preti non aveva grande cultura: rispetto forse, o meglio indifferenza, ma non pratica. In effetti la mia religiosità si infranse intorno ai quindici anni, quando sorpresi don Amedeo a spiegare un suo personalissimo catechismo ad una domestica. Probabilmente a Roma non avrebbero approvato quella dottrina pratica, o forse sì visto come andavano da secoli le cose: io sicuramente non l’approvavo anche perché quella ragazza riempiva da tempo i miei pensieri e le mie mani, ma non avevo ancora un catechismo da insegnarle. Per immediata repulsione decadde quindi ogni mito religioso passato attraverso quel precettore. Lui stesso sarebbe decaduto qualche anno dopo, trasferito d’ufficio in un monastero, doveva averla combinata grossa ma non se ne seppe mai nulla. Non ricordo nemmeno di averlo salutato.
Man mano che la mia opera scultorea procedeva, anche io crescevo. Arrivato nell’età dei grandi dilemmi mi risolsi per due possibili strade: quella militare e l’altra sacerdotale, ché in fondo erano sempre una, cambiava l’esercito, ben poco le armi, ma sempre una gerarchia era. Il grande dilemma durò poco, almeno fintanto che non compresi la mia assoluta inadeguatezza ad appartenere a qualsiasi piramide graduata. Mia madre invece fu pronta nel cogliere l’occasione di un decreto Senatoriale nel 1784.
Nell’aprile di quell’anno un tal Francesco Pesaro fece salire il primo pallone aerostatico in bacino tra lo stupore di tutta la popolazione. Sono certo che pochissimi ebbero idea dei possibili utilizzi pratici, mentre la maggior parte pensò ad un divertissement raffinatissimo e originale, degno dell’ineguagliabile stile della Serenissima. In ogni caso, con quel decreto, i Pregadi esortavano e agevolavano i nobili nella ripresa degli antichi commerci e questo suggerì a mia madre l’idea di affiancarmi ad un suo parente per apprendere gli elementi della contabilità mercantile. Ormai non potevo commerciare direttamente, mancando il capitale iniziale impegnato in ben altri commerci, mentre mi rimaneva l’aritmetica a suo tempo appresa: per una volta, anziché togliere al mio modello, aggiunsi qualcosa.
L’irrevocabile disdegno paterno per quell’attività considerata disdicevole e volgare, era la mia misura della giusta scelta, questo mi diede inoltre occasione di entrare in contatto con altre persone, gente nuova, al di fuori della società veneziana che si era ridotta ad essere una parodia parruccona, bigotta e inetta di sé stessa e di ciò che era stata. Fu allora che mi si chiarì la visione della nostra millenaria Repubblica, affondata in laguna sotto il peso di sè stessa e della sua storia, affaticata e inerme, arroccata tra terra e mare, incapace di percepire, ovvero senza la minima volontà di comprendere l’inevitabile mutare dei tempi e delle società. Tutte cose che andavo affinando nella mia mente ma che, al contempo, sentivo di non poter esprimere.
Erano state scoperte le prime logge massoniche segrete, il Senato vedeva trame e minacce ovunque tanto da aver ordinato una riorganizzazione delle corporazioni nel tentativo formale di dar loro nuovo impulso, in realtà per avere chiaro quale fosse la finalità di ciascuna. Con lo scopo di motivare il suo ruolo e alimentare il consenso sociale, era iniziata la rincorsa alla sicurezza interna innescando un processo tanto pericoloso quanto inevitabile. La paura di perdere il controllo e lo status acquisito, induceva la classe nobile al governo a inventare continuamente nemici e pericoli, nuovi o vecchi, spostando l’attenzione ora su una persona, ora su un’idea politica, ora su un’etnia eppure mai lì dove doveva essere realmente posta; per contenere questi fantasmi prese ad emanare leggi nuove e sempre più cavillose, elargiva nuovi e sempre più inquietanti poteri alla polizia segreta, promulgava decreti censori per rafforzare i controlli e stringere le maglie della sua rete evidentemente slabbrata. Si era giunti alla necessità di scoprire sempre una nuova congiura o una nuova minaccia per giustificare quest’operato repressivo, in altre parole si alimentava l’ansia e l’insicurezza generale per giustificare l’azione del consiglio che così si dimostrava prontamente reattivo in un vortice di nuove leggi maggiormente restrittive e poliziesche, ma sostanzialmente inutili; e tutto questo causava solo una continua e inarrestabile paralisi delle attività e delle iniziative.
Dalla Francia, a dispetto e rabbia delle monarchie europee, stavano giungendo più cambiamenti di quanti fossero sopportabili, soprattutto dai nobili nostrani. Ogni blasone fuori da quella terra rivoluzionaria, era stato comunque colpito al collo in una parentela più o meno prossima. Anche il calendario non era più lo stesso, i suoi mesi ora volevano chiamarsi vendemmiaio, brumaio, frimaio, evocando la caratteristica del periodo, quasi a dispetto e sovversione del più elementare ordine costituito. La sicurezza era divenuta per la Repubblica ciò che quelle palline turche erano state per mio padre.
Epilogo

Giunto a pochi passi dalla chiesa dei Miracoli, ormai era scuro, una figura buia mi tagliò il cammino, il braccio di un altro mi è passò sotto la gola da dietro e il filo della lama iniziò a premere. La voce bassa di quello di fronte, certamente veneziano, prese a rammentarmi fermo e cortese, che il tempo delle dilazioni era terminato, ingiungendomi il saldo, uno dei tanti, entro domenica. Poi scivolarono entrambi dal buio da dove erano venuti. Non ebbi proprio paura, stupore forse ma qualcosa di simile me lo aspettavo.
Rientrato a casa a sera fatta, mia sorella mi aspettava nella sala, seduta accanto al camino, le mani composte nella posa che rende serenamente la sua stabilità, visto che parlare di felicità a volte è uno sproposito, conquistata nel matrimonio; una discreta agiatezza, due figli e un marito presente quel tanto che bastava a far dimenticare le esperienze materne. Appena entrato si alzò guardandomi interrogativa mentre io ricambiai lo sguardo con un sorriso.
«Buonasera sorellina, quali novità mi porti dai miei due nipotini?»
«Lascia stare i convenevoli, i nipoti crescono tranquilli, io invece sono appena rientrata dal convento di Sant’Anna. Nostra madre ti manda la sua benedizione e raccomanda il tuo impegno nelle mani di Nostra Signora della Salute. Invece tu dimmi cosa hai saputo.»
«Addirittura la Salute, nemmeno si sia a trattare un morbo. Comunque di tutti gli incontri che ho avuto -omisi volontariamente sia il nome Grimani che quello dell’ebreo delle ricevute in Ghetto- la mia processione l’ho fatta e purtroppo devo deluderti perché nessun santo non ha fatto grazie: ben poco posso riportarti se non che un’eccellenza ha garantito l’interessamento e in giro nessuno vuol dire nulla di interessante riguardo a chi sai. Vuoi per il clima di complotto che gira, vuoi per la diffidenza che chiude le bocche, non sono riuscito ancora a sapere dove sia. Di certo so che è stato imprigionato ma nessuno ancora sa dirmi dove. Alla fine della fiera tutti mi hanno suggerito di attendere: finché non avremo notizie certe non potremo muoverci per riscattare equamente i pegni delle ricevute.»
«E allora cosa possiamo fare noi? Aspettare con le mani in mano che quei creditori finiscano ciò che qualcuno ha iniziato al tavolo da gioco?»
«Che ci piaccia o no, altro non possiamo fare. Nonostante i solleciti che riceviamo, più o meno violenti, a proposito e per tua conoscenza l’ultimo è di pochi istanti fa, la cassa è quasi vuota e consente la minima gestione domestica per i prossimi mesi. Sappi che ho intenzione di congedare una parte della servitù, eccezion fatta per Marcello; sicuramente Caterina che non sa quando e con chi tenere la bocca chiusa. Dobbiamo accettare la realtà dei fatti: sono tempi duri, mia cara Maria, ammesso che ce ne possano essere stati di morbidi. Tempi che non avremmo mai pensato di dover vivere ma che inevitabilmente siamo a scorrere giorno per giorno. Più duri ancora per la chiara memoria che abbiamo dell’agio vissuto, se non della gloria e del potere. Dobbiamo constatare e ben vedere la realtà dei fatti: siamo prossimi al lastrico. Fintanto che non riusciremo a riscattare quelle polizze inique, possiamo solo temporeggiare.»
E andai oltre.
«Detto tra noi, siamo lo specchio della nostra città: cosa resta della Serenissima? Di quel potere che è arrivato a spaziare dall’alto Adriatico fino ad Aleppo? Da Bisanzio fino alle coste della Berberia? Quel potere che disdegnava l’oppressione militare preferendo la diplomazia e il commercio? Sin da quando Venezia si sfilò dal potere bizantino corrotto, inutile e decadente, abbiamo fatto del mare la nostra strada e la nostra via d’espansione. Scegliemmo di non seguire la consueta via dell’occupazione in armi avendo ben compreso che il suddito migliore è quello che dipende dal potere del padrone senza esserne oppresso. Do ut des, rispettando le proporzioni del minimo do e massimo des.»
«E cosa resta di tutto ciò? cosa ci rimane di secoli di supremazia unita ad ingegno e lungimiranza? Praticamente nulla. Nessuno è riuscito a sfuggire alla lusinga della superbia e ci ritroviamo qui, nel caigo o nell’afa, sotto campanili storti, ben lontani dalla terraferma e dai nuovi commerci, sempre gli stessi personaggi più o meno solenni, a metter becco negli affari l’uno degli altri, senza poter più uscire dalla laguna nella quale ci siamo impantanati.»
Il mio amico Gerardo, studioso d’arte all’Accademia, mi aveva spiegato sottovoce il riflesso di questo stato nella pittura prendendo ad esempio le opere del Tiepolo, Giandomenico naturalmente. Nei sui paesaggi cittadini, pieni di dettagli quasi didascalici su Venezia, questi ritrasse una società prolissa e stanca, immersa in un paesaggio ammantato di una luce intensa e dorata dove mai appariva il sole, a sottintendere che tutta la scena viveva nel calore di una luce irrimediabilmente distante.
«Te ne sia indice quella che chiamiamo “politica di neutralità disarmata”, votata in Senato per compiacere Napoleone: quando mai in oltre mille anni è stata sguarnita una fortezza come Peschiera, chiave della nostra difesa da ponente, che ora senza munizioni e uomini è buona solo all’edera e al tarassaco. Siamo nati in un secolo tra due misure, ciascuna cresciuta nel tempo, distanti tra loro come mai. In Francia la monarchia è stata divelta, cinque anni fa arrivò in cerca di asilo il fratello del re, il conte d’Artois, ultimo collo integro della nobiltà francese e chissà cosa ci porterà nel futuro. Ma in tutto questo nessuno si è reso conto che il vento non nasce più da San Marco, spira teso, diverso e da altre direzioni: ti parlo solo della rivoluzione avvenuta in Francia ma potrei rammentarti altro di ben più significativo, altre correnti di pensiero, altri modi di navigare e commerciare, l’Illuminismo ad esempio. Tutte cose dalle quali ci siamo testardamente voluti tener fuori e dalle quali ormai siamo irrimediabilmente fuori.»
Sotto gli occhi perplessi di mia sorella girai attorno allo scrittoio sgombro; seduto sul cuoio consunto della sedia, tirai fuori dalla giacca il dono del Grimani. L’involto di velluto, austero e prezioso, si intonava perfettamente con il legno; le mie dita si insinuarono tra le pieghe e arrivarono al contenuto.
Il vetro affilato era freddo e pronto, più che uno strumento un messaggio.
Eppure non avrei mai saputo usarlo2.














1)La zecchinetta, anche detta lanzichenecco o lasqueneet, è un gioco d’azzardo il cui nome deriva dai lanzichenecchi che, nel 1500, lo introdussero in Italia.
2)  Il 12 maggio 1797 Venezia, per la prima volta in oltre mille anni, si arrenderà spontaneamente all'esercito di Napoleone Bonaparte, sparando un solo colpo; ma questa è un’altra storia.

Braccia da remo



«Vent’anni dio cane. Vent’anni alla galera, chiuso in una sentina a lisciare un cazzo di ziròn con i calli delle mani, anzi prima con la pelle, poi con le vesciche e solo alla fine con i calli, che non sapevi mai se era meglio il dolore del legno sulla pelle fresca o le piaghe dei calli spaccati dal sale. Vent’anni a mangiare gallette, sarde e cipolle, bere acqua stantia allungata con aceto per le feste, a mangiare quel cibo rancido solo dopo il tramonto perché così non potevamo vedere lo schifo e i vermi. Vent’anni solo spingere e tirare con gli anelli che tagliano le caviglie, la frusta che batte il ritmo sulla tua schiena senza calli, il gelo umido che entra e sale per le ossa. Quattro ore al remo e quattro ore alla panca, anche col vento migliore, sempre incatenati al banco nel buio della galea.»
«Vent’anni a dormire nell’umido, tra topi e scorregge, nell’aria acida del sudore e della fatica di tutti i rifiuti di Venezia; ubriaconi, ladri, biscazzieri, ruffiani; la merda della merda scavata dal fondo di un rio; mi viene da ridere se penso che alcuni di loro erano arrivati al remo grazie a me, gente che il mare non l’aveva mai visto e anche ora non riusciva a vederlo nemmeno volendo. Quante volte ho sperato che uno feluca turca o uno sciabecco dalmata ci affondasse così da finire prima e rapidamente, così: un colpo, il fasciame che schianta a murata, la luce che entra in sentina e poi l’acqua salata nel naso, in bocca e nei polmoni. Fine della vita, se vita la puoi chiamare, stretti e sottosale come sarde. Ma fine veloce e senza tante altre sofferenze.»
«E invece una vita a muovere una nave merdosa su e giù per l’Adriatico senza sapere mai da dove a dove, attento ad ogni voce, ogni rumore che proviene dalla coperta, pronto a cogliere il minimo segno di una destinazione nuova o di ciò che stava per accadere. Attento a quel riquadro accecante che ritagliava il mare o un pezzo di molo. Poi, poco alla volta, sempre meno interessato a quello che capitava sopra e sempre più legato al legno del remo. Spingi e tira, spingi e tira, agli ordini e ai capricci di un musico e del suo tamburo.»
«Vent’anni sono lunghi quando sai che saranno tutti uguali, giorno dopo giorno, tutti uguali al precedente e ognuno identico al successivo, senza un passato né un futuro, fissi in un continuo presente di umido e dolore, di puzzo e fatica. Solo qualche volta ci facevano sbarcare, incatenati a coppie sul molo ma per poco, appena il tempo di imbarcare cambusa e acqua fresca, che poi a noi fresca non arrivava mai, certo potevamo bere a volontà visto che non facevamo altro che sudare, ma solo quella nel barile di sentina.»
«Appena arrivato ero in testa al remo, braccia fresche al posto più duro, dopo due anni mi spostarono al centro e alla fine ero accanto al fasciame. Non ti so dire se era meglio all’inizio, faticoso ma spazioso sul passavanti, dove si poteva respirare, o alla fine, costretto tra il fasciame calafatato, puzzolente di pece e quel trentino che quando parlava non si capiva un cazzo. Sta’ zitto per dio, spingi e tira, spingi e tira; e basta.»
«E a me è andata bene, se per bene intendi il finire questa presa per il culo nel fondo di una galea. Quell’altro, Gaetano, fu impiccato in mezzo alle colonne di fronte al bacino, tra il Leone che aveva servito e san Todaro sul drago. Mi hanno detto che c’era un mucchio di gente all’esecuzione e che quel coglione ha pianto salendo sul patibolo finendo poi per pisciarsi addosso quando il boia gli ha messo la collana di canapa, poi lo strappo, culo al bacino e cazzo dritto verso quella gente. Degli altri non so dirti nulla: alcuni finiti al remo come me, altri in prigione a vita ma dove siano ora, che fine abbiano fatto, non so dirti proprio nulla. E poi, alla fine della fiera, non me ne frega assolutamente nulla. Eravamo assieme è vero, il capitano, quella grandissima testa di cazzo di Fanton e noi, coglioni, a dire sissignore, divertiti, a ridere quando costringevano qualche ragazzetto a camminare raso muro, a sporcarsi la giacca di panno nuova con l’intonaco dei palazzi attorno alla piazza. Ma erano cose da nulla, cose da sbirri, poco potere, meno cervello e tanto rancore: una puttana che non voleva pagare pegno, la cresta sul dazio, qualche bicchiere di vino a ufo. Cose da poco insomma, cose da sbirri. Fino a quel pomeriggio di merda.»
«Io lo sapevo che non poteva andare sempre bene, che una volta o l’altra saremmo inciampati su una cazzata, il rampollo di una famiglia bene, magari non nobile, quelli vivono e dormono a casa loro, magari sul figlio di una famiglia campagnola con qualche proprietà e un amico prete. Quella gente che ha messo da parte soldo su soldo per avere un dottore in mancanza di un titolo nobiliare. Gente pezzente che spera di ripulirsi la terra da sotto le unghie con un figlio medico o avvocato, ma che resta sempre pezzente. Gente che prima evita il tuo sguardo per paura e poi continua ad evitarlo per superbia, come se saper leggere e scrivere e forse mettere due cifre in colonna gli possa aver fatto salire un gradino nella scala della loro vita, sempre e comunque sporca di fango e sterco. C’è un ordine nelle cose, in tutte le cose, e non lo puoi fregare con qualche pila di libri. L’ordine è alla base e sopra di tutto e io lavoravo per l’ordine, io, il capitano, Fanton e quegli altri mona. Fino a quella cazzo di osteria del demonio.»
«Stai guardando la mia mano… La mano, già la mano... quella è andata prima che arrivasse quel montanaro trentino. Prima di lui c’era un dalmata, uno che non ti guardava mai dritto negli occhi, sempre di tre quarti, una mano in vista e l’altra pronta a fotterti. Ma non mi ha fottuto la sua mano, solo un mio momento di mona. Eravamo in navigazione tra non so dove e non so dove, scirocco leggero e poco remo; il rumore in coperta è montato poco alla volta, dovevano aver avvistato qualcosa. Poi hanno cominciato con il ritmo di battaglia. I musici li chiamavano, quei froci musicanti con uno strumento che la sera suonavano il liuto alla mensa del sopracomito, mentre in navigazione davano il ritmo di voga. E quell’aguzzino che ci frustava a caso urlando come un fenochio co’a mandola per farci chiapàr tuti i remi.»
«Tu hai mai visto una galea? La nostra imbarcava in tutto 400 uomini, più di 140 piedi, stretta e veloce, adatta a navigazioni di costa, uscita dall’Arsenale per controllare il mare tra la laguna e l’Istria. Quella volta è stata una manovra rapida perché abbiamo cominciato a spingere dietro a quel tamburo, spingi e tira, spingi e tira fino al limite, poi la virata a mancina che finì in uno schianto di prua e un’imbardata violenta e io sono scivolato sulla panca fino alla murata, la mano è rimasta tra il remo e il boccaporto. Vero sai! è rimasta lì davvero ‘ché le dita sono saltate via da me allo scafo rimanendo appiccicate nel salso misto al sangue. Lì per lì non ho nemmeno fiatato, non mi sembravano neanche le mie. La manovra era finita rapida come era iniziata, tutti gli altri a tegnìr sospesi i remi, affornellati dritti che ci potevi tirare una riga.»
«Dietro i quattro peli grigi della sua barba il dalmata ghignava e in me iniziata a montare il dolore. A bordo ci sono abituati a certi incidenti, poco dopo arrivò il cerusico con sale e torcia: un pizzico di sale e una passata di torcia, uno e l’altra, uno e l’altra fino a quando il sangue non ha smesso di uscire; e io di urlare. Ma a quei delinquenti dalmati è andata peggio, affondare ad aprile nell’adriatico non ti da molte possibilità: in qualche respiro il freddo ti impedisce di muoverti, non riesci a fare nulla se non a rimanere lucido mentre affondi. E affoghi lucido, pensa che culo.»
«Poi l’ho capito perché rideva quel bastardo, perché era stato lui che mi aveva fatto scivolare, la colpa era di quel bastardo schiavone. L’ho capito quasi un mese dopo, un mese a pensare e ripensare per capire cosa era successo e come era stato, ma l’ho capito e gliel’ho dovuto spiegare con un chiodo nel fianco, un palmo sotto il braccio, dritto nel polmone. Era quello che si meritava, e godevo a vedere come si agitava senza riuscire a urlare, emettendo solo un gemito soffiato, l’aria che usciva dalla ferita invece che dalla bocca, il sangue che faceva le bolle, mi guardava incredulo come a domandarmi perché: te lo dico io perché stronzo, perché Antonio Da Feltre lo fotti una volta ma non avrai il tempo per la seconda, hai capito perché?»
«Poi venne quel montanaro, che del mondo non aveva mai visto il mare, solo il suo buco di paese e la città a valle, ma solo una volta all’anno per la fiera. Io invece le montagne le ho sempre viste da casa mia, d’estate quando si alzava la foschia erano lontane che facevi appena a tempo a intravederle che già si perdevano nel tremolio della calura. In inverno no, in inverno c’erano mattine fredde come l’acciaio con un sole che prometteva e non manteneva, ma loro erano lì che sembrava potessi toccarle, vedevi le cime e i canaloni, la neve fino a mezza costa, qualche volta ho creduto di vedere anche i paesi più grandi. Mentre lui il mare non sapeva nemmeno dove fosse.»
«Aveva pensato, il genio, di mettere via qualche soldo imbarcandosi come buonavoglia. Altro coglione della lista, pensava che fosse semplice: ti metti al remo per qualche anno, mangi sicuro ogni giorno, se ti va bene in battaglia ti danno pure un premio e alla fine torni al tuo maso pulcioso, ricco e felice dalla tua morosa Magdalene. Coglione che era. Quando apriva bocca non si capiva un cazzo, sembrava avesse una patata sotto il palato e usava una lingua strana che se ne capiva la metà.»
«Era un omone barbuto, alto, con due braccia enormi, dopo sei mesi iniziò a perdere peso e sangue, pensa che gocciava dalle unghie, aveva sempre una crosta rossastra sui peli della barba e si lamentava sempre, per ogni dolore, per ogni movimento, si incazzava per tutto e alla fine uno intelligente lo fece sbarcare.»
«Dalle parole dell’aguzzino seppi che aveva preso lo scorbuto e quelle quattro breccole guadagnate se le sarà godute un medico in terraferma. Bada bene che se vuoi che racconti ancora storie dovrai sciogliermi la gola. Intanto chiedo licenza, devo andare a pisciare.»
«Comunque a te non frega un cazzo di sapere con chi remavo. Tu vuoi sapere di quell’osteria a Padova. Dillo pure senza giraci attorno tanto ormai, dopo più di vent’anni, quei due studentelli rompicoglioni hanno nutrito ben bene i vermi, Fanton me lo ricordo solo io e quegli altri dieci che chissà dove cazzo stanno a marcire. Va bene te lo racconto tanto ormai il ricordo è una scatola vuota.»
«Però facciamo così: un giorno tu andrai in piazza dei Signori, accanto a San Clemente, a leggere con i tuoi occhi la storia di ciò che io ti sto per raccontare dalla fine.»
«Per il grave et atroce delitto commesso da diversi sbirri li 15 febbr. 1722 contro alcuni scolari nell’interno di questa abitazione, furono dall’eccelso di X a 24 settembre 1723 tutti gli sbirri rei al numero di 12, a misura delle loro rilevate colpe, condannati rispettivamente al patibolo della forca, alla galera et all’oscuro carcere et a vita con strettissime condizioni. il che resti a perpetua memoria della pubblica giustizia e della pubblica costante protezione verso la prediletta insigne Università dello studio di Padova.»
«Che si fottano tutti i dieci e il leone.»
«Era domenica sera, il quindici de febraro del 1722, ventiquattro anni fa, noi avevamo smontato dal turno alla porta del mulino. Volevamo farci un bicchiere in piazza prima di mangiare e tornare a dormire, il capitano era rimasto al corpo di guardia perché quella gente non si mischia mai. Scendevamo lungo i portici di San Clemente e dalla porta usciva il solito casino di un’osteria, gente che ride, grida, smania e quel puzzo caldo di vino vecchio e cantina ammuffita. Quando entrammo alcuni si girarono e le voci si spensero poco alla volta; quelli più vicini all’entrata si alzarono vaghi uscendo mentre quel gruppo di ragazzotti continuava a scherzare ignorandoci. L’idea geniale venne in mente a Fanton, son sicuro volesse solo divertirsi alle loro spalle quando gli si avvicinò calcando sui tacchi, e si fermò in piedi dietro di loro, erano una quindicina forse, lui con le mani sui fianchi e lo sguardo inquisitore ne prese per la spalla uno, il primo che capitava, cercando di farlo girare, riuscendo invece solo a farlo cadere schiena a terra.»
«Non si era fatto male, niente, nemmeno un graffio tanto che si era rialzato subito pronto ad attaccare ma si fermò vedendo la divisa. Chi reagì invece fu un altro, non lo conoscevo ma seppi dopo, durante il processo, che si chiamava Giacomo Non, esimio pro-sindaco giureconsulto dell’Ateneo di Padova. Io l’ateneo di Padova lo conoscevo, sapevo cosa fosse perché a Padova è semplice: o sei all’Università o sei un commerciante o sei solo una delle tante merde campagnole che grattano la giornata; ma cosa fosse un pro-sindaco giureconsulto non ne avevo proprio idea mentre avrei dovuto averla perché era lui il pezzo grosso, la cazzata sulla quale stavamo inciampando. E ci inciampammo tutti e dodici, finendo con la faccia nella merda dove io son rimasto per vent’anni e dove sono ancora oggi.»
«Insomma, quel Non si alzò cercando di iniziare a parlare, Fanton lo rimise a sedere con una sberla e poi... Tant’è, ormai è andata. Quello cominciò a gridare da dietro il tavolo e con lui iniziarono anche gli altri. Fanton, che era sempre stato un gran cazzone, pronto alla provocazione e incapace d’altro, ebbe un’altra idea geniale: metter mano all’elsa della spada. Uno degli sbarbati alla sua destra lo anticipò cercando di bloccargli il braccio e fu allora che alle mie spalle esplose il primo colpo che continuò a rimbombare tra le mura anche dopo che quel ragazzo saltò indietro con la palla che entrava dalla scapola sinistra, passò da parte a parte, colpendo ancora il braccio di uno che stava dall’altra parte del tavolo piantandolo spalle al muro. Alla mia sinistra, con la coda dell’occhio, vedevo la canna e il fumo che salendo nascondeva un trave del soffitto. Quello della scapola si afflosciò su Fanton imbrattando di sangue lui e il tavolo. Tu sei d’arme? Hai mai visto cosa fa una palla d’archibugio che colpisce un cristiano? Una palla da un pollice porta via tutto quello che trova davanti, si ferma solo su un muro.»
«In scontri del genere va sempre così: c’è la prima scaramuccia, poi qualche secondo di silenzio perplesso e sospeso, poi il casino. Era quello che temevo e stavo aspettando, perché questi casini sai sempre come cominciano e non sai mai come diavolo finiscano. Avevamo una divisa addosso, vero, ma quante volte qualche collega è rimasto a terra con una lama piantata nello stomaco? D’accordo, Fanton fu un coglione, ma lo sapevamo tutti che era un coglione. Che bisogno c’era di fare il grosso con quei ragazzetti? Ma lui era fatto così, voleva sempre alzare la voce, poi si girava verso di noi si faceva una risata e li mandava in culo. E invece quelli no, invece di abbozzare e continuare a bere tranquilli ripresero a urlare, primo fra tutti proprio Non che si rialzò come una molla contro Gaetano. Ma era destino che non si dovesse muovere da dietro quel tavolo perché il secondo colpo partì che ancora non avevano finito di fischiarmi le orecchie. E il fumo si aggiunse al fumo.»
«Quel Non era ancora seduto al suo posto, dritto, le spalle contro la parete e gli occhi fissi, una rosa di carne era al centro del suo petto si allargava di rosso. Era andata, cazzata fatta, noi avevamo inciampato e cominciavamo a rotolarci nella merda.
Dopo non ci ho capito più un cazzo: quelli sono scattati verso di noi e noi verso di loro in un cumulo di botte e pugni fino a che è arrivato il capitano con un’altra squadra.»
«Furono loro a portarci via fino al corpo di guardia, con l’ordine di rimanere lì in attesa. Non sapevamo esattamente cosa sarebbe successo ma in fondo eravamo sbirri e doveva pur significare qualcosa.»
«Anche due giorni avanti c’era stata una zuffa. Uno mezzo ubriaco stava pisciando nel Brenta, arriva uno per pisciare anche lui e il primo gli affonda un coltello nel fianco, chissà per quale cazzo di motivo. Insomma, quando siamo arrivati uno stava per terra in mezzo al suo sangue ma vivo, l’altro era nell’osteria sotto la Specola a litigare e quando abbiamo provato ad arrestarlo un tavolo di ubriaconi schifosi si è rivoltato contro di noi. Pure lì c’è scappata la palla ma non ha preso nessuno, il botto ha tranquillizzato gli animi e sono finiti tutti dentro. Semplice casino, sbirri, galera è così che deve andare, c’è un ordine per tutto e tutto deve seguire quell’ordine. Che se a ogni testa di cazzo gli salta in mente di cambiarlo a suo piacere non si combinerà mai nulla. L’ordine è tutto e noi lavoravamo per questo.»
«Comunque, qualche ora dopo seppi che il capitano l’ordine nell’osteria l’aveva riportato, identificando i presenti, facendo portare via i due cadaveri e ordinando la chiusura del locale per trasgressione alle prescrizioni sull’ordine pubblico. Quello sì che sapeva come comportarsi, è vero che non voleva mangiare con noi ma il suo lavoro lo sapeva fare davvero.»
«Era di Thiene il capitano, come Fanton veniva anche lui dalla campagna vicentina ma su due strade diverse. Fanton si era arruolato perché non aveva altro di bene da fare. Il capitano lo aveva fatto perché suo padre era militare e suo zio prete. Hai mai fatto caso che se c’è qualcosa di meglio da fare ci deve essere sempre un prete di mezzo? Io ero come Fanton, entrambi giravamo larghi dalle acquasantiere, non avevamo nessun chierico in famiglia e siamo finiti a fare gli sbirri a Padova, che se ci pensi è sempre meglio di pulire merda nella stalla o stare in campagna cotti dal sole o zuppi di pioggia. Quello potevamo sperare e meglio di così non andò. Lui invece poteva sperare altro e con quel prete l’ha ottenuto: capitano della guardia a ponte del molino in Padova. Che se non sai dov’è, a sentirlo chiamare così, sembra che sei diventato generale de sto cazzo e invece passi le tue giornate a controllare chi entra e chi esce, chi paga e chi no, a sentire l’ora per chiudere o aprire il portone. Ma anche nella merda c’è chi sta sopra e respira un po’ d’aria e chi sta sotto trattenendo il fiato. Io e Fanton trattenevamo il fiato.»
«Nei giorni a seguire tutto era più o meno tranquillo, noi del drappello eravamo stati esentati dalla ronda nelle piazze, l’osteria era sempre chiusa e la cosa sembrava finita lì. E invece esce fuori la famiglia di Non a pestare i piedi chiedendo giustizia. Ma che cazzo di giustizia chiedi se eravamo noi la giustizia. Noi e basta, a culo il pro-sindaco giureconsulto dell’Ateneo di Padova, illustrissimo, esimio, eccellentissimo rompicoglioni laureato della madonna. Ma la famiglia di Non non era proprio una famiglia di campagnoli e aveva dalla sua l’Università e assieme tutta quella massa di studenti nullafacenti e spaccamaroni e sopra tutti il governo di Venezia che a certe cose ci faceva caso. Nei mesi successivi quelli dell’Università continuarono a tirare su un casino lanciando sassi, urlando per le strade, rovesciandoci addosso avanzi di latrina. E insomma, una cosa che succede, che capita, che poteva chiudersi lì tra noi tranquilla, come tante altre volte, ha cominciato a fare rumore. Un rumore sordo e sempre più pressante che è arrivato alle orecchie del Rettore padovano, da lì ha iniziato a camminare verso Venezia; dalle sue mani ad una penna, dalla penna ad una missiva e poi su su fino al Consiglio dei Dieci. E arrivati lì sono veramente cazzi.»
«Ma io dico, santa madonna, ma perché certa gente non si fa i cazzi suoi invece di tirare in ballo Venezia: quelli, se devono muoversi dalla laguna a Padova, in mezzo a acquitrini e zanzare, si fanno girare il culo, e li capisco benissimo, perché quelle eccellentissime signorie stanno tanto bene comode, in grazia di dio, a mangiare e bere, scegliendo con cura le tette da baciare e i culi da tastare. E invece se proprio li chiami, addirittura con una lettera ufficiale, e gli dici che un cazzo di pro-sindaco giureconsulto dell’Ateneo e uno studente sono stati assassinati, proprio così aveva scritto il Rettore che vada in culo, assassinati! da un drappello di guardie, insomma c’è da capirli se si incazzano quando devono muoversi per arrivare qui.»
«Tanto più che la voce passò di bocca in bocca fino all’orecchio del doge e a quell’epoca era Alvise III Mocenigo, tu non te lo puoi ricordare o forse si perché è morto più o meno quattordici anni fa, quello era stato capitano generale da mar, aveva combattuto contro i Turchi e aveva ancora voglia di menare le mani. Era appena stato eletto centododicesimo doge della Repubblica di Venezia e gli rodeva ancora molto per la sconfitta subita per mano di Haisan Pascia tanti anni prima.»
«Insomma tra dogi, consigli e rettori se la son presa a tal punto da incaricare addirittura Angelo Foscarini. Ora non so di dove sei tu ma io sono di queste parti e con certa gente ci avevo già avuto a che fare e lo sapevo che se avevano scomodato un avogador non era mica una cosa bella per noi e per nessuno, quella è gente che non sente chiacchiere e scava, chiede, domanda, inquisisce, non si accontenta mica della parola di uno con qualche gallone addosso. Ha mezzi e modi convincenti per tirare fuori la verità che vogliono sentirsi dire. Vuole sapere come sono andate le cose davvero e chiede, cerca testimoni, ascolta voci e le voci sai da dove arrivano ma non sai mai da dove vengono e in questo giro, c’è sempre chi rimane in mezzo col culo scoperto.»
«Ma il capitano, quello si che aveva una testa che ragionava, mica era rimasto lì a pettenar bambole. Si era mosso rapido per mettere tutto a posto come deve fare un capitano. Intanto aveva ritrovato due damigiane di vino di Valdobbiadene senza i regolari sigilli del dazio, così l’osteria era rimasta chiusa e l’oste inquisito per reato di fisco, cosa già grave di per sé. Poi aveva fatto infilare una lama spagnola nel giustacuore dello studente morto. Così le cose stavano già meglio: un locale criminale frequentato da criminali doveva deporre molto male agli occhi di un avogador. Quelli che erano usciti al nostro ingresso non contavano, restava dunque l’oste, liquidato con le due damigiane, il gruppo di studenti uno dei quali armato, criminali di compagnia, e gli avventori testimoni.»
«Noi non lo sapevamo ma anche gli altri si erano mossi. Ormai era da poco estate quando si scoprì che la famiglia Non, quelli di soldi ne avevano, aveva compilato un elenco degli studenti presenti e completo dei nomi di quei pochi avventori che non se ne andarono subito. Questa parte fu difficile, lo fu per il capitano che quanto a informazioni sapeva sempre come muoversi, figuriamoci per loro che non potevano, come noi, avere tante bocche da cui ascoltare.»
«Per fare l’avogador de comun non basta essere nobile, non basta essere figlio di puttana, devi essere uno che capisce quando è il momento di essere nobile e quando figlio di puttana, un bravo avogador deve essere tutte e due le cose. Quello era proprio tra i migliori: appena la famiglia Non gli fece avere la lista dei testimoni, lui la confrontò con la sua e mise tutti gli iscritti sotto la sua protezione e la responsabilità del capitano. Capito che stronzo? Se succedeva qualcosa a uno, saltava il collo del capitano e quello era capitano sì ma mica coglione, tanto più che lui non c’entrava niente e stava cercando di parare il culo a noi. Così fummo costretti a girare al largo da quella gente e non potemmo fare nulla per convincerli che era stato tutto un equivoco, una cazzata che potevamo risolvere tranquillamente tra noi. Intanto il capitano si sfilò via dalla rogna che a noi si era attaccata addosso.»
«Le cose si erano messe proprio male per noi. Con tutte le testimonianze raccolte dall’avogador, senza nemmeno il bisogno di una denuncia anonima, tutti e dodici fummo trasferiti a Venezia e non certo alla locanda del Leon a toccar busi, ma direttamente alle prigioni di Rialto, quelle nuove perché, nel bene o nel male, eravamo sempre sbirri e un occhio di riguardo ce l’avevano, nei Pozzi sarebbe stato infamante, mentre non eravamo abbastanza nobili per i Piombi. Mancava l’incontro con i giudici e a quel punto sarebbe venuto il bello perché allora avrebbero deciso come proseguire gli interrogatori. A Palazzo Ducale c’è una sala che chiamano, guarda caso, camera del Tormento, un nome che non lascia spazio a dubbi. Si trova al secondo piano, direttamente collegata con i Piombi, come dire casa e bottega. Quello che succede lì dentro è rimesso all’indiscutibile e insindacabile decisione dei giudici: se non hanno prove certe non sono favorevoli alla tortura, ma se le hanno e manca una confessione è lì che finisci e lì confessi tutto anche che tua madre era la madonna intronata.»
«Anche al ponte del mulino c’era qualcosa di simile. Non proprio una stanza degli interrogatori, piuttosto un sottoscala dal quale non uscivano rumori. Era uno schifo con le pareti lorde di moccio e sangue rappreso, il pavimento sporco di merda. Perché quei cialtroni si cagavano proprio sotto, per davvero, non è un modo di dire, quelli si cagavano letteralmente addosso. Alcuni facevano i duri tenendo botta, ma pochi andavano oltre le tre ore. La maggior parte la finiva lì quando vedevano i bastoncini avvicinarsi alle narici. Altri non arrivavano nemmeno a quel punto, e ci dicevano spontaneamente quello che noi sapevamo già ma volevamo sentire dalle loro bocche. Certo, dovevamo un po’ incoraggiarli ma per questo bastava Giobatta, quello friulano. È proprio vero: gente di confine o ladri o assassini. Quello era proprio assassino, molte volte gli davo una mano anche io ma mi faceva più paura lui del criminale legato. Facci caso: se guardi negli occhi il tuo avversario puoi vedere la paura, e allora hai vinto, oppure la rabbia, e allora devi aspettare un suo errore per vincere. Ma se non vedi niente, lui ha già vinto, è proprio lui quello che ti fotterà e Giobatta li fotteva tutti, nessuno escluso perché non gli fregava un cazzo di niente e nessuno.»
«E poi noi non sapevamo ancora che da Venezia era arrivato qualcuno già prima di Foscarini. Forse tra marzo e maggio dovevano essere giunti in città i due inquisitori dei Dieci per capire come erano andate le cose e avevano raccolto quanto necessario per avviare l’inchiesta e preparare un rapporto preliminare. Secondo quegli altri parolai potevamo passare direttamente al Collegio Speciale, secondo loro era chiaro e lampante che avevamo commesso chissà quale crimine contro la repubblica, vada in culo lei con san marco. Così misero assieme un Capo dei Dieci, il Consiglier ducal, l’Avogador de Comun già era pronto e infine l’inquisitor dei Dieci. Ormai si era messa in moto troppa gente e non poteva che finire male e comunque sarebbe finito tutto entro massimo due mesi, non oltre. Io vengo da Feltre ma non sono un coglione campagnolo, almeno non come Fanton; quando capii che le cose stavano andando per il peggio, davanti ai giudici gliela dissi tutta, almeno non passavo per il tormento.»
«Foscarini le testimonianze le aveva tutte, fresche e di prima mano e quindi lo dissi subito che Fanton Gaetano di NN era il cazzone che aveva provocato la rissa, che Masella Anzolo di Bentivoglio aveva tirato il primo colpo e Garin Tiziano di Antonio il secondo, che -si è vero- io Da Feltre Antonio di Matteo ero il più anziano del drappello, ma che noi stavamo solo cercando di riportare l’ordine e che erano stati quelli a venirci addosso, che noi facevamo solo il nostro dovere e il nostro dovere era riportare l’ordine.»
«Loro scrissero tutto, parola per parola, mi fecero firmare il foglio che chiamavano confessione: ma di che cazzo di confessione parlate! Io vi dico come sono andate le cose e voi me la chiamate confessione? Confessione è quando uno ha fatto peccato, quando ha qualcosa di pesante sulla coscienza, quando il prete dopo ti da la penitenza e l’assoluzione, quando hai fatto qualcosa di male insomma. Noi non avevamo fatto nulla, capirai che cambiano due studenti in più o in meno a Padova.»
«C’è una frase che ti auguro non debba mai sentire. Una sola, soprattutto se a dirla è l’avogador de comun di fronte al Consiglio. Perché se quell’imbacuccato rosso chiede: “Se dopo quanto fu letto vi pare che -e qui c’è il tuo nome completo- siasi a condannare.” allora sono cazzi tuoi, amari che nemmeno Giuda, di lì non ne esci certo con un buffetto e una ramanzina. Con quella domanda chiede la tua condanna al Consiglio dei Dieci; e se sei arrivato a quella domanda, con tutte le prove che hanno permesso l’istruzione del processo, con tutta la gente che si è mossa, con l’avvocato che ti hanno messo a disposizione, tutta la carta sprecata per i bandi affissi, allora la risposta può essere solo un “sì”. Poi rimane la questione di quale condanna, ma è dettaglio: che sia cappio, remo o carcere oscuro, sempre nella merda nera finisci. Il 24 settembre, un venerdì nuvoloso, il Consiglio dei Dieci emise la sentenza: tutti e dodici colpevoli e condannati: Fanton alla forca, io, Masella e Garin al remo a vita e tutti gli altri al carcere oscuro ristretto. Sigillo, bando, calcio in culo e fine storia.»
«Se sei uno di campagna, abituato alla pianura, all’aratro tra te e il bue, a bere da una fiasca d’acqua, devi essere per forza uno di poche parole; già se vieni dalle colline o dalle montagne sarai più propenso a parlare perché nelle tue orecchie c’è il vento che corre tra gli alberi e l’eco della tua voce nei canaloni. A Venezia il mare cala e monta ogni sei ore, l’onda è continua, sia a venire che ad andare, pensa che capita pure che arrivi in piazza fino alla basilica e oltre, davvero! Io non l’ho mai visto ma me l’hanno raccontato; e quello sciabordio ti abitua alla chiacchiera, al vociare, al parlare di tutto e di tutti spettegolando delle novità che vengono dai marinai, delle puttane che stanno al ponte delle tette e di qualche bella tosa da fare pregna. A Venezia chiacchierano tanto, è vero, ma non sulle sentenze. Una volta emessa è quella e nemmeno con il redentore che scende a parlare al doge se ne esce, nemmeno co ‘a madonna implorante la risolvi. Il giorno dopo Fanton salì al patibolo. Uscì in ceppi dai Piombi, camminando tra due guardie, la laguna a sinistra e il colonnato a destra fino alle due colonne. La gente si era radunata per assistere allo spettacolo gratuito e chiacchierava, sputava, rideva e qualcuno lo insultava pure a quel povero cristo. In mezzo avevano innalzato la forca e quel cagasotto piangeva. Ma che cazzo piangi stronzo, almeno fagli veder come muore uno con le palle. Ma tu le palle non le avevi mai avute. In drappello ti crescevano a sproposito ma da solo no, da solo potevi solo piangere. E io allora? Io quanto cazzo dovrei piangere? Tu uno strappo e morta lì, a me invece lo strappo è durato per vent’anni e continua ancora e ancora continuerà finché l’altissimo deciderà che basta e che posso chiudere la porta.»
«Il lunedì ci divisero e io venni trasferito in Arsenale con gli altri due e sei criminali comuni, tutti condannati alla galera. Da lì immediatamente alla fusta ormeggiata in bacino. Io non ne sapevo nulla di galee, io venivo da Feltre e lì il mare è lontano; imparai subito quello che c’era da sapere: silenzio, spingi e tira, mangia quello che c’è e soprattutto non rompere i coglioni. Addestramento rapido ed efficace. Il resto più o meno te l’ho già raccontato.»
«Questo è quanto, niente di più, niente di meno. Sei soddisfatto? Ti è piaciuta la storia? Ti aspettavi qualcos’altro? Non c’è niente altro. Due studenti per terra, la giustizia veneziana che trionfa e nel mezzo noi poveri coglioni che tanto è quella la fine che facciamo sempre. Tra mazza e incudine rimaniamo sempre e solo noi che facciamo il nostro dovere. Undici anni di guardia mi sono fatto, poi vent’anni al remo, sbarcato perché graziato, in verità perché non ero più buono, peso e basta, bocca inutile da sfamare e dissetare. Ora secondo il tuo dio, che cazzo devo fare? A cinquantasei anni, gli ultimi venti spesi a muovere acqua, senza un soldo, la schiena spezzata, senza due dita nella mano, cosa vuoi che faccia io adesso? Una vita bruciata per un cazzo di nulla. Non sto a dire se sia giusto o sbagliato ma che madonna! Tutto questo per l’incontro tra Fanton e due coglioni. Non me lo meritavo e a volte penso che quel cristo lassù abbia proprio preso una cantonata o forse ha solo dimenticato come vanno le faccende qui. Eppure anche lui c’è passato e a cosa è servito se non se ne ricorda nemmeno? Niente di niente. E anche questa bevuta non serve a niente. Alla fine del tuo bicchiere ti alzerai, dirai qualcosa di convenienza e mi saluterai lasciandomi qui proprio dove mi hai trovato, dove ero ieri e ieri l’altro e una settimana fa e dove sarò domani e dopodomani e ancora. Sarò sempre qui che continuerò a disegnare con il vino perso sul tavolo, perché remo o bicchiere, a questo punto per me è lo stesso.»



Tre giorni

«Eccellenza, non voglio far perdere altro tempo alla Sua riverita persona, almeno non più di quanto ne abbia già speso finora acconsentendo a ricevermi. Le penose vicissitudini della mia famiglia, a Lei certamente ben note, mi hanno reso nel triste bisogno di muovere la Sua attenzione. Sto cercando qualcuno, una persona, e certamente Lei, nella Sua grazia e volontà, potrà aiutarmi: il suo nome è Moisè sacerdote, ebreo tenitor di un banco, anche noto in Ghetto, Cannaregio e Castello con il nome di Mustacchi.»
Non era stato facile arrivare fin lì, ricevuto in una delle stanze più riservate di una delle famiglie patrizie più antiche della città ma la mia godeva ancora di alcuni appoggi. Il nome Grimani non ne aveva bisogno, rimandava a dogi e senatori, senza voler dimenticare il ruolo cruciale che svolse dietro le quinte, anche al di fuori di incarichi ufficiali. Ma non avevo avuto molte altre scelte, questa era l’ultima carta che potevo giocare, io che avevo imparato ad girare al largo da qualsiasi tavolo da gioco, per salvare il poco che rimaneva di tutto ciò che mio padre aveva letteralmente liquefatto, giorno dopo giorno, negli ultimi vent’anni.
La figura barbuta di quel nobiluomo lagunare era seduta immobile dietro il grande tavolo spoglio, illuminata solo dalla finestra alla mia destra. Questo taglio di luce dava al viso una profondità accentuata dall’attenzione con cui mi guardava. Il volto serio, attento e grave, mi rammentava uno dei tanti ritratti presenti in ogni palazzo veneziano, quegli antenati dall’espressione seria e al contempo furba che esce dal buio, svelato da una luce impietosa che proviene da oltre la cornice.
«Signore, per il nome che portate e nel rispetto della dolorosa vostra perdita, è mia sollecitudine porre attenzione alla vostra richiesta. Nel merito conosciamo molto bene la persona da lei citata, non solo per suo costume e religione, bensì per le suppliche giunte alla Quarantia Criminal in merito all’illecito suo agire come sanser da pegni. Per tutto questo, sappia già con chi ha avuto a che fare vostro padre e con chi lei andrà ad aver affare. Di detto Moisè sacerdote, conosciuto anche col soprannome di Mustacchi, non solo in Ghetto, Cannaregio e Castello, bensì nell’intera Venezia fino a Malamocco, abbiamo un corposo fascicolo.»
«Volendo sorvolare sull’attenzione che la Repubblica ha già da tempo posto sul suo affare, a partire dal primo di aprile dello scorso anno ci sono giunte suppliche ripetute riguardo all’agire suo. Prima fra tutte quella di tal Zini Margherita in merito ad un pegno rivenduto prima del riscatto; poi del tal Porta Carlo per un reclamo sullo stato del pegno; ancora Zanardini Paolino Valerio prima e subito dopo il figlio Gabriele sempre per un pegno rivenduto prima del riscatto. Ometto ogni altra supplica inoltrata, per concludere informandola che la Criminal Quarantia decise proprio lo scorso anno di istruire un più ampio processo riguardo gli illeciti in frodi ed estorsioni perpetrati al danno di cristiani non solo dal suddetto Moisé, bensì anche da altri suoi degni compari d’affari e religione nei nomi di Conegliano Giacobbe di Aron, Bonagrazia Tonin, Corregio Giuseppe di Salvador e Usigli Marco di Abramo detto Maghetto. In merito al Moisè l’inchiesta si è conclusa con un processo a suo carico e seguente condanna per la quale ha già chiesto grazia. Ora, a far onore al rispetto per le leggi e gli usi giuridici della Dominante, sono in obbligo a chiederle conto del perché siate a ricercare quest’uomo.»
Non era ciò che era solo per nomea, i fatti sembravano dargli lo spessore che meritava e mi convincevo di essermi rivolto alla persona giusta. O forse ero solo costretto come naufrago che veda nel primo tavolaccio la migliore imbarcazione.
«Se me ne darà agio, potrò spiegarle tutto dal principio. Siete dunque a conoscenza delle vicissitudini provocate negli anni recenti dal mio defunto genitore, che Dio abbia in gloria l’anima sua. Dopo il salutare rigore proposto e mantenuto da mio nonno Bartolomeo, cinque anni appresso la sua morte la condotta di mio padre offrì campo ai rilievi di qualcuno che in sé non aveva titolo né spessore per rilevare. Eppure iniziarono a girare voci sempre più insistenti sulle discutibili frequentazioni paterne. La cosa non ebbe risonanza in famiglia se non prima di altri sei o sette anni, quando la sua vita palese fu irrimediabilmente resa come usa al gioco e alle dubbie compagnie. Mia madre Eleonora ebbe a soffrirne tanto che infine, appena prima che il nostro attuale doge Manin entrasse in Palazzo Ducale, dopo altri sette anni di diverbi sempre più disperati, decise di trasferirsi in convento per proteggere il suo onore dalle male lingue e dall’onta che la stava lambendo, lasciando al destino e alla provvidenza anche noi figli e tutto il resto.»
«In casa rimanemmo io e mia sorella Maria e quando iniziarono le visite dei creditori, dapprima cordiali infine rudi e volgari, avemmo segno e misura della situazione perché fino ad allora nessuno di quelli, dico nessuno, ebbe cuore di rivolgersi a nostro padre nella maniera degli ultimi. Cercammo anche noi di contenere quella deriva, per quanto possibile e per come potevamo, ma ben poco potemmo. Infine il lutto di qualche mese fa: ancora sono celebrate le messe di suffragio a Santa Maria Nova che noi dobbiamo già affrontare chi reclama il denaro prestato, sebbene nelle casse sia rimasto ben poco.»
«Per quanto riguarda il merito ed il ruolo di Moisè sacerdote, in uno dei cassetti di mio padre, tra le tante, ho trovato queste quattro ricevute di pegno per un totale di 326 zecchini che non è, nemmeno lontanamente, il valore degli oggetti dichiarati e trattenuti. Per questo sono alla ricerca di quest’uomo, per riscattare quanto in suo possesso rivalendomi dell’iniqua transazione, come previsto a nostra tutela, e tentare di risanare la situazione.»
Avevo poggiato sul tavolo le quattro ricevute scritte su carta infima, senza filigrana, macchiate di vino e unto e di chissà che altro ancora. Ciascuna riportava in una scrittura scomposta, tale da non rispettare i minimi criteri imposti dalla calligrafia, una formula quasi di rito nella quale si citava la somma richiesta, l’interesse mensile, sempre al cinque percento, e la descrizione minuziosa del pegno offerto. Il loro aspetto trasandato passava immediatamente in second’ordine quando appariva la firma di mio padre in calce. La prima risaliva al maggio 1787 e riportava 21 zecchini, la seconda del due settembre 1790 per 43 zecchini, la terza del tre aprile 1792 per 52 zecchini e infine quella del quattro dicembre 1794 per 210. Un crescendo inarrestabile di capitale ed interessi fino a poco prima della morte.
Nella silenziosa attesa dello studio si poteva quasi dire di non essere nel centro di Venezia. Nessun rumore proveniva dalle calli e dai rii attorno. Un odore di legno vecchio misto a polvere pervadeva la camera e contribuiva non poco alla nobiltà dell’ambiente. Grimani si mosse e l’unico rumore fu il cigolare del legno della sedia.
«Triste storia la vostra, signore, che muove a compassione per l’umana debolezza mostrata da vostro padre e rende a voi l’onore per lo strenuo tentativo di risollevare le sorti della casa e la sua memoria. Oltre agli incartamenti che vi ho già citato, al momento altro non posso dirvi, se non che avete la mia parola per un impegno. Cercherò di sapere dove è recluso l’ebreo furfante e se sarà possibile interrogarlo in merito. Per contro devo anche ricondurre le vostre speranze ad una realtà più verosimile: ogni proprietà del Moisè è stata a suo tempo requisita per saldare i debiti da lui contratti e qualsiasi altro avere dovesse essere scoperto sarebbe ricondotto alla medesima finalità. Comunque, rimanete in attesa di un mio riscontro che spero essere entro pochi giorni. Sono certo non sia necessario sottolineare il carattere riservato dell’informativa e della mia esposizione nell’interessamento. Comunque, abbiate fede.»
E con quella fede la frase era chiusa: in maniera nemmeno tanto implicita aveva richiesto un corrispettivo e al contempo posto tacitamente termine all’incontro. Se è vero che il commercio è stato da sempre la linfa veneziana, da qualche decennio era l’unica cosa rimasta. Si poteva commerciare tutto: un salvacondotto, una sentenza, il voto al Maggior Consiglio, tutto. L’evidenza, e non solo con Grimani, mi stava dimostrando che la linfa scorreva ancora, ma i muscoli si erano avvizziti già da tempo, togliendo al nostro corpo quell’energia collettiva che ci aveva glorificato da levante a ponente.
Salutai ossequioso il Grimani e uscii dallo studio senza aver risolto la domanda iniziale: “Dov’era finito quell’avanzo reietto di Moisè sacerdote?” Sapevo qualcosa in più: che era riservatamente inquisito da qualche anno, che aveva a collo molte suppliche di cittadini, che dopo il processo della Quarantia Criminal stava scontando una pena per cui aveva chiesto grazia di riduzione. Ma dove e ancora per quanto non ero riuscito a saperlo. Dovevo attendere, questione di tempo. Proprio quello che avevo di meno.
In Ghetto
Chiusa che fu alle mie spalle la porta dello studio privato, mi ritrovai nella sala grande, fatta apposta per sollecitare il rispetto come l’intero palazzo, a partire dall’ingresso, bianco e defilato appena a mancina dopo il ponte di Santa Maria Formosa, sull’angolo del rio, lì dove nasce ruga Giuffa dritta tra due file strette di edifici. Esso apriva lo sguardo ad una corte luminosa e dalla parte opposta la riva d’acqua lasciava intravedere il canale con le barche silenziose, disturbato solo dal richiamo dei vogatori. La scala per il piano nobile, ampia e voltata con stucchi deliziosi, conduceva al corridoio ampio e luminoso aperto sulla corte colonnata. Le travi dipinte del soffitto facevano da contrappunto ad una delle collezioni d’arte più invidiate di tutta Europa. Statue originali o in copia riecheggiavano una classicità divina ed eroica, quasi un desiderio di ritornare, o meglio di far rinascere, una perduta età dell’oro. Tra le tante una copia del gruppo del Laocoonte, rinvenuto tra le macerie capitoline; una testa di Minerva, un guerriero ferito a morte e quadri, tanti: molti memoria della storia familiare, volti di antenati, scene che costruirono l’epopea Grimani e altri che facevano di quelle stanze il crogiolo della migliore e più significativa estetica cristiana degli ultimi duecentocinquanta anni.
Potevo andare alla ricerca di quei nomi riferiti da Grimani: Magherita Zini, Carlo Porta, i due Zanardini ma alla fine mi sono convinto che non avrebbe avuto molto senso, cosa potevo ottenere nel migliore dei casi? Un luogo? Un indirizzo? A poco sarebbe servito, quando in realtà avevo bisogno solo di trovare Mustacchi in tempi brevi.
Un attimo prima di uscire, con un cenno appena alla mia destra, un mezzo profilo nell’ombra attirò la mia attenzione: non disse nulla mentre mi porgeva un involto di velluto lungo più di un palmo; rientrò nel buio chiudendo la porta di servizio. Dovevo capirlo subito, il nobiluomo certe cose le lasciava alla servitù, giammai se ne sarebbe fatto carico personale. Un dono del Grimani dunque, ma di che tipo? Dal peso e dalla dimensione un’idea me l’ero fatta ma per una conferma avrei dovuto aprirlo e quello non era proprio il luogo appropriato; a Venezia non si è mai soli, completamente soli intendo. C’è sempre qualcuno affacciato in calle che saprà, e questo non potevo permettermelo, per questo lo riposi sotto la giacca.
Uscito dal portone, mi ritrovai quindi e nuovamente in ruga Giuffa, come dire dall’estasi al purgatorio. Quella calle prendeva il nome dai negozi armeni che un tempo la impegnavano e ora erano quasi tutti chiusi, il posto dei loro uffici era stato preso da mendicanti e zingari tutti questuanti i sempre più scarsi denari che giravano per la città. Non me la sentivo di rientrare a casa, volevo provare a muovermi io stesso per cercare soluzioni, volsi quindi i passi verso Cannaregio e di lì in Ghetto. Marcello –il domestico di fiducia di mio padre- mi aveva suggerito il nome di un tal Conegliano, titolare del banco Rosso in campo del Ghetto Novo, forse lo stesso citato da Grimani, che avrebbe potuto fornirmi indicazioni utili e discrete.
Oltre il ponte di Ruga Giuffa invece, il campo di Santa Maria Formosa tra marmi e laterizi era un tripudio di luce e sole come solo lì accade nelle giornate limpide. Tagliai a destra verso campo Santa Marina per il borgoloco. Dietro la chiesa dei Santi Apostoli, e prima di raggiungere quella dei Gesuiti, voltai a mancina per la Misericordia e seguii la fondamenta fin dietro i tre Ghetti. Ci sono stati tempi in cui andare in ghetto voleva dire affari, soldi, interessi, commercio, tempi in cui buona parte delle novità transitava attraverso i mercanti ebrei perché lì arrivavano i flussi da levante ma non erano più quei tempi e mi avvolsi nella discrezione del tabarro.
Poi, e il merito iniziale fu di papa Paolo IV più di due secoli fa, con alterni interventi dei successori, la popolazione ebraica fu costretta per decreto a vivere in zone circoscritte, potendo uscire solo di giorno, limitando i diritti civili –non erano nemmeno considerati cittadini a tutti gli effetti- e le attività professionali e commerciali. Questo generò effetti devastanti ribaltandosi su tutta l’economia, costringendo all’emigrazione i capitali e le competenze di mercanti e artigiani, senza contare gli abilissimi medici ebrei, formatisi anche sui testi arabi, ai quali era stato proibito di curare i cristiani. Paradossalmente i mercanti musulmani godevano di tutele maggiori e potevano scaricare le loro merci direttamente dal Canal Grande anche nei momenti di maggiore tensione se non di guerra dichiarata.
Passo dopo passo, nel tardo pomeriggio illuminato da una luce dorata dietro i tetti altissimi, arrivai alla porta del Ghetto mentre mi tornavano alla mente alcuni dettagli omessi nella storia che avevo raccontato al Grimani.
Giacomo Non
Figlio di un Non ucciso a Padova nel 1722, la famiglia di mio nonno, due anni dopo l’omicidio, mandò a Venezia il figlio dodicenne presso un parente così da sperare di farlo entrare negli uffici governativi della Repubblica Serenissima. Poi il matrimonio, l’unico figlio, mio padre Giacomo, nel quale ripose flebili e vane speranze e infine la morte nel 1770 a soli cinquantotto anni. Nove anni prima i miei si era sposati con solennità ai Santi Apostoli, poi mio padre, simile all’ineluttabile lavorio della clessidra, andò avanti appellandosi al prestigio ed evocando il passato potere della nostra famiglia; eppure consumando, di pari passo, prima oculatamente e poi e con scellerata determinazione, ogni nostra risorsa economica e morale fino ai suoi ultimi giorni.
Ad onor del vero l’ultima cosa che posso dire è che non si sia goduto la vita, avendo speso tra feste, battute di caccia in laguna, cene, abiti, regali e cortigiane tutto ciò che rimaneva di un patrimonio accumulato in centottant’anni, lira dopo lira. A conti fatti si era goduto tutti i piaceri della vita sua oltre quelli potenziali di nostra madre, miei e di mia sorella. Di mia sorella c’è poco da dire se non che è sposata e madre, mentre della prima non parlo ché ad appena quarantasei anni, sei prima d’oggi, si era ritirata presso le suore agostiniane del convento di Sant’Anna, per evitare quel marito fedifrago e la vergogna che stava calando su tutti noi. La vedevamo una domenica al mese e nelle più importanti festività religiose, quando una messa era d’obbligo e guarda caso proprio nel suo convento. Lei era sempre più distante e nostro padre non c’era quasi mai, trattenuto di volta in volta da un affare, leggi cantante francese, un impegno, ovvero cortigiana veneziana, oppure quando dichiarava apertamente il suo fastidio. Le volte che preferivo.
Al banco rosso
Se in città si viveva nello splendore della Serenissima, respirando già inconsapevoli i primi miasmi della decadenza, in Ghetto gli effluvi erano ben altri e vari, passando dai rifiuti in rio agli odori delle botteghe fino ai profumi che provenivano da qualche cucina. Costretti ad una convivenza forzosa, ridotta in un’area ristretta, in edifici altissimi ampliati solo in altezza la popolazione israelita sopravviveva a se stessa in virtù della sua cultura e di una convinzione radicata in secoli di storia.
Giunsi al banco Rosso1Tra i molti banchi di pegno del ghetto di Venezia, nel campo del Gheto Novo c’erano i tre principali, chiamati verde, rosso e negro dal colore delle loro ricevute. nel campo del Ghetto Novo, le ricevute che avevo trovato non erano di quel colore ma era un buon punto di partenza. Con buona pace dei consigli di Grimani non potevo aspettare: da lì iniziavo la mia personale ricerca entrando sotto l’architrave in marmo con l’insegna dipinta. Il locale non era luminoso, sotto il soffitto in legno un bancone era posto di traverso nel fondo, dietro di esso il prestatore era intento ad una trattativa con una donna circa alcune lenzuola che parevano di buona fattura anche se non ricamate. L’occhio e il tocco esperto dell’uomo stavano valutando la merce e l’intera questione era trattata sottovoce, tanto che a pochi passi non potevo distinguere nulla se non i bisbigli. La parete di fondo era rivestita da una scaffalatura piena di cartelle di documenti a destra e varie scatole a sinistra. Nel centro una tenda copriva una porta. Il pavimento in terracotta era pulito e allo stesso tempo consumato dalle migliaia di passi veneziani. Alla mia sinistra una seggiola per le attese. Dopo qualche istante di silenzio la donna esitante fece segno di sì con la testa, l’uomo compilò un foglio con inchiostro rosso, lo siglò e ripose il pegno in una scatola alle sue spalle, porgendo la ricevuta e la somma convenuta. La donna non ringraziò e si girò uscendo frettolosamente, senza incrociare il mio sguardo. Lasciò dietro di sé un odore leggero e morbido di sapone. Mi feci avanti quando l’uomo ebbe a scrutarmi interrogativo.
«Buonasera. È lei il signor Conegliano? Sono stato indirizzato qui da Marcello Bonavoglia, circa la mia necessità di scambiare alcune parole con voi riguardo una persona.» Pensava ad un cliente, si trovava invece una domanda senza pegno e si fece diffidente.
«Buonasera signore, ditemi pure in cosa posso esservi utile, sempre ch’io possa.»
Non mi ero presentato, fornendo solo la referenza di una terza persona e questo lo rendeva cauto e certamente più riservato.
«Il mio nome è Giovanni di casa Non, avrei necessità di parlare con un tale Moisé sacerdote, forse lo conoscete con il nome di Mustacchi, per avere ragguagli su un affare in sospeso tra lui e mio padre. Marcello mi ha assicurato che voi siete la persona più adatta a cui chiedere e il vostro aiuto potrebbe rendere molto più agevole la soluzione.»
«Mustacchi dite... è qualche tempo che non lo vedo, nemmeno alla funzione di shabbat. Purtroppo non saprei come aiutarvi ma -signore- se lo ritenete opportuno, lasciatemi un messaggio nel caso io lo veda qui in ghetto.»
Iniziava il minuetto. Non mi aspettavo certo una risposta immediata, ma nemmeno un muro così alto. Nondimeno, di questi tempi ogni novità è sospetta e ogni domanda induce vaghezza, rendendo restìo anche il più fiducioso degli uomini. Non mi restava che ballare ascoltando la sua musica.
«Vi ringrazio per la vostra attenzione, ma la questione è cosa delicata e preferirei trattarla direttamente con lui, meglio se a quattr’occhi. Siate comunque certo della mia gratitudine per l’incombenza che vi chiedo.»
«Vi sono grato per la cortesia, signore, ma da molto tempo, e di questi tempi ancor più, la vita è divenuta ardua e spinosa e con maggior evidenza qui in ghetto per ogni figlio di Israele. Siamo costretti a commerciare in stracci, al massimo prestiamo a pegno. Le indicazioni del romano pontefice, che hanno lavorato per secoli cercando ogni mezzo per metterci nell’angolo, sono riuscite a obbligarci a svolgere solo alcuni, infimi lavori. In verità possiamo essere anche medici ma non per i cristiani, e alcuni di noi sono bravi, avendo studiato su altri testi dopo quelli greci, latini e dell’eccellentissima Scuola Salernitana. Presso alcuni ci siamo fatti, e non saprei come, fama di maghi, stregoni, usi al diabolico, ma solo perché spesso appare nero ciò che non si conosce e le nostre letture numeriche della scrittura incutono timore. Ma a parte questo, considerato che venite qui per nome di Marcello Buonavoglia, altro non saprei dirvi, mentre vorrei rassicurarvi di avere certezza che vedendo il Mustacchi sarà mia premura comunicargli la vostra bisogna.»
Attimo di sospensione, fine della musica e fine anche del ballo. Uscito nel crepuscolo del giorno e delle notizie, mi ritrovai nuovamente in campo senza aver saputo nulla e avendo ottenuto la solita risposta “aspettare”. Per ostilità o riservatezza, il nome di Moisè sacerdote chiudeva invece di aprire. Se con un nome a garanzia avevo ottenuto questo nulla, era inutile andare a chiedere altrove e in conclusione, più di quanto sapevo non seppi.
L’eredità
Tutto questo avveniva per l’eredità di mio padre. Riguardo il suo modo di intendere la vita mi sono limitato a ricordare le cortigiane, per non scendere in altri vocaboli triviali, mentre lui non si pose mai questi problemi eleggendo a convitate delle sue riunioni alcune tra le donne più raffinate di Venezia alternandole con molte delle peggiori -e sia, ormai l’ho detto- puttane di calle. Riuscì ad avere la buona grazia di trapassare quattro mesi or sono, accompagnato dalla fanfara del mal francese, con buona pace sua, nostra e dell’istituto serenissimo del meretricio, ma tutto questo lo dico sottovoce perché in realtà dovrei parlare da buon figlio affranto.
Chi invece non rimase sottovoce furono i creditori che si riversarono in casa nostra il giorno dopo il funerale. E come dar loro torto? Il mio reverendissimo padre aveva lasciato ben poche sostanze e la sua morte aveva dato il via, come una colombina, alla corsa per il rientro del credito. Venezia è una città stretta e tortuosa in cui l’idea di linearità e riservatezza è tanto esaltata dalla legge e dalla convenzione comune, quanto remota nella realtà dei fatti. Per riservatezza si cammina tra calli e campi nell’anonimo costume della bauta e del trasgressivo tabarro, al contempo nulla e nessuno, sia uomo o ceto sociale, sfugge al piacere del comune chiacchiericcio.
Scivolata via da chissà quale pertugio di casa -in realtà un’idea me l’ero fatta- la notizia del peggioramento delle condizioni di salute di mio padre si era diffusa inevitabile ed inarrestabile come olio versato. Primo sintomo il diradarsi degli appuntamenti galanti, quelle poche che ancora aprivano la loro porta d’acqua erano quelle meno informate; le altre declinavano cortesemente con messaggi tanto carichi di affetto quanto di distanza: proprio quella che volevano porre tra lo strumento della loro professione e la sua malattia.
Altro sintomo fu il parallelo aumentare della frequenza delle visite e dei messaggi di coloro i quali avevano supportato, più o meno largamente e a tassi variamente vantaggiosi, la paterna crapula. La sera stessa, un paio d’ore dopo la morte, entrai nello studio per capire cosa fosse rimasto: trovai poche lettere di credito, molte di debito e pressoché nulla, rispetto all’originale ammontare, in denaro. Misi in salvo quel poco perché aspettavo l’arrivo di mia madre che, sebbene devota e in preghiera, non avrebbe disdegnato gli agi di una rendita anche minima.
In altre parole l’eredità paterna era racchiusa in una disperata inconsistenza delle finanze di famiglia, il che era già noto a molti se non a tutti, anche a noi figli ma, come spesso capita, un conto è sapere, altro conto è doverne prendere atto.
Moisé sacerdote, detto Mustacchi
A dar fede alle ricevute trovate, il rapporto col Mustacchi ebbe a iniziare probabilmente nel maggio del 1787; dico probabilmente perché non trovai altri impegni precedenti la prima, ma nulla vieta che fosse già consolidato per altre vie. In quella stagione il freddo tornò più forte dalle montagne portando con sé il gelo sulla laguna: era uno spettacolo unico ammirare la città prigioniera del ghiaccio, i canali fermi senza quel fluire continuo delle maree; le scoasse ferme nella superficie gelida e verdastra sul bordo delle fondamenta; le barche paralizzate non potevano muoversi e quella mattina la città si svegliò con l’aspetto improvvisamente mutato, al punto che qualcuno arrivò, tanto per cambiare, ad organizzare feste sul ghiaccio.
Quando la primavera riprese il sopravvento sciogliendo l’acqua dei rii, mio padre aveva ormai preso l’abbrivio. Fu in una di quelle sere tiepide che annunciano l’estate, quelle che consolano dal freddo patito, che lui uscì per uno dei suoi irrimandabili impegni mondani. Nostra madre era esasperata e ormai aveva rinunciato alle scenate sulla scala, preferendo piuttosto ritirarsi nelle sue stanze, in un’ immobile fuga assieme al breviario. Io avevo ventitre anni e mia sorella si sarebbe sposata di lì a poco, appena in tempo, prima che svanisse anche l’ultimo briciolo di dote.
Seppi più avanti che oltre ad apprezzare il vino, meglio se bianco e freddo, ma senza disdegnare il rosso ad ogni temperatura, il mio reverendo padre aveva preso l’abitudine di fumare certe palline resinose che recuperava attraverso Marcello, il nostro domestico di fiducia, da un mercante musulmano al Fontego dei Turchi. Lui cercava di tenerlo segreto ma era difficile eludere la mia curiosità adolescenziale, soprattutto quando qualche sera lo vidi uscire dallo studio con passi incerti sul pavimento di legno, avvolto in un profumo che mi ricordava le spezie scaricate nei fondi sul canale. Di quelle palline riuscii a rubarne una dal suo rifugio, ma non a capire come usarla e finii per perderla in fondo a chissà quale tasca.
La paterna evanescenza perdurava ed egli provvedeva ad alimentarla anche durante le sue partite a madrasso, scarabocio o ai trionfi, il che probabilmente, diede agio ai suoi amici di reindirizzare a loro favore gli imprevedibili capricci della fortuna.
Quella sera di maggio mio padre –lo seppi dalla viva voce di Marcello che cercava di contenere il dispendio e il contegno del padrone- doveva aver già perso molto e mancando in fede e denari contanti, lo incaricò di recuperare rapidamente qualcosa da puntare perché aveva sentito -proprio così disse- le dita della fortuna sulle sue ed era certo di non poter perdere ancora. Io mi convinsi che le dita potevano anche esserci state, ma non dovevano essere della fortuna, piuttosto di qualche sua profumata compagnia.
Dunque Marcello uscì dal ridotto dirigendosi tra le calli verso il ghetto che era già chiuso, ma siamo pur sempre a Venezia e per chi sa dove bussare, nessuna porta è serrata. L’incontro con il Moisè avvenne nel campo del Gheto Novo, accanto al banco rosso. Bastò la conoscenza, un cenno d’accordo, la parola e ventuno zecchini passarono di mano finendo sul tavolo da gioco.
Sicuramente mio padre evitò di notare i moniti delle carte
(Su ciascuno degli assi delle carte trevigiane era riportato un motto)
Ignorò l’asso di bastoni -Se ti perdi tuo danno- provocato da quello di spade-Non ti fidar di me se il cuor ti manca-, chiuse la mano con l’asso di coppe -Per un punto Martin perse la capa- quando quello a denari -Non val sapere a chi ha fortuna contra- la sancì infine rovinosamente persa; e la posta terminò la sua spericolata corsa nelle tasche di chi, non Lanzo, la zecchinetta1 sapeva giocarla bene.  
Io avevo ventitré anni e le idee irrimediabilmente chiare sulle visite di certa gente che non entrava mai dal portone, ma arrivava dall’ingresso sul ramo. Quando vidi di sfuggita per la prima volta quel Moisè -ancora non conoscevo il suo nome- capii immediatamente cosa era venuto a fare. Lo rividi altre tre volte senza avere peraltro idea dell’entità del pegno e della somma. Me lo ricordo ancora e devo dire che non aveva il tratto tramandato dell’ebreo: dritto, di altezza normale, capelli brizzolati e raccolti alla nuca, un viso anonimo dal quale lo sguardo spuntava come il muso di una volpe dalla tana, senza il naso arcigno, vestito con poca eleganza ma certamente non straccione. Cercava di muoversi tenendo sempre la sinistra a parete e una volta ci trovammo faccia a faccia in cima alla scala piccola: mi guardò prima con sospetto e poi si sciolse in un saluto avendomi forse classificato come innocuo. Potrei riconoscerlo anche adesso, anche dopo tutti questi anni, se solo sapessi dove cercarlo.
Giovanni Non
E di me debbo dire qualcosa? Perché a rendere compiuto il quadro qualcosa è necessaria. Il mio nome è Giovanni di Giacomo Non, sono nato nell’autunno del 1764 e appena senziente compresi l’aria che tirava, non solo in casa ma anche a Venezia e soprattutto quella che stava rinfrescando l’Europa. Conto sulla vostra discrezione poiché è bene che certe note rimangano riservate, che restino tra noi, perché di questi tempi potrei essere tacciato tanto di eresia quanto di complotto alla sicurezza della Repubblica e in entrambi i casi non sarebbe piacevole sorte.
Nella figura paterna ho avuto, per negazione, il modello di ciò che non dovevo diventare: arrogante, spocchioso, vano e sostanzialmente buono solo a dilapidare. Mai una volta riesco a ricordarlo intento in affari produttivi, almeno secondo il comune intendere la produzione. Il suo massimo intento era soprattutto il gioco, tanto e d’ogni genere: dell’oca, banco, madrasso, trionfi e quella zecchinetta che ho già riferito; in ogni caso, quale che fosse il gioco, era comunque buono se permetteva la scommessa.
Poi, o forse al pari, le donne, ma non avendo il prestigio del nome o del potere, avendo a contare esclusivamente sul denaro e considerata anche l’età, lascio alla vostra immaginazione con quali donne abbia avuto affare. Sia chiaro che non è mia intenzione esprimere giudizi su di loro, anzi! in fondo sono sempre state le uniche ad avere le idee oneste e ben chiare in merito alla sostanza della transazione, ovvero in merito a cosa offrire in cambio di quanto. L’illusione era di mio padre che faceva vanto delle sue conquiste, avendo solo conquistato il ridicolo nel pettegolezzo.
Io posso dire con certezza che il santo libro dice la verità quando rammenta che le colpe dei padri ricadranno sui figli; arrivo anzi a dire che più che cadere, scivolano. Quando era nostro precettore don Amedeo, questo passo mi era oscuro, certo non lo mettevo in dubbio, ma non riuscivo a capire perché e come la colpa di qualcuno avesse modo di scivolare sulla sua progenie. Dal canto suo Don Amedeo non fu mai capace di spiegarlo meglio, successivamente gli eventi continuarono a non spiegarlo rendendone però chiara l’evidenza nei fatti.
Allora, poco alla volta, mi formarmi quel modello per assenza: partendo da un’idea, di volta in volta ad essa toglievo quello che di male riscontravo in mio padre, così come lo scultore toglie dalla creta ciò che ritiene utile solo a coprire la visione della sua opera. Io un’opera vera e propria non l’avevo in testa, speravo solo che uscisse fuori da sola una volta rimosso tutto l’inutile. E allora via il gioco, via la vita mondana, via l’eleganza frivola, via la consapevole e tronfia ignoranza, via la gretta intolleranza del pregiudizio, via una religiosità formale. In vero quest’ultima asportazione non fu a causa di mio padre, che di preti non aveva grande cultura: rispetto forse, o meglio indifferenza, ma non pratica. In effetti la mia religiosità si infranse intorno ai quindici anni, quando sorpresi don Amedeo a spiegare un suo personalissimo catechismo ad una domestica. Probabilmente a Roma non avrebbero approvato quella dottrina pratica, o forse sì visto come andavano da secoli le cose: io sicuramente non l’approvavo anche perché quella ragazza riempiva da tempo i miei pensieri e le mie mani, ma non avevo ancora un catechismo da insegnarle. Per immediata repulsione decadde quindi ogni mito religioso passato attraverso quel precettore. Lui stesso sarebbe decaduto qualche anno dopo, trasferito d’ufficio in un monastero, doveva averla combinata grossa ma non se ne seppe mai nulla. Non ricordo nemmeno di averlo salutato.
Man mano che la mia opera scultorea procedeva, anche io crescevo. Arrivato nell’età dei grandi dilemmi mi risolsi per due possibili strade: quella militare e l’altra sacerdotale, ché in fondo erano sempre una, cambiava l’esercito, ben poco le armi, ma sempre una gerarchia era. Il grande dilemma durò poco, almeno fintanto che non compresi la mia assoluta inadeguatezza ad appartenere a qualsiasi piramide graduata. Mia madre invece fu pronta nel cogliere l’occasione di un decreto Senatoriale nel 1784.
Nell’aprile di quell’anno un tal Francesco Pesaro fece salire il primo pallone aerostatico in bacino tra lo stupore di tutta la popolazione. Sono certo che pochissimi ebbero idea dei possibili utilizzi pratici, mentre la maggior parte pensò ad un divertissement raffinatissimo e originale, degno dell’ineguagliabile stile della Serenissima. In ogni caso, con quel decreto, i Pregadi esortavano e agevolavano i nobili nella ripresa degli antichi commerci e questo suggerì a mia madre l’idea di affiancarmi ad un suo parente per apprendere gli elementi della contabilità mercantile. Ormai non potevo commerciare direttamente, mancando il capitale iniziale impegnato in ben altri commerci, mentre mi rimaneva l’aritmetica a suo tempo appresa: per una volta, anziché togliere al mio modello, aggiunsi qualcosa.
L’irrevocabile disdegno paterno per quell’attività considerata disdicevole e volgare, era la mia misura della giusta scelta, questo mi diede inoltre occasione di entrare in contatto con altre persone, gente nuova, al di fuori della società veneziana che si era ridotta ad essere una parodia parruccona, bigotta e inetta di sé stessa e di ciò che era stata. Fu allora che mi si chiarì la visione della nostra millenaria Repubblica, affondata in laguna sotto il peso di sè stessa e della sua storia, affaticata e inerme, arroccata tra terra e mare, incapace di percepire, ovvero senza la minima volontà di comprendere l’inevitabile mutare dei tempi e delle società. Tutte cose che andavo affinando nella mia mente ma che, al contempo, sentivo di non poter esprimere.
Erano state scoperte le prime logge massoniche segrete, il Senato vedeva trame e minacce ovunque tanto da aver ordinato una riorganizzazione delle corporazioni nel tentativo formale di dar loro nuovo impulso, in realtà per avere chiaro quale fosse la finalità di ciascuna. Con lo scopo di motivare il suo ruolo e alimentare il consenso sociale, era iniziata la rincorsa alla sicurezza interna innescando un processo tanto pericoloso quanto inevitabile. La paura di perdere il controllo e lo status acquisito, induceva la classe nobile al governo a inventare continuamente nemici e pericoli, nuovi o vecchi, spostando l’attenzione ora su una persona, ora su un’idea politica, ora su un’etnia eppure mai lì dove doveva essere realmente posta; per contenere questi fantasmi prese ad emanare leggi nuove e sempre più cavillose, elargiva nuovi e sempre più inquietanti poteri alla polizia segreta, promulgava decreti censori per rafforzare i controlli e stringere le maglie della sua rete evidentemente slabbrata. Si era giunti alla necessità di scoprire sempre una nuova congiura o una nuova minaccia per giustificare quest’operato repressivo, in altre parole si alimentava l’ansia e l’insicurezza generale per giustificare l’azione del consiglio che così si dimostrava prontamente reattivo in un vortice di nuove leggi maggiormente restrittive e poliziesche, ma sostanzialmente inutili; e tutto questo causava solo una continua e inarrestabile paralisi delle attività e delle iniziative.
Dalla Francia, a dispetto e rabbia delle monarchie europee, stavano giungendo più cambiamenti di quanti fossero sopportabili, soprattutto dai nobili nostrani. Ogni blasone fuori da quella terra rivoluzionaria, era stato comunque colpito al collo in una parentela più o meno prossima. Anche il calendario non era più lo stesso, i suoi mesi ora volevano chiamarsi vendemmiaio, brumaio, frimaio, evocando la caratteristica del periodo, quasi a dispetto e sovversione del più elementare ordine costituito. La sicurezza era divenuta per la Repubblica ciò che quelle palline turche erano state per mio padre.
Epilogo

Giunto a pochi passi dalla chiesa dei Miracoli, ormai era scuro, una figura buia mi tagliò il cammino, il braccio di un altro mi è passò sotto la gola da dietro e il filo della lama iniziò a premere. La voce bassa di quello di fronte, certamente veneziano, prese a rammentarmi fermo e cortese, che il tempo delle dilazioni era terminato, ingiungendomi il saldo, uno dei tanti, entro domenica. Poi scivolarono entrambi dal buio da dove erano venuti. Non ebbi proprio paura, stupore forse ma qualcosa di simile me lo aspettavo.
Rientrato a casa a sera fatta, mia sorella mi aspettava nella sala, seduta accanto al camino, le mani composte nella posa che rende serenamente la sua stabilità, visto che parlare di felicità a volte è uno sproposito, conquistata nel matrimonio; una discreta agiatezza, due figli e un marito presente quel tanto che bastava a far dimenticare le esperienze materne. Appena entrato si alzò guardandomi interrogativa mentre io ricambiai lo sguardo con un sorriso.
«Buonasera sorellina, quali novità mi porti dai miei due nipotini?»
«Lascia stare i convenevoli, i nipoti crescono tranquilli, io invece sono appena rientrata dal convento di Sant’Anna. Nostra madre ti manda la sua benedizione e raccomanda il tuo impegno nelle mani di Nostra Signora della Salute. Invece tu dimmi cosa hai saputo.»
«Addirittura la Salute, nemmeno si sia a trattare un morbo. Comunque di tutti gli incontri che ho avuto -omisi volontariamente sia il nome Grimani che quello dell’ebreo delle ricevute in Ghetto- la mia processione l’ho fatta e purtroppo devo deluderti perché nessun santo non ha fatto grazie: ben poco posso riportarti se non che un’eccellenza ha garantito l’interessamento e in giro nessuno vuol dire nulla di interessante riguardo a chi sai. Vuoi per il clima di complotto che gira, vuoi per la diffidenza che chiude le bocche, non sono riuscito ancora a sapere dove sia. Di certo so che è stato imprigionato ma nessuno ancora sa dirmi dove. Alla fine della fiera tutti mi hanno suggerito di attendere: finché non avremo notizie certe non potremo muoverci per riscattare equamente i pegni delle ricevute.»
«E allora cosa possiamo fare noi? Aspettare con le mani in mano che quei creditori finiscano ciò che qualcuno ha iniziato al tavolo da gioco?»
«Che ci piaccia o no, altro non possiamo fare. Nonostante i solleciti che riceviamo, più o meno violenti, a proposito e per tua conoscenza l’ultimo è di pochi istanti fa, la cassa è quasi vuota e consente la minima gestione domestica per i prossimi mesi. Sappi che ho intenzione di congedare una parte della servitù, eccezion fatta per Marcello; sicuramente Caterina che non sa quando e con chi tenere la bocca chiusa. Dobbiamo accettare la realtà dei fatti: sono tempi duri, mia cara Maria, ammesso che ce ne possano essere stati di morbidi. Tempi che non avremmo mai pensato di dover vivere ma che inevitabilmente siamo a scorrere giorno per giorno. Più duri ancora per la chiara memoria che abbiamo dell’agio vissuto, se non della gloria e del potere. Dobbiamo constatare e ben vedere la realtà dei fatti: siamo prossimi al lastrico. Fintanto che non riusciremo a riscattare quelle polizze inique, possiamo solo temporeggiare.»
E andai oltre.
«Detto tra noi, siamo lo specchio della nostra città: cosa resta della Serenissima? Di quel potere che è arrivato a spaziare dall’alto Adriatico fino ad Aleppo? Da Bisanzio fino alle coste della Berberia? Quel potere che disdegnava l’oppressione militare preferendo la diplomazia e il commercio? Sin da quando Venezia si sfilò dal potere bizantino corrotto, inutile e decadente, abbiamo fatto del mare la nostra strada e la nostra via d’espansione. Scegliemmo di non seguire la consueta via dell’occupazione in armi avendo ben compreso che il suddito migliore è quello che dipende dal potere del padrone senza esserne oppresso. Do ut des, rispettando le proporzioni del minimo do e massimo des.»
«E cosa resta di tutto ciò? cosa ci rimane di secoli di supremazia unita ad ingegno e lungimiranza? Praticamente nulla. Nessuno è riuscito a sfuggire alla lusinga della superbia e ci ritroviamo qui, nel caigo o nell’afa, sotto campanili storti, ben lontani dalla terraferma e dai nuovi commerci, sempre gli stessi personaggi più o meno solenni, a metter becco negli affari l’uno degli altri, senza poter più uscire dalla laguna nella quale ci siamo impantanati.»
Il mio amico Gerardo, studioso d’arte all’Accademia, mi aveva spiegato sottovoce il riflesso di questo stato nella pittura prendendo ad esempio le opere del Tiepolo, Giandomenico naturalmente. Nei sui paesaggi cittadini, pieni di dettagli quasi didascalici su Venezia, questi ritrasse una società prolissa e stanca, immersa in un paesaggio ammantato di una luce intensa e dorata dove mai appariva il sole, a sottintendere che tutta la scena viveva nel calore di una luce irrimediabilmente distante.
«Te ne sia indice quella che chiamiamo “politica di neutralità disarmata”, votata in Senato per compiacere Napoleone: quando mai in oltre mille anni è stata sguarnita una fortezza come Peschiera, chiave della nostra difesa da ponente, che ora senza munizioni e uomini è buona solo all’edera e al tarassaco. Siamo nati in un secolo tra due misure, ciascuna cresciuta nel tempo, distanti tra loro come mai. In Francia la monarchia è stata divelta, cinque anni fa arrivò in cerca di asilo il fratello del re, il conte d’Artois, ultimo collo integro della nobiltà francese e chissà cosa ci porterà nel futuro. Ma in tutto questo nessuno si è reso conto che il vento non nasce più da San Marco, spira teso, diverso e da altre direzioni: ti parlo solo della rivoluzione avvenuta in Francia ma potrei rammentarti altro di ben più significativo, altre correnti di pensiero, altri modi di navigare e commerciare, l’Illuminismo ad esempio. Tutte cose dalle quali ci siamo testardamente voluti tener fuori e dalle quali ormai siamo irrimediabilmente fuori.»
Sotto gli occhi perplessi di mia sorella girai attorno allo scrittoio sgombro; seduto sul cuoio consunto della sedia, tirai fuori dalla giacca il dono del Grimani. L’involto di velluto, austero e prezioso, si intonava perfettamente con il legno; le mie dita si insinuarono tra le pieghe e arrivarono al contenuto.
Il vetro affilato era freddo e pronto, più che uno strumento un messaggio.
Eppure non avrei mai saputo usarlo2.














1)La zecchinetta, anche detta lanzichenecco o lasqueneet, è un gioco d’azzardo il cui nome deriva dai lanzichenecchi che, nel 1500, lo introdussero in Italia.
2)  Il 12 maggio 1797 Venezia, per la prima volta in oltre mille anni, si arrenderà spontaneamente all'esercito di Napoleone Bonaparte, sparando un solo colpo; ma questa è un’altra storia.

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