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Enrico Ricciardi
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > Orti dei Dogi - narrativa
È nato a Venezia dove tuttora risiede.
Studi tecnici e Scuola Superiore di Giornalismo.
Partecipa alla vita culturale della città promuovendo interessanti iniziative in campo cinematografico, musicale e teatrale.
Fonda l’Associazione “Il Teatro alla Moda” e nei primi anni ‘80 dirige una compagnia teatrale curando la regia di una serie di commedie tratte dal repertorio goldoniano. Ha pubblicato: Laguna di Venezia - Ed. Storti. Campioni 1945/2000.
I vincitori delle Regate Storiche tra mondo lagunare e città” Ed. Cicero.
Teatrografia di Cesco Baseggio - Circuito Cinema del Comune di Venezia.
Già presente edizione:







Orti dei Dogi
-Narrativa-
Gli occhi della notte





Una luce fioca e tenue si diffuse leggermente nel luogo dove giacevo.
Non avevo una cognizione esatta del tempo trascorso, ma ero sicuro di aver sentito la pioggia battere incessantemente con violenza per lunghe ed interminabili notti contro i ripari esterni che mi ero costruito.
Il silenzio finalmente si impadronì di me che continuavo a rimanere disteso ed ancora impaurito da strane e terribili sensazioni.                    
Avevo percorso correndo un tratto paludoso, accompagnato, nel buio, dal fragore inconfondibile del mare che aumentava l’intensità della mia angoscia e dal vento che mi inseguiva folle di rabbia e di odio.                                                     
Quel antro sconosciuto aveva arrestato naturalmente la mia corsa disperata avvolgendomi d’improvviso in una oscurità terrificante.                    
Sbattei contro il muro interno e ricaddi immediatamente all’indietro. Vidi in controluce, mentre un boato sordo e fragoroso scoppiava sopra la mia testa, la sagoma sgangherata di una porta mentre, a poco a poco, prendevo coscienza del sangue che mi usciva dalla fronte.
Come un cane ferito mi trascinai a quella porta cercando di chiuderla con il peso morto del mio corpo, poiché sentivo che le forze venivano a mancarmi.                    
La luce abbagliante di pochi istanti prima aveva lasciato nei miei occhi la persistenza dell’immagine di quella stanza.                    
Afferrai dei pali e li puntai contro la porta che gemette non poco sotto la spinta del vento che si insinuava furioso e sibilante tra le fessure sollevando tutto intorno una nuvola di polvere tale da soffocarmi.
Barcollai esausto e mi lasciai finalmente cadere sui resti abbandonati di una mietitura di granoturco, deciso, anche di lasciarmi morire.
Poi tutto fu un lungo silenzio senza ricordo.
La luce dolce che entrava attraverso il fogliame di erbe rampicanti che si erano insinuate nelle nicchie di alcuni mattoni mancanti, si rompeva in piccole e diverse rifrangenze che delicatamente si muovevano a scomporre la densità compatta del buio della stanza e della mia paura.                     
Sentivo la leggerezza dell’aria del primo sorgere del sole che accompagnava l’odore di alghe di una bassa marea.                     
Rimanevo immobile nel timore di rompere con qualche mio gesto o rumore quella calma e quel silenzio che sentivo essermi di estremo conforto.                     
Avevo paura di dover constatare che quella mia immobilità avrebbe potuto essere perpetua e di non essere in grado di comandare alle mie mani ed ai miei piedi di aiutare il corpo a sollevarsi.
Provai cautamente con una mano che mi portai lentamente alla testa. Avevo una parte ancora indolenzita che mi fece male al solo sfiorarla mentre piccole croste di sangue mi rimasero tra le unghie.                     
Feci leva con le braccia per sollevarmi sulle ginocchia. Ricaddi nuovamente su me stesso non per mancanza di forze ma perché improvvisamente mi vennero alla mente sensazioni orribili di paura e di follia.                     
Ricordavo la mia corsa sconsiderata che mi aveva portato in quella stanza ma ...? Da dove venivo e perché fuggivo?                     
Il mio corpo fu percorso da brividi. Progressivamente le mie braccia e le mie gambe si contrassero ad un ritmo sempre più spasmodico colpendo l’aria alla cieca, quasi a scacciare un pericolo che in quell’istante incombeva solo sulla mia coscienza.      
Visioni di fuochi notturni sparsi nella campagna, tanfo dei cadaveri che alla sera, nel ristagno della marea si faceva sempre più soffocante, bestie sgozzate morte sulle sponde dei fossi con i ventri orribilmente gonfi, lamenti, di gente senza casa che andava a morire febbricitante fra i fiori immortali delle barene.
Incubo orribile di cose accadute o prossime a venire?
Rinvenni a poco a poco, completamente bagnato di un sudore gelido e penetrante e con maggiore serenità, tra le incerte fessure dell’entrata di quel mio nascondiglio, vidi lentamente affievolirsi la luce del giorno.      
L’indomani fui risvegliato ancora dal baluginio delle luci dell’alba che sempre più spavaldamente si insinuavano tra le piccole aperture esterne di quel mio riparo.
Mi sentivo maggiormente padrone delle mie forze e moderatamente più tranquillo.
Aperta la porta mi dovetti subito rivoltare verso l’interno per abituare gradatamente i miei occhi alla intensa e non più usuale luminosità che mi trovavo improvvisamente davanti.
La stanza senza finestre, dove ero rimasto per tutto quel tempo, denotava i segni di un lungo abbandono. Da un lato una porta mostrava l’accesso ad una scala. Ne percorsi una stretta rampa che girava in cerchio man mano che si continuava a salire.    
Da una parte si aprì l’entrata di un’altra stanza, ma la mia curiosità mi portò a seguire la scala che saliva ancora più su.
Arrivai ad una terza stanza di grandezza simile alle altre.
Di fronte, la luce esterna sagomava la dimensione di una finestra dalla forma del tutto anomala.  Essa correva con il suo lato maggiore orizzontalmente a tutta la parete della stanza.   Mi avvicinai ed addentrandomi a poco a poco nell’oscurità, seguendo quella indicazione luminosa, mi accorsi al tatto che era chiusa con tavole infisse nel muro e legamenti di filo di ferro.
Il legno cedette con facilità sotto i colpi di un mattone che raccolsi più sotto. La luce intensa che ne scaturì violentemente mi colpì e mi abbagliò per lunghissimi istanti.      
Rimasi in una lunga cecità luminosa che a poco a poco si animava di strani scintillii danzanti che andavano dapprima scomparendo per riapparire immediatamente dopo con estrema rapidità.
Mi voltai verso le altre pareti che rimanevano irrimediabilmente buie alla mia vista.
In quegli istanti la dimensione del mio unico mondo possibile era solamente nella direzione di quell’unica finestra piena di abbagliante mistero che mi stava di fronte.      
Stetti per lunghe ore a guardare attratto da un fascino e da una tenerezza indefinibili, mentre i miei occhi si impadronivano di quei colori delicati e di quella danza luccicante dai riflessi d’argento.      
Passai l’intera giornata di fronte a quella straordinaria immensità che mi divenne a poco a poco familiare man mano che il sole cambiava, con sfumature diverse, la luce del giorno.
La mia commozione fu bagnata dalle lacrime incontenibili della mia gioia quando capii che stavo guardando il mare.      
Rimasi per tutto il tempo della sera e mi lasciai scivolare senza accorgermi nel sonno della notte, mentre la luna si increspava sull’acqua silenziosa e opaca.
Mi svegliai infreddolito, punto da una leggera brezza e da un odore intenso e penetrante.
Mi levai subito a guardare verso quel mare che tanto mi aveva accompagnato nei sogni tormentati di quella notte, ma il mio entusiasmo fu smorzato dal fatto che misteriosamente era scomparso….
Il giorno violaceo del primo albeggiare si confondeva lontano in una striscia d’acqua legata ad un’enorme distesa sabbiosa che si apriva davanti a me per il tramite di una larga ragnatela di piccoli canali che si accovacciavano, nei chiaroscuri del primo mattino, attorno a larghe macchie verdastre di alghe, di dune leggere frastagliate, a tratti, da fitti canneti presso i quali sostavano, immobili e silenziose, delle ampie punteggiature bianche di gabbiani.
Il fascino di questa nuova terra che mi stava davanti, nella luce mattutina di un sole che a poco a poco violava, con le sue delicate colorazioni d’arancio, tenui e fuggitive foschie, era pari all’emozione che mi aveva incatenato il giorno precedente di fronte alla sorprendente ed abbagliata vista del mare.
Ridiscesi esplorando anche una stanza intermedia che stava al piano sottostante di questa torre dove ero capitato forzando, anche qui, alcune tavole di legno ormai marcito che ostruivano due piccole finestre attaccate e sormontate da due graziosi archi superiori, divisi al centro solamente da una piccola colonna di marmo.      
Erano ugualmente aperte verso la stessa direzione della feritoia della stanza superiore, salvo che ora la mia vista era frastagliata dalle cime di un fitto intrico di alberi piantati nel fondo di un grumo di sterpaglia da cui uscivano folte diramazioni di edera, strette attorno agli esili tronchi.
Era un breve tragitto che separava il mio rifugio da quel mare che mi attraeva irrimediabilmente, ma tutto ciò mi sembrò essere stata la fantasia bizzarra di un sogno quando uscii fuori all’aperto per la prima volta.
Una fitta barriera di sterpi, di rami e di erbe che mi graffiavano fino alle ginocchia, occultava improvvisamente quel mare che poco prima mi aveva fatto provare una dolce sensazione di tranquillità, mentre l’abbandono desolato e minaccioso di quella torre slabbrata e cadente che adesso mi sovrastava, suscitava in me l’angoscia della mia fragile precarietà.
Riprovai per alcuni attimi alcune sensazioni terribili di suoni e di lamenti, di grida imploranti, che si mescolavano confuse in alcuni spasimi della mia memoria, mentre ancora sentivo, a poco a poco, la paura impadronirsi di me e spingermi a voler uscire disperatamente da quella che improvvisamente mi apparve come una trappola irrimediabile.
Fortunatamente ritrovai tra i cespugli lo stretto passaggio da dove ero venuto e la mia ansia finì dopo una breve corsa al di là di un argine di sabbia dove sostai lungamente senza fiato, accarezzandomi il sangue che rigava le mie braccia e le mie gambe.
Tutto lo spazio che avevo ammirato dall’alto dalla torre ora stava di fronte a me e mi pareva ancora più grande di prima.
Me ne sentivo attratto e pieno di ammirazione e di amore ora che in lui si poteva perdere lentamente la mia infinitesimale dimensione.
La parte superiore della torre spuntava alle mie spalle con i segni vistosi del suo lungo abbandono e, a poco a poco, la sua vaga malinconia si familiarizzò con la mia tenerezza.
Lungamente attesi l’acqua del mare che progressivamente venne a lambire i bordi di quell’argine sul quale rimasi sdraiato per tutto il giorno immaginando ampi misteri al di là dell’orizzonte.                       
I miei pensieri si lasciavano trascinare senza resistenza sull’acqua che vedevo lentamente rifluire ancora verso il mare, tra le grida dei gabbiani che ora volavano alti nel cielo.
Il grigiore umido della secca si incupiva progressivamente tra le ombre della sera e del mio fragile sonno.
Questa volta la luna era pallida, smorta in un tenue alone vaporoso.                     
Il silenzio era rotto dall’acqua del mare che sentivo essere tornata ad intrufolarsi tra le pietre dell’argine sul quale continuavo ad essere appoggiato.
Cercai nuovamente di addormentarmi quando, improvvisamente, in un punto ben definito, ma ad una distanza che non avrei potuto precisare, l’acqua si accese di strani bagliori fosforescenti che uscivano dal fondo e che tendevano ad allargarsi sempre di più in un crescendo di luce e di intensità.  Poi il chiarore diminuì molto rapidamente, mentre alcuni arabeschi argentei si dissolvevano guizzanti nell’aria.                      
La mia allucinata fantasia era ormai giunta ad un estremo grado di sensibilità da farmi ritenere più utile cercare nel riposo una soluzione all’eccitazione dei miei molteplici stati d’animo.   
Quasi ebete dallo stupore mi addormentai.
Il giorno era già chiaro quando mi risvegliai all’indomani e mi rizzai sull’argine, saltellando in qua e in là per sgranchirmi e riscaldarmi dalla brezza mattutina che mi aveva completamente intirizzito.
Mi incamminai verso la secca che cominciava dapprima un po’ melmosa, ma scoprendo, gradatamente più oltre, un fondale duro di sabbia. L’acqua non era calata completamente come il giorno precedente cosicché nei primi canaletti che trovai curai le mie lievi ferite.
Camminavo intorno alle piccole motte di sabbia ricoperte di alghe accumulate su sé stesse in un dolce abbandono, leggermente ondeggianti quando accarezzate dall’impercettibile scorrere dell’acqua.      
Più che mi allontanavo, più vedevo allungarsi alle mie spalle la linea di  un’isola difesa da una barriera densa e compatta di vegetazione da cui spiccavano qua e là alberi di media grandezza,  pieni di allegria nel verde scintillante delle prime foglie di primavera.
Mi allontanai tranquillo e confortato dal riferimento preciso della mia torre alla quale ero ansioso di ritornare.
Era una sensazione piacevole camminare per brevi tratti nell’acqua che con gioia lasciavo scorrere tra il concavo delle mani, prima di gettarmela indietro sul dorso ed assaporare lungo il corpo tutta la sua delicata fragranza.  Ma quella sensazione di felicità spensierata che provavo dopo tanto tempo, era interrotta da altri momenti in cui mi perdevo ad inseguire, sempre più smarrito, il ricordo della sera precedente e di quella luce che avevo visto improvvisamente accendersi sul fondo del mare.
Questa idea, sempre più penetrante, che non sapevo se confinare tra la realtà o l’immaginazione bizzarra di un sogno, mi rattristò e mi riaccompagnò pian piano verso il mio unico riparo.
Senza entusiasmo e affaticato cercai di organizzarmi per rendere la torre più abitatile e sicura, liberandola, inoltre, dall’invadenza dei rovi e dalle erbacce che cercavano di soffocarla sempre più, ma la mia ansia aumentò febbrilmente al calar della sera quando, a notte piena, salii nell’ultima stanza a scrutare le ampie distese dell’oscurità.
Questa volta fui certo di non essere tradito dalla mia immaginazione. All’improvviso, in un punto particolare, l’acqua si rischiarò di una luminescenza che rapidamente crebbe di una straordinaria intensità verdastra per poi decrescere lentamente mentre, tutto intorno, si andavano alzando spruzzi argentei che si diradarono rifrangendosi sempre più lontani e sfumati.
Dall’alto del mio osservatorio questo improvviso bagliore mi parve come una lieve favilla che nulla tolse alla compatta fragranza misteriosa della notte.
Il giorno risvegliò lo strano turbamento derivante da quella ripetuta visione notturna che sentivo sempre più impadronirsi di me. Sentivo come una sorta di richiamo irresistibile nel desiderare al più presto la notte per poter rivedere quello spasmo di luce che usciva per alcuni attimi dal lieve spessore d’acqua che ricopriva la secca antistante nel momento più significativo dell’alta marea.
Cresceva in me il senso di una passione frenetica che mi impediva di dedicarmi ad interessi diversi da quell’attesa che scorreva lenta lungo le ore del giorno e della luce de1 tramonto.
Ogni notte si ripeteva quello strano fenomeno ed ogni notte cercavo di avvicinami sempre più verso di esso, lasciando sul posto, quali segnali di riferimento, delle esili canne che crescevano fitte intorno alla torre e che conficcavo sul fondo della barena.
Di notte in notte marcavo il tracciato di un percorso rettilineo verso una meta che continuava ad essermi ancora completamente ignota.
Ogni volta riuscivo, con sempre minor vigore, a trattenere l’impulso di correre freneticamente per raggiungere quella luce che si irradiava per pochi attimi. Il tempo per arrivare sarebbe stato ancora troppo lungo e, contemporaneamente, non volevo rompere con una mia intempestiva presenza quell’incantesimo.
Il mio percorso di canne si allungava sempre più ed ogni notte la luce diventava sempre più vicina ed abbagliante.
Avevo imparato a cibarmi del frutto di varie conchiglie che trovavo in abbondanza nei momenti di bassa marea.  Ve ne era una specie particolare la cui freschezza salmastra si univa al piacere del modo con cui riuscivo a trovarla nascosta sotto la sabbia.
Il guscio era incurvato con delle striature molto accentuate.
La conchiglia faceva emergere a fior di sabbia due piccoli occhi i cui riflessi biancastri venivano traditi dalla rifrangenza della luce, ma che si richiudevano immediatamente appena avvertivano l’avvicinarsi di un pericolo.
Una volta individuati era facile estrarre la conchiglia che scivolava dolcemente fuori dalla sabbia tenera.
Ma il mio pensiero costante era rivolto a quel lento cammino che compivo, al calar della notte, verso quel richiama di luce.
A poco a poco ero arrivato ormai vicinissimo dal punto da cui emanava quella radiazione misteriosa ma, nel momento in cui mi mossi per raggiungerla, la luce si spense prima di arrivare al suo più alto bagliore mentre, nell’oscurità più totale, fui investito da ampie folate d’acqua che cominciarono a venirmi addosso con un fragore indescrivibile e agitate da una furia rabbiosa.  
Una forza misteriosa mi colpì ripetutamente con tale impeto che finii più volte riverso.
Ritornato a riva mi accasciai finalmente sull’argine ansimante e sporco dì fango, con il cuore che sembrava lacerarmi il petto dopo una corsa frenetica, a tratti singhiozzante dal terribile spavento che mi rendeva malfermo sulle gambe.
Nonostante ciò, la notte seguente, seguendo ancora al tatto il percorso delle canne rimasi come sempre ad aspettare…. inutilmente!
La notte mi avvolse terribilmente cieca e silenziosa, ma rimasi lì fino al mattino seguente.
L’acqua mi arrivava sotto le ginocchia. Il fondo sabbioso era dolce ed uguale a tutto il resto. Qualsiasi segno di quella mia straordinaria avventura era stato irrimediabilmente cancellato dal lento riflusso della marea successiva.
Era quella la prima volta che sostavo di giorno in quel luogo da cui, quando uscivo a cercare un po’ di cibo, mi tenevo a debita distanza per non impedire o spaventare, in qualche modo, l’eventuale apparizione notturna.
L’acqua era immobile e, sul filo dell’orizzonte, sembrava continuare in alto con lo stesso colore del cielo.
L’aria era umida e la giornata di un grigiore opaco. Senza fare alcun movimento i miei pensieri perdevano completamente di intensità vagando negli spazi silenziosi e lontani, scivolando su quella distesa d’acqua levigata come uno specchio.
Se mi fossi mosso avrei creato una piccola increspatura che si sarebbe moltiplicata all’infinito, offuscando, a poco a poco, l’immagine riflessa di quello spazio infinito di cui anch’io lentamente cominciavo a farne parte.
In più i miei piedi che già erano scomparsi lievemente sotto un breve strato di sabbia avrebbero intorpidito l’acqua tutto intorno se avessi continuato il mio cammino.
Niente mi teneva particolarmente attratto in quel posto, ma niente ugualmente mi sollecitava a muovermi.                               
Il lieve strato di acqua limpida mi faceva scoprire sul fondo sabbioso un mondo infinitesimale di piccoli fori, resti di conchiglie, ectoplasmi vaganti che venivano risucchiati o espulsi attraverso la sabbia; dei lunghi sfilacciamenti terminanti in forma di fiore che dondolando lentamente si aprivano e si richiudevano, danzando senza gravità.
In quella straordinaria fissità ebbi all’improvviso la sensazione, che in un primo momento mi parve completamente assurda, di essere spiato.                               
La cosa mi sembrò da principio ridicola, ma ben presto questo convincimento mi assalì con angoscia. Qualsiasi cosa non avrebbe potuto avvicinarsi a me senza che io la vedessi, preannunciata poi dal turbamento che si sarebbe generato nell’aria o sull’acqua.
Tutto rimase invece perfettamente immobile e silenzioso.                               
Eppure, qualcosa o qualcuno assai vicino mi stava osservando con crescente attenzione e curiosità.                               
L’aria si mosse leggermente. La luce si fece più intensa.                
Un piccolo spiraglio di sole si infrangeva adesso su uno strato denso di nuvole cadendo a piombo lontano dove l’acqua si increspò luccicante come su un tappeto di specchi frantumati in piccole scaglie.                               
Forse fu uno di questi riflessi perdutosi radente sull’acqua a farmi intravedere tra la sabbia, poco distante da me, il luccichio improvviso di due grandi occhi che si chiusero con estrema rapidità.
Pensai subito ad una conchiglia come quelle che ero solito raccogliere, ma le dimensioni di quello sguardo e le strane sensazioni che avevo provato precedentemente mi turbarono non poco.
Mi girai leggermente verso quella direzione sollevando un po’ di fanghiglia tutt’intorno e offuscando rapidamente la mia immagine riflessa.
A poco a poco la corrente diradò con estrema lentezza quella nebbia sottomarina lasciando ancora una volta intravedere il fondo in tutta la sua limpida trasparenza.
Due grandi occhi verdi contornati di sabbia mi stavano fissando.                              
Ebbi un sintomo di paura, ma rimasi altrettanto affascinato da quella misteriosa apparizione.
Quello sguardo si chiuse immediatamente quando le mie mani gli si avvicinarono penetrando nel fondo sabbioso e sentendo, alla fine, il guscio striato e rugoso di una enorme conchiglia.
La estrassi dalla sabbia mentre un flusso fangoso si sprigionò annerendo di una macchia grigiastra l’acqua circostante.
Le mie mani riuscivano a reggerla a stento.     
Mi spostai in cerca di un’acqua più limpida e la risciacquai più volte.
Il guscio si aprì leggermente lasciando uscire la parte estrema del suo frutto. Una specie di lingua rossastra che si dibatteva freneticamente, quanto invitante, nell’aria.
Volevo assaporare quella sorprendente offerta del mare che per molte notti avevo lungamente atteso e che ora, tra le mie mani, mi generava una sorta di intensa quanto morbosa eccitazione.
Avvicinai la mia bocca quella lingua per succhiarne tutta la fragranza salmastra, mentre compivo degli sforzi tremendi per riuscire a tenere aperta la conchiglia che, volendo richiudersi, dimostrava avere altrettanta forza di quella mia.
Le mie dita, strette in quella morsa feroce, cominciarono lentamente a sanguinare, mentre le mie labbra succhiavano e trattenevano con crescente voluttà quel frutto carnoso.
Il dolore sconfinò lentamente in una sorta di assenza di gravità in cui sentivo le mie forze dissolversi in una calma di intensa e straordinaria dolcezza, unitamente alla resistenza sempre più fiacca del mio avversario.
Quel frutto delicato, che sprigionava ora tutto il sapore del mare, si strofinava dolcemente sulla mia bocca come due labbra carnose.
Il guscio, allentando la sua presa terribile, scivolò via a poco a poco, mentre lungo il mio corpo si posava un tenero calore sempre più intenso.
Le mie mani scorrevano adesso lungo forme delicate di donna che continuai a baciare fino al tramonto, perduto ed annegato nell’immensità di quei due grandi occhi verdi che continuavano a guardami dolcemente pieni dì stupore.
Tenendola per mano mi incamminai verso la torre, mentre le acque si perdevano mute e disinteressate nei viola della sera.
Alle mie spalle, oltre la secca, un grande pesce luminoso, regale come un branzino, si dibatteva folle di gelosia, tra guizzanti arabeschi di mare che cominciarono ad inargentarsi al primo apparire della luna.


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